Contea dell’Hampshire autunno 2015.
Un uomo sulla settantina se ne stava seduto a sorseggiare la sua pinta di birra in uno dei tanti locali disseminati sulla Oxford Street a Southampton. Era un ottobre stranamente gentile, il clima temperato invogliava gli avventori a frequentare, fino a tarda ora, i tavolini dei bar e dei club affacciati sul braccio di mare che separa la terra ferma dall’Isola di Wight.
La sera, con le sue ali nere, aveva scurito il mare e spento lo strillare dei gabbiani. Alan Mc Carthy scopriva il polso sinistro tirando in su la manica del giubbotto di pelle, per dare un’occhiata al quadrante del suo Hamilton w10 che marcava le otto spaccate.
La persona che aspettava da un po’ non s’era ancora fatta viva; nel frattempo una giovane cameriera di origine creola, con il suo surplus di sorriso, s’era avvicinata al suo tavolino chiedendogli se avesse bisogno di qualcos’altro. L’uomo annui ordinando una fried lake bass, tipico piatto a base di pesce fresco con uova e pan grattato, il tutto fritto in olio di semi.
Quel breve tratto di strada, dritta come un fuso, brulicava di ristoranti che disperdevano nell’aria odori di terre lontane, contaminazioni di una cucina inglese che sapeva di Nepal e di India, col sottofondo di una musica retrò che usciva dal – Pop World –, un Club disposto all’inizio della via.
“Mister Mc Carthy, Mister Mc Carthy… mi scuso per il ritardo, ma la mia vecchia Austin mi ha lasciato a piedi a poco più di un miglio da qui”, farfugliò il giovane che si era presentato davanti al tavolo, sul quale Alan stava cenando; l’uomo, alquanto sorpreso nel vedere quel tipo, chiuso malamente in un trench color kaki, lo squadrò da capo a piedi e gli fece cenno con un dito di accomodarsi sulla sedia di fronte a lui. Il giornalista, trafelato per la corsa, appoggiò i suoi taccuini su un lato del tavolino ed allungò la mano destra per approcciare alle presentazioni: “Sono Robert Sinclair della rivista “Aviation Magazines” e sono qui per l’intervista…”, subito dopo l’atteso ospite si appoggiò allo schienale della seggiola asciugandosi la fronte imperlata di sudore con un clinex. “Avete cenato Mr. Sinclair?” gli si rivolse Mc Carthy. L’uomo col trench gli rimbalzò un “no”, ma dall’espressione del volto, trapelava chiaramente che quell’invito lui, lo avrebbe accettato volentieri.
Poco dopo la cameriera gli servì una porzione abbondante di fish and chips, che Robert mangiò avidamente, dopodiché si predispose per ottemperare al motivo per cui si era recato a far visita al comandante Alan Mc Carthy, ovverosia: procurarsi un’intervista esclusiva per il suo tabloid.
Il reporter estrasse dal fondo della tasca il suo voice recorder, lo pose in mezzo al tavolo, lo accese e, rivolgendosi al suo interlocutore, gli disse: “Eccoci qua, da dove incominciamo”? – “Giovanotto” gli rispose Alan, “non perdiamo tempo.”.
“Una volta avrei affermato che il tempo è denaro, ma ora, che sono in pensione, dico che il mio tempo è ancora più prezioso. Ed è per questo che non vorrei, come dire, sprecarlo inutilmente.”, gli rispose guardandolo dritto, dritto negli occhi, quasi a volergli tirar fuori le domande dalla bocca.
L’intervistatore spulciò brevemente il taccuino e andò alla domanda: “Mr. Mc Carthy lei è ormai considerato una celebrità nell’ambiente aeronautico della Gran Bretagna e non solo, soprattutto in relazione alle sue missioni svolte in luoghi più o meno remoti del globo, compresi i territori del Commonwealth britannico, volando sulla sua appendice alata per antonomasia: il Britten Norman BN-ZA MK III-2, famoso per i tre motori ad elica a due pale, dislocati su entrambe le ali e sul timone di coda del piccolo aeromobile dal naso appuntito, ben noto per la sua originalità”.
L’ex pilota, seduto dall’altra parte del tavolino, dava l’impressione di non aver percepito la domanda formulatagli dal giovane intervistatore, come si fosse lasciato distrarre dal caotico movimento di persone che si avvicendavano tra i tavoli del pub e dall’andirivieni di cameriere fasciate da divise colorate, come hostess in servizio sugli aerei di linea; qualche istante dopo Alan riallineò lo sguardo collimandolo su quello del suo interlocutore e, dopo aver sorbito un altro sorso della sua Plassey bionda rispose: “Bando alle formalità, si fa prima a chiamare l’ aeromobile coll’appellativo che meglio lo caratterizza e cioè: Trislander, il trimotore più versatile e originale che abbia mai pilotato. Un piccolo velivolo; una sorta di minibus dei cieli ad ala alta a sbalzo e a carrello fisso, spinto da tre motori a sei pistoncini piatti Lycoming 0-540, capaci di erogare una potenza di 195 kW ciascuno. Bastano poco più di cinquecento quarantasei yarde per spiccare il volo e quattrocento novantacinque per atterrare su qualsiasi pista, che sia tradizionale in cemento, asfalto o in terra battuta. Più volte, in situazioni di emergenza, è capitato di atterrare bruscamente su spazi erbosi coltivati, tra le ire di qualche contadino, rischiando quel che è giusto, perbacco!”.
Robert, abbozzando un sorriso tirato, dovuto forse all’eccitazione del momento, gli chiese: “Mr. Alan mi dica, la sua formazione è civile o militare? Il suo primo brevetto dove e quando lo ha acquisito?”.
L’ex ufficiale tirò fuori dal taschino un pacchetto di Lucky Strike e fece cenno di offrirne una al giornalista che, dopo un attimo di esitazione, farfugliò: “La ringrazio signore, ma non fumo”. – “Di qualcosa bisogna pur morire, non crede giovanotto?”, disse Mc Carthy con una punta di sarcasmo tipicamente irlandese; accese la sigaretta, da cui trasse una lunga boccata di fumo e, quando la nuvola azzurrognola si diradò, l’uomo continuò dicendo: “Una bella domanda stringata, sintetica nella formulazione, ma che richiederebbe molto tempo per soddisfarla appieno ragazzo, cercherò di spulciare ugualmente nel mio disordinato armadio dei ricordi per trarne qualcosa che possa essere utile a soddisfare la sua curiosità di pennivendolo.”.
Cominciamo dal principio: Sono entrato al Royal Air Force College Cranwell, vicino Sleaford, che avevo poco più di diciott’anni, uno sbarbatello insomma e, dopo un periodo di ferma per l’addestramento, mi hanno spedito a Cipro, dove ho acquisito il brevetto di terzo livello, in forza alla base aerea britannica di Dhekelia, vicino alla città di Larnaca…” Alan tirò un’altra boccata di fumo dalla sigaretta, poi, sospirando, si concesse qualche pennellata di colore per abbellire il discorso: “Larnaca. Bella città, belle ragazze dai capelli neri e dalle forme generose, sedute sui divani bianchi a bordo piscina del Sentido Sandy Beach, a mangiare fette di cocomero fra un tuffo e l’altro.
L’intervistatore, preso dal suo ruolo, formulò al volo un’altra domanda dicendo: “Cipro? Beh… penso sia stato, comunque, un inizio difficile, dato il contesto politico che si era venuto a creare nell’isola, dopo che, nel mille novecento settantaquattro, la Turchia invase la parte nord del territorio, tagliando di fatto a metà anche la città di Nicosia che, a tutt’oggi, è l’unica Capitale europea divisa dal filo spinato e vigilata dai caschi blu dell’ONU…” – “Stop! Okay, okay”, ribatté Mc Carthy, facendo un gesto con entrambe le mani al suo interlocutore: “abbiamo capito che lei conosce la storia, e questo ci fa piacere, ma mi conceda gentilmente di portare sino in fondo il discorso”. Robert annuì facendo cenno col pollice all’insù, dando così modo ad Alan di proseguire il discorso.
“Tralasciando le avventure domenicali, non appena conseguito il brevetto,” proseguì l’ex pilota “il Comando della Base mi affidò un Britten Norman Trislander con le insegne della British Armed, con il quale avrei scarrozzato qua e là per l’isola alti ufficiali, diplomatici e funzionari delle Nazioni Unite, il tutto fino al mille novecento ottantacinque, quando appesi al chiodo l’uniforme per fare altro nella vita. Allora Cipro era, ed è tutt’ora spaccata in due come una mela: due sovranità, una turca a nord e una greca a sud; due popoli che non si capiscono, due valute, due culture divise dalla cosiddetta “LINEA VERDE”, un muro lungo più di quarant’ anni.
Tante volte ho sorvolato a bassa quota quella linea di filo spinato che punteggia il cielo azzurro, e il check point di Ledra Street, delimitato dai bidoni bianchi e celesti delle forze ONU che pattugliano la zona cuscinetto a cui lei si è riferito. Ho volato su Nicosia, città circolare antichissima circondata da mura possenti, il Teatro Greco di Famagosta, ma anche sui ruderi delle case distrutte dalle cannonate lungo quella linea surrettizia di confine, con ancora i sacchi di sabbia ammassati su quel che rimane delle porte e delle finestre delle case distrutte.”.
Il giornalista, consapevole che non gli sarebbe stato possibile tenere a lungo inchiodato su una sedia il suo estemporaneo interlocutore con un ping pong serrato tra domande e risposte, pensò allora di impostare la sua “intervista” più come una chiacchierata informale, lasciando all’ “attore” la gestione del suo palcoscenico là, dove ha recitato la sua vita movimentata, ricca di succosi aneddoti.
La strategia messa in atto dal giornalista si rivelò giusta, tant’è che l’ex comandante, senza che gli fossero rivolte altre domande, riprese la trama cipriota del suo racconto affermando:“ Quella giornata di fine aprile dell’ottantadue avevo decollato dall’aeroporto della base di Dhekelia di primo mattino per andare a recuperare un alto esponente del governo inglese in missione a Nicosia; la pista era una lunga striscia grigiastra che puntava dritta sulla linea dell’orizzonte che cuciva il mare al cielo.
La check list era stata completata con successo, un ultimo scambio con la torre di controllo e i tre motori del “Tris” iniziarono a ronzare come grossi calabroni; prima di dare gas, con i trimmer throttl, dovevo solo ricordarmi di far ritrarre il piccolo carrello che sostiene il peso della carlinga, proprio sotto il timone di coda, abbassando la levetta del tail rim…”.
Il giornalista, alzando l’indice della mano destra, come di solito si fa per catturare l’attenzione di un cameriere, o meglio, di un cameriera, dava l’impressione di voler intervenire nella discussione, ma questa sua intenzione venne amichevolmente stoppata sul nascere da Mc Carthy, che gli si rivolse dicendo: “Lo so, lo so!” sogghignò, “lei mi dirà che cosa c’è di speciale in una situazione di routine come quella dei preparativi a un decollo, per giunta effettuata centinaia di volte. Mhh…? Okay, vengo al punto: una volta raggiunta la quota stabilita di 10.000 piedi, con i miei 185 galloni di kerosene assicurati nel serbatoio, che avrebbero potuto garantirmi oltre 1.000 miglia di autonomia, viaggiavo tranquillo sui 250 Km orari sulla rotta per Nicosia, concordata con le Nazioni Unite.
Venti minuti più tardi atterravo in un campo erboso lungo un miglio, opportunamente predisposto dall’ONU per missioni diplomatiche riguardanti le tensioni tra Greco e Turco ciprioti, gli occupanti antagonisti che si disputano la sovranità sull’isola.
L’area di parcheggio era posta sul lato ovest della pista, a ridosso della linea di confine. Avrei dovuto attendere là, nella zona cuscinetto, il funzionario britannico; intanto scesi a dare un occhio all’aeromobile. Il sole, già di primo mattino, picchiava forte e faceva tremare l’aria tutt’intorno…” L’ex pilota, appoggiando gli avanbracci al ciglio del tavolo, sospese per un attimo il discorso e si sporse in avanti avvicinandosi lentamente verso il giornalista, aggiungendo: “Da quell’aria tremolante si erano materializzate all’improvviso due figure che si avvicinavano velocemente verso di me; mi abbassai sotto la pancia della carlinga e, dall’altra parte, vidi comparire un ragazzo e una ragazza trafelati che si tenevano per mano e che mi guardavano come fossi un marziano in procinto di rapirli, tanto erano spaventati. Girarono attorno all’aereo e mi si avvicinarono, dopodiché la ragazza prese coraggio e, in lingua inglese, cercò di spiegarmi in poche parole la situazione in cui si trovavano, dopo che avevano deciso di fuggire dall’isola, per andare lontano, da qualsiasi parte del mondo, dove il loro amore non venisse ostacolato da pregiudizi tribali, di appartenenza o, peggio ancora, dalle ferite causate da guerre, conflitti assurdi che dividono popoli, famiglie e che dispensano odio verso l’altro”. – “Ma perché volevano scappare…e da chi?”, domandò Robert. “Ci stavo arrivando ragazzo”, bofonchiò Alan, riprendendo da dove era stato interrotto: “la ragazza era in un evidente stato di agitazione e, dopo essersi rivolta verso il compagno, disse che lui era turco cipriota, si chiamava Deniz e proveniva dalla parte nord di Nicosia, che loro chiamano col nome di Kuzey, e lei invece era Alike e viveva nella parte greca della capitale.
“Non persi tempo”, proseguì Alan, “li feci salire a bordo, li invitai a prendere posto su due strapuntini in coda alla cabina, e lì mi raccontarono le loro vicissitudini, a cominciare da quando si erano conosciuti in un convegno internazionale organizzato dalle Nazioni Unite: l’inizio dei loro guai; il vedersi ogni tanto di nascosto, sopportare l’ostilità delle famiglie, i grossi rischi, eccetera. Fino a quando decisero che era giunta l’ora di darci un taglio. Scappare!”.
Robert rimase ad ascoltare senza fiatare, difatti Alan non lo deluse, fornendogli uno scoop di quelli da sbattere in prima pagina, perché gli rivelò il modo rocambolesco in cui, in quella stessa notte, i due giovani riuscirono a saltare i rispettivi confini, fatti di sacchi di sabbia e di chilometri di filo spinato, e ritrovarsi nel punto stabilito nella “terra di mezzo”. Una sorta di limbo dal quale spiccare il volo verso l’agognata felicità.
“Hai presente un deltaplano? Quell’accrocco volante che galleggia nell’aria sfruttando le correnti ascensionali, sul quale è appeso, infilato in un sacco, un moderno Icaro”? Disse l’ex pilota, rivolgendosi all’intervistatore che lo ascoltava a bocca aperta. “Beh.”, prosegui: “il giovane ha spiccato il volo, appeso a quel fazzoletto di stoffa, si è buttato da un’altura sferzata dai venti, nelle vicinanze di casa sua e all’imbrunire, complice una foschia densa e un residuo vento ascensionale, è riuscito ad arrivare fin là, dopo essersi schiantato tra gli ulivi di una piantagione, che era già buio.”.
“E quale altra diavoleria ha adottato la ragazza per onorare l’appuntamento?”, gli domandò Robert. “Nessun marchingegno, solo furbizia, sangue freddo e buone gambe”, rispose Alan, lanciando in aria cerchietti di fumo dalla bocca.
La fine della storia arrivò, dopo che la cameriera creola aveva servito due bicchierini di Heering Cherry Original ghiacciato; un brindisi al coraggio di Deniz che aveva sfidato la gravità, come anche ad Alike, che si era presa gioco delle guardie di confine, facendosi passare per un’addetta alle pulizie dei cessi. “E il funzionario inglese cosa pensò quando vide quei due ragazzi raggomitolati in fondo alla cabina del Trislander?” chiese il reporter. “Niente di che, bevve anche lui, nel senso che credette in pieno ad una banale scusa appositamente confezionata, di cui al momento non ho memoria. Portai il muso aguzzo dell’aereo verso sud sud-est, gas a manetta e, dopo una breve e barcollante corsa sull’erba, l’aereo staccò nel rumore assordante dei motori, puntando dritto sulla Base di Dhekelia, dove la polizia prese in carico il diplomatico e pure i due ragazzi che, mi risulta abbiano trovato la loro strada in Irlanda, dove avrebbero cercato di costruirsi una nuova vita.”.
La notte, nel frattempo, si era assestata sulle venti tre, almeno così segnava l’orologio dell’ex comandante che disse: “Fine della storia direbbe lei? Certo che no! C’è molto altro, ma pare sia un po’ tardi per continuare, non crede?”, sbottò Alan rivolgendosi all’intervistatore. “Vuole concedermi un’altra mezz’ora del suo prezioso tempo Mr. Alan, o preferisce “atterrare” anzitempo, per dirla nel gergo aereonautico?”, si sentì rispondere.
Nel frattempo, un banglà dall’aria gentile, girava fra i clienti del locale e proferiva rose scarlatte, sperando che qualche signore ne acquistasse una per donarla alla sua patner.
Robert chiamò il venditore indiano, invitandolo ad avvicinarsi al suo tavolo e, in un non men che non si dica, acquistò un fiore depositandolo sul pianale della sedia rimasta vuota, poi fece cenno alla cameriera creola di portare altri due cherry. La ragazza, poco dopo, servì il liquore al tavolo e Robert la sorprese, regalandole la sua rosa cellophanata. La giovane arrossì e ringraziando se ne andò. “Bel gesto ragazzo, è così che si fa. Un brindisi alla faccia tosta!”, disse Alan alzando il calice.
“Da dove riprendiamo Mr. Alan?” chiese il giornalista. “Nuova Zelanda. Cinque anni di servizio confinato sulla North Island, a mezz’ora di volo da Auckland, a scarrozzare turisti, esploratori, amanti della natura e dello shopping e perfino astrofili alla ricerca delle stelle nei “Cieli Scuri” di Aotea; tutti a bordo di un altro B&N – Trislander, dal muso cromato con la livrea rossa della “Island Air Charter”.
Mi viene ancora da ridere se ripenso a quel piccolo aeroporto di Claris, su quell’isoletta al di là del Golfo di Aurukaki, dove non era possibile rifornirsi di carburante; dovevi accertarti preventivamente che il “Tris” decollasse a pancia piena da Auckland.
Non di rado attendevo i clienti nel piccolo villaggio di Aotea, vicino l’aeroporto. Abitavo, si fa per dire, all’interno di un camping, in una casetta fatta di legno, dalla porta rotonda come quella delle favole, ospite di una gentile signora di nome Yolo, una “nativa” dalla pelle dorata e lo sguardo suadente.
Tre voli al giorno, sedici passeggeri che pagavano il biglietto direttamente a bordo, ai quali fornivo cuffie da indossare nella fase del decollo, tanto era il rumore causato dai tre motori al massimo dei giri. Se c’era vento poteva rivelarsi un giro accidentato, ma i passeggeri stringevano i denti, pur di ammirare dall’alto la spiaggia di Okupu, dove c’è l’icona della Nuova Zelanda: il gigantesco albero chiamato Pòhutakawa, che a dicembre esplode di rosso, diventando l’Albero di Natale della Nazione.
Mettiamoci pure qualche atterraggio rocambolesco sui fazzoletti erbosi ai bordi di Gisborne, la prima città al mondo a vedere l’alba del nuovo giorno, e magari accompagnare i turisti a farsi un bell’ hamburger di cozze alla baracca di Swallow.”.
Alan si fermò per un attimo accennando ad una breve risata, poi riprese a dire: “Ricordo quel giorno, dove il pappagallo kakapo, che tenevo con me in casa, sobbalzò per la chiamata ricevuta alla radio dalla torre di controllo. Dovevo andare a prendere il professor Hidding all’ University of Auckland, presso il dipartimento di Genetica Molecolare. Per l’occasione indossai il pullover blu di ordinanza nuovo di zecca, con tanto di spalline ornate da quattro luccicanti galloni dorati.
Per farla breve, atterrai un’ora dopo la chiamata, al Terminal per i voli interni e, rullando sulla pista di calcestruzzo, mi ero portato davanti al – gate – assegnato; c’era un gran movimento di persone intorno al Professore, che avevo conosciuto in altre occasioni. Il segnalatore mi comunicava di spegnere i motori all’istante. Ciò fatto scesi dalla cabina, apri il portello di accesso ai passeggeri e vidi lo scienziato avvicinarsi con un animale al guinzaglio che, a ben vedere, non era per niente un cane, bensì una pecora dal folto mantello e dall’aria impaurita, per giunta. Si era venuta a creare una situazione comica e nello stesso tempo surreale, perché la bestia non aveva nessuna intensione di imbarcarsi, e Hidding che la tirava con il guinzaglio e due suoi assistenti che la spingevano da dietro. Dopo un po’ eravamo pronti a partire: motori al massimo e, raggiunta la V1, il decollo. Rabbioso come sempre.
L’animale era in uno stato di agitazione latente e si guardava attorno con i suoi occhi rossastri; il Professore lo teneva a bada col guinzaglio, sussurrandogli qualcosa all’orecchio. A un certo punto la pecora si divincolò e, in preda al panico più assoluto, saltò sullo strapuntino del secondo pilota e si attaccò al volantino. L’aeromobile andò in picchiata, facendo sbattere il muso al passeggero sul margine della poltroncina del pilota. Feci i numeri per riprendere il controllo del velivolo e contemporaneamente avere la meglio sulla pecora. Poco prima di atterrare a Claris, Hidding mi svelò il nome dell’animale: “Pretty”, la pecora che aveva clonato in laboratorio e che doveva condurre in una fattoria dell’isola per studiarne, in gran segreto, i comportamenti. Morale, ancora oggi non saprei distinguere chi tra i due fosse l’elemento più bizzarro.”.
La mezzanotte, nel frattempo, aveva aggiunto un altro numero al calendario, ma la gente continuava ad andare e venire, le ragazze sparecchiavano e riapparecchiavano per accogliere i nottambuli della movida. Il giornalista si fece portare dei salatini e due calici di vino bianco d’Alsazia dalla solita cameriera, che gli ammiccò un sorriso; Alan, strizzando l’occhiolino, concesse al giovane un’ulteriore proroga alla fine dell’intervista.
“E che mi dice del suo successivo trasferimento nell’isola caraibica di Montserrat, dove mi risulta abbia effettuato un servizio di Taxi Plane e altro ancora per alcuni anni, proprio in quelle isole dell’arcipelago a nord del Venezuela?”, chiese il giornalista.
La risposta arrivò puntuale e precisa come sempre: “Come lei certamente saprà” continuò Alan “Monserrat fa parte anch’essa del Commonwealth; questo sputo di isola, dal 1623 fu il rifugio degli irlandesi cattolici cacciati dall’Inghilterra per motivi di religione; del resto anche nel sottoscritto scorre sangue irlandese, non si sente dall’accento?”. Robert scosse il capo in segno affermativo e lo invitò ad andare avanti. “Ho lavorato come pilota su un altro BN-ZA MK III-2, come lei ama definirlo, in collaborazione con la Royal Montserrat Defence: un manipolo di militari inglesi volontari in stazza sull’isola, con il compito di polizia. Ci ho trascorso un periodo che va dal mille novecento novanta al mille novecento novantotto, un anno dopo la tremenda eruzione del vulcano Soufrière Hills, che distrusse due terzi dell’isola, compresa la sua Capitale Plymouth, che ancora oggi è sepolta sotto diversi metri di cenere.
Avevo come Base l’aeroporto di Osborne nel villaggio di Gerald’s, da cui decollavo giornalmente portando una quindicina di passeggeri che si spostavano tra la Dominica, Guadalupa e Antigua, e con qualche puntatina anche sull’isola di Puerto Rico, come quella volta che ci andai a recuperare il famoso gruppo musicale “The Police”, per trasferirli agli Air Studios di Plymouth per la registrazione di un disco.
Quell’ora di volo non la dimenticherò mai, quando tolsi per qualche secondo la radio-cuffia e canticchiai un brano dell’Album “Sinchroniticy” insieme a Sting, che poi mi autorizzò a chiamarlo con il suo vero nome: Matthew Sumner. Che tempi!”.
Alan, ad un certo punto smise di parlare e tirò fuori, da sotto la camicia, una catenina con appeso un medaglione e, mettendolo bene in mostra, disse mestamente a Robert: “Vede? Qui è raffigurato Saint Patrick protettore degli irlandesi” e, dopo aver esibita l’altra faccia, continuò dicendo: “qua è incisa una data tragica e dolorosa “25-07-1997”, a ricordare la seconda tremenda eruzione del vulcano che semi distrusse “l’Isola di Smeraldo”, così era chiamata precedentemente; poi invece gli venne affibbiato un appellativo ben diverso: “La Pompei dei Caraibi”, con le sue venti tre vittime e i tanti feriti.
Ricordo che già nei primi giorni di luglio”, disse l’ex comandante, “c’erano state le prime avvisaglie, con sciami di scosse sismiche.
Dalla cima del vulcano un pennacchio di fumo denso filava alto nel cielo. La popolazione venne posta in allerta e si predispose una sorta di piano d’ emergenza, sia logistico che medico.
Sulla carlinga del “Tris” fu disegnata una vistosa croce rossa inscritta in un cerchio dal fondo bianco; vennero smontati due terzi dei sedili passeggeri per fare posto ad alcune barelle e qualche dispositivo medico d’emergenza.
Anche i collegamenti tra le isole vennero ridotti, e nei giorni a seguire fu un susseguirsi di ricognizioni aeree, con a bordo geologi e personale militare. Il mio Trislander venne messo veramente a dura prova da decolli e atterraggi in stretta sequenza.
Spesse volte la parte terminale della fusoliera andava in surriscaldamento, nonostante il sistema di refrigerazione, progettato nell’aereo, fosse regolarmente in funzione, per sopperire al calore sviluppato dal terzo motore posto davanti al timone di coda…”. –
“Ci prendiamo il tempo di una birra Comandante?”, disse Robert; la cameriera creola, nel frattempo, aveva portato al tavolo le birre chieste dal giornalista e si era trovata ad ascoltare, suo malgrado, una parte delle vicende raccontate su Montserrat. La ragazza appoggiò i due boccali sul tavolo e, con un leggero inchino, si dileguò nella penombra della sala.
Intorno a quei due personaggi, seduti vicino a un tavolo tondo che sorseggiavano birra a piccoli sorsi, la notte si era consolidata, approcciando con discrezione al nuovo giorno. Click, il giornalista riaccese il suo voice recorder e formulò un’altra domanda all’ex Comandante: “Il suo spirito di avventura lo ha condotto da un capo all’altro del mondo, pilotando lo stesso tipo di aeromobile, adattandolo, di volta in volta, alle necessità del momento e…” l’ex pilota, con un gesto della mano, interruppe l’intervistatore, invitandolo ad ascoltare il prosieguo di quella storia per metà tragica e, al contempo esaltante. “Mi scuso per l’interruzione” disse con voce rotta dall’emozione Alan, “ma preferirei soffermarmi a ricordare alcuni eventi tragici che accaddero quel 25 luglio del novantasette, quando il vulcano eruttò facendo tremare la terra e il cielo si rabbuiò per quindici interminabili minuti.
Cenere e lapilli incandescenti piovevano dappertutto compreso il campo dove mi trovavo con l’aereo già pronto alla partenza. Il tempo di far salire a bordo un ingegnere dei pompieri e un medico, che avevano ricevuto un messaggio di emergenza, poi diedi lo starter ai tre motori e, dopo un breve rullaggio, su quel che era rimasto della pista, decollammo.
Su, verso l’oscurità. E i blocchi di pomice che battevano sulla carlinga e sul parabrezza del velivolo. Dieci minuti dopo scendemmo di quota portandoci a circa mille cinquecento piedi, a sorvolare una fattoria che stava prendendo fuoco.
Dovevo atterrare ad ogni costo, per tentare di salvare vite umane. Questo era l’imperativo! Buio, cenere che surriscaldava i motori, e le lancette dei termometri che si avvicinavano pericolosamente al fondo scala. L’aria che iniziava ad essere irrespirabile.
Laggiù! Indicò l’ingegnere; virammo bruscamente sulla destra e, in picchiata, scendemmo a pochi metri dal suolo, in prossimità del casolare in fiamme. Mi girai per un attimo a guardare i miei compagni, quasi a cercare da loro il modo in cui prendere terra senza sfracellarsi.
Un minuto più tardi atterrammo su un campo di cotone vicino la fattoria; all’impatto, dal carrello si udì un botto, dovuto allo scoppio di due dei quattro pneumatici anteriori. Il piccolo aereo arrancava sulla piantagione, da sembrare una ballerina zoppa.
Portai il “Tris” nei pressi della casa, dove alcune capre terrorizzate saltavano sopra tizzoni ardenti; restai in cabina con i motori accesi. Il flusso delle eliche spostava nugoli di cenere grigiastra.
Furono minuti concitati. Avevo saldamente in mano i comandi, freni attivati e motori quasi al massimo. Tutto vibrava e la fusoliera sembrava volersi schiantare da un momento all’altro. Poco tempo dopo i due miei colleghi fecero salire a bordo una signora con una bambina entrambe ferite, e con i volti anneriti dal fumo. Capimmo, da qualche gesto della donna, che si trattava di una madre con sua figlia.
Mollato il freno, spinsi i tre pomelli verdi delle pompe carburante, girai il muso dell’aereo a cento ottanta gradi e, dopo molte peripezie, raccomandandomi a San Patrizio, diedi il massimo della potenza e il velivolo finalmente si staccò dall’inferno. Volavamo a vista, si fa per dire, verso nord- ovest in direzione della cittadina di Brades (la futura Capitale di Montserrat); la bambina piangeva e tutti si prodigavano a rassicurarla e a tenerla ben al caldo sull’improvvisata lettiga. Anche il sottoscritto, seppur impegnato nella difficile trasvolata, cercò un modo per distrarre la ragazzina chiedendo attraverso l’altoparlante di bordo, come si chiamasse e quanti anni avesse. “Clarisse, mi chiamo Clarisse” ebbe la forza di rispondere la bambina. E questo mi rincuorò.
Atterrammo su un campo da golf a St. Peter’s nella Belham Valley, dove ci attendeva un’ambulanza. Presi la bambina in braccio e la condussi all’auto medica, dove sua madre la attendeva piangendo; prima che la portiera si chiudesse e l’auto partisse per il “Davy Hill Medical Centre”, presi la manina della bimba e, con una carezza, le dissi ciao. Questo è quanto.”, chiosò Alan, alzandosi in piedi, dando l’idea di volersene andare. Robert fece di conseguenza e si offrì di pagare il conto, che andò a regolare al banco, dove la ragazza creola che li aveva serviti, gli dispensò un bel sorriso.
Le luci dei locali via, via si spegnevano; il rumore cupo del mare accompagnava i due uomini sulla Oxford Street semi deserta, il comandante si offrì di dare un passaggio al suo intervistatore, visto che la sua auto era rimasta in panne.
Quello che i due si dissero all’interno della macchina, in quel tratto di strada che separava la Oxford dall’abitazione di Robert Sinclair, non ci è dato sapere. Si può immaginare che Alan Mc Carthy, con una breve, quanto generica appendice all’intervista, abbia voluto ribadire che tutto ciò che riteneva importante da raccontare, lo aveva riferito in “quella chiacchierata tra amici” in un Pub della Oxford Street, tralasciando, probabilmente, l’ultimo periodo della sua carriera consumato sopra cieli grigi della Manica, al comando di un BN-ZA MK III-2, questa volta con una livrea gialla e con le insegne della compagnia Aurigny, in rotta sulle Blue Island a trasportare pendolari, impiegati e uomini di affari sulle Isole del Canale.
Non sappiamo nemmeno se Alan abbia accennato al suo intervistatore, della telefonata che aveva ricevuto, giorni prima, da un Dirigente della Britten Norman, con la quale lo avevano invitato nell’ Isola di White per ritirare un “Premio alla Carriera”, in merito alle sue avventure celesti intraprese con il suo mitico Trislander, qua e là per il mondo.
Sappiamo solo che la cerimonia avvenne in pompa magna alla vigilia di Natale del duemila quindici, proprio nella fabbrica di aerei della B&N, con la stampa, la TV e parecchi invitati, tra i quali: Robert Sinclair, il suo intervistatore, Clarisse, che era diventata, nel frattempo, la sua ragazza e che si era rivelata come la bambina creola che Alan aveva portato in salvo nell’isola di Montserrat, anni prima; c’erano anche un uomo e una donna: Deniz e sua moglie Alike, che non dimenticheranno mai l’aiuto avuto dall’ex Comandante che li raccolse nella zona cuscinetto della Cipro divisa tra turchi e greci, portandoli al sicuro nella Base inglese di Dhekelia.
Per l’occasione, Alan fu invitato a salire sull’ultimo esemplare del Trislander ancora in circolazione, per condurlo in un Hangar, dove sarebbe stato smantellato per raggiunti limiti di servizio.
Il Comandante, attorniato da un piccolo pubblico festoso, premette per l’ultima volta i tre pomelli verdi della pompa carburante, mollò i freni e rullò pian piano sulla pista per pochi metri, fino a scomparire dietro una fitta pioggia innescata dalle auto pompe dei vigili del fuoco che, a modo loro, vollero salutare il minibus dei cieli e, soprattutto il suo Comandante Alan Mc Charty.
L’ex pilota, quel giorno, aveva vissuto la più bella ed emozionante avventura della sua movimentata esistenza, ritrovando amici inaspettati, che ancora oggi lo ricordano con affetto e ammirazione.
Robert Mc Carthy ed Alan Sinclair si abbracciarono nel mezzo della pista senza dire una parola, mentre gli obiettivi delle macchine fotografiche e delle telecamere mettevano a fuoco quelle due figure, di cui l’una incarnava lo spirito indomito dell’avventura, e l’altra la capacità di trasferirla, nero su bianco, al grande pubblico dei tabloid.
§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§
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Bruno Bolognesi |