E’ incredibile come la mia mente ricordi perfettamente quanto avvenuto 40 anni fa e non rammenti cosa ho assunto per colazione. Il mio pensiero si perde tra i fulgidi ricordi di quando imberbe e novello pilota vivevo con emozione il sopraggiungere della primavera che rendeva l’aria pulsante, profumata ed elettrica in un piccolo aeroporto prossimo alle Prealpi del nord.
Una mattina, indossando con orgoglio la mia tuta di volo, superavo la recinzione dell’aeroporto avviandomi con passo fiero verso gli hangar che custodivano gelosamente i nostri candidi gioielli di vetroresina. Pilotavo già i moderni alianti di plastica. Varcavo spavaldamente quel confine che separava i “terricoli” dai “volatili”. Mi sentivo sulla schiena lo stupore e l’invidia di chi restava relegato dietro a quel cancello, mentre io appartenevo a quell’affascinante mondo di chi ha il privilegio di staccare l’ombra da terra. Ricordavo i timori della mamma: “Mi hanno detto che ci sono i vuoti d’aria … se ti succede cosa fai?” E rispondevo scherzosamente: “Beh, mamma … morirò soffocato!!!” D’altra parte la mamma ripone le sue ansie dietro a parametri terreni, con raccomandazioni tipo : “Vai piano e stai basso!” che sono in netto contrasto con la sicurezza del volo.
Ma quella volta, dico … quella volta! Era una giornata perfetta, temperatura, sole, vento, nubi, tutto sembrava promettere un lungo volo con quote considerevoli, una cosa da raccontare poi alla sera al circolo. La giornata era proprio perfetta, il cielo quasi terso manifestava i primi cumuli, con rotondità giuste al posto giusto, l’angolo del sole, la temperatura di rugiada da manuale, la brezza da nord che solleticava la manica a vento, quella che ci vuole. Tutto mi chiamava a salire a bordo del mio monoposto e ad impugnare la cloche. Sbrigate le solite formalità d’ufficio, mi recai sulla pista erbosa, con l’aliante che avevo prenotato, il migliore, I-CARE, che in inglese è proprio l’opposto di “menefrego”. Sarei partito per secondo, in quanto davanti all’ I-CARE c’era un altro aliante, il I-DEAR, un vecchio modello in legno e tela, quasi pronto per il museo. Eccezionalmente c’erano due traini in pista. I-DEAR sarebbe decollato con lo Stinson L-5 del club, mentre io sarei partito pochi minuti dopo trainato da un Cessna di un privato che voleva accumulare ore di volo. D’un tratto, rimasi sorpreso, le donne pilota non sono frequenti nel nostro campo, e quella che ora si avvicinava rapidamente al I-DEAR era proprio una donna che diffondeva un certo fascino, alta, un po’ massiccia, non proprio una ragazza, forse un po’ matura, capelli biondi e ondulati, fare sicuro e disinvolto. Non l’avevo mai vista prima. In un pochi di minuti l’ I-DEAR decollò. Sentivo alla radio le comunicazioni tramite il traino e la torre. Si dirigevano a nord-ovest, rotta 290 ed avevano previsto lo sgancio a quota 500 metri. Poi toccò a me, io avevo pianificato una rotta un po’ più a nord, con prua 310, per uno sgancio a 500 metri verso le pendici del monte Ubione. Però ero troppo curioso, la possibilità di un volo stupendo grazie alle eccezionali condizioni meteo, era offuscata dalla curiosità di capire chi fosse quella donna, e forse anche l’orgoglio di maschio prese il sopravvento: la volevo raggiungere e vedere come pilotava, forse anche farmi vedere. Passato il periodo che chiamo “limbo” ovvero il tempo passato dietro la turbolenza dell’elica del traino, avvenne lo sgancio e finalmente il mio guscio di vetroresina si trasformò in aliante. Basta, finiti i rumori molesti, ero affidato al vento, alle termiche, al sole, e a tutto quanto conoscevo e mi apparteneva. Avevo la presuntuosa sensazione della sconfinata potenza del controllo degli elementi. Il mio aliante sfrecciava veloce frusciando nel fluido e trasparente elemento che trasforma l’energia del sole in forza di sostentamento della mia volontà. Nell’Olimpo che mi sono inventato, c’è posto per una divinità sconosciuta a tutti, si chiama “Ventolino” ed è l’idolo degli alianti. Non si vede, ma deve essere un ragazzino impertinente, che se non lo rispetti ti fa atterrare malamente e magari fuori campo, ma se ti vuole bene, ti fa fare quota e ti porta al cospetto degli dei dell’Olimpo. Però a modo suo. Ovvero a calci. L’aliante infatti prese a salire vigorosamente, sospinto dalle termiche del pendio erboso e risucchiato da una piccola lenticolare sulla mia verticale. Il mio aeromobile saltava e sgroppava ad ogni calcio di Ventolino. Il variometro elettrico trillava allegramente segnalando la salita. In poco tempo con piccoli interventi sulla cloche arrivai a quota 750 metri. Dalla radio sentivo la voce della pilota del I-DEAR: una bella voce femminile dai toni bassi, sicuri, con un leggero accento straniero ed una fonia imperfetta, intercalando termini in inglese. Comunicò che era un paio di chilometri davanti a me, sulla sinistra, a quota 600 metri. Diamine, decisi di raggiungerla, grazie alla mia quota superiore, avevo più velocità, e con un planatone di pochi minuti le sarei stato di fianco. Infatti già la vedevo oltre la capottina, più in basso. Stabilii il contatto radio e le dissi che le sarei passato ad un centinaio di metri sulla destra. Sotto di noi avevamo l’ampia valle Imagna. Lei non rispose altro che un impersonale ”over”. Dopo pochi minuti eravamo affiancati, a dire il vero a meno di 100 metri, a quota 570. Estrassi un corto binocolo per vederla meglio, e devo dire che la donna faceva un bel vedere. La riconobbi: era una signora che conoscevo solo di vista, era una badante russa che evidentemente prestava la sua opera dalle parti di casa mia. Lei non girò lo sguardo verso di me, continuò a fissare davanti. Decisi quindi di lasciarla sola nella sua termica con una lenta spirale a sinistra; tirai leggermente la cloche verso di me, I-CARE rallentò, passai a 590 metri di quota e la vidi filare via. Volli seguirla per un po’ con lo sguardo, poi avrei virato a destra per fare quota alle pendici del monte Albenza. Con il vento da nord sarebbe stato tutto portante. Quello che vidi però mi lasciò perplesso, e non ho altre parole per descrivere il mio stato d’animo. Evidentemente la pilotessa-badante aveva aperto lo sportellino della capottina, e teneva fuori la mano che stringeva un oggetto strano che non riuscivo ad identificare neppure con il binocolo. Eravamo sopra la campagna bagnata dal torrente Imagna, a poche centinaia di metri dall’abitato di S.Omobono. Arrivammo sulla verticale della Belleri, un’azienda che produceva tra l’altro componenti per l’industria aerospaziale. La mano della pilotessa-badante si aprì, cadde un oggetto di forma cilindrica luccicante, e, dopo poco, si aprì un minuscolo paracadute. Contemporaneamente sentii la sua voce alla radio che mi diceva: “Senti I-CARE, spostati a destra, che comincio a fare un po’ di spirali per riprendere quota. Over”. Non mi rimase altro che rispondere: “Ochei – over”. Piegai a destra verso il pendio e ripresi a fare quota. Ma la mia spensierata allegria era tutta finita, il mio desiderio di conquistare quote ambiziose e magari agganciare l’onda che mi avrebbe consentito di compiere magari un volo transalpino, si era offuscato. Avevo la testa piena di interrogativi ed ero distratto. Non riuscivo a comprendere la situazione, una donna pilota era già una rarità, una donna pilota badante russa o ukraina, era quantomeno unica, e l’azione di paracadutare un oggetto sopra una ditta di interesse strategico, mi faceva pensare a scenari da guerra fredda. La pilotessa-badante annunciò alla torre di aver raggiunto la quota di 750 metri, di voler virare e rientrare alla base. Anch’io feci alcune spirali positive, ma mi era venuto a mancare il gusto del volo. Per la prima volta in vita mia abbandonai una giornata forse unica nell’arco dell’anno ed iniziai a fare scelte sbagliate. Ero deconcentrato e pilotavo male, la ricerca ed il centraggio delle termiche era empirica ed imprecisa. Dopo venti minuti di pilotaggio da dilettante mi ero giocato 350 metri di quota e guarda caso mi ero ritrovato proprio nei pressi della “famigerata” ditta Belleri! Se avessi fatto ancora qualche errore Ventolino si sarebbe materializzato in “castigo” e mi sarei trovato costretto ad atterrare in emergenza proprio nel piazzale antistante l’Azienda che si presentava abbastanza ampio e completamente deserto. Non fu così, per fortuna, anche perché la Valle Imagna è notoriamente inatterrabile e dopo non pochi tentativi di aggancio di piccole termiche di bassa quota riuscii a racimolare i 200 metri necessari a poter “scollinare pelando gli alberi” tra le antenne della Roncola e impostare un “planè-tirato” per poter raggiungere l’aeroporto con un atterraggio regolare ma col “fiato corto”. Qualche minuto dopo a mia volta, annunciai per radio l’intenzione di entrare in procedura “diretta” per l’atterraggio. Dopo una ventina di minuti, lasciato l’aliante nel prato fiorito, entrai pensoso e di malumore nel bar dell’aeroclub. Anche lì fui testimone di un fatto strano.
In piedi, in mezzo alla sala, c’era il colonnello Viglietti, un colonnello dell’aeronautica che frequentava il club. Viglietti era famoso per essere stato visto raramente in divisa, ed in più sembrava che fosse l’unico pilota occidentale ad aver pilotato un Mig 23. Era una figura enigmatica che incuteva soggezione e rispetto. Girava voce che avesse rapporti con i “Servizi” del Est. Ci facemmo un cenno di saluto con la testa. La pilotessa-badante entrò dalla porta a vetri che dava sulla pista. Lei fece a Viglietti solo un cenno con il capo … gli andò incontro, lo abbracciò, lo baciò e rimase con lui qualche minuto a parlare fitto fitto seduti ad un tavolino appartato. Poi la pilotessa-badante uscì dalla porta che dava sul parcheggio. Io non sapevo che fare … far finta di niente? Chiedere spiegazioni? E a che titolo? L’imbarazzo era grande … e se il destino della nazione fosse stato nelle mie mani? Ci pensò il colonnello a risolvere la situazione: ”Claudio” mi chiamò e mi fece cenno di sedermi al tavolino, ordinò da bere, una coca per lui ed una birra per me. Mi guardò fisso negli occhi, ci fu un lungo attimo di silenzio, poi prese a parlare. Parlò solo lui, con quel tono che non ammette repliche: “Claudio, hai visto? E cosa credi di aver visto? Dì, lo sai che sono in pensione? Sì, mi hanno promosso generale e mi hanno mandato in pensione per via di un disturbo agli occhi che mi impedisce di pilotare, anche uno straccio di ULM. E lei? Tatiana? Ma tu chi credi che sia? E’ la mia colf. E’ pilota lei … sì, certo, quando c’era l’Unione Sovietica era tenente nell’esercito e pilotava aerei da ricognizione. Poi è arrivata la democrazia, l’hanno spedita al suo paese natale, in Ukraina, ed è rimasta senza lavoro. Lo sai Claudio quanti laureati abbiamo qui che lavano i pavimenti?”
Volli intervenire io: “Sì, ma l’oggetto paracadutato sulla Belleri?” Il generale, si mise a ridere, prima pian piano, poi non riuscì a trattenersi e rise di gusto. “L’oggetto paracadutato”, disse, e parlò con difficoltà a causa della risata che continuamente lo interrompeva, “l’oggetto paracadutato, è un cilindretto di cartone contenente le ceneri del mio cane … sai quel cagnetto che mi portavo sempre in volo tra le gambe? … il cane mi è morto, e Tatiana, alla quale ho fatto convertire il brevetto, si è premurata di spargerne le ceri in aria, per conto mio … la Belleri dici? Ma scusa, se è chiusa! … è chiusa da due anni!?” Alla fine il generale si alzò, dritto ed imponente come solo sanno fare i generali. “Beh Claudio, ti saluto … Tatiana mi aspetta in macchina. Comunque sei bravo … ti segnalerò al Sisde, caso mai gli serva un pilota dagli occhi lunghi …”
Ora tornavo mogio mogio tra i “terricoli” che ancora mi guardavano incuriositi. Varcavo quel cancello di confine con meno spavalderia ma con la consapevolezza che le mie ali necessitavano di acquisire la capacità di affrontare anche altri imprevisti che non si limitavano alla sola meteorologia.
*** PS: Il riferimento a persone o luoghi e marche dei velivoli è puramente casuale e sono asserviti al racconto e comunque al prossimo aliante metterò le marche: I-HOPE
Narrativa / Medio-Breve Inedito; ha partecipato alla II edizione del premio letterario “Racconti tra le nuvole”, 2013-2014; in esclusiva per “Voci di hangar”