La Daunia brucia

Il 30 luglio di quest’anno, giorno in cui ho sfiorato i novecento chilometri di distanza con il mio Nimbus 2B, non era destinato ad un volo impegnativo. Si era infatti a ridosso della Coppa del Mediterraneo nella quale, come tutti gli iscritti, sapevo di dover affrontare per diversi giorni consecutivi l’esperienza di una stressante gara internazionale di velocità. Ma la sera precedente avevo incontrato un Luciano Avanzini euforico che mi aveva proposto di volare nel profondo sud, consapevole del mio debole per i voli di distanza e particolarmente per quelli nell’Italia meridionale, dove cielo e terra conservano il fascino dell’inesplorato per ampi tratti. In realtà, l’alta pressione ormai consolidatasi da parecchi giorni sulla nostra penisola ed un temuto afflusso di aria calda nelle zone centro meridionali, sconsigliavano i voli di distanza. D’altra parte, l’opportunità offertami da Luciano non poteva essere trascurata soprattutto considerando che nel Campionato Italiano di Distanza mi trovavo in testa alla classifica a pochi punti da un concorrente del calibro di Luca Monti. Inoltre non potevo ignorare che, con la CIM alle porte, i voli di distanza sarebbero stati preclusi fino a un periodo in cui, con l’accorciarsi delle giornate e con il probabile mutamento della meteo, sarebbe stato difficile portare a termine temi importanti. Per farla breve, alle 9 e 30 del 30 luglio 1993, sul campo di Rieti più polveroso che mai, mi trovo affiancato con il vecchio Nimbus 2 al ben più recente e bellissimo Discus di Luciano, intento a discutere su dove sganciare, dove andare e sulla rotta da seguire. Alla fine ci troviamo d’accordo su tutto salvo che sul tema: Luciano tenterà un record sulla distanza prefissata di 700 chilometri; io tenterò un volo di distanza libera con tre punti prefissati: un pilone a sud, Grumento aeroporto in Basilicata (lo stesso scelto la Luciano) uno a nord, scheggia in Umbria e uno al centro, Arrone in Val Nerina. Lo sgancio avviene a Poggio Bustone a 1300 metri QFE. Senza perdere tempo planiamo nella valle di Leonessa dove, sui costoni esposti ad est, contiamo di imbatterci in qualche termica discreta intorno alle 10 e 30. La prima termica in cui ci troviamo a spiralare, naso coda, coda naso, io e Luciano in quel di Leonessa, pare promettere, a patto di stare incollato al costone. Termicando mi accorgo che il maggior carico alare del Discus, zavorrato con circa 120 litri di acqua, rende più lenta la salita di Luciano. Io ho preferito un carico alare basso (circa 34 kg/cm2) per poter lavorare meglio nelle termiche prevedibilmente incerte del mattino, ma so che, se e quando l’attività termica rinforzerà nelle ore centrali della giornata, pagherò interessi molto alti per non aver riempito fino al massimo consentito i miei ballast. Mi consola il fatto che con un (aliante classe) Libera tra le mani, benché vecchiotto, non dovrei essere troppo penalizzato nei traversoni rispetto ad uno standard per quanto caricato; consolazione che sfuma e si trasforma in disappunto quando, nel lasciare la prima termica, il Discus plana via con un’accelerazione sorprendente. In questa parte del volo, fino a Campobasso, Luciano zig-zaga senza pause alla ricerca della termica migliore, mentre io mi accontento di un volo più lineare lungo l’ortografia restando sempre a contatto visivo col Discus. Mi rendo conto che in questo modo non si fa il volo in coppia, nel senso in cui lo eseguono i cecoslovacchi rigorosamente incollati l’uno all’altro ma, in compenso, si può sondare per una maggiore ampiezza la massa d’aria, pronti a trasferirsi nella termica in cui uno dei due piloti ha trovato il valore di salita più alto. Nella seconda fase del volo, tra Campobasso e Grumento, la situazione termica iniziata decentemente e sviluppatasi in maniera alterna fino a Campobasso, dove arriviamo verso le 13 e 30, diventa fumante. Siamo pronti, quindi, a sfrecciare verso sud per nulla preoccupati della media piuttosto bassa di 80 chilometri orari tenuta fino a quel momento. Psicologicamente mi consola il pensiero che, se fossimo partiti alle 12.00 come si fa abitualmente a Rieti anziché alle 10 e 30 e fossimo giunti a Campobasso alle 13 e 30, avremmo volato alla bella media di 120 km/h. In fin dei conti, rifletto, la validità delle partenze anticipate al mattino è costituita proprio dalla possibilità di macinare molti chilometri, anche a medie basse, contando sul maggior tempo a disposizione. Da Campobasso in poi fino a Grumento, dove alle 14 e 55 giriamo il pilone alla non trascurabile media di circa 130 km/h, le condizioni sono più che soddisfacenti: i cumuli non solo non mancano ma li vediamo organizzati a comporre una bellissima strada senza interruzioni che ci porta tra i 2400 e i 2800 metri QFE dritti in rotta sul primo pilone e che prosegue a perdita d’occhio verso sud ovest, oltre la barriera del Pollino tra la Basilicata e la Calabria ormai vicinissima. Il paesaggio scorre sotto di noi a velocità sorprendente; tornando Potenza, Melfi, Ariano Irpino ci appaiono inconfondibili, intervallate da grandiose distese di campi di stoppia ed immensi roghi che mandano al cielo colonne vorticose di fumo. “La Daunia brucia!”, comunica Luciano non senza una punta di eccitata ammirazione, correndo il rischio che qualcuno in ascolto lo scambi per un incendiario in versione volante. Uno degli aspetti positivi del volo con Luciano deriva dall’uso del GPS, strumento che io non ho e che invece si rileva utilissimo, non tanto per la navigazione in senso stretto, trovandomi a mio agio ormai da tempo con bussola, cronometro e carte varie, quanto perché ci fornisce costantemente la media del volo e soprattutto i dati necessari per decidere tempestivamente sull’opportunità delle deviazioni dalla rotta prefissata. Per esempio, al ritorno dal primo pilone, in prossimità di Campobasso, circa trenta chilometri a sud est, stiamo volando lungo un fronte di brezza con i suoi caratteristici “baffetti”, visto e preso Melfi ed Ariano Irpino. Sappiamo entrambi che il fenomeno, pur migliorando la nostra velocità di trasferimento, potrebbe ridurre la media del volo se nel seguire il fronte dovessimo percorre una deviazione eccessiva dalla rotta diretta . Sappiamo anche che il fronte di brezza, spostandosi, nel nostro caso da est verso ovest, taglierà ogni impulso termico a partire da est, con il rischio che, arrivati a nord di Campobasso e dovendo risalire l’orografia verso Rivisondoli, il fronte sia già passato costringendoci a planare in aria morta fino all’inevitabile fuori campo. Si pone, dunque, il problema di scegliere il punto più opportuno in cui abbandonare il fronte per portarsi ad ovest di quel tanto che ci consenta di non trovarci prima o poi dietro di esso. Bene, io in merito ho qualche dubbio, tenderei anzi a sfruttare ancora un po’ le ottime condizioni frontali verso est, nord-est, ma Luciano, consultato il GPS, non ha esitazioni e mi avverte che occorre subito portarsi ad ovest di Campobasso pur essendovi in quella direzione un lungo tratto di cielo, non meno di 40 chilometri, privo assolutamente di cumuli. Quasi superfluo dire che la decisione si rivelerà provvidenziale consentendoci di passare nella piana di Rivisondoli di stretta misura, mentre un Walter Vergani, ottimista, incontrato al traverso di Campobasso sul suo splendido ASH25 e diretto ancora a sud, verso Ariano Irpino si troverà al ritorno tagliato fuori da ogni possibilità di rientro, proprio in seguito all’irruzione lungo la valle del Sangro dell’aria adriatica taglia-termiche frequente nella zona tra Isernia e Castel di Sangro. Verso le 17 e 30, dopo circa sette ore di volo, io e Luciano ci troviamo al traverso di Sulmona. A questo punto dovrei proseguire in rotta verso il secondo pilone via Morrone, Gran Sasso, Gorzano, Vettore. Ma il sopraggiungere di aria marittima attraverso la Gola di Popoli, chiaramente visibile dalle condensazioni a bassa quota, mi induce a proseguire con Luciano puntando sul Sirente. Ho ancora davanti a me quasi quattro ore di luce che intendo sfruttare al meglio. Pertanto dovrò volare attaccato ai costoni nelle parti termicamente più attive che, a quell’ora, essendo il sole ad una discreta altezza sull’orizzonte, si identificano con i versanti ovest della catena appenninica e sotto le creste di quel tanto che basta per avere un “appoggio” costante sull’orografia. Dunque, un saluto affettuoso a Luciano che ha ormai in tasca il suo record e via lungo i costoni senza mai fermarsi. Attacco il Sirente con 1300 metri di quota che mantengo fino alle “Autostrade”, in corrispondenza di Monte S. Rocco, poi mi abbasso seguendo la minore altezza dell’orografia tra la piana di Borgorose e il Nuria, quindi riprendo quota 1300 in una termica da due metri al secondo, nel tratto Terminillo- Poggio Bustone; scendo nuovamente a quota 1000 lungo i costoni della Val Nerina e del Serano fino all’ingresso del val Topina dove, alla quota di 700 metri, alla quale decido di volare, mi da il giusto appoggio sulla bassa orografia tra Nocera Umbra e Gualdo Tadino. Superata la cava di Gualdo, alla media di 105 km/h, tutt’altro che disprezzabile considerato il tardo pomeriggio, ritengo più prudente rallentare il volo lungo i costoni per riacquistare quota, sfruttando in salita anziché in velocità l’attività termica diffusa ovunque sull’intera orografia. Intorno alle 19 e 30 fotografo il secondo pilone, Scheggia con 1000 metri sul QFE di Rieti. Purtroppo nel riprendere la via del ritorno verso il terzo pilone, l’attività termica sui costoni è scesa arrestandosi sì e no su uno zero positivo. Spero in una termica che mi consenta di raggiungere una quota maggiore ma non trovo valori che valga la pena di sfruttare. Perciò vado avanti molto lentamente contando sull’efficienza del Nimbus 2. Alle 20 e 30 circa arrivo sotto l’antenna del Serano con 500 metri. La tentazione di atterrare a Foligno è forte. Ma i raggi del sole, che illuminano ancora il costone, mi inducono a cercare un valore di salita anche modestissimo che mi faccia guadagnare la quota sufficiente per planare almeno fino ad Arrone, terzo e ultimo pilone, dove, male che vada si può sempre atterrare in un discreto campo di erba medica. Mi imbatto in un +20 cm/sec segnalato da un movimento quasi impercettibile del variometro elettrico. Comincia così una delle salite più lente e serali della mia esperienza volovelistica; calcolo: più di 20 cm/sec per 60 secondi fanno 12 m ogni 10 minuti e, volendo, 1200 metri in un’ora e quaranta minuti. Già, ma alle 20 e 30 di sera ho a disposizione, prima della planata finale, solo una manciata di minuti, se voglio evitare che la mia impresa si trasformi in un volo di notte. Debbo considerare, infatti che, raggiunta dai 500 metri iniziali la quota ipotetica di 750 metri, prevedibilmente verso le 21, mi occorreranno almeno altri venti minuti per planare su Arrone alla massima efficienza. E a proposito di voli notturni, mentre salgo in spirali lente e quasi piatte, mi viene in mente un’esperienza di circa vent’anni fa. Mi trovavo anche quella volta dalle parti di Foligno ma sui Martani, verso sera a 1500 metri QFE di Rieti, in una specie di flusso laminare innescato dal vento di nord est. Si trattava di un volo in area prescritta, al termine del quale, in quella gara, ero arrivato primo con un aliante monotipo in legno denominato “Crib”. Attratto dalla magia del volo in onda e da una luna arancione tonda più che mai che andava salendo dietro al Subasio, mentre il sole si immergeva nel Trasimeno tingendo l’acqua di riflessi stupendi, non mi decidevo a scendere quando, nel silenzio dell’abitacolo rimbombò una voce che, con apparente accento straniero chiedeva, non senza tradire una certa apprensione: “Dove essere aeroporto di Perugia?”. Mi sembrò di identificare nel pilota un amico volovelista che, conosciuto l’istruttore polacco Wielgus, aveva preso ad imitarne spesso e volentieri l’uso dei verbi all’infinito, evidentemente magnetizzato dalla personalità del volovelista straniero. “Il pilota che cerca Perugia, stia calmo!”, sentii rispondere da qualcuno che aggiunge: “Sono appena atterrato anch’io a Perugia!”. Confesso che, al momento, nonostante la gravità della situazione in cui versava il pilota smarriti nella notte incombente, mi venne da ridere trovando incongruente e al limite del paradosso il modo in cui era stato formulato l’invito a tenere i nervi saldi. Perché mai, infatti, un pilota, perso nelle tenebre, avrebbe potuto calmarsi all’annuncio che un altro pilota era atterrato in un aeroporto di cui egli ignorava la posizione? Mentre aprivo i diruttori, puntando verso i capannoni della pista dell’aeroporto di Foligno rischiarati dalla luna, sentii ancora, disturbata a tratti, la voce del pilota che chiedeva di razzi e altri effetti pirotecnici. Seppi poi che il pilota era atterrato nei pressi di Assisi ricevendo le congratulazioni di un tale che durante la cena aveva sentito un sibilo sul tetto e, precipitandosi fuori casa, un gran botto. Congratulazioni che avevano lasciato stupefatto il pilota quando ne aveva appreso la ragione, Infatti era riuscito ad atterrare con perizia irripetibile nel cantiere in allestimento di una centrale ENEL circondato da una gran ragnatela di cavi elettrici. Il bello è che, come mi confidò più tardi il pilota, il punto di atterraggio scelto, si fa per dire, avrebbe potuto essere il tetto della casa del soccorritore, scambiato nell’oscurità per il campo dove mettere l’aliante. Perciò, memore dei brutti scherzi che possono giocare gli atterraggi notturni, lascio dopo un quarto d’ora di salita la termichina del Serano. Ho 700 metri di altimetro e sono le 20 e 45 circa. Entro in Val Nerina superando la Forca di Cerro con 500 metri e, quando sono su Arrone, ho ancora 300 metri. Lì per lì mi sembrano troppi per andare subito all’atterraggio perché i miei 300 metri sul QFE di Rieti sono su per giù 450 metri sul campo di Arrone e poi perché, alle 21 e 10, ora in cui sto transitando da quelle parti, il mese estivo mi regala ancora un po’ di luce. Intanto decido di fotografare il pilone da me scelto non solo per il buon appoggio orografico ma anche nella previsione fatta a tavolino di proseguire il volo in distanza libera a nord o a sud, a seconda delle circostanza e tempo permettendo. Scatto quindi le foto. La quasi certezza che non si vedrà un bel niente, perché il flash automatico delle mie macchine, riflesso dalla cappottina, sbiancherà i fotogrammi, aumenta la tentazione di proseguire verso Piediluco, nel tentativo di accumulare più punti possibile. D’altra parte riesco ancora a razionalizzare che avventurarsi con un margine di sicurezza accettabile verso Piediluco, dalla quota non certo esaltante alla quale sto volando, comporta necessariamente un’operazione di carteggio semplicissima qual è il calcolo della distanza tra due punti, ma a condizione che io riesca a leggere la carta 1.200’000 che mi accompagna sempre, ben riposta in una delle tasche dell’abitacolo. Prendo quindi la carta, traffico un pochino per aprirla sulla zona che mi interessa e quando mi accingo alla misura delle distanze mi accorgo che sarei pronto a pagare qualsiasi prezzo se, poco sopra agli occhi, mi impiantassero subito da uno a due fanali. A questa riflessione segue, immediatamente, la decisione di tornare indietro per atterrare alla svelta in quel campo di Arrone. Incredibile come, stando tante ore a contatto con i comandi, si crei con il tuo aliante un affiatamento così forte da sentirsi in grado di padroneggiare qualunque situazione, perfino la prospettiva di atterrare in un campo di cui, ormai, scorgi a malapena i contorni. Per fortuna il mio Nimbus è dotato di un efficiente parafreno di coda di cui non esito a servirmi per evitare un finale davvero indecoroso che, nonostante i diruttori più aperti che mai, mi porterebbe in mezzo ad un guazzabuglio vegetale, non meglio identificato nel buio. Uscendo un po’ rattrappito dall’abitacolo, si materializza nell’oscurità una voce umana: “Tutto bene?” “Mica male”, rispondo, “Anzi, venga, venga che le faccio vedere come è facile a smontarsi, anche di notte, questa macchinetta”.


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A Hug

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