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In un cielo di guai

titolo: In un cielo di guai

autore: Alessandro Soldati 

editore: Amazon

pagine: 192)

anno di pubblicazione: 2022 (tascabile e e-book)

ISBN: 979-8849987729




Erano anni che lo aspettavo e – in tutta sincerità – ormai disperavo di poterlo leggere. Mi ero quasi convinto che colui che tanto mi aveva stupito con il suo romanzo di esordio “Andrà bene di sicuro“, fosse impegnato in qualcosa di meglio che soddisfare i desideri morbosi e pretenziosi di un insignificante lettore; in effetti già me lo immaginavo in qualche paradiso caraibico attorniato da una selva di donzelle adoranti, intento a godersi i proventi di vendite impreviste e imprevedibili. Sì, quelle che, tra capo e collo, gli sono cadute sicuramente addosso nel 2014 (anno di pubblicazione del primo volume) così come raramente cadono addosso a un autore principiante ma estremamente talentuoso baciato dalla fortuna nell’essere incappato – non lo sapeva neanche lui – in un editore lungimirante e nell’aver mietuto una platea smisurata di ammiratori nell’ambito di un genere letterario di nicchia. E invece …

Il ritratto dell’autore quando militava tra le file del 154° Gruppo Cacciabombardieri del 6° Stormo di Ghedi (i mitici “Diavoli Rossi”), immortalato a bordo di un Tornado dell’Aeronautica Militare Italiana (foto proveniente dalla pagina della Hito, la società presso la quale Alessandro Soldati svolge la sua attività professionale). Nella sua scheda personale leggiamo: “Attualmente ha un incarico di docenza presso un’università e svolge con passione il ruolo di istruttore di corsi teorici presso una scuola di volo.
Quando può, si rilassa in mountain bike, o in motocicletta, o lavora in un fazzoletto di terreno in collina.
Queste tre attività sono state citate in ordine decrescente di fatica.”. Non abbiamo dubbio alcuno che queste note biografiche se le sia scritte da solo …

Confesso che quando ho intercettato “In un cielo di guai” nel calderone del più grande bazar digitale della rete, non credevo ai miei occhi; per un istante ho pensato a un caso di omonimia ma l’istante dopo mi sono scoperto a cliccare in modo compulsivo sul tasto “acquista subito”, dopodiché ho consultato con impazienza la tracciatura del pacco fino a strappare con irrefrenabile cupidigia l’involucro che – appena consegnato – conteneva proprio il secondo volume della produzione letteraria di Alessandro Soldati.

A quel punto, leggerlo tutto d’un fiato è stato un piacere e un dovere; ammetto che ho addirittura trascurato il mio lavoro pur di leggerlo e, complice un provvidenziale black-out elettrico pomeridiano sul luogo di lavoro (erano anni che non accadeva), sono rientrato a casa anzitempo pur di conoscerne tutto il contenuto …

Che dire?

Bellissimo? … no, troppo banale definirlo con un solo aggettivo.

Sublime? … no, prevedibile.

Alessandro Soldati oggi. Dopo essersi congedato dall’AMI e aver svolto la professione di pilota di linea per la defunta Compagnia di bandiera italiana, ha conseguito la laurea in Scienze e tecniche Psicologiche. Ora è una delle colonne portanti di Hito, una società che organizza corsi di formazione di Human factor. Il suo curriculum e la sua biografia dettagliatissima sono presenti nel sito di questa società a dimostraziojne dello spirito di trasparenza che lo contraddistingue (foto proveniente dalla pagina https://www.hitoconsulting.org/)

Un’occasione di riflessione? … certo, ma non in modo cervellotico.

Una denuncia in forma narrativa? … anche, ma non solo.

Un modo originale per informare l’uomo della strada di come funziona l’Aviazione commerciale? … sicuramente, ma anche di più.

Uno spaccato verace di un mondo – quello de piloti  commerciali – una volta dorato e oggi banalizzato? … fuori ogni dubbio.

Una grande burla per impaurire i passeggeri brontoloni? … non proprio.

Verosimilmente “In un cielo pieno di guai” è l’insieme di tutto questo e anche di più, ivi compreso quello che lo stesso autore dichiara in copertina: 

“Il libro che nessun passeggero avrebbe voluto leggere (a dirla tutta anche nessun pilota)” 

In effetti è lo stesso autore che nella prefazione intitolata: “Del perché ho scritto questa vicenda” sintetizza in modo mirabile il senso di questo volume e, in particolare, perché non ha concesso un seguito naturale alla vicenda narrata nel primo romanzo benché:

“molto amici mi hanno chiesto perché mai avessi deciso di farla finita […] ebbene […] ho voluto permettere a quel ragazzo di morire quando era ancora vivo”.

In altre parole, Sanzo Ottaviano, il personaggio che anima il primo romanzo, non è volutamente presente in questo secondo giacché:

“probabilmente avrebbe finito per entrare in qualche Compagnia aerea civile e, francamente, una persona così bella non so lo meritava […] e avrebbe finito per spegnersi, proprio come è successo a molti di noi”.

Il sogno malcelato delle Compagnie è quello di non avere più piloti dipendenti, ossia da addestrare e soprattutto da pagare profumatamente a prescindere. Invero le Compagnie low-cost ci sono parzialmente riuscite scaricando sui piloti almeno l’addestramento iniziale e stipulando con le maestranze dei contratti capestro tipo “a chiamata” o “a cottimo”, emuli del mondo della ristorazione, agricolo o del più bieco commercio. Estremizzando, se i velivoli non avessero più piloti a bordo, le Compagnie massimizzerebbero i loro profitti abbattendo nettamente i costi del personale navigante. Fantasie? Forse … intanto nell’ambiente del trasporto aereo si vocifera già come in divenire la riduzione dell’equipaggio a un solo pilota anziché due. Staremo a vedere. Intendiamoci: anche i dinosauri si sono estinti e non erano certo contenti quando è accaduto loro ma voi – sinceramente – ce lo vedete un pilota che vende a provvigione i gadget più disparati ai passeggeri di un volo commerciale? Mai dire mai … (foto proveniente da www.flickr.com)

Da queste poche righe, apparentemente criptiche, intuiamo subito che in questo secondo volume l’autore si toglierà di sicuro qualche macigno dalle scarpe – eccome se lo toglierà! – rendendo così questa prefazione una specie di vademecum del romanzo, una sorta di chiave di lettura del testo vero e proprio. E ce lo conferma subito una con una frase a dir poco emblematica:

“A pochissimi importa oggi di formare Aviatori perché non sono Aviatori quelli che le Aziende cercano ma appunto Operatori di sistema”.

Ovviamente l’autore si riferisce alla tendenza, ormai radicata presso le Compagnie aeree di tutto il mondo, di convertire i piloti a dei meri esecutori di operazioni schedulate e standardizzate. Alla stregua degli automi, questi pseudo piloti:

“permetteranno a un tubo di metallo di andare praticamente da solo per aria da un luogo all’altro con un ragionevole margine di sicurezza”.

Inutile svelare che il tubo in questione chiamasi aeroplano per trasporto passeggeri …

Come nella migliore tradizione editoriale, la IV di copertina del volume contiene una breve sinossi e una telegrafica biografia dell’autore corredate da una fotografia che ritrae il viso sorridente – e nel caso specifico anche un po’ stralunato – dell’autore

Il dente avvelenato di Alessandro Soldati si rivela però in tutta la sua ferocia quando ricorre a un esempio illuminante: il gioco grafico,  dei punti numerati spesso presente nelle riviste di enigmatica o passatempo. Come funziona? Semplice: occorre collegare  i puntini secondo l’ordine crescente di numero affinché appaia un disegno di senso compiuto. Chissà quante volte vi sarete cimentati in questo giochino … confessate!

Ebbene Alessandro Soldati ci fa notare che quasi chiunque è in grado di unire i puntini ma ciò non significa necessariamente che costui sappia disegnare; inoltre si presuppone che qualcuno li abbia disposti anticipatamente quei puntini stabilendone posizione e progressione. Di certo l’espediente consente di ottenere disegni di qualità accettabile e con poco sforzo (economico, s’intende) in quanto realizzati da individui non particolarmente  talentuosi o qualificati nelle arti grafiche.

A detta di Alessandro Soldati quelli ritratti in questo scatto non sono degli Aviatori bensì degli Operatori di Sistema. Come biasimarlo? E’ pur vero che, per anni, i piloti commerciali hanno vissuto nella bambagia, ossia costituivano una casta alla stregua dei medici, dei notai, dei politici. Non a caso, quello del pilota era una delle professioni meglio pagate in termini squisitamente numerici a fronte però di notevoli responsabilità, un duro, lungo e costante addestramento. Oggi si è passati quasi all’eccesso opposto e i piloti di linea sono – come tutti i gli altri lavoratori – appesi al filo dei licenziamenti e della produttività   (foto proveniente da www.flickr.com)

Mutuando questo esempio geniale al mondo dell’Aviazione commerciale, l’autore ci consente di comprendere che, ormai da tempo, la scelta delle Compagnie aeree è quella di far tracciare i puntini (applicare le procedure e le normative) non a opera di disegnatori creativi (i piloti di vecchia generazione, attivi e pensanti) bensì da parte di Operatori di Sistema (i piloti di nuova generazione, esecutori passivi) che sono in grado di unire diligentemente i puntini producendo un disegno (il trasporto dei passeggeri) dignitoso – è vero – benché spigoloso e preconfezionato. Il tutto spendendo poco nell’addestramento e soprattutto nella retribuzione dei loro sedicenti “disegnatori”.

L’autore affonda l’ultimo colpo prevedendo che questi giovani (piloti e non) saranno facilmente sostituibili, sottopagati e ricattabili. Che è giusto appunto la condizione in cui vivono, loro malgrado, i piloti commerciali da qualche decennio a questa parte. E non solo loro: tutti i lavoratori dipendenti!

C’è una via d’uscita a questo processo apparentemente inarrestabile in quanto sostenuto dal vessillo della estrema “sicurezza del volo”? L’autore ci concede una flebile speranza: si può e si deve tornare indietro per merito di chi, provenendo da una scuola diversa, non si accontenterà più di unire semplicemente i puntini ma vorrà tornare a disegnare istintivamente, pur rispettando le regole base dell’arte figurativa.

In altri termini, a detta dell’autore, occorre addestrare i piloti intensivamente, attribuendo loro la discrezionalità di operare non secondo delle rigide procedure ma lasciando loro un certo margine di azione che consenta di far volare le macchine volanti in modo ragionato e non solo automatizzato.

Ecco allora spiegata la dedica che precede il testo del romanzo:

“Ai sognatori, agli irriducibili e ai ribelli poiché, da adesso in poi, siamo davvero nelle loro mani”

Senza sconfinare necessariamente nella fantascienza, ormai da diversi anni la tecnologia aeronautica consente alle macchine volanti di autogestirsi, ossia di decollare, atterrare, volare e diagnosticarsi in piena sicurezza senza il cosiddetto “ausilio” umano o comunque la supervisione di piloti a bordo … rimane irrisolto un dettaglio non trascurabile: i passeggeri salirebbero a bordo di un velivolo consapevoli che non ci sono piloti in cabina o che solo qualcuno non meglio definito controlla la macchina volante in remoto, alla stregua di un semplice drone? Una sorta di Flight Simulator che diventa la realtà?  Bah … E’ pur vero che già da anni alcune metropolitane delle grandi città sono prive di conduttore e addirittura le automobili di ultima generazione potrebbero percorrere talune strade senza essere guidate manualmente. D’altra parte, con l’avvento dell’industrializzazione, occorre ricordare che prima le macchine semplici e i robot poi hanno sollevato l’uomo dallo svolgimento di lavori pesanti, pericolosi e difficili da eseguire limitando il suo impegno lavorativo al controllo/supervisione delle attività meccanizzate/automatizzate. Tutto in virtù di una maggiore sicurezza sul posto di lavoro ma anche e soprattutto di una maggiore produttività e dunque maggiori profitti. In aviazione, generalmente molto reattiva a recepire determinate innovazioni tecnologiche come pure altrettanto refrattaria a innovazioni azzardate, potrebbe davvero accadere lo stesso fenomeno? E, semmai accadesse, quando? A detta di Soldati è già in atto … (foto proveniente da www.flickr.com).

Una volta letta questa prefazione ciò che segue è solo un formidabile valore aggiunto al libro, un modo esplicativo per dare consistenza alle affermazioni fin qui espresse in chiaro (ma forse non troppo chiare a tutti i lettori, specie quelli estranei al mondo del volo). D’altra parte non si possono comprende a pieno problematiche così articolate se non ricorrendo a esempi pratici, reali, a una sorta di parabola di biblica memoria. E in questo – occorre sottolinearlo – Alessandro ci riesce egregiamente. Perché cosa ci può essere di più esplicativo se non il racconto di un qualunque giorno di lavoro di un pilota commerciale?  Appunto …

In verità la scelta dell’autore è decisamente strategica ed è sapientemente sintetizzata in quarta di pagina cui vi rimandiamo.

Dunque la trama del romanzo è tutta lì e non ritengo opportuno anticiparvi o aggiungere altro. Posso solo indugiare su un aspetto: si tratta di una vicenda alla “Alessandro Soldati maniera”, ossia scritta con leggerezza, sottile ironia, un po’ surreale, comica e tragica al contempo; una vera goduria per gli occhi e la mente che spiega la facilità con cui divorerete le pagine di questo romanzo. E anche se il primo capitolo (quello dello zio anacronistico) scorre appena un po’ più lento degli altri, l’anello si chiuderà – e sarà un anello perfetto alla Giotto – al termine di una giornata memorabile per la protagonista, per lo zio  e anche per il lettore, ovvio.

Le “note a margine”, presenti in coda al romanzo, si ricollegano idealmente alla prefazione e spiegano il perché di alcune forzature:

“lo dico soprattutto per avere almeno una flebile speranza di non venire denunciato”

E non mancano le rassicurazioni rivolte ai passeggeri:

“[…] con tutti i nostri difetti, siamo pur sempre quelli che statisticamente combinano meno disastri […]”

consolidata da un’ultima considerazione arguta e sincera che spiega perché, sempre secondo l’autore, i piloti non raccontano o scrivono le loro innumerevoli, rocambolesche esperienze professionali:

“gli aviatori adorano raccontare quanto sono stati bravi a limitare i danni e gli inconvenienti, solo che mentre li limitano, non hanno modo di raccontarlo. Perciò fidatevi e sappiate che comunque ci stanno provando.

Sono lì apposta”

La degna chiusura di un libro notevolissimo!

Confesso però che, dopo aver girato con rammarico l’ultima pagina del libro, qualche perplessità mi è rimasta: possibile che quanto di funambolico narrato nel volume possa accadere a un pilota nel corso della sua pluriennale carriera? Possibile che l’autore non abbia deliberatamente calcato la mano narrando quegli eventi? Possibile che non li abbia costruiti ad arte e a suo favore?

Sebbene lo stesso Alessanro Soldati ammetta apertamente di aver forzato i tempi e i modi … parrebbe di no … e non lo afferma il sottoscritto che – lo ammetto – conosce marginalmente il mondo dell’Aviazione commerciale bensì un nostro consulente speciale, una sorta di agente segreto che, invece di esercitare la sua attività spionistica all’Avana, ha lavorato per anni in ATI e successivamente in Alitalia, peraltro sugli stessi MD-80 su cui ha “esercitato” il buon Alessandro. Come Alessandro, anche il nostro pilota di fiducia conosce perfettamente quelle dinamiche per averle vissute sulla sua pelle (in cabina di pilotaggio, s’intende).

L’autore immortalato nel corso di una sua qualche lezione. Egli indica sullo sfondo una foto in cui è presente e che, a giudicare dal muso del Fiat G-91 T sullo sfondo, risale al periodo della sua formazione professionale in AMI. Un abile modo per mettere a loro agio i suoi studenti: parlare di sé e dei suoi trascorsi. Strategico! (foto proveniente dalla pagina https://www.hitoconsulting.org/),

E allora, vigorosamente chiamato a rapporto, dopo la lettura volontaria quanto fulminea del volume (una sola lunga serata), il nostro consulente  mi ha confermato che quanto narra il suo collega di cloche è terribilmente verosimile e purtroppo reale, fin troppo reale.

Ad ogni modo, nonostante questa ferale informazione, rimangono irrisolti i quesiti che volano nevroticamente nella mente del famoso e fantomatico uomo della strada che poco o nulla conosce del mondo dell’Aviazione commerciale. Aviazione che, verosimilmente, avrà uno sviluppo esponenziale di passeggeri nei prossimi anni, crisi economica, pandemie e guerre permettendo. E questi quesiti nascono vieppiù numerosi dalla lettura di “In un cielo di guai”. Ecco dunque l’occasione di riflessione stimolata dal libro e, nello stesso tempo, di divulgazione e denuncia di una situazione dai risvolti un poco inquietanti che mi sono solo limitato ad accennare.

Ma torniamo al libro.

A proposito della prosa, dell’inventiva, della tecnica narrativa di Alessandro Soldati non c’è nulla da dire: strepitoso. Forse un po’ meno spontaneo rispetto al libro di esordio, meno caricaturale nel tratteggiare i personaggi, ma sempre un’ottima penna dalla quale attendiamo con impazienza il terzo volume. Perché non c’è due senza tre, vero Alessandro?

Promosso su tutta la linea.

E benché le aspettative fossero molto alte, non le ha tradite. Si nota che la sua scrittura si è fatta più adulta, più ragionata ma non per questo meno valida.

Aggiungo che in alcuni punti i dialoghi tendono a scorrere meno fluidi e in un capitolo – solo uno  – l’autore cede alla tentazione di uno “spiegone” di cui – è vero – possono beneficiare i lettori assolutamente astemi di Aviazione ma che per gli altri, desiderosi di conoscere i risvolti successivi della vicenda, costituisce un ulteriore rallentamento. E comunque nulla di intollerabile o di scandaloso. Ti vogliamo bene, Alessandro, comunque!

Tornando agli aspetti squisitamente editoriali del libro, se da un lato posso tranquillamente esprimermi in modo favorevole circa la qualità della carta utilizzata per la stampa (opaca e anche fin troppo bianca), dall’altra non posso fare a meno di dichiarare delle riserve sulla scelta operata circa la foto di copertina che ritengo abbastanza anonima, forse affrettata, generica, senza una diretta logica con il titolo e il contenuto del libro. Peccato. Magari un’altra copertina per una seconda edizione? Magari la stessa seconda edizione con qualche didascalia o note a piè di pagina a uso e consumo dei lettori meno aeronautici? Vedremo, anzi, leggeremo …

Era il 1967 e questo era l’equipaggio del DC-8-33 della compagnia SAS,  compagnia aerea di bandiera di Danimarca, Norvegia e Svezia. Il velivolo era appena atterrato al Galeão International – Antonio Carlos Jobim International Airport GIG di Rio de Janeiro in Brasile. Oggi sarebbe impensabile avere una simile schiera di persone a bordo: due piloti, un ingegnere di bordo, un marconista, il motorista e uno stuolo di assistenti di volo. (foto proveniente da www.flickr.com)

Eccellente il titolo.

Purtroppo, già alla prima pagina di testo, mi è apparsa in tutta la sua infelicità l’uso di un carattere di stampa troppo minuto, sicuramente al di sotto delle dimensioni standard per i libri tascabili. No, non sono “ciecato”, come soleva proclamare il personaggio televisivo della grandissima Anna Marchesini … è proprio piccolo, fidatevi, non sono ciecato. Circa la scelta del font diverso dall’usuale potrei essere benigno ma sulle dimensioni, mi spiace, caro Alessandro, chi ha preferito la copia cartacea del tuo libro – come il qui presente – è costretto a una faticaccia ingiustificata, specie se considerata l’impostazione grafica (anche in questo caso singolare) di porre una riga vuota ad ogni capoverso; trattasi di una nuova estetica dattilografica? Un modo per enfatizzare ciascun periodo? Chissà … sì, certo, noi lo adottiamo in questa recensione … ma non per nostra scelta bensì a causa di un sistema appunto automatizzato che non ci consente di fare diversamente. Il solito programmatore ottuso che ha ideato WordPress – non il nostro, per carità –  lo ha previsto e non riusciamo a fare di meglio.

Ad ogni modo il dettaglio che più mi è stato sgradito all’occhio è la presenza dei segni “<<” e “>>” per aprire e chiudere il discorso diretto: una vera frecciata al cuore! Ma il trattino o le virgolette non sono più di moda?

Voglio sperare che queste soluzioni, riprendendo il contenuto del romanzo, siano avvenute in automatico per mano di un qualche scaltro Operatore di Sistema editoriale e non dall’autore perché, non solo in Aviazione, ma anche in editoria, l’automazione partorisce dei mostri e l’impaginazione discutibile di questo libro potrebbe esserne la conferma.

Quanto al prezzo di copertina non posso che spendere apprezzamenti: onesto e sotto la media di quello di volumi di pari dimensioni pubblicati in regime di autopubblicazione; ottima la scelta di rendere disponibile la versione in ebook o, secondo un altro punto di vista, di farne ancora una versione cartacea.

In conclusione: un libro da acquistare e leggere con la stessa convinzione, certi che – parafrasando i titoli dei due libri di Alessandro Soldati – anche in cielo pieno di guai … andrà bene. Di sicuro!

Buona lettura





Recensione e didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR





Dello stesso autore sono disponibili le recensioni di: 

Andrà Bene Di Sicuro - Alessandro Soldati - Copertina in evidenza
Andrà bene di sicuro

In un cielo di Guai - ter

Deci 83-86. I Ricordi di “Tiro 0”

titolo:  Deci 83-86. I ricordi di “Tiro 0” 

autore: Bruno Servadei 

editore: Amazon

anno di pubblicazione: 2008 (I edizione), 2014 e 2019 (II edizione)

ISBN: 1679471880 oppure 978-1679471889





 

Bruno Servadei, l’autore, si trovava in Svezia come addetto militare. Era lì da tre anni e il periodo di servizio all’estero stava per scadere. Infatti già si stava organizzando per il rientro in patria. Ma qualche mese prima del previsto ricevette un ordine di rientro anticipato. Il motivo? Doveva andare a comandare la base aerea e il poligono di tiro di Decimomannu, in Sardegna.

Questo bel libro autobiografico di Bruno Sevadei è disponibile con ben quattro copertine diverse. La prima è relativa alla prima pubblicazione a cura dell’editore SBC edizioni e ritrae due Fiat G91T che volano in coppia mentre le restanti tre sono il frutto di una diversificazione tra l’edizione cartacea ed elettronica del libro  nonché di un banale errore dell’autore che nel 2019 aveva immaginato di non aver terminato la procedura di autopubblicazione (già andata a buon fine dal 2014). Il contenuto, ovviamente è il medesimo. Nel corso della lettura del libro – precisamente nello spassoso capitolo dedicato alla cerimonia di festeggiamento del  venticinquennale della base di Decimomannu – l’autore ci racconterà la genesi dell’enigmatico disegno che adorna le copertine del volume e che fu realizzato per l’occasione da: “la matita magica del capo dell’SST, autore del magnifico disegno rappresentante la storia del volo che adornava la sala mensa, lo feci aggiornare inserendo i velivoli dell’ultima generazione. Poi pensai di riprodurlo su alcuni quadri in zinco, da consegnare agli ospiti di rilievo partecipanti alla celebrazione.”

Servadei descrive lo scompiglio che un ordine del genere portò in tutta l’organizzazione del rientro da una località tanto lontana come la Svezia, dovendo fare tutto in fretta, quasi senza respiro. Per scoprire, poi, che tutta questa urgenza, in realtà non c’era. Tipico della vita militare.

Comunque, a parte il rientro precipitoso, arrivato a Decimo, come veniva chiamata per brevità la base aerea, cominciò subito il periodo di affiancamento per prenderne il comando.

I ventisette capitoli del libro, per un totale di 343 pagine, prendono in rassegna tutti gli aspetti che il comando di un simile sito militare comporta.

Con il suo tipico stile chiaro, semplice, efficace nelle descrizioni, Servadei riesce a sintetizzare la complessità della vita operativa nella quale si svolgevano operazioni militari di altissima specializzazione.

Sulla base di Decimomannu erano presenti contemporaneamente diversi gruppi di volo, non solo italiani, ma soprattutto stranieri. Tutti erano lì per addestrarsi  con diversi tipi di armi. Veniva utilizzato un poligono di tiro appositamente attrezzato su una penisoletta selvaggia che si trova sulla costa ovest: capo Frasca. Su questo lembo di terra selvaggia erano presenti diversi bersagli, che si dovevano colpire con bombe o con mitragliatrici e cannoncini di bordo. Diverse squadriglie, in sequenza e con cronometrica precisione si alternavano nei passaggi. Poi, a terra, tutti prendevano visione dei punteggi conseguiti da ogni pilota.

Nel corso del suo comando della base di Decimo, contrariamente a quanto avevano fatto i suoi predecessori, il com.te della base Bruno Servadei, colse l’occasione offerta dalle presenza di numerosi diversi tipi di jet – tra i migliori disponibili nell’arsenale della NATO – per effettuare dei voli di prova rendendosi conto, ad esempio a proposito del F-15 Eagle che: “Trattandosi di una delle prime versioni aveva la strumentazione analogica che mi ha consentito di essere a mio agio e di poterlo pilotare senza problemi: in più il pilota USA mi ha lasciato ampia libertà di manovra fino all’entrata in ACMI e al rientro. E poi era un F 15, con due bestie di motori con una spinta incredibile ed una maneggevolezza da sogno anche a basse velocità.”. L’autore è quello ritratto a bordo del mastodontico F-15 statunitense e nel volume ci confida che: “Non era un fatto tipico di Decimo; l’esperienza di anni di reparto mi ha fatto costatare che nella nostra aeronautica i comandanti di stormo in genere non sono mai stati particolarmente interessati all’attività di volo.”
(foto proveniente dalla pagina Facebook dell’autore)

All’epoca, dal 1983 al 1986, esistevano già strumenti elettronici abbastanza sofisticati da poter simulare l’uso di armi aria-aria nei combattimenti aerei, i cosiddetti dog fighting.

Per questi combattimenti era stato implementato un apposito spazio aereo, dove i piloti potevano addestrarsi a combattere fra loro. I risultati apparivano su tabelloni elettronici, in una sala apposita, in modo da poter agevolmente valutare le prestazioni di ogni partecipante.

A guardarli oggi mettono i brividi ma anche all’epoca – ne siamo certi – non ispiravano certo grande fiducia … e infatti ecco cosa ricorda l’autore a proposito di: “alcune foto fatte in Sardegna nel 1984 sull’aviosuperficie che oggi si chiama “La tana del volo”, dove ho fatto il mio primo volo su un Barouder. Trovai il volo interessante, ma di certo non la ritenni un’attività su cui basare sogni futuri per volare in pensione. Del resto il passaggio dall’F104 con cui ancora volavo al Barouder è stato significativo! Quello che spiace è che oggi tutti questi velivoli sono praticamente scomparsi, e con loro una parte importante della storia del volo che invece sarebbe stato opportuno preservare in qualche museo, o tramite qualche manifestazione ad hoc, magari sponsorizzata ufficialmente dall’AeCI. Ci vorrebbe un HAG anche per i trespoli del volo, un HULMAG!” Parola di Bruno Servadei. (foto provenienti dalla pagina Facebook dell’autore)

Ecco cosa c’è nel libro. C’è la descrizione di ogni aspetto della vita che per i tre anni suddetti ha riguardato i frequentatori della base, piloti e non piloti, compreso il comandante e la sua famiglia. Qualcosa che difficilmente troveremmo, dovessimo cercare in tutte le librerie del mondo.

Non credo esista un altro libro come questo.

Non mi sono mai imbattuto in nulla che andasse oltre un semplice articolo, più o meno stringato.

Normalmente le faccende militari sono celate in una cortina di mistero, se ne parla a mezza bocca, quasi con timore e con la sensazione di rivelare segreti indefiniti.

Invece in questo libro, una volta di più, l’autore ci fa entrare nel suo mondo, ci porta con sé dentro la base di Decimomannu, ci fa conoscere le persone, gli aerei, le procedure, le difficoltà e le soluzioni, a volte geniali, di problemi complicati.

Sì, certo, non è un’immagine propriamente aeronautica ma costituisce comunque la testimonianza visiva di un incontro memorabile che l’autore così ha commentato: “La visita in Sardegna del Papa, quello tosto, che atterrò a Decimo a causa della chiusura di Elmas creandomi non pochi problemi.” (dalla pagina Facebook dell’autore)

Senza rivelare alcunché di segreto, Servadei ci permette di conoscere la realtà misteriosa che si cela oltre la garitta del personale di guardia all’ingresso dell’aeroporto militare. Un mondo che altrimenti non conosceremmo mai.

Dagli anni ottanta a oggi tante cose sono cambiate. Ma, anche se diverse, le linee guida di certe operazioni non dovrebbero essere troppo dissimili da allora. Leggere questo libro mette il lettore in grado, non solo di conoscere la storia passata della difesa aerea, ma di comprendere meglio le modalità di quella odierna, perché in molti casi ci mostra come ci siamo arrivati.

E proprio in quegli anni ottanta prendeva piede il fenomeno del volo ultraleggero. Gli ULM (Ultra Light Machine) erano tubi e tela, modelli davvero basici, con qualche esemplare un po’ più perfezionato, tanto da avere, ad esempio, una parvenza di cabina semichiusa. Sembrava che si reggessero in aria per miracolo e stessero sempre sul punto di cadere. In realtà parecchi cadevano davvero.

A parte questo, il dilagare di mezzi aerei, che allora erano classificati come attrezzi sportivi, al pari di una racchetta da tennis, pilotati da gente che poco conosceva di norme aeronautiche, era visto come una minaccia per l’aviazione commerciale e ancor più per quella militare.

Una ripresa aerea della famosa penisola di Capo Frasca con i suoi caratteristici cerchi concentrici utilizzati per identificare il punto di sgancio degli ordigni (all’occorrenza anche nucleari) (foto proveniente dalla pagina Facebook dell’autore)

Nel libro Servadei parla di un’aviosuperficie, o meglio, un campo di volo, che era stata costruita nei dintorni della base e dove operava proprio un club di ULM. C’era il rischio che qualcuno di loro sconfinasse in aree non consentite ed entrasse in conflitto con l’attività militare. Da molte parti si erano levate voci di protesta e Servadei, come comandante della base, era stato sollecitato a far chiudere l’attività di quei “banditi dell’aria“.

Questo episodio narrato nel libro mi ha fatto fare un vero salto dalla sedia.

C’era da aspettarsi che il comandante di una base aerea come quella di Decimo mandasse un contingente di carabinieri a sequestrare i mezzi, arrestare i piloti, recintare l’area e ad applicare sigilli affinché nessuno potesse più entrare là dentro. Mi aspettavo questa reazione, e lessi con il fiato sospeso il seguito del capitolo.

Servadei andò a visitare l’aviosuperficie e a conoscere uomini e mezzi.

Nella sua pagina Facebook così commenta l’autore questo scatto : “Decimo quando era al massimo del suo splendore. La linea di volo tedesca che feci fare in occasione del primo rischieramento dei loro Tornado, nel 1983. Poi c’erano le linee di volo inglese, quella americana e infine la nostra, sempre la più misera.” Da notare le lunghe scie nere posizionate appena dietro i velivoli che testimoniano come quelle piazzole fossero usate abitualmente per la messa in moto e le prove motori dei velivoli. Quelli tedeschi, inoltre erano i velivoli che svolgevano l’attività preponderante nel poligono di Deci in quanto, come spiega ancora nel suo libro Bruno Servadei: “La ricerca di aree idonee a svolgere attività con velivoli a getto costrinse molte forze aeree di paesi densamente popolati a cercare zone libere anche in paesi terzi.
Per questo la Germania, oberata dall’attività di volo a bassa quota dei propri cacciabombardieri, di quelli delle unità NATO ivi dislocate (USA, UK, Francia e Canada) e di quelle dei paesi più piccoli, come Olanda, Belgio e Danimarca, cercò uno sfogo all’estero. Insieme al Canada che, avendo i propri reparti di volo schierati in Germania, condivideva la stessa esigenza, prese contatto con l’Italia per l’utilizzazione di Decimomannu”

Provò anche qualche ULM in volo.

Poi, senza proibire l’attività di questi appassionati, stabilì alcune regole, limiti e altezze massime. E li lasciò volare senza problemi.

Non solo, ma dopo un po’ di tempo, approfittando di qualche giorno di chiusura della base di Decimo, invitò quel club e altri piloti di ultraleggero a venire ad atterrare sulla pista dell’aeroporto per una festa. Così i piloti militari poterono conoscere i civili e viceversa.

Ci fu un vero e proprio scambio culturale. I piloti ULM poterono vedere da vicino gli aerei militari, sapere di più della loro attività e delle loro esigenze operative e imparare soprattutto come comportarsi per non interferire nelle loro operazioni.

Complimenti, Comandante Servadei. Questa parte mi ha addirittura commosso. Come si dice in gergo… tanto di cappello!

Nel 1986 e 1987 facevo anch’io già parte del mondo ultraleggero. Volavo come istruttore su un’aviosuperficie nei dintorni di Roma, in una località dei Castelli romani denominata Pratoni del Vivaro. E questo mi fa apprezzare particolarmente l’orientamento mentale di un Comandante che, invece di proibire e chiudere, stabilisce regole e lascia volare.

Sebbene in modo marginale, la base di Decimo era utilizzate anche dall’AMI e questo è uno dei velivoli con cui l’autore usufruì dei servizi del poligono ben prima di assumerne in comando. Questo scatto vede il G-91T di Servadei in volo di rientro a Decimo da una missione di tiri Aria/Suolo durante il 10°Corso Istruttori di Tiro e Tattiche del 1968. (foto proveniente dalla pagina Facebook dell’autore)

Un paio di capitoli, il sedicesimo e diciassettesimo, parlano dell’attività di volo che l’autore fece, per mantenere le proprie abilitazioni e il proprio addestramento, sia con velivoli italiani che con quelli stranieri.

La linea di volo italiana a Decimo nel 1968 in una delle tante missione addestrative effettuate dall’autore quando ancora prestava servizio a Gioia del Colle in qualità di cacciabombardiere. (foto proveniente dalla pagina Facebook dell’autore). Oggi la logica d’impiego dell’ex poligono è completamente cambiata come si evince dall’articolo pubblicato di cui alla pagina: https://www.lanuovasardegna.it/regione/2022/11/14/news/i-migliori-top-gun-si-addestrano-alla-scuola-di-decimomannu-1.100150806

Anche un comandante deve mantenersi allenato al pilotaggio di tutti i velivoli in dotazione alla propria forza armata, ma non è male se riesce a volare anche con quelli stranieri, che utilizzano la base e il poligono. Gli aerei non sono proprio identici, anche se dello stesso tipo. Chi comanda deve ben sapere le esigenze di tutti. Serve a fare un lavoro migliore, a gestire meglio un’attività così complessa.

Dai capitoli traspare una certa difficoltà nell’ottenere l’autorizzazione a effettuare questi voli, anche se, devo dire, nel caso dell’autore, alla fine riusciva a volare abbastanza.

La retrocopertina del libro di Bruno Servadei che, a differenza di “Vita da cacciabombardiere”, ha un contenuto meno volato ma ugualmente ben narrato secondo lo stile e la sagacia cui ci ha abituato questo autore talentuoso e, a suo modo, prolifico.

Ma la situazione deve essere peggiorata negli anni successivi, perché un mio amico, generale di brigata, in servizio proprio da quelle parti, non riusciva a volare e doveva ogni volta venire a Guidonia a fare qualche oretta per il mantenimento.

Nel libro si parla anche di feste, cerimonie, visite, giuramenti, vacanze estive. E naturalmente non mancano accenni all’interazione con il popolo sardo.

E questo è davvero un argomento interessante. Tutto da leggere.

Alla fine, però, oltre le difficoltà che immancabilmente può incontrare una struttura militare così grande, immersa in una realtà territoriale che la percepisce come qualcosa di scomodo e ingombrante, emerge la bellezza di un’isola straordinaria come la Sardegna. E si finisce per amare la regione e il suo popolo.

Servadei lasciò il comando di Decimo nel 1986 e tornò nel continente. Avrebbe preso servizio come consigliere militare presso il Quirinale. Ma questa parte della sua vita è raccontata in un altro suo libro dal titolo “Un pilota a Palazzo“, di cui potete leggere la mia recensione in questo sito.

Ovviamente ci fu una cerimonia ufficiale. C’è sempre una cerimonia ufficiale nella faccende militari.

Scrive Servadei:

“Il giorno prima di lasciare il comando feci l’ultimo volo con il mio amato F104S. Poi, fra presentat’arm e fanfare, discorsi e saluti, mollai la bandiera di guerra dell’RSSTA nelle mani del mio successore”.

 

 





Recensione di Brutus Flyer (Evandro Detti) e didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR





Dello stesso autore sono disponibili le recensioni di: 


Ali di travertino

Un pilota a palazzo

Un mondo ultraleggero

Vita da Cacciabombardiere

Ali diplomatiche. In Svezia con le cordelline

Ali in valigia

 

 

Vita da Cacciabombardiere

titolo:  Vita da Cacciabombardiere

autore: Bruno Servadei 

editore: Amazon

anno di pubblicazione: 2008 (I edizione), 2018 (II edizione)

ISBN: 1730700632 oppure 978-1730700637





Questo è uno dei migliori libri che mi sia capitato di leggere. Almeno nel campo aeronautico.

Spiegare perché lo considero al top assoluto non è facile, ma sono certo che molti piloti, dopo averlo letto, sarebbero d’accordo con me. E’ possibile che una recensione non arrivi a trasmettere ad altri potenziali lettori cosa li attende nella lettura di questa pregevole opera. Si tratta di 429 pagine scritte con caratteri piccoli e dense di vita vissuta. Che tipo di vita? Quella di un pilota che, dopo gli anni dell’Accademia Aeronautica, si ritrova ad operare nel pieno della cosiddetta Guerra Fredda, dove per decenni ci si deve confrontare con il rischio costante di una guerra, possibilmente anche nucleare, con le forze del Patto di Varsavia.

La splendida immagine di un nuovissimo F-35 al suolo. E’ il tipo di velivoli che verranno progressivamente acquisiti dall’AMI e che dovrebbero andare a ricoprire il ruolo di cacciabombardieri che fu degli F-84 prima, poi degli F-104 e infine dei Tornado. L’autore del volume, dall’alto della sua esperienza di pilota cacciabombardiere (e non solo), ha espresso alcune considerazioni assolutamente autorevoli nella pagina web:http://www.cybernaua.it/rubriche/rubricadett.php?idnews=4083 a proposito di quei nuovi velivoli di 5° generazione che in passato sono stati al centro di numerose critiche per i costi spropositati e a causa degli innumerevoli problemi del programma di sviluppo giacché si tratta effettivamente di una macchina da combattimento multiruolo tecnologicamente molto sofisticata per non dire “rivoluzionaria” (foto proveniente da www.flickr.com)

L’autore, Bruno Servadei, è un tipo formidabile, la cui carriera comincia così, come pilota operativo di un prestigioso Gruppo di volo. Utilizza alcuni dei caccia di quel periodo, dall’inizio degli anni Sessanta in poi, macchine affascinanti che sono state il sogno di migliaia di piloti. Poi, la sua carriera prende altre strade e si inoltra in ambienti non meno interessanti, verso avventure forse ancora più prestigiose.

Comunque continua a volare, anche dopo essere andato in pensione.

Bruno Servadei ha molti meriti. Ma solamente alla fine di questa recensione rivelerò uno dei suoi meriti più importanti.

Il libro comincia con il racconto del viaggio di trasferimento da Rimini, dove l’autore aveva una casa di famiglia, verso il reparto presso il quale avrebbe dovuto prendere servizio. Infatti, il capitolo si intitola: Verso il mio reparto.

Il periodo dell’Accademia era terminato e ora lo attendeva la vera vita di Reparto di volo, la vera vita del pilota di caccia dell’Aeronautica Militare Italiana.

La macchina era una piccola BMW con motore bicilindrico di derivazione motociclistica. Un motore boxer di piccola cilindrata.

Era l’Agosto del 1963.

Già alla seconda riga si fa riferimento ad una strada che l’autore stava percorrendo: la Romea.

Ecco come un libro ghermisce il lettore sin da subito.

Una recensione, infatti, non è altro che il resoconto di quanto e come un lettore ha trovato o meno interesse a leggere il libro. Nel mio caso, già alla prima riga la mia attenzione era stata ghermita e alla seconda la mia mente già vedeva la scena come in un film.

In realtà io vedevo due film.

Lo stemma del 6° Stormo – innegabilmente uno dei più belli tra quelli dei reparti di volo dell’AMI, in termini grafici, s’intende – fu adottato quasi subito dal reparto. Rappresenta  un diavolo rosso ghignante con le mani adunche; fu disegnato da Giuseppe Zanini e non era altro che una geniale caricatura dell’allora capitano pilota Giovanni Borzoni, il quale successivamente divenne capoformazione proprio della pattuglia acrobatica “Diavoli Rossi” nata in seno al reparto. Secondo la storia ufficiale dello Stormo, quel gruppo di piloti fu all’inizio riserva della pattuglia titolare del “Cavallino Rampante”, tuttavia i “Diavoli Rossi” passarono naturalmente a pattuglia acrobatica ufficiale nel 1958. La loro prima esibizione avvenne infatti nel marzo 1958 a Bitburg in Germania, mentre l’ultima ebbe luogo nel maggio del 1959 a New York. All’epoca ogni anno, a rotazione, la pattuglia acrobatica era appannaggio di un diverso reparto da caccia dell’AMI ma nel 1961, proprio il comandante Squarcina, in quel periodo a capo della pattuglia, fu incaricato dallo Stato Maggiore dell’Aeronautica Militare di costituire quella che poi divenne la Pattuglia Acrobatica Nazionale (P.A.N.), ossia una pattuglia acrobatica in pianta stabile benché composta da piloti provenienti da tutti i reparti dell’Aeronautica Militare. Ma questa è un’altra vicenda … tuttavia resta indiscutibile il dato storico che dalla pattuglia acrobatica “Diavoli rossi” nacque l’odierno 313º Gruppo Addestramento Acrobatico proverbialmente chiamato “Frecce Tricolori”. Viceversa l’appellativo “Diavoli Rossi” è rimasto una prerogativa dei membri del 6° Stormo di Ghedi.

Questa scena, molto vivida, di un ragazzo appena ventenne che percorreva la Romea in direzione di Mestre, a bordo di una piccola utilitaria, nel mondo del 1963, tanto diverso da quello di oggi, mi riportava indietro nel tempo, a quando, pochi anni dopo, anch’io viaggiavo verso un reparto dell’Aeronautica Militare dove avrei dovuto prendere servizio.

Le emozioni del passato, rievocate dalle prime due righe del primo capitolo del liro di Bruno Servadei, continuavano a emergere riga dopo riga.

Anche se la mia realtà e la sua erano certamente molto diverse (lui andava a cominciare la sua vita di pilota, io no) a quell’età l’avventura aveva comunque lo stesso sapore.

Anche questo è il distintivo dei “Diavoli rossi” ma da giacca  (quella di Bruno Servadei) e con la particolarità che riporta la dicitura 6° Aerobrigata anziché 6° Stormo, segno evidente che risale a prima del settembre 1967, data in cui l’Aeronautica Militare Italiana riorganizzò e rinominò i suoi reparti (foto proveniente dalla pagina Facebook dell’autore:  https://www.facebook.com/photo/?fbid=10200225847597701&set=a.1045415544460)

E forse non c’entra neanche l’età, perché parecchi anni dopo, mi capitò di percorrere proprio la Romea per raggiungere una Torre di controllo di un aeroporto del Nord-Est, dove avrei preso servizio come controllore del traffico aereo. E il sapore dell’avventura era probabilmente lo stesso.

Servadei stava andando a Ghedi, in Lombardia, vicino a Brescia, dove aveva sede la Sesta Aerobrigata, famosa per un prestigioso Reparto di volo, quello dei “Diavoli Rossi“.

Il secondo capitolo descrive l’arrivo. E anche qui la sua descrizione del mondo di allora riporta alla mia mente sensazioni di vita vissuta e dimenticata.

La descrizione dei luoghi, degli ambienti, dell’umanità e dei modi di fare del tempo, sia in ambito militare che non, è talmente efficace da essere, in alcuni punti, travolgente.

Chi ha conosciuto l’Aeronautica degli anni Sessanta si sente riportare indietro nel tempo.

Oggi è tutto diverso.

Nei capitoli successivi si parla dell’assegnazione ad un reparto di volo. Non erano tutti uguali. Servadei spiega bene le differenze. A lui capita un reparto di cacciabombardieri.

Questo deciderà la sua vita operativa futura. E anche il titolo del libro.

Nel corso della lettura, dopo la descrizione del primo periodo dove le giornate erano quasi esclusivamente destinate all’immersione nella realtà del Reparto, senza prospettiva di volare se non davvero saltuariamente e comunque con un jet biposto, un T33, come quello usato alla scuola, subito dopo la fase basica, pian piano si comincia ad intravedere la linea di volo vera e propria.

Sembra trascorso un’eternità da quando, nella primavera del ’56, i primi F-84F “Thunderstreak” giunsero a Ghedi (Brescia), in quella che all’epoca veniva chiamata alla 6° Aerobrigata e che tornò a essere il vecchio 6º Stormo.
Nel 1973, dopo diciassette anni di onorato servizio, l’F-84F concluse la sua vita operativa e dunque nell’agosto del ’63 Bruno Servadei, allora giovanissimo pilota appena uscito dall’Accademia Aeronautica, se li trovò davanti appena giunto al reparto. Ma era “un verme” e, come racconta nel suo libro, per alcuni mesi li osservò solo da lontano. 
Oggi gli F84F si trovano solo al Museo Storico dell’Aeronautica Militare di Vigna di Valle, in altri musei minori o negli aeroporti che li ospitarono ma solo in qualità di gate guadian o di cimelio storico.  Ad ogni modo, proprio nel giugno del ’63 giunse a Ghedi il primo F-104G dando inizio alla lunga saga dello Starfighter o “Spillone” (come lo soprannominarono i piloti dell’AMI) che si concluse il 31 dicembre 1982 dopo circa 67 mila ore di volo e dopo aver superato con successo ben 16 valutazioni tattiche a livello NATO. Non è dunque un caso che la foto di copertina del libro di Bruno Servadei mostri appaiati i due velivoli che hanno segnato la storia del 6° Stormo e, inevitabilmente, anche quella sua personale (foto proveniente da www.flickr.com).

Gli aerei erano gli F84F, un modello già superato, ma ancora valido, sebbene avesse già fatto la sua comparsa il famoso F104, che però solo pochi fortunati avrebbero utilizzato, almeno nel futuro prossimo.

E da qui in poi, per un pilota di qualsiasi tipo, l’interesse sale a livelli stratosferici. Ma è altrettanto interessante anche per i non piloti.

Servadei ci racconta tutte le fasi della transizione su questa macchina; ed è interessante seguirlo nei suoi primi voli. Conoscere le sue impressioni, le sue soddisfazioni e i suoi timori.

Il tutto, immerso nella vita quotidiana di reparto. Possiamo così “conoscere” i suoi colleghi, i comandanti, i sottufficiali specialisti e anche piloti. Si, perché a quell’epoca esistevano ancora i sottufficiali piloti. Bruno Servadei ne parla molto bene, del resto si è sempre saputo che i sottufficiali piloti erano generalmente eccellenti.

La vita di reparto viene descritta in tutti i suoi aspetti, quelli belli e… quelli meno belli. O meglio, quelli piuttosto brutti.

Con il suo modo delicato l’autore non manca di mettere a nudo gli aspetti più duri della vita nei reparti di volo di quel periodo storico.

Va detto, infatti, che gli anni Sessanta, Settanta e Ottanta, fino alla caduta del cosiddetto muro di Berlino, l’Unione Sovietica e i suoi paesi satelliti, costituivano una sorta di minaccia sempre presente. Parliamo, come ho detto, del periodo della Guerra Fredda, quando era lecito aspettarci un attacco, anche con armi nucleari, all’improvviso e senza preavviso. A questa minaccia si doveva far fronte subito e senza mezze misure.

Una splendida immagine che ritrae un F-104 Starfighter che sembra puntare verso il cielo. Si tratta di un velivolo che, come indica chiaramente il simbolo del reparto verniciato della deriva e il numero “6” sulla fiancata della fusoliera, era in forza al 6° Stormo. Chissà se questo esemplare fu effettivamente pilotato da Bruno Servadei? (foto proveniente da www.flickr.com)

Le forze della NATO disponevano di Reparti di caccia intercettori e cacciabombardieri, di diverse nazionalità, lungo tutta la linea di confine con i paesi sotto il controllo dell’Unione Sovietica.

Il reparto di Servadei era solo uno di questi. Gli aerei che utilizzava il suo reparto potevano essere equipaggiati con armi convenzionali, ma anche con armi nucleari. In altre parole potevano portare appesa sotto la fusoliera una bomba atomica. All’occorrenza, che ci si augurava non si verificasse mai, i piloti di questi F84 avrebbero dovuto partire, penetrare a bassissima quota nel territorio nemico, per sfuggire ai radar, raggiungere l’obiettivo stabilito, sganciare la bomba e mettere in atto la procedura di scampo per poi tornare, sempre che ci si riuscisse, alla base.

Ecco qual era il compito operativo del nostro giovane pilota e di tutti i suoi colleghi.

Oggi sarebbe difficile raccontare ai nostri giovani la realtà di quegli anni. E dubito molto che la stragrande maggioranza di loro prenderebbe l’iniziativa di leggere un libro come questo.

Una formazione serrata di Tornado, i velivoli che dal gennaio 1983 costituiscono il nerbo del 6° Stormo e che, a partire dal giugno 2022, sono stati progressivamente sostituiti dal caccia multiruolo di 5° generazione Lockeed-Martin F-35 Lightining II. Ancora oggi, come già accadeva ai tempi in cui l’autore era uno dei piloti impegnati nel servizio di allarme, il compito dello Stormo e dei suoi Tornado è quello di mantenere la prontezza al combattimento (Combat Readiness) degli equipaggi di volo, predisporre i rischieramenti in ambito IRF (Immediate Reaction Force) e, in caso di conflitto, condurre operazioni di attacco e ricognizione per difendere l’area di interesse assegnata. In realtà, in tempo di pace, lo Stormo è istituzionalmente tenuto a cooperare con le autorità civili in caso di calamità naturali (foto proveniente da www.flickr.com).

Chissà se qualche giovane, leggendo la mia recensione, si incuriosirà al punto da prendere l’iniziativa di cercare questo libro e di procurarselo per leggere di una realtà tanto estranea a quella odierna.

Ma una cosa è certa: ogni capitolo rappresenta una sorta di cortina che cela una realtà appassionante, sorprendente, illuminante.

Riga dopo riga la cortina si scosta e la realtà celata si rivela. Poco a poco, le parole di Servadei, magistralmente scelte e combinate tra loro, ci fanno entrare nei suoi ambienti quotidiani, dove viveva ogni giorno senza quasi mai uscire dalla base aerea, per settimane intere.

Non era una vita facile la sua. Neppure quella del circolo ufficiali, dove si giocava assiduamente a carte per ore e ore, quando non c’era attività di volo. A volte la nebbia fittissima della pianura dove aveva sede l’aeroporto di Ghedi non permetteva l’attività di volo e ci si trovava a dover superare la noia di giorni di inattività.

Tuttavia la nebbia, appena si diradava un poco, non riusciva a impedire l’attività di volo, che avveniva ugualmente, sebbene in condizioni di estrema difficoltà.

Servadei ci parla dei diversi profili di missione ai quali prese parte a Ghedi, mentre si formava la sua preparazione per divenire Combat Ready, cioè pronto al combattimento.

Possiamo così leggere di come avvenivano le sessioni di addestramento al poligono di tiro, con diversi tipi di armamento. Le armi erano spesso inerti, ma a volte erano vere.

E poi c’era l’addestramento al lancio della bomba nucleare. E questa era una procedura tutta particolare.

La descrizione dell’attività di volo operativo è lunga e complessa e prende una discreta parte del libro, perciò non posso neppure provare a riassumerla tutta.

Ma non mancano momenti divertenti, qua e là.

La retrocopertina del bel libro di Bruno Servadei nella sua edizione più recente pubblicata in regime di autopubblicazione attraverso il canale Amazon a partire dal 2018. Come nella migliore tradizione editoriale contiene una breve sinossi e note biografiche dell’autore (intento piuttosto arduo perché Bruno Servadei ne ha fatte davvero tante nel corso della sua carriera)

Un giorno la squadriglia di Servadei doveva fare da bersaglio ai serventi dei cannoncini della contraerea aeroportuale. Non che gli dovessero sparare davvero addosso per abbatterli. Si usava una procedura di sicurezza, come ci descrive Servadei. I cannoni avrebbero dovuto sparare dalla parte esattamente opposta a dove si trovavano gli aerei e verso il mare, per ovvi motivi.

Ma per un errore, forse di coordinamento, il radar che guidava la squadriglia li diresse verso il mare, proprio dove passavano i proiettili traccianti dei cannoni.

I piloti videro i traccianti salire verso di loro e il caposquadriglia:

“fece uno strillo per radio che probabilmente giù lo sentirono anche senza: ci fu un po’ di silenzio, poi qualcuno, con voce mesta, chiese umilmente scusa”.

Ma una situazione come questa non era un evento raro.

Poco prima Servadei aveva detto:

“… provavo un vero fastidio nel vedere che, a volte, le canne dei cannoncini ci seguivano mentre rullavamo: sarà anche stato un buon addestramento, ma era come se qualcuno ti puntasse una pistola. Va a sapere chi ci stava dietro a quell’arma e se avesse adottato tutte le precauzioni previste”.

Ancora una volta torno indietro nel tempo, agli anni settanta, quando ero in servizio. Nell’uscire dal reparto di servizio, dopo un turno di notte, stavo attraversando un piazzale e fui attirato da alcuni “click” ripetuti che provenivano da una scala d’ingresso all’ala del palazzo. C’era un aviere VAM (Vigilanza Aeronautica Militare) che mi puntava addosso il MAB (Moschetto Automatico Beretta), un mitra.

La copertina di “Vita da cacciabombardiere”, libro autobiografico di esordio del gen. pilota Bruno Servadei pubblicato nel 2008 nella sua prima edizione a cura dell’editore SBC edizioni nel formato di 438 pagine cui si riferisce il recensore. Le differenze con la seconda edizione sono effettivamente minime ed è possibile imbattersi in qualche vecchia copia attraverso i canali dell’editoria usata … ma non temete: dentro c’è comunque roba buona!

Sapevo bene che il mitra aveva un caricatore vuoto montato e che i caricatori pieni, avvolti nel cartoncino e nastrati, il VAM li teneva nella giberne. Ma… come dice Servadei, vai a sapere chi ci stava dietro a quell’arma

Il VAM sghignazzava, sopra gli scalini, e faceva scattare la sua arma, quasi a cercare la mia approvazione per il suo modo di scherzare.

All’uscita andai dall’ufficiale di picchetto, gli riferii il fatto e subito dopo andarono a sostituire quella guardia. Credo che non se la sia passata tanto liscia.

Un’altra occasione del genere avvenne a Guidonia. Trainavo gli alianti con un aereo ad elica, un Robin DR 400. Dopo ogni traino, lasciato l’aliante in quota, scendevo a duecentocinquanta chilometri orari, passavo di fianco alla testata della pista, pochi metri fuori asse e sganciavo il cavo di traino. Poi risalivo, entravo nel circuito e atterravo. Di solito c’era già un altro aliante da portare su, con il cavo appena sganciato attaccato al musetto. E la faccenda si ripeteva.

In uno di questi avvicinamenti, a qualche decina di metri di quota e ridotta la velocità a centottanta-duecento Km/h, scendevo verso la testata pista e il prato dove avrei sganciato il cavo, quando vidi, con la coda dell’occhio, un movimento sulla sommità di una specie di garitta, sopraelevata di alcuni metri da terra.

C’era una guardia, appoggiata alla ringhiera di protezione della garitta. Un VAM in servizio. Mi era sembrato che mi avesse preso di mira con il mitra, ma in quel punto ero basso, veloce e dovevo stare attento a troppe cose e non potei verificare.

L’autore ritratto accanto al velivolo con cui inizierà la sua vita/carriera di cacciabombardiere. Così racconta il primo contatto con questo tipo di velivolo: “Giunto sul rettilineo che portava al corpo di guardia all’ingresso dell’aeroporto vidi, in lontananza al di là della recinzione, quasi protetti da una foschia densa che ne rendeva vaghi i contorni, un lungo schieramento di F84F che mi procurò un brivido di emozione” (foto proveniente dal volume “Vita da cacciabombardiere”). 

Al traino successivo, però, guardai bene.

Sì. Effettivamente il furbacchione mi puntava il mitra, seguendomi nella traiettoria.

Capisco la sua noia, penso che l’arma fosse scarica e che comunque non mi volesse veramente sparare, però… non sai mai chi c’è dietro quell’arma

Andai al parcheggio. Dal telefono della nostra roulotte che fungeva da ufficio per il volo a vela civile, chiamai l’ufficiale di picchetto.

Dopo poco arrivò una campagnola militare. La guardia venne tirata giù e sostituita. Poi la campagnola tornò al corpo di guardia.

Anche in questo caso non credo che non ci sia stata alcuna punizione.

Non credo neanche che quella guardia possa aver visto chi c’era sul Robin. Ad ogni buon conto, dopo l’episodio, mi guardavo sempre intorno con circospezione, quando ero in aeroporto.

Servadei descrive l’attività al poligono in modo davvero chiaro e preciso. Così che il lettore possa avere un’idea chiara di quale sia il lavoro di un pilota cacciabombardiere.

Ma la massima espressione di questo lavoro riguarda un altro poligono, il più grande d’Europa, che si trova in Sardegna a Decimomannu. Qui si andavano ad addestrare tutti i reparti come il suo, appartenenti agli altri stati della NATO.

Andare in Sardegna, dal continente, implica la necessità di attraversare il mare. C’erano piloti che avevano un certo timore a volare sul mare. Dall’Elba alla Corsica il tratto di mare è il più breve, non ci vuole molto a superare la distanza con un jet. Quasi non ce se ne accorge.

La descrizione di quel trasferimento è un capolavoro. Conosco bene il percorso, le coste, il paesaggio. La breve distanza tra la Corsica e la Sardegna, e lo stupendo paesaggio di quella zona. Poi giù verso Decimomannu.

Ancora un’istantanea della vita da cacciabombardiere dell’autore. Qui è ritratto assieme ai suoi compagni di lavoro e davanti al loro attrezzo di lavoro. (foto proveniente dalla pagina Facebook di Bruno Servadei).  Benché la carriera di un pilota dell’Aeronautica Militare sia pressoché pianificata già a partire dal momento in cui viene accettata la domanda di ammissione all’Accademia Aeronautica, quella vissuta dall’autore non può certo dirsi monotona o prevedibile. A Bruno Servadei va il merito di avercela raccontata in tutte le sue pieghe ma soprattutto di averlo fatto con la sua proverbiale sagacia e spirito critico, in questo come negli altri libri pubblicati successivamente. Inoltre gli va riconosciuta una notevole capacità narrativa che lascia poco spazio a sentimentalismi o inutili fronzoli: il suo racconto è sempre piacevole e in taluni casi addirittura avvincente, specie per coloro che non hanno confidenza con il mondo aeronautico, militare e non. C’è inoltre un altro aspetto da non sottovalutare: il coraggio di raccontarsi e di renderne partecipi dei perfetti sconosciuti quali i suoi lettori. Qualcuno di loro lo ha tacciato di essere “autoreferenziale e autocelebrativo” ma inevitabilmente, quando si preferisce la formula autobiografica, l’autore è l’elemento fondamentale della narrazione. In realtà, in questo come pure negli altri volumi successivi a questo, Bruno Servadei non smette di regalarci battute spiritose o riflessioni profonde del tutto condivisibili e che, talvolta, sono piuttosto critiche nei confronti dell’Arma Azzurra ma anche della politica, dell’industria aeronautica nazionale e di certi malcostumi tipicamente italici. Per inciso … l’autore è quello in alto a sinistra. 

Servadei ha dedicato un altro libro, dal titolo “Deci 83-86 ricordi di tiro 0“, al suo periodo di servizio, anni più tardi, in questo poligono. Deci è l’abbreviazione di Decimomannu, in Sardegna, di cui ho appena fatto menzione.

I tiri, comunque, erano un esercizio costante nell’attività di un pilota cacciabombardiere. Molte pagine, anzi, interi capitoli parlano di addestramento al tiro con armi di vario tipo, con armi inerti o reali. Ed è veramente accattivante seguire il suo racconto. Pare di essere lì e finalmente possiamo sapere cosa facevano questi piloti durante il servizio in quel famoso poligono.

La vita operativa di Bruno Servadei si snoda nel corso degli anni e passa attraverso molte esperienze.

Ad un certo momento viene trasferito al Sud. Un cambiamento di non poco conto, considerato che in quegli anni le differenze tra le realtà del Nord e del Sud erano notevoli. Questi sono capitoli tutti da leggere.

Nella sua nuova collocazione, a Gioia del Colle, in Puglia, si deve adattare a condizioni e mentalità molto diverse. Le strade, ad esempio, non erano certamente come quelle di oggi e le automobili nemmeno. Per tornare a casa doveva affrontare una specie di odissea.

Ma, a onor del vero, l’Aeronautica di allora, nei weekend, concedeva ai suoi piloti di poter usare il jet per tornare a Ghedi. Come dire, invece di prendere la macchina, prendi pure l’aereo. Basta che domenica sera lo riporti alla base. Che meraviglia!

In questa fase c’è un altro evento importantissimo che lo riguarda: il matrimonio. Vicende che si collegano e si amalgamano con la vita di reparto, in un aeroporto del Sud.

Servadei è stato anche uno sportivo. In quegli anni si addestrava nello sport del bob. E questa è una storia nella storia. Tutta da leggere, sia per i risultati conseguiti, sia per gli aspetti sorprendenti di uno sport così poco conosciuto, ma che ha, a mio avviso, molto in comune con il pilotaggio di un aereo. Furono soltanto impellenti ragioni di servizio che gli impedirono di partecipare alle Olimpiadi del 1972, a Sapporo, in Giappone.

La bontà storico/letteraria di “Vita da cacciabombardiere” è stata riconosciuta ufficialmente dalla stessa Associazione Arma Aeronautica che, per mezzo della giuria presieduta dal generale Mario Arpino (assurto alle cronache nazionali per aver guidato la missione italiana durante la Guerra del Golfo ed essere stato dapprima capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica Militare e poi nato capo di Stato Maggiore della Difesa), ha dichiarato il libro di Bruno Servadei quale vincitore della VII edizione del Premio Letterario Aerospaziale “Giulio Douhet” per la sezione narrativa. Alla pagina: http://www.cybernaua.it/rubriche/rubricadett.php?idnews=2392 troverete la cronaca giornalistica della premiazione. Non male per un libro di esordio! (foto proveniente dalla pagina Facebook di Bruno Servadei). Così ha invece ha commentato la fotografia della consegna del premio il diretto interessato nella sua pagina Facebook: “Eravamo a Trento, e stavo ricevendo un premio letterario per il mio primo libro ” Vita da cacciabombardiere”, un evento a cui avrei voluto volentieri far assistere mia madre, insegnante di italiano, di cui sono stato a lungo la disperazione!” 

Nel frattempo ci sono da affrontare anche alcune missioni estere. E queste costituiscono un altro elemento di attrazione per un lettore appassionato di volo. Lo svolgimento di queste missioni, nell’ottica di uno scambio di esperienze tra gruppi di volo di nazionalità diverse, rivela aspetti sorprendenti sotto molti punti di vista.

E purtroppo nel libro ci sono parecchie descrizioni di incidenti.

I vecchi F84 e F86 stavano per essere sostituiti, anche se molto gradualmente, dai G91 e dagli F104.

Quest’ultimo, come molti sanno, era un ottimo aereo, ma per una serie di ragioni legate all’impiego che ne venne fatto e ad altri motivi, fu protagonista di frequenti incidenti, che costarono la vita di tanti piloti. Non per nulla venne chiamato “fabbricante di vedove“.

E qui la storia sarebbe lunga. Ma chiunque la volesse conoscere non ha da far altro che leggere questo libro.

Con la sua consueta delicatezza, Servadei affronta l’argomento nell’ultima parte del libro. E anche con competenza, visto che ha utilizzato l’F104 per molto tempo.

Ho trovato molto interessante leggere il resoconto dei suoi primi voli, le sue prime sensazioni, l’impressione che ne aveva avuto.

Il 16 giugno del 1966, una formazione di 16 F84F prese il volo da Ghedi con destinazione Gioia del Colle, nessun rientro previsto. Io facevo parte di quella formazione”. E’ così che l’autore ricorda il suo trasferimento nel profondo Sud pugliese partendo dal pari profondo Nord bresciano. Una pagina della sua vita di cacciabombardiere si era appena conclusa (presso il 6° Stormo) e una nuova si era aperta ma stavolta con la bandiera del redivivo 36° Stormo.  La foto, scattata da un T-33, non si riferisce esattamente a quell’evento ma ci piace pensare che Bruno Servadei (probabilmente capoformazione) sia stato immortalato in questo scatto mentre sta per raggiungere la nuova destinazione di Gioia del Colle. (foto proveniente dalla pagina Facebook dell’autore). Riportando aneddoti e spigolature varie sull’uso della radio o sulla scelta del simbolo del reparto, l’autore testimonia come il trasferimento a Gioia non fu indolore e, sintetizzando al massimo, dichiara che fu vittima della crisi dei missili di Cuba! Un capitolo tutto da leggere quello dedicato all’esperienza al 36°.

Si sentiva tanto parlare, all’epoca, della famigerata spinta iniziale del decollo, dato che il post bruciatore, del quale l’F104 era dotato, si conosceva ancora poco. Avevo sentito storie di piloti che, affondata la manetta per decollare, si erano girati di lato a guardare qualcosa e non erano più riusciti a girare di nuova la testa in avanti …

Storie metropolitane. Servadei sfata il mito della poderosa spinta. Il 104 aveva certamente potenza, ma niente di così estremo.

Anche riguardo alla transizione dal volo a velocità subsonica a quella supersonica, Servadei cancella tutte le storie di vibrazioni, scuotimenti e sbandate. L’indice del machmetro passa semplicemente da Mach 0,9 a 1. E poi continua a salire verso valori maggiori. Tutto qui. Anche se dopo ci sono altri fattori da tenere in considerazione, ben descritti e di grande interesse per chi non ha mai pilotato un F104, ma avrebbe tanto voluto farlo.

Arriviamo in fondo al libro. Alla postfazione.

Se questo libro mi era così piaciuto, quando lo lessi nel 2008 o all’inizio del 2009, tanto che ho voluto rileggerlo prima di scrivere questa recensione, devo dire che stavolta mi è piaciuto ancora di più.

Ho dovuto prendere il telefono ed esortare alcuni miei amici ex Aeronautica Militare a tirare fuori il libro e rileggerlo a loro volta, cosa che hanno fatto. Uno di loro era controllore al GCA (Ground Controlled Approach) dell’aeroporto di Grosseto e si è ricordato di alcuni episodi, compreso un incidente di volo proprio sul cielo campo dell’aeroporto, dove si sono scontrati due F104 e alcuni dei pezzi erano caduti a pochi metri da lui, vicino alla capannina del GCA. Uno dei piloti si era dovuto lanciare, l’aereo era finito in un campo appena fuori dall’aeroporto.

La caduta del muro di Berlino (avvenuta nel novembre del 1989) sancì virtualmente la fine della “Guerra fredda” che aveva gelato gli animi degli europei nel corso degli anni ’60, ’70 e quasi tutti gli ’80. Il “Muro” era stato il simbolo concreto della cosiddetta “cortina di ferro”, ossia quella linea immaginaria che divideva il continente europeo in due blocchi separati e per alcuni versi contrapposti: la zona occidentale, composta principalmente dalle nazioni che aderivano alla NATO (ossia sotto l’influenza statunitense), e quella orientale denominata del “Patto di Varsavia” di chiaro indirizzo comunista e sotto il controllo (neanche troppo mascherato) dell’URSS. Il rischio di una guerra nucleare in Europa si mantenne verosimile durante tutto il periodo della guerra fredda tuttavia, salvo occasionali schermaglie a carattere diplomatico, si consumò senza particolari tensioni. In altri termini  non si verificarono scontri militari sul campo di battaglia ma solo azioni di spionaggio, epurazioni di agenti segreti e diplomatici o similari; la pace scoppiò solo all’indomani della caduta del muro. Con l’avvento poi dell’Europa politica/monetaria e soprattutto con la libera circolazione di uomini e merci nei paesi della comunità europea (avvenuta intorno verso la fine degli anni ’90), il divario divenne sempre più labile e oggi, se chiedessimo a un figlio degli anni 2000 cosa sia stata la “Cortina di ferro” … probabilmente ci risponderebbe che fu una particolare soluzione architettonica dell’edilizia degli anni ’70 … Purtroppo la recente invasione dell’Ucraina da parte della Russia ci ha condotto indietro di trenta anni e ha fatto riapparire nei mass media la notizia della minaccia di una paventata guerra nucleare. Quello ritratto è un F84F molto speciale in quanto, non a caso, fece coppia con la bomba nucleare Mark 7 che gli si trova accanto. Manca solo Bruno Servadei che, assieme a loro, trascorse due anni di servizio di allarme a Ghedi negli anni ’60. Il velivolo e l’ordigno si trovano all’USAF Museum di Wright Patterson (foto proveniente dalla pagina Facebook di Bruno Servadei: https://www.facebook.com/photo/?fbid=1491595418678&set=a.1045415544460) mentre l’autore è posizionato abitualmente a casa sua, tranne quando vola con il suo ultraleggero! Così l’autore commenta la sua esperienza: “Ciascuno di noi, giovani ufficiali e sottufficiali piloti, aveva passato sei mesi di quei due anni chiuso dentro un doppio recinto in compagnia di quattro bombe nucleari, pronto a partire in 20’ per un viaggio senza ritorno.”

L’epoca dell’F104 è rimasta indimenticabile.

Ma torniamo alla postfazione. Avevo dimenticato questa parte.

Servadei scrive:

“L’idea di scrivere queste memorie mi è venuta parecchi anni fa, quando mi fu chiaro che mio padre non avrebbe mai scritto le sue, che sarebbero state di gran lunga più interessanti. Allora mi sembrò un delitto lasciare che tanti eventi vissuti in prima persona da mio padre in un periodo così complesso e discusso, come quello degli ultimi anni del fascismo e dei primi anni del dopoguerra, andassero dimenticati solo perché riteneva inutile scriverli, convinto com’era che nessuno avrebbe avuto il coraggio di pubblicarli.

Così la mia reiterata richiesta di mettere su carta le sue memorie andò del tutto disattesa, nonostante la mia promessa che le avrei conservate in vista di tempi migliori per renderle pubbliche. Dopo la sua scomparsa mi ripromisi che non avrei fatto altrettanto. Per quanto poco significativi rispetto a quelli che avevano riguardato la sua vita, gli eventi che avevano riguardato la mia li avrei registrati, a futura memoria. Forse non li avrebbe letti nessuno, ma se a qualcuno, nel tempo, fosse venuta la curiosità di sapere ciò che si faceva e come si viveva in alcuni particolari reparti da caccia dell’Aeronautica Italiana durante la Guerra fredda, avrebbe potuto trovare nei miei scritti qualche spunto interessante”.

Condivido ogni sillaba delle parole di Servadei. Come ho scritto in altre recensioni, ho sempre esortato tutti coloro che avessero qualcosa di interessante da tramandare ai posteri, di scrivere. Senza riguardo verso questioni di opportunità, specialmente quando gli argomenti si vanno ad intrecciare con le vicende del ventennio fascista. La Storia è Storia. E il fascismo ne ha fatto parte. Tanti eroi si sono mossi in quella realtà, compiendo atti di coraggio senza pari. Scrivere le loro vicende e farle conoscere non significa essere d’accordo con le follie perpetrate da qualcuno. Non significa essere fascisti oggi.

Che l’autore avesse volato con tutto quanto disponibile nell’arsenale velivoli italiano e dei paesi della NATO (leggasi. F-15, F-16, Mirage, Harrier, F5, Hawk, Jaguar, ecc ecc) era noto e facilmente prevedibile … ma che si fosse librato in volo anche con un aliante (nello specifico un Grob Twin Astir del Centro di Volo a Vela militare di Guidonia- Roma) … beh, questo ci ha sorpreso un poco. Probabilmente neanche lui se ne ricordava se non avesse ritrovato – come ha confessato in un post della sua pagina Facebook – la check list del Twin Astir nella pila di carte e cartacce che conserva gelosamente nella cattedrale di documenti del suo studio. Ma voi lo immaginate un cacciabombardiere come Bruno Servadei che vola su un aeromobile privo di motore – a reazione, per giunta -, senza piloni subalari, senza ordigni nucleari al seguito, senza neanche uno straccio di cannoncino utile al combattimento ravvicinato? Beh, sembra impossibile … eppure lo ha confessato! Chissà che non abbia meditato di armare il povero aliante?! Una specie di drone ante litteram? Un’arma subdola che potrebbe giungere silenziosamente sull’obiettivo, invisibile ai radar? … non lo sapremo mai … ma che il buon generale Servadei si sia librato con ali silenziose ora ne abbiamo la prova inconfutabile (foto proveniente dalla pagina Facebook dell’autore)

Anni fa ho scritto un libro, una sorta di biografia di un pilota che aveva compiuto imprese mirabili ed era infine diventato un pioniere del trasporto aereo civile. Ma tutto questo si era svolto nel ventennio. Alla pubblicazione del libro ho riscontrato molte perplessità, come se avessi fatto qualcosa di male. E ho perfino perso qualche amico. Eppure nel libro la parola fascismo non compare. Inoltre, il personaggio non era troppo allineato con la mentalità del periodo. Infatti dovette scontare due mesi di arresti nella fortezza di Nisida, per insubordinazione.

Sto parlando di Cesare Carra. La recensione del mio libro, a cura della Redazione di Voci di hangar, è presente nel sito in questa pagina.

Peccato che il padre di Bruno Servadei non abbia scritto. Peccato davvero.

Scrive Servadei:

“Era anche un grande appassionato di fotografia: girava sempre con la sua Laica… Sviluppava e stampava le foto in casa, in una camera oscura arrangiata della quale ricordo ancora la luce rossa e l’ingranditore”.

Quando gli inverni mordevano! (foto proveniente dalla pagina Facebook dell’autore)

Questo signore ha tutta la mia simpatia. Anch’io ho passato la vita, dai diciassette anni in poi, con una macchina fotografica sempre appresso. Varie macchine, ma quella più longeva è stata una Olympus OM1n, meccanica e manuale che ancora conservo. Con la mia piccola reflex ho documentato due terzi della mia vita. E naturalmente, avevo una camera oscura arrangiata, con l’ingranditore. Passavo le notti intere a stampare le mie foto. E la mattina dopo, con le stampe asciutte e stirate, andavo a proporle a diverse redazioni. Era un hobby, vivevo di altro, ma ci ho guadagnato un po’ di soldi per pagare i miei voli…

D’accordo, c’era la guerra fredda e gli statunitensi riversavano sull’AMI un fiume di materiale di volo (per loro già un po’ obsoleto), ma uno schieramento così nutrito di velivoli oggi sarebbe impensabile! E inoltre mancherebbero i piloti perché, con quello che costa formare e mantenere allenato un pilota militare, molti di questi velivoli rimarrebbero inutilizzati. La foto ritrae gli F84F allora in forza al 6° stormo di Ghedi dove l’autore fece il “diavolo” all’inizio della sua carriera operativa. Da notare il cielo pieno di cumuli che, solo a guardarli, farebbe venire la voglia di volare a qualunque pilota. Episodio non frequente a Ghedi che, a detta dell’autore godeva – e gode tuttora – di un clima inclemente con nebbie quasi perenni e maltempo non raro che spesso condizionava l’attività di volo del reparto o le procedure di decollo/atterraggio. Lo testimonia un passo di “Vita da cacciabombardiere in cui l’autore racconta la sua esperienza di trasfertista presso l’aeroporto di Villafranca: “Un atterraggio da manuale, non quello ufficiale, quello della 6°! Pensai subito che era venuto tutto troppo bene perché qualcuno  se ne fosse accorto. Invece la sera, al circolo, mi resi conto che anche a Villa non mancava chi passava il tempo a guardare cosa fanno gli altri, per poter poi criticare. La mia performance non era affatto passata inosservata. Purtroppo l’aveva notata anche l’ufficiale addetto alla sicurezza volo,  il quale, con aria pretesca, mi venne a fare la predica sul fatto che non mi ero attenuto alle procedure: avrei dovuto estrarre  carrello e flaps in volo livellato, al termine dei primi 180°, poi proseguire diritto per un po’ e finalmente iniziare la virata finale. Vero! Forse a Villa si potevano permettere di fare il giro d’Italia per una apertura: noi a Ghedi no. Con la visibilità di merda che c’era sempre se il leader avesse fatto un’apertura normale i gregari si sarebbero persi la pista. Ammetto che tutto mi aspettavo tranne che un appunto del genere: ero tentato di iniziare a disquisire sulle procedure di volo in uso a Ghedi, ma mi convinsi che il mio interlocutore ne sarebbe uscito scioccato e preferii lasciar perdere: non ne valeva la pena e non avrebbe capito.”. (foto proveniente dalla pagina Facebook dell’autore)

Dopo c’è stato l’avvento del digitale e il mondo è cambiato. Così oggi ho una macchina digitale sempre con me, anzi, più di una.

Bruno Servadei, sull’esempio del padre, ha fatto la stessa cosa. Ha usato tante fotocamere e videocamere, con le quali ha documentato ogni sua attività.

Lo dice nella postfazione.

“Documentare con un obiettivo mi è sempre riuscito naturale, e mi ha abituato a guardare gli eventi con occhio critico e a ricordarli”.

Nonostante non fosse consentito, portava questi apparecchi anche in volo, sin dall’inizio, quando volava sul T6.

E aveva raccolto diversi dei suoi preziosi filmati in un paio di DVD.

Giunto alle ultime righe del libro, Servadei scrive:

“Coloro che fossero interessati a ricevere maggiori informazioni sul contenuto del libro o sul DVD possono contattarmi alla seguente email …”.

All’epoca della prima lettura di questo libro Bruno Servadei mi aveva spedito due DVD, ma non ricordavo come avevo fatto a contattarlo.

Forse l’indirizzo email oggi non è più lo stesso. Ma, giunto a queste ultime righe, di colpo mi sono ricordato come avevo fatto a richiedergli i filmati. Gli avevo mandato una mail a questo indirizzo. E lui mi aveva spedito i DVD, due, non uno.

Li ho ancora. E li conservo con cura.

Allora, qual’é uno dei meriti più importanti di Bruno Servadei?

Lo dice lui stesso, sempre nella postfazione:

“Le difficoltà dello scrivere le ho affrontate perché lo scopo di queste pagine non è tanto di far apprezzare uno stile di scrittura, quanto di raccontare dei fatti. Fatti che rimangano come doverosa documentazione del modo di vivere di personaggi che hanno svolto un difficile compito in un periodo di forte contrapposizione fra NATO e Patto di Varsavia che, fortunatamente, oggi non c’è più, a mio parere anche grazie all’impegno ed ai sacrifici che sono descritti in queste pagine”.

Esatto. Questo è il grande merito: aver registrato qualcosa che altrimenti si sarebbe perduto nelle nebbie del passato.





Recensione di Brutus Flyer (Evandro Detti) e didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR





Dello stesso autore sono disponibili le recensioni di: 


Ali di travertino

Un pilota a palazzo

Un mondo ultraleggero

Deci 83-86. I Ricordi di "Tiro 0"

Ali diplomatiche. In Svezia con le cordelline

Ali in valigia

Amelia Earhart

titolo:  Amelia Earhart

autore: Anna Consilia Alemanno 

editore: Corriere della Sera

anno di pubblicazione: 2021

ISBN: in allegato al quotidiano

[riga vuota n=3]

Vi è mai capitato di acquistare e leggere un libro per comprendere il contenuto di un altro? A me, onestamente  sì. E non è molto edificante, per il lettore e soprattutto per l’autrice del primo libro. Un po’ come “chiodo scaccia chiodo” ma in tema letterario. Nello specifico, il volume “Amelia Earhart” è la biografia che mi ha consentito di comprendere il romanzo “Ero Amelia Earhart”.

Il primo è una biografia e, come tutte le biografie che si rispettino, è divulgativa, storicamente documentata e calibrata su eventi realmente accaduti non senza indugiare su alcune spigolature o alcune particolarità davvero apprezzabili; del secondo ho scritto invece una recensione che è ospitata nel nostro hangar all’indirizzo:

Ero Amelia Earhart

L’aspetto che più colpisce del volume scritto da Anna Consilia Alemanno è ovviamente il linguaggio estremamente fluido, giornalistico, tipico di una storica che riporta in modo appassionato ma rigoroso le dinamiche dell’esistenza di Amelia non propriamente statica. Pur essendo numerosi i rimandi a vari episodi collaterali della breve quanto intensa attività volativa della protagonista, l’autrice segue un inevitabile filo cronologico che ci porterà a conoscere Amelia dall’infanzia fino al suo ultimo giorno di vita ufficialmente conosciuto.

L’eroina dell’aria – lo ricordo – scomparve in qualche angolo sperduto dell’Oceano Pacifico mentre, assieme al suo navigatore/copilota Fred Noonan, stava tentando la trasvolata equatoriale attorno al mondo a bordo di un velivolo bimotore Lockeed Electra. Era il 2 luglio del 1937.

In altri termini un volume che ci condurrà attraverso la storia del volo umano di cui Amelia è universalmente riconosciuta quale protagonista principale.

La IV di copertina della biografia dedicata ad Amelia Earhart, che è una delle due sole biografie disponibile in lingua italiana. Molto lodevole la bibliografia contenuta al termine del volume che fornisce, oltre all’elenco di libri utilizzati come fonti, anche una breve descrizione del loro contenuto. Inutile dire che sono tutti in lingua inglese. Confidiamo che, prima o poi, qualche editrice/traduttrice altruista colmi il vuoto attualmente esistente e che lascia i lettori italiani appassionati di storia del volo privi di alcuni testi meritevoli di essere consultati. Purtroppo anche questa biografia non è facilmente reperibile se non attraverso i canali di libri usati o fondi di magazzino di edicole che, evidentemente, all’epoca hanno restituito ai distributori l’invenduto delle copie del Corriere della Sera di cui il volume costituiva un allegato.

Nell’ambito poi di una collana dedicata alle grandi donne della storia, la biografia di una donna di tale caratura non poteva che essere affidata e scritta da una donna. E Anna Consilia Alemanno, raccolta la sfida, la vince brillantemente sebbene non manchino, soprattutto all’inizio e un po’ qua e là nel corso della narrazione, dei periodi che enfatizzano la figura di Amelia, delle affermazioni dal chiaro taglio campanilistico o che comunque sottolineano il valore di cotanta donna. Tutto  vero, tutto storicamente inattaccabile e dunque non retorico, non fazioso ma inevitabilmente schierato.

Ora mi chiedo: era necessario o utile dare alle stampe una biografia della trasvolatrice statunitense? Certo che sì, anzi, direi che fosse “doveroso” colmare il vuoto imbarazzante nel panorama editoriale in lingua italiana a mezzo di una biografia in lingua italiana, scritta da un’autrice italiana che facesse conoscere anche agli appassionati italiani e soprattutto alle appassionate italiane di storia dell’aviazione l’immenso valore e le qualità di Amelia. Perché se c’è una donna che vola un palmo più alto rispetto a tutte le donne veramente importanti della storia umana … beh, quella è senza ombra di dubbio Amelia Earhart. Senza nulla togliere alle altre donne famose, s’intende.

Ma chi fu veramente Amelia? L’autrice ne crea un ritratto vivido, quasi un’istantanea attraverso una descrizione fisica e una sequela di aggettivi – assolutamente pertinenti e per nulla esagerati – ma anche e soprattutto narrandone le azioni.

Naturalmente Anna Consilia non si risparmia a dipingere una realtà di contorno – quella statunitense – in cui vige ancora feroce il patriarcato (esemplificando c’è ancora l’uso esclusivo dei pantaloni da parte degli uomini) e in cui certe attività sono saldamente appannaggio esclusivo del genere maschile … figurarsi volare!? Un paese bigotto e lontano anni luce da quello che è oggi in termini di parità dei sessi … ma – occorre ricordarlo – siamo solo negli anni ’30 del XX secolo! Tanto per fornire un termine di riferimento, in quegli anni, negli USA, vigeva ancora la pena di morte e ne dovranno passare di nuvole nel cielo prima che venisse posta fine alla segregazione razziale. Di contro già nel 1920, ma dopo decenni di battaglie delle suffragette, verrà concesso il diritto di voto anche alle donne.

In questo senso risulta alquanto preziosa la “linea temporale” tracciata dall’autrice all’inizio della biografia in quanto ci fornisce un quadro cronologico degli accadimenti storici da un lato e dall’altro quelli personali di Amelia.

La locandina del film apparso nelle sale cinematografiche nel 2009 che, nonostante gli sforzi economici della produzione pari a circa 40 milioni di dollari, non si è rivelato un grande successo commerciale incassando “solo” poco meno della metà della cifra. Neanche la critica è stata magnanima nei confronti del film esprimendo più opinioni negative che positive. Ovviamente non è stato un film facile fin dalla scrittura della sua sceneggiatura di cui ne è stata fornita una versione iniziale rimaneggiata per sette volte per poi essere completamente riscritta un’ottava volta e finalmente adottata. Diversi gli aeroplani utilizzati per le scene in volo tra cui un vero Lockeed Electra Junior L-12a molto simile al fratello L10E Electra realmente utilizzato da Amelia, una replica-simulacro di Lockeed Vega (con in quale trasvolò in solitaria e senza scalo l’Oceano Atlantico) e un di Fokker F. VIIB/3M tri motore (in cui fu passeggera nella trasvolata atlantica). In verità esiste un’altro film del 1994 dedicato ad Amelia che ha per attrice protagonista Diane Kane e l’attore Rutger Hauer intitolato: “Amelia Earhart: the final flight” 

In effetti il volume si apre con una breve introduzione a cura di Barbara Biscotti (storica di diritto romano), poi, dopo la “linea temporale” di cui sopra,  segue la biografia vera e propria divisa in due blocchi distinti: “Amelia, la dimensione privata” e “Amelia, la dimensione pubblica” per poi indugiare con “Dice Amelia, di Amelia dicono” e infine per concludersi con la “Cronologia minima” e una preziosissima “Bibliografia ragionata”.

In definitiva una biografia che si legge tutta d’un fiato e che di sicuro non annoierà il lettore forse perché segue una formula probabilmente già sperimentata giacché Anna Consilia Alemanno è autrice di altre svariate biografie di donne famose come Eleonora Duse, Maria Teresa d’Austria, Isabella di Castiglia e, non ultima, Marilyn Monroe nonché Guglielmo il conquistatore.

All’interno del volume sono presenti due pregevoli immagini di Amelia e del suo Electra tuttavia, fatto salvo per il bellissimo primo piano in copertina, in questo libro c’è molto da leggere e molto poco da vedere.

Unica nota stonata: i margini troppo larghi delle pagine a scapito della dimensione del carattere di stampa che risulta un po’ più piccolo della media ma per il resto … buona lettura!

E non possiamo non concludere questa biografia con una frase famosa che è stata ascritta ad Amelia e che è virtualmente il principio ispiratore che la animò durante tutta la sua breve esistenza:

Il sorriso di Amelia Earhart e la fusoliera del suo Electra sono i protagonisti di questo scatto divenuto memorabile (foto proveniente da www.flickr.com)

 

Alcuni di noi hanno grandi piste di decollo costruite per loro. Se ne hai una, decolla! Ma se non ce l’hai, renditi conto che è tua responsabilità prendere un badile e costruirtene una da solo, per te e per quelli che seguiranno dopo di te.





Recensione e didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR





Ero Amelia Earhart

titolo: Ero Amelia Earhart

autore: Jane Mendelsohn 

editore: Bompiani

anno di pubblicazione: 2009 (tascabile)

ISBN: 978-88-452-5378-2




Ammetto che non è facile incappare in una biografia che sia esauriente senza essere monotona, che sia verosimile benché elaborata su informazioni incerte, che sia cronologicamente attendibile e al contempo risulti di piacevole lettura. Non è facile – è vero – ma risulta praticamente impossibile se poi non si tratta di una biografia o di un’autobiografia bensì di un romanzo sebbene liberamente ispirato alle vicende storiche della protagonista.

Di chi sto parlando? E’ presto detto. Il titolo del volume è un inequivocabile: “Ero Amelia Earhart – La prima aviatrice che sorvolò l’Atlantico” e il personaggio storico è appunto la trasvolatrice statunitense Amelia Earhart.

Amelia Earhart immortalata davanti al suo Lockheed Electra, velivolo a bordo del quale stava compiendo la trasvolata equatoriale intorno al mondo con una rotta che andava da Ovest verso Est quando scomparve nell’Oceano Pacifico assieme al suo navigatore Fred Noonan. Era in corso la tratta che l’avrebbe condotta dalla Nuova Guinea fino all’isola di Howland, nel bel mezzo del Pacifico. Una delle congetture circa la sua scomparsa è legata proprio alla sua presunta attività spionistica concordata con il governo statunitense giacché quella rotta le avrebbe consentito di scattare foto preziosissime circa gli insediamenti nipponici in aree che erano state proibite agli statunitensi come le Isole Marshall. Secondo questa congettura, Amelia avrebbe consegnato gli scatti ancora caldi e segretissimi alla US Navy che – casualmente – aveva dislocato a ridosso dell’isola la nave della US Cost Guard (Guardia Costiera staunitense) Itasca con lo scopo di fornire assistenza e radio e logistica all’impresa della Earhart.  Oltre a questo c’è un altro dettaglio che avvalora parzialmente l’ipotesi: la pista sull’isola Howland fu appositamente realizzata a uso e consumo della Earhart con i fondi statali, ossia dei contribuenti statunitensi … una stonatura evidente rispetto a un’impresa squisitamente privata, peraltro finanziata dalla Purdue University, da proventi pubblicitari e dalla famiglia Putnam/Earhart. E’ pur vero che Amelia era un’amica personale della famiglia Roosvelt (allora Frank Delano Roosvelt era Presidente degli USA) e in particolare della signora Eleonor Roosvelt. Inoltre la pista di atterraggio sarebbe potuta tornare comunque utile alla US Navy in caso di conflitto (ormai nell’aria) con il Giappone anche se ufficialmente venne creata per consentire ad Amelia di compiere l’ultimo salto verso la costa orientale del Pacifico. (foto proveniente da www.flickr.com)

Il romanzo, e sottolineo romanzo, benché pubblicato nel 1996 nel paese a stelle e strisce, è stato reso fruibile in Italia solo nel 2009 per merito di Tilde Riva alla quale l’editore Bompiani ha affidato la traduzione di un vero e proprio best-seller, almeno a giudicare dalle “più di 200 mila copie” vendute oltreoceano (come tiene a precisare la IV di copertina). Inoltre l’opera di esordio della scrittrice Jane Mendelsohn, ha riscosso entusiastiche recensioni da parte di alcuni critici statunitensi (anche queste puntualmente riportate nella IV di copertina e soprattutto nel sito web dell’autrice) mentre fu addirittura inserito tra i finalisti di alcuni premi prestigiosi letterari come l’Orange Prize o il Dublin Literary Award. Senza vincerli, fortunatamente.

A questo punto occorre chiarire l’equivoco che mi ha condotto ingenuamente all’acquisto di questo libercolo in edizione tascabile di 158 pagine: il desiderio di sapere meglio e di più di Amelia Earhart, delle sue prime esperienze di volo, delle sue imprese e, non ultimo, della sua ultima trasvolata di cui, a tutt’oggi s’ignora l’esito nonostante periodicamente si rinnovino congetture, testimonianze più o meno attendibili, ritrovamenti del presunto relitto del suo velivolo o di resti ossei scovati in sperdute isole del Pacifico.

Dicevo un acquisto incauto alimentato principalmente da un titolo ineccepibile e confermato da un sottotitolo altrettanto esplicativo, invece … il romanzo ha un prologo che avrebbe già dovuto farmi drizzare i capelli. Eccolo:

“Il cielo è di carne”.

Prima frase della prima riga della prima pagina.

La splendida immagine di uno stupendo Lockeed L-12A molto simile al model 10-E con cui Amelia Earhart tentò la circumnavigazione aerea del globo nel 1937. Ovviamente l’esemplare ritratto è stato restaurato in tutta la sua bellezza ma rende l’idea di come potesse essere all’epoca quello di Amelia. Non a caso questo esemplare fu utilizzato largamente per le riprese aeree del film “Amelia” nel quale l’eroina statunitense era impersonata dall’attrice Hilary Swank. Ad ogni modo, in quei primi anni ’30, l’Electra era sicuramente un velivolo all’avanguardia: piuttosto veloce, interamente metallico, carrello retrattile, motori carenati modello Wasp da 600 hp che, proprio nel caso della versione “E” di Amelia, furono quelli con la maggiore potenza disponibile tra i propulsori installati nei 149 Electra complessivamente costruiti.  In realtà il velivolo da lei utilizzato era stato privato dei sedili dei 10 passeggeri previsti e dunque equipaggiato di serbatoi supplementari. Non era un dettaglio da poco perché solo in questo modo poteva aumentare notevolmente la sua autonomia di volo già ragguardevole per l’epoca. L’unica complicazione fu l’accesso ai comandi di volo perché la pilota doveva salire sul dorso dell’ala e calarsi letteralmente nella fusoliera dopo aver aperto la botola nel cielo della stessa cabina. Anche il musone poteva essere aperto all’occorrenza ma non risultò mai agevole, posto quasi a 3 metri d’altezza da terra (foto proveniente da www.flickr.com)

Concediamoci un istante di riflessione … mi chiedo e vi chiedo: come fa il cielo a essere di carne? Il cielo è azzurro (generalmente, luminoso (durante il giorno) o buio (di notte), è plumbeo (nelle giornate nuvolose o invernali), è burrascoso (durante i temporali), è purpureo (al tramonto o all’alba) e tanto altro ancora … ma, onestamente, mi è difficile pensare che possa essere “di carne”, non vi pare?

Anche facendo ricorso alla più fervida immaginazione, anche utilizzando la chiave di lettura più universale, cosa intende comunicarci l’autrice? Perché affermare qualcosa di assolutamente improbabile? Forse che il cielo sia vivo? Che sembra animato di vita propria? Probabile.

I lettori più visionari potrebbero classificarla come un’espressione altamente poetica, di altissimo effetto evocativo, quasi metafisica, viceversa io confesso di essere molto materialista e non ci vedo niente di lirico. Ma potrebbe essere un mio limite – lo riconosco -.

Amelia Earhart e Fred Noonan simulano la consultazione della carta geografica ove è riportata la rotta di una delle tratte in cui divisero il loro periplo del pianeta. La foto fu scattata a uso e consumo dei numerosi fotografi/giornalisti presenti e che diedero eco alla loro impresa. D’altra parte non si consulta abitualmente una voluminosa carta geografica usando come tavolo di carteggio la deriva del Lockeed Electra, non vi pare? (foto proveniente da www.flickr.com)

A quella prima riga un lettore intollerante avrebbe potuto tranquillamente chiudere la copertina e infilare il volume in un angolo remoto della propria libreria, regalarlo a che qualche sedicente amico, rivenderselo al mercatino dell’usato o immetterlo nella rete di scambio libri … io, invece, cosa ho fatto? … imperterrito, sono andato oltre! Così ho scorso la seconda e poi la terza riga fino a completare la lettura della prima pagina e … bum! Disorientamento spazio-temporale.

Mi spiego. A fine prima pagina ho trovato la seguente affermazione:

“Quello che so è che la vita che ho vissuto da quando sono morta la sento più reale di quella vissuta in precedenza”.

A quel punto mi sono domandato se avessi bevuto troppo a cena (a volte preferisco una sana lettura dopo cena) … ma poi mi sono detto: era solo acqua minerale! Leggermente gassata sì, ma pur sempre acqua minerale, sicché non ho potuto far altro che alzare le mani al cielo maledicendo il mio limitatissimo quoziente intellettivo; nel frattempo si materializzava nella mia mente la scenetta di un celebre film di Carlo Verdone in cui un suo famosissimo personaggio si chiedeva con gli occhi strabuzzati e il viso ingenuissimo: “In che senso?”

Amelia Earhart, protagonista principale di questo romanzo sorride a favore dell’obiettivo del fotografo. Nata nel 1897, nel 1937 era prossima ai 40, era praticamente nel fiore dei suoi anni ed era già molto famosa per aver trasvolato l’Oceano Atlantico, una prima volta come passeggera e una seconda come pilota solitaria a bordo di un monomotore alla stregua di Charles Lindbergh, primo uomo a sorvolare l’Oceano con una macchina volante senza scalo. Di Amelia è disponibile una cospicua quantità d’immagini che la ritraggono nelle situazioni più disparate e questo grazie a una scelta assai lungimirante del marito di Amelia: nel 1932 assunse un fotografo a tempo pieno, certo Albert Louis Bresnik che divenne poi un amico di famiglia, una sorta di fratello minore per Amelia. La seguirà da presso fino al suo ultimo decollo nella tratta che le fu fatale (foto proveniente da www.flickr.com)

Premesso che non viene espresso in modo esplicito chi sia la voce narrante – arguisco la stessa Amelia Earhart – mi ripeto: “la vissuta da che sono morta” … ma sei morta come hai fatto a vivere? E poi come fa una vita da morta – che è una “non vita” – a essere reale, addirittura più della vita precedente? Perché quella sì che potrebbe essere stata reale …

Magari si tratta di una figura retorica? Sarà … ma sono sempre io che non capisco – lo confesso -.

Ora, senza voler fare l’accademico letterario bigotto o il meschino stratega editoriale, è universalmente conclamato che la prima pagina di un qualsiasi volume (che sia un saggio, una biografia o un romanzo), dovrebbe invogliare il lettore a proseguire nella lettura, incalzato magari da un primo episodio pirotecnico, da un intreccio che lasci intravvedere contorsioni, colpi di scena o comunque altri capitoli intriganti. Invece qui il lettore viene semplicemente disorientato e, considerato che non si tratta di un romanzo giallo, insomma un poliziesco d’alto bordo, perché mai lanciare enigmi, così a freddo, già dalla prima pagina? Bah …

… ma sono andato oltre, straconvinto che questo prologo criptico si sarebbe svelato con il prosieguo del testo; giunti a metà della seconda pagina scopro che Amelia sta:

“sorvolando il Pacifico da qualche parte al largo della Nuova Guinea, sul mio bimotore Lockeed Electra, e mi sono smarrita.”

Frederick Joseph “Fred” Noonan fu scelto per l’impresa della trasvolata attorno al mondo perché era uno dei migliori navigatori aeronautici disponibile all’epoca. Fred aveva trascorso una ventina di anni imbarcato sui mercantili che avevano attraversato i sette mari del pianeta; aveva cominciato come semplice marinaio ed era giunto a diventare comandante di nave mercantile. Nel frattempo era diventato anche pilota di aeroplano e dunque fu relativamente facile per lui diventare navigatore aeronautico presso la Pan American Airways in seno alla quale lavorò come navigatore mappando e stabilendo le nuove rotte che i primi idrovolanti della compagnia coprivano attraverso il Pacifico. Naturalmente la navigazione aeronautica è una derivazione di quella nautica e, contrariamente a quella moderna che si appoggia ai sistemi GPS, alle piattaforme inerziali o alle radioassistenze, all’epoca era solamente astronomica, e veniva praticata con l’ausilio di sestante, carte e cronometri; il navigatore saliva nella cupola vetrata del velivolo e provvedeva ai suoi rilievi astronomici, cielo sereno permettendo, poi calcolava la posizione stimata del velivolo e la rotta da suggerire al pilota per giungere a destinazione. Noonan era diventato uno vero specialista nella navigazione aeronautica. Arrivato al massimo della sua carriera (era diventato istruttore dei navigatori della Pan Am), aveva deciso di abbandonare la compagnia aerea e, intenzionato a creare una scuola di navigatori tutta sua, aveva accolto subito la proposta di fare da navigatore nella difficile impresa di Amelia. Quale migliore pubblicità per la scuola che avrebbe avviato al suo ritorno? Purtroppo per lui quel ritorno non avvenne mai (foto proveniente da www.flickr.com)

E aggiungo io, perfido: non solo lei. Anche l’autrice.

Ora la scrittrice laureata con lode alla Yale University, dovrebbe sapere che, sempre secondo la migliore tradizione letteraria universalmente diffusa, un qualsivoglia testo (racconto o romanzo che sia) per “funzionare bene” dovrebbe far comprendere rapidamente al lettore il come-dove-quando-perché. Che sono poi sono gli elementi base di una trama di un testo degno di questo nome. E di successo – aggiungo io -.

Bah, forse alla Yale University questi rudimenti base della scrittura creativa non li insegnano …

Dopodiché, proseguendo la lettura, riappare la visione del cielo di carne, ma stavolta in versione lussuriosa:

“Guardo il cielo inarcarsi e gonfiarsi, e di tanto in tanto mi pare pure di vederlo fremere”.

Per completare la descrizione libidinosa, l’autrice aggiunge:

“Voluttuoso, torrido nel calore nudo, mi sembra carne di donna. Ma poi di colpo la luce ne illumina un fascio di proporzioni più mascoline – un muscoloso baleno di azzurro, un’ampia asse come il dorso di una mano – ed eccomi a riconoscere, benché malvolentieri, la bisessualità della natura“.

Ancora una bella immagine del Lockeed Electra e di Amelia assisa sopra la cabina di pilotaggio. Il velivolo era stato preparato dalla Lockeed ad uso e consumo di Amelia e, a scopi pubblicitari, venne definito come una “laboratorio volante”  più che altro per giustificare il notevole sostegno economico fornito a scopo scientifico/tecnologico dalla Purdue University ma, di fatto, la componente scientifica della trasvolata attorno al globo fu davvero insignificante come pure le ricadute a carattere tecnologico giacché l’Electra era già un aeroplano molto avanzato in termini di soluzioni costruttive (foto proveniente da www.flickr.com)

Ora passino pure le improbabili visioni erotiche, peraltro omosessuali, ma che c’azzecca la bisessualità della natura con un volo equatoriale attorno al globo? Onestamente, a me sfugge il nesso logico … e a voi? Sapete come sentenzierebbe una ipotetica professoressa siciliana, rigorosamente zitella e con tanto di occhiali corredati da catenella dorata? Beh, io sì: “Il cielo è sostantivo di genere maschile, e quindi masculo je!” Fine della bisessualità.

Tornando al testo del romanzo, il prologo si chiude con Amelia che racconta:

“la risacca ride. La luce nuota. Guardo sulla sabbia gli scheletri di pesce tracciati dall’ombra delle foglie di palma”.

Bum! Altro disorientamento spazio-temporale per il povero lettore. Ma un istante prima non eravamo in volo? Perché qui si parla di spiaggia, palme e risacca? Siamo già atterrati in un battere di ciglia? D’accordo l’inaudita potenza della narrativa (più efficiente di una porta dimensionale interstellare) ma così è un filino troppo, non credete?

Invece no, non stupitevi più di tanto: è solo l’inizio dell’abisso perché tutto il romanzo è un andirivieni tra il racconto di questo ultimo volo di Amelia, la sua vita precedente, durante e successiva il volo in questione. Avete letto bene: quella successiva! Perché nell’immaginario della scrittrice statunitense, Amelia sopravvive all’atterraggio di fortuna nel piccolo atollo di Nikumaroro (in passato denominato Gardner Island) e così pure il suo navigatore Fred Noonan mentre il relitto del povero Electra giace a ridosso della spiaggia, ormai inservibile. Che poi è una delle tante tesi ricorrenti di cui parlavo all’inizio circa la fine dell’impresa volatoria di Amelia & Co.

Dicevo … una trama tutto sommato semplice, forse prevedibile se non fosse che l’intreccio della vicenda narrata è funambolico, contorto, sovrapposto. Occorre prendere appunti per ricordarsi chi è la voce narrante o in quale luogo è ambientato il racconto. Questo perché il romanzo è composto da piccoli blocchi di testo che si alternano continuamente: dapprima la narrazione è in prima persona (Amelia), quindi in terza persona (un ipotetico osservatore esterno) oppure in un blocco siamo a New York, il blocco dopo sull’atollo e quello dopo ancora in volo sull’Electra per concludere in bruttezza con alcune brevi perle di saggezza pseudo filosofiche infarcite – attenzione, attenzione – di visioni dal forte potere evocativo. Secondo l’autrice, s’intende.

Posso aggiungere un altro dettaglio sconvolgente? Ebbene, non esiste il discorso diretto, o meglio non esistono tracce grafiche dell’apertura e della chiusura del discorso diretto. Per intenderci l’autrice ha evidentemente ritenuto inutile utilizzare le virgolette, le lineette, financo le mostruose doppie v orizzontali o qualsiasi altro simbolo convenzionale (troppo convenzionale!) per indicare i colloqui, peraltro assai scarni, tra i pochi personaggi. Risultato? Semplice: i dialoghi si aprono e si chiudono come fossero parte del discorso indiretto.

Ammetto che non sono un tradizionalista bigotto in fatto di estetica tipografica ma permettetemi di urlare almeno: blasfemia! L’ortografia assassinata pubblicamente, piegata alle bizze eccentriche di un’esordiente irrispettosa delle convenzioni letterarie universali; se non blasfemo, è almeno satanico! 

Il lettore deve intuire i dialoghi, avrà pensato l’autrice … invece il lettore si perde – sostiene il sottoscritto -. Quello stesso lettore umile e appassionato che sarà costretto a una fatica sovrumana al punto che si domanderà – e me lo sono domandato anch’io più volte, credetemi – se valga la pena continuare a leggere un siffatto guazzabuglio di libro. Ma niente: io, imperterrito, ho continuato fino all’epilogo. Potere del prezzo di copertina!

Una rara immagine di Amelia Earhart e suo marito George Palmer Putnam in chiave domestica. Amelia aveva conosciuto George quando si era presentata presso il suo ufficio per chiedergli un impiego. George era all’epoca un editore famoso e benestante giacché aveva curato la pubblicazione del libro autobiografico “We” di Charles Lindbergh in cui il primo uomo che aveva sorvolato l’Oceano Atlantico dagli Stati Uniti a Parigi in solitaria e a bordo di un monomotore raccontava il suo volo memorabile e le sue esperienze di volo precedenti all’impresa. Il libro aveva venduto la bellezza di 650 mila copie solo il primo anno di pubblicazione – numeri impensabili oggi ma notevolissimi anche allora – tanto che l’autore (ma anche l’editore Putnam) avevano mietuto dei guadagni davvero ragguardevoli. In realtà George era a sua volta uno scrittore nonché un esploratore oltre quello che chiameremmo oggi un “promotore” o un addetto alle pubbliche relazioni, ossia un organizzatori di eventi, conferenze, campagne pubblicitarie e – occorre ricordarlo – svolse un ottimo lavoro a beneficio della moglie. Generalmente si dice che dietro un grande uomo si celi una grande donna … nel caso di Amelia è il contrario, senza nulla togliere alle capacità, alla caparbietà di lei nel voler concretizzare i suoi sogni impossibili. La vicenda personale di “GP”, così lo chiamava abitualmente Amelia – e così lo ritroveremo anche nel romanzo – si intrecciò con quella di Amelia prima commercialmente e poi sentimentalmente sebbene lui fosse già sposato (ma la consorte dell’epoca aveva già un solido rapporto extra coniugale). I due si frequentarono per alcuni anni e poi nel 1931 convolarono a nozze dopo che GP ebbe ottenuto il divorzio. Dalle cronache del tempo, difficile dire se tra loro ci fu il vero amore o solo interessi reciproci … all’inizio prevalse sicuramente il secondo aspetto se non altro testimoniato dal fatto che GP volle ospitare in casa sua Amelia pur di farle scrivere in modo proficuo il suo primo libro “20 hrs., 40 min.” pubblicato nel 1928 nel quale lei descriveva la sua esperienza del volo transatlantico a bordo del velivolo trimotore Friendship in qualità di passeggera. Alla stregua di quanto lui aveva già fatto con Lindbergh, l’operazione funzionò sebbene con risultati economici ben più modesti ma quello divenne comunque l’inizio di un sodalizio che si rivelò vantaggioso per entrambi. Nel momento in cui la US Navy cessò ufficialmente le ricerche di Amelia e Fred – che erano state effettuate con grande dispiego di uomini e mezzi e, non ultimo, con costi per i contribuenti che si aggirarono attorno ai 4 milioni di dollari – , George non si diede per vinto e finanziò a sue spese ulteriori ricerche, purtroppo  senza esito. Cronologicamente parlando, Amelia scomparve nell’estate 1937, nel gennaio 1939 fu ufficialmente dichiarata defunta e nel maggio dello stesso anno George si risposò … quello che si definirebbe un vero vedovo inconsolabile!  (foto proveniente da www.flickr.com)

E avendolo letto tutto, posso affermare che questo è un romanzo-minestrone; è così ben assortito che il concetto elementare di prologo-sviluppo-epilogo tipico di qualunque romanzo, qui non trova applicazione alcuna, anzi sono un tutt’uno. Per assurdo si potrebbe aprire una qualunque pagina del libro per entrare nel vortice torbido della vicenda senza correre il rischio di perdere il filo logico della narrazione … semplicemente perché non c’è un vero filo logico.

In effetti è un romanzo che, per essere apprezzato a pieno, presuppone che si conosca già il vissuto di Amelia. Oppure, al contrario, che invita la lettura di una ricostruzione giornalistica della vita e delle imprese di Amelia per capire dove finisce la realtà e comincia la fantasia sfrenata di Jane Mendelsohn.

Esagerato? Niente affatto!

Ma c’è dell’altro: verso la fine del romanzo, Amelia e Fred addirittura s’involano di nuovo con l’Electra per poi perdersi di nuovo e riatterrare chissà dove  … ma no, tranquilli: era solo un sogno! Realistico ma pur sempre un sogno. Anche perché il naturale deterioramento provocato dalle maree e dell’ambiente salmastro avevano presumibilmente ridotto a brandelli la cellula del velivolo già malconcia per l’atterraggio rovinoso e che, pur disponendo di un minimo di carburante, i motori erano fermi da anni, il carrello probabilmente distrutto, mezzo aeroplano insabbiato. E tralasciamo la possibilità concreta di decollare da una spiaggia di sabbia corallina. Neanche l’araba fenice sarebbe riuscita nell’impresa!

Si tratta evidentemente di un miraggio, di un desiderio delirante mai sopito, di un sogno prodotto da una mente provata dal lungo isolamento coatto – certamente, dico io – ed è tutto molto comprensibile … ma già come per la punteggiatura oltraggiata, anche la già ridotta credibilità della narrazione viene messa a durissima prova.

Ancora una bella immagine di Amelia Earhart e del suo fido navigatore/copilota, non tanto “fido” a detta dell’autrice del romanzo (foto proveniente da www.flickr.com)

Mi spiego. Sempre alla Yale University avrebbero dovuto insegnare alla signora Jane che la “sospensione dell’incredulità” da parte del lettore è assai preziosa ed è pure è molto labile, ergo non può essere strapazzata a questo modo. Voglio dire: due persone affetti dalla sindrome del naufrago, che rifuggono ormai i soccorsi e il mondo civilizzato, che si sono ambientati in un piccolo paradiso in terra e non hanno più alcuna fiducia nel futuro, possono sognare di tornare in volo verso l’ignoto? Anche solo sognare? No, non regge! Non fosse altro perché Amelia e Fred non vengono dipinti come i novelli Robinson Crusoe, viceversa hanno trovato sull’atollo il loro equilibrio, si sono rassegnati a vivere lì i giorni che rimangono loro, nell’idillio di una natura lussureggiante che offre loro quanto necessitano … e vi pare che, anche nel sogno più recondito, anche nei meandri più profondi dell’inconscio possano sognare di volersene andare? In volo?

Troppo feroce nei confronti dell’autrice? Niente affatto! … vogliamo esaminare poi gli svarioni storici e aeronautici? Eccoli.

Per proteggere gli occhi abbacinati dal sole Amelia rivela:

“… e arriccio il naso per mettere in sesto gli occhialoni da pilota”.

Peccato che il Lockeed Electra fosse un moderno velivolo con cabina chiusa e parabrezza ermetico anziché un obsoleto biplano con cabina aperta e minuscolo frangivento. La differenza è sostanziale: i velivoli aperti necessitavano dei classici occhialoni da pilota che non erano assolutamente un vezzo estetico. All’epoca infatti, se non si voleva rimanere accecati dall’aria, dagli insetti, dai fumi di scarico e dall’olio vaporizzato dal motore, gli occhialoni erano indispensabili. Un po’ meno la sciarpa di seta bianca, salvo che per pulire – in emergenza – gli occhialoni sopracitati qualora si fossero completamente coperti da sozzura.

Viceversa nel 1937, anno del volo di Amelia, esistevano già gli occhiali da sole, non già i famigerati Ray-Ban Aviator che vennero commercializzati a partire proprio da quell’anno ma sicuramente occhiali similari giacché la prima azienda al mondo che produsse occhiali da sole fu proprio statunitense e cominciò la sua attività nel 1929.

E vabbè … concediamole gli occhialoni ma …

… vogliamo poi parlare di quel povero diavolo di Noonan? Ebbene nel romanzo viene dipinto come un alcoolizzato, amante in egual misura delle donne e dei superalcolici, dedito a una vita sregolata per non dire dissennata. Anche professionalmente la signora Jane Mendelsohn ci va giù pesante perché fa dire ad Amelia che la scelta a favore di Fred fu dettata dall’economicità delle sue prestazioni professionali anziché per le sue capacità di esperto in navigazione aerea astronomica.

Ancora una foto del Lockeed Electra L-10E e di Amelia Earhart appollaiata stavolta sul musone del velivolo. Lo scatto risale alla tappa che toccò Miami. La trasvolata prevedeva una rotta lungo l’equatore di una lunghezza complessiva di circa 46 mila km. L’impresa era già stata effettuata in passato ma su una rotta a latitudini più elevate e dunque decisamente più brevi; volare prevalentemente lungo l’equatore sarebbe stato molto più lungo e faticoso per l’equipaggio e la macchina. Oggi sembra un bazzecola ma teniamo ben presente che Jules Verne, il famoso scrittore francese antesignano della modernità, aveva immaginato il “Giro del mondo in 80 giorni” non più tardi del 1872 – ed era pura fantascienza -, ma anche negli anni ’30 (del 1900) rimaneva un’impresa pregna di rischi e punti interrogativi. Quando decollarono da Lae in Nuova Guinea Amelia e Fred avevano volato già per circa 35 mila chilometri e dunque ne mancavano circa 11 mila tutte sopra all’Oceano Pacifico. Era il 2 luglio 1937 (foto proveniente da www.flickr.com)

Onestamente, se fossi stato un parente alla lontana di Fred, mi sarebbe venuta voglia di querelare l’autrice del romanzo per aver infangato la memoria del mio congiunto … anche perché la verità storica è decisamente diversa.

Fred Noonan si era effettivamente licenziato dalla Pan-Am ma, secondo la cronaca del tempo, perché intendeva aprire una scuola tutta sua per navigatori aeronautici e la partecipazione all’impresa di Amelia gli sarebbe tornata utile quale ottimo viatico pubblicitario gratuito. Inoltre Amelia l’aveva già assoldato in occasione del primo tentativo di trasvolata, peraltro andato male, perché dunque confermarlo in occasione del secondo? E poi diciamoci la verità: all’epoca tutti bevevano e ancora oggi gli statunitensi non sono proverbialmente astemi, sicché …

Altra situazione assolutamente non sostenibile è lo stato disastroso in cui versa Noonan al momento del decollo dall’aeroporto di Lae in Nuova Guinea in quella che sarà l’ultima tratta della della circurmnavigazione del globo. Ebbene nel romanzo Fred viene descritto come completamente ubriaco dopo festini terminati fino a poco prima del decollo. Decollo avvenuto – lo ricordo – alla mezzanotte, ora locale. In realtà,  a giudicare dalle immagini dell’epoca, sia Amelia che Fred salgono a bordo dell’Electra con fare atletico, lei attraverso il portello posto  nel cielo della cabina e lui sulla fiancata della fusoliera, operazione assai difficile da eseguire da un ubriaco, non trovate?   

Inoltre nel romanzo Amelia odia ferocemente Noonan al punto che ognuno si costruisce un proprio ricovero, alle antipodi del piccolo atollo, quindi si riavvicinano nel corso della permanenza in quella stretta striscia di sabbia e verso la fine del romanzo finiscono per essere addirittura amanti, sfrenati e insaziabili uno dell’altro. Pittoresco, non credete?

La IV di copertina del libro di Jane Mendelsohn. Questo libro, assieme a “Felice di volare: ricordi della mia vita in volo e di altre aviatrici” scritto e pubblicato da Amelia Earhart nel lontano 1932, sono gli unici volumi disponibili in lingua italiana inerenti la figura mitica di Amelia Earhart. Si aggiungono poi delle pregevoli biografie come quella di Anna Consilia Alemanno pubblicata nell’ambito della collana “Grandi donne della storia” curata dal Corriere della Sera o quella molto simile dell’editore RBA nella collana “Grandi Donne”. Purtroppo non è mai staro reso disponibile per il mercato editoriale del nostro Paese l’altro libro scritto da Amelia “20 hrs., 40 min.” del 1928 come pure  “Last Flight”, pubblicato postumo, e contenente parti del diario di viaggio del suo ultimo volo attorno al mondo. Inutile dire che in lingua inglese esiste uno stuolo di libri riservati ad Amelia. Anzi, considerato quanto posa essere inflazionato il panorama editoriale a lei dedicato, comprendiamo perché l’esordiente Jane Mendelsohn abbia dovuto quasi necessariamente scrivere qualcosa di molto originale affinché potesse  emergere.

Altra stonatura è il personaggio George P. Putnam, storicamente marito di Amelia; nel romanzo viene dipinto impietosamente come un aguzzino, una macchina che spreme Amelia per il proprio tornaconto di editore, che la costringe a scrivere resoconti giornalistici e libri contro la sua volontà.

La verità storica, anche in questo caso, è abbastanza diversa. Quando incontrò per la prima volta Amelia, Putnam era già ricco e famoso (era stato lui a pubblicare il libro-resoconto di Charles Lindbergh, primo trasvolatore atlantico) inoltre lui le propose più volte di sposarlo senza successo. Aggiungo che i proventi dei libri e dei pezzi giornalistici della moglie, Putnam li utilizzava per sostenere le spese – decisamente notevoli – delle imprese di Amelia. Occorre poi ricordare che lui, dopo la cessazione delle ricerche di Amelia/Noonan operate dalla US Navy, spese una vera fortuna nel riprenderle a titolo personale. Certo non fu un esempio fulgido di rettitudine e fedeltà coniugale ma è pur vero che le coppie benestanti statunitensi non lo erano e non lo sono tuttora.

In effetti, in “Ero Amelia Earhart”, la figura stessa della protagonista viene tratteggiata in modo dir poco singolare: introversa, taciturna, quasi algida ma in balia del marito, incapace di provare anche solo di un po’ di affetto nei confronti di Putnam, pur tuttavia estremamente determinata tanto da concedersi solo a condizioni che oggi farebbero concorrenza ai contratti prematrimoniali delle dive del cinema.

Risponde a verità storica? Forse … certo Amelia era mascolina, a dir poco volitiva e talmente determinata nel raggiungere i suoi progetti – alcuni effettivamente difficilissimi per l’epoca – che un fondo di verità storica c’è di sicuro. Tutto il resto è fantasia.

In conclusione un romanzo con diversi aspetti opachi e qualcuno brillante. Quali? Ad esempio la descrizione assai verosimile del caldo torrido che assale l’atollo e soprattutto della terribile tempesta tropicale che segue: come essere lì con Amelia e Fred. Davvero ottima.

Come pure ammetto che è davvero notevole l’intuizione dell’autrice nell’immaginare e nel raccontare la trasformazione che avviene nei due personaggi: dapprima naufraghi vogliosi di tornare alla civiltà per poi letteralmente nascondersi dai possibili soccorritori, infine felici di rimanere nel loro piccolo paradiso tropicale.

Infine sono presenti anche piccole chicche di buona scrittura come:

“Gli aerei erano veicoli da sognare. Erano forti e sinuosi, virili e femminili allo stesso tempo, semplici, giocattoli meccanici quasi all’antica e vascelli che portano al futuro”

ma sono rare e, onestamente, non giustificano il successo di vendite del volume.

In definitiva ci sono lampi di buona letteratura in “Ero Amelia Earhart” ma con molte ombre attorno; un libro la cui lettura richiede un grande atto di fede da parte del lettore, fede superiore alla media, s’intende.

Se amate i romanzi pieni di simbolismi, e immagini surreali sarà perfetto per voi, viceversa non si presta assolutamente a chi cercherà – come il sottoscritto pensava di trovare – una cronaca storica in formato narrativo.

Dal punto di vista tipografico il volume è curato e di qualità come ci si aspetta da un editore prestigioso. Adeguata la dimensione dei caratteri di stampa, opaca e leggermente giallognola la carta. Valida ma non esaltante la copertina (in realtà l’edizione italiana ne ha avute diverse) e maldestramente poco obiettiva la IV di copertina.

In conclusione, un libro che non rende granché onore ad Amelia e al suo navigatore, di sicuro non ne esalta la leggenda … ma perché – detto tra noi – ne avrebbe necessità? Certo che no. Perché la caparbietà e la determinazione di Amelia l’avevano resa già un mito quando era in vita, figuriamoci se un romanzo di opinabile bontà possa sminuire un fulgido ed ineguagliabile esempio dell’universo femminile …

Allo stesso modo mi viene da dire che non comprendo l’ostinazione nel voler assemblare congetture, nel voler continuare a cercarla negli atolli sperduti del Pacifico. Perché? … già prima che scomparisse, Amelia Earhart volava altissima nell’immaginario collettivo e, un istante dopo la sua scomparsa, ha continuato a volare lontanissimo nel cielo della memoria di tutti noi, uomini o donne appassionati di volo e di storia dell’aviazione.  E così sarà per sempre.  Che poi è quanto accade giusto appunto ai miti. E Amelia, quando corre il XXI secolo, ancora un mito !

Parola di professoressa zitella.





Recensione e didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR