Quando Tom Neil cominciò a raccogliere le proprie memorie degli anni di guerra pensava di scrivere un solo libro. Ma poi, accumulò materiale per almeno tre libri. Per anni aveva scritto e pubblicato le sue avventure di pilota di caccia durante la guerra. Si può ben immaginare che le maggiori riviste del settore aeronautico fossero interessate ai suoi articoli.
Oltretutto, Neil ha un modo di scrivere veramente accattivante. Le sue pagine sono intrise di quel classico umorismo inglese che non ha mancato di conquistarmi nel corso della lettura. Ho finito per comprendere perfino le sue frasi idiomatiche, così difficili da compenetrare per noi italiani.
L’umorismo inglese lui lo mette anche nella descrizione delle tragedie più terribili. Ma in “Gun button to fire” aveva spiegato chiaramente che la guerra li aveva abituati ad accettare, con un’elevata indifferenza, ogni avvenimento, fin dai primissimi giorni. Non c’era molto dell’umorismo inglese in quel libro. Forse lo aveva riservato tutto per i libri successivi, per “The silver Spitfire” e “Scramble!“. E infatti in questo ultimo volume non si finisce mai di ridere, nonostante i fatti tragici, immancabili, che descrive. Perché in questo libro, evidentemente, ha scelto di usare un modo ironico che sottolinea gli aspetti tragicomici della guerra e altrettanto bene della vita comune.
E poi, lo dico subito: “Scramble!” è sorprendente.
Il britannico Tom Neil, classe 1920, è stato un autore piuttosto prolifico: ha dato alle stampe ben 10 volumi a partire dal 1990 al 2017 ed è stato capace di raccontare in modo invidiabile le sue esperienze di pilota da caccia della RAF nel corso della II Guerra Mondiale. A distanza di tanti anni, il suo racconto è divenuto una vera e propria testimonianza storica di un epoca ormai lontana che appartiene ai nostri bisnonni più che ai nostri nonni. A Tom Neil dobbiamo dunque riconoscere il merito di un’apprezzabile opera narrativa, assai piacevole, quasi giornalistica che però non si limita al ricordo cronologico delle vicende vissute in prima persona, alle sue sensazioni e ai sentimenti provati nel corso di quegli anni terribili, alle persone conosciute e frequentate … ma anche e soprattuto riesce a tratteggiare con mirabile vividezza un periodo storico tra i più bui dell’umanutà intera.
“Gun button to fire” era un lungo racconto di vita, un compendio di Storia aeronautica, centrato sul periodo della cosiddetta “Battle of Britain“(o Battaglia d’Inghilterra).
“Scramble!” invece, sebbene cominci dai suoi primi anni di vita dell’autore e poi ricalchi la linea di narrazione dei primi anni di guerra, tanto da avermi fatto fare un bel ripasso dell’altro libro, è molto più particolareggiato in ogni descrizione.
Qui troviamo la vera vita di un tempo lontano, la Gran Bretagna di allora con tutte le sue caratteristiche peculiari, la mentalità, i luoghi, i modi di viaggiare, i personaggi tipici, il loro ancor più tipico modo di ragionare e di comportarsi. Il tutto, descritto in modo delicatamente comico. Ma estremamente vivido e riconoscibile.
Tom Neil è stato un grande pilota, ma anche un grande scrittore.
Il suo talento si estende dalla prima pagina fino all’ultima e riesce veramente a far vivere al lettore le sue stesse vicende. Su queste pagine mi sono fatto un mare di risate perché … in verità gli stessi episodi, in fondo, avvengono pari pari anche qui da noi. Ne ho riconosciuti molti, ma descritti da un inglese diventano impagabili.
Mi sono preso la briga di seguire la narrazione di Neil riguardo a tutti i suoi spostamenti nel territorio del Regno Unito, da un aeroporto all’altro, da una città all’altra, cercando su Google Earth ogni location e tutti i suoi dintorni. Molto interessante.
Scrive Neil:
“… I became quite an expert on the major rail junctions on all four railway systems in Britain… I grew to know (some stations) like the back of my hand, especially as seen between the hours of midnight and 4 a. m.! I often reflected that, were I to survive and have grandchildren, I should be able to claim, not so much that I had flown aircraft during the war, but that I had travelled to every known inch of Britain by rail – and mostly at dead of night”.
“… Divenni abbastanza esperto delle principali stazioni di scambio dei quattro sistemi ferroviari inglesi… imparai a conoscere (alcune stazioni) come il palmo della mia mano, specialmente come apparivano tra la mezzanotte e le quattro di mattina! Pensavo spesso che, se fossi sopravvissuto e avessi avuto nipoti, avrei dovuto affermare, non tanto di aver pilotato aerei durante la guerra, ma di aver viaggiato per ogni conosciuto angolo d’Inghilterra in treno – e nella maggior parte dei casi a notte fonda”.
Questa parte mi ricorda molto i miei viaggi in treno durante il periodo di permanenza nell’Aeronautica Militare Italiana, molti anni più tardi. Anche a me capitava spesso di viaggiare di notte. Oggi non si può più fare, almeno a cuor leggero. Non è più sicuro come prima. Allora si stava tranquilli.
In uno di questi viaggi Neil perse il treno notturno per una località che si chiamava Dundee, perché il treno, appunto, era partito tre minuti prima dell’orario stabilito.
ll termine “scramble”, tradotto dalla lingua inglese, significa letteralmente arrampicare. In effetti si tratta di un verbo che, sebbene usato anche nella quotidianità, ha assunto una connotazione squisitamente militare e, in particolare, dell’Aeronautica militare. Nel gergo aeronautico moderno lo scramble consiste in una serie di operazioni rapidissime – il più rapide possibile – che sono finalizzate a far decollare uno o più caccia intercettori – in genere una coppia – allo scopo di identificare un aereo sconosciuto che ha violato lo spazio aereo nazionale. Per scarmble s’intende perciò lo stato di allarme che si innesca quando viene dichiarato lo scramble, appunto, mentre l’aeromobile fantasma si chiama “bogey”. In una lingua – quella inglese – in cui mancano le molteplici sfumature tipiche della lingua italiana, lo scramble suona letteralmente come l’arrampicata che i velivoli intercettori devono compiere per raggiungere l’intercettato. Da qui la lotta contro il tempo, la salita vertiginosa a tutto motore verso il punto di randezvous con il presunto nemico, il contatto – prima radar e poi visivo – con l’intruso, l’accertamento della sua identità ed eventuale ostilità. Così impostato, lo scramble è divenuto l’attività di punta dei reparti caccia divenuti intercettori; in tempo di pace – grazie al cielo – lo scramble è l’unica attività adrenalinica cui è soggetto un pilota dei reparti caccia. In realtà – la storia ci insegna – il termine fu introdotto durante la II Guerra Mondiale, proprio nel corso della Battaglia d’Inghilterra, ossia quando i piloti degli aerei da caccia britannici della Royal Air Force venivano allarmati da parte del Comando della difesa aerea, per contrastare in modo chirurgico i “bandits”, ossia gli aerei tedeschi diretti verso la Gran Bretagna. Nella foto è ritratto appunto uno dei primi intercettori della storia: il Supermarine Spitfire in assetto di salita ripida. Ovviamene la foto è recente: risale all’agosto 2020 ed è stata scattata durante l’Old Warden Drive in Airshow tenutosi presso lo Shuttleworth Aerodrome di Biggleswade nello Bedfordshire, in Gran Bretagna. In realtà questo esemplare di Spitfire Mk VC partecipò davvero alla difesa dell’isola in quanto prestò servizio tra le fila dei velivoli in forza del 310° Squadron della RAF basata a Exeter nel 1942 (foto proveniente da www.flickr,com)
Un evento che non si verificava mai nella Gran Bretagna di allora. I treni erano estremamente ligi agli orari stabiliti.
Sorpreso e stupito di come una cosa del genere potesse essere accaduta, chiese a un capostazione l’orario del treno successivo. Ma non ce ne sarebbe stato un altro prima del giorno dopo. Aveva tutta la notte da passare nell’atrio della stazione.
Perciò, dopo un attimo di costernazione, si decise a partire a piedi per raggiungere la stazione di scambio successiva. E avrebbe camminato lungo i binari della ferrovia. Erano poche miglia da percorrere. Lo aveva fatto molte altre volte.
Già camminare sulla ferrovia non è una buona idea, per il pericolo che comporta. Inoltre, con la guerra che incombeva, tutte le luci non indispensabili erano tenute spente. Sarebbe stato buio pesto lungo tutto il percorso e in certi punti c’erano delle guardie notturne armate, il cui scopo era quello di scoprire e catturare eventuali spie e sabotatori. Di solito si trattava di improbabili ex militari della Prima Guerra Mondiale, pensionati, ormai in là con gli anni.
Infatti è proprio in uno di essi che Neil si imbatte, appena partito e fuori dalla stazione.
“I had gone about 400 yards when, out in the blackness and from a distance of only a few yards, there came a shout. “Halt!” I nearly died. The voice again, almost a treble. “Halt! Don’t ye move, now!”.
“Avevo percorso circa 400 metri quando, nell’oscurità e a una distanza di pochi metri arrivò una incitazione: “Alt!” Quasi mi fece morire. La voce ripeté, quasi in un tremolio. “Alt! Non ti muovere, ora!”.
Non scrive “don’t you move”, ma proprio “don’t ye move”. In molti casi, Neil scrive le conversazioni in modo da sottolineare più il dialetto che la lingua inglese. E questo, per un lettore italiano, va oltre la completa comprensione.
La descrizione di questo incontro è tutta da leggere. La riporto solo come esempio. Ma il libro è tutto così.
“I called back uncertainly, “Friend!” There were shuffling steps in the dark and I sensed that whoever had called was a good deal more scared than I was. And I was not far wrong”.
“Risposi in maniera incerta “Amico!” Ci fu rumore di passi nel buio e intuii che chiunque fosse stato a parlare era un bel po’ più spaventato di quanto lo fossi io. E non mi sbagliavo”.
Per anni l’intercettore per antonomasia dell’Aeronautica Militare Italiana è stato il Lockeed F104 Starfighter o “Spillone”. Praticamente un missile dotato di ala, capace di arrampicarsi quasi in verticale verso i “bogey” di allora. Nacque in un epoca – quella della guerra fredda – in cui era uso sondare la reattività delle difese aeree avversarie e in cui la possibilità di un sorvolo nemico di bombardieri strategici ad alta quota non era solo finzione cinematografica. (foto proveniente da www.flickr.com)
Emerse un personaggio di piccola statura, con il mozzicone di una sigaretta in mano. Ma anche con un fucile nell’altra. Tremava di freddo e tremava anche la sua voce, mentre ripeteva a Neil di non muoversi. Una situazione delicata, un uomo impaurito, che sta di guardia nel buio e si imbatte in uno sconosciuto che cammina lungo i binari, potrebbe anche sparare prima di fare domande.
Neil era cosciente di questo, nonostante i suoi diciannove anni. Ma la guardia sembrava un brav’uomo. E’ qui che la descrizione del fatto, di per sè delicato e pericoloso, diventa divertente e si presta a quel sottile umorismo inglese di cui parlavo.
Scrive Neil:
“I assured him that I had no intention of moving and the small figure, holding a rifle and seeming uncertain as to what to do next, fumbled about in the dark, presumably hunting for a torch or light. For an instant, I thought of offering to hold his gun whilst he did so and found myself grinning then wanting to giggle”.
“Lo rassicurai che non avevo intenzione di muovermi e la piccola figura, tenendo un fucile e sembrando incerto su cosa fare, armeggiò nel buio, forse cercando una torcia o una qualche fonte di luce. Per un attimo pensai di offrirmi di tenergli il fucile mentre cercava e mi trovai a ghignare e mi veniva da ridere”.
Ecco. Una situazione tragicomica. Lo standard di questo libro.
In questa occasione fu praticamente arrestato. Ma dopo essere stato identificato, la sua situazione cambiò sensibilmente. Dovette passare la notte confinato in una stanza, insieme a un gruppo di operai della ferrovia, che gli offrirono del thè e un letto lercio.
Anche la descrizione di questa notte, trascorsa senza quasi dormire, ha risvolti tragicomici. Non poteva uscire e andarsene. Forse, in considerazione della sua giovanissima età, aveva circa diciannove anni, i suoi più attempati detentori volevano solo evitare che andasse a cacciarsi in guai più seri.
Neil descrive senza mezzi termini il russare dei suoi compagni di stanza, gli odori e i rumori, e le condizioni del suo giaciglio, dalle lenzuola nere e infestato di pulci.
Avevo letto con piacere, nei primi capitoli, il racconto del periodo della scuola di volo. Neil descrive l’ambiente, gli istruttori e gli aerei. Negli altri due libri non ne aveva parlato in maniera particolareggiata. Molto interessante per un pilota.
Ma l’argomento che speravo di trovare e che, anche questo, non era stato troppo sviscerato negli altri libri, era l’incontro – scontro con i piloti italiani.
Uno dei pochi Fiat CR-42 Falco ancora oggi esistenti al mondo – fatto salvo per quello conservato gelosamente all’interno del Museo Storico dell’AMI a Vigna di Valle – Roma, è un esemplare britannico che fa parte della The Fighter Collection, strabiliante raccolta di cimeli rigorosamente volanti della II Guerra Mondiale. Questo Falco faceva bella mostra di sè nel corso della Flying Legends Airshow a Duxford, in Gran Bretagna, in attesa del completamento del restauro che gli consentirà di tornare in volo. E’ una fedelissima ricostruzione di un Falco della Regia Aeronautica realizzato partendo da un Falco incidentato svedese.(foto proveniente da www.flickr.com)
I pochi aerei che avevano attraversato la Manica per bombardare l’Inghilterra erano stati decimati. I caccia CR42 che li scortavano erano stati abbattuti o respinti.
Neil non li aveva mai incontrati personalmente. Non nasconde di essere stato molto interessato ad incontrarli, ma per una serie di ragioni non era accaduto.
I suoi compagni di squadriglia che avevano combattuto contro i nostri biplani, sebbene ne avessero parlato in maniera vagamente ironica, avevano, però, anche detto che non dovevano essere sottovalutati. Erano rimasti sorpresi dalla loro estrema maneggevolezza. E dall’abilità dei piloti, dal loro coraggio, dal loro valore. Avevano espresso un certo rispetto per quei poveri diavoli, seduti in cabine aperte, nel freddo tremendo e a contatto diretto con il vento gelido, senza capi di vestiario adeguati, senza ossigeno, penalizzati ancor più dalla lentissima velocità dei bombardieri bimotori che dovevano scortare e difendere.
Uno di quei caccia, proprio un CR42, si trova oggi a Hendon, vicino Londra, al Museo della RAF. L’ho visto alcuni anni fa, quando c’era solo quello da poter vedere. Poi ne è stato ricostruito anche un altro che ora si trova al Museo di Vigna di Valle, sul lago di Bracciano. Ma credo proprio che non ne esistano altri al mondo.
Tornando alla mia legittima curiosità di sapere cosa pensavano i britannici degli italiani, che allora erano ancora nemici e che solo più avanti non lo sarebbero stati più, arriviamo finalmente al diciannovesimo capitolo. Il titolo è: “Flight to Malta”.
Infatti Neil, con la sua squadriglia, fu trasferito a Malte nel 1941.
Malta è stata sempre un obiettivo strategico, durante la Seconda Guerra Mondiale. La sua posizione era strategica per natura. Le forze dell’Asse che combattevano in Africa dovevano attraversare un bel pezzo di mare per raggiungere il Nord Africa e rifornire i loro contingenti di ogni tipo di materiale e di truppe. Da Malta era facile intercettare i convogli di navi. E perfino le squadriglie di lenti trimotori che volavano dalla Sicilia alla Libia e viceversa. L’isola si trovava proprio a metà strada tra le coste della Sicilia e le coste africane.
Una rara immagine di un Macchi MC 202 Folgore al suolo, ripreso in rullaggio tra gli ulivi e con lo specialista appollaiato all’estremità dell’ala. Lo scatto proviene da qualche aeroporto del sud Italia durante la II Guerra Mondiale e testimonia la necessità – o meglio l’espediente – di decentrare i velivoli in mezzo agli uliveti, ossia in aree prossime alla pista dell’aeroporto per sottrarli all’attacchi al suolo avversari. Il Folgore fu un ottimo velivolo ma, la sua tardiva comparsa in combattimento e l’esito ormai irrimediabilmente segnato del conflitto, permise ai piloti della Regia Aeronautica solo di confrontarsi tecnologicamente alla pari con i piloti Alleati, non certo in termini numerici (foto proveniente da www.flickr.com)
Per questo Malta era stata messa sotto una sorta di assedio e veniva attaccata frequentemente dai nostri caccia, non solo dai soliti CR32 e CR42. C’erano anche i vecchi Macchi 200, a cabina aperta e soprattutto i Macchi 202. Dopo comparvero sulla scena anche altri tipi di caccia più moderni, che potevano davvero competere con gli obsoleti Hurricane britannici. Gli Spitfire furono mandati a Malta solo più tardi. Allora entrarono in gioco i nostri nuovi Macchi 205, che poco avevano da invidiare perfino agli Spitfire. Ma ormai la guerra aveva già preso tutta un’altra piega.
No, non avete le traveggole … questo scatto d’epoca testimonia l’audace operazione con la quale fu rimpinguata la difesa aerea di Malta: lanciare da una portaerei in navigazione nel bel mezzo del Mediterraneo un cospicuo numero di caccia terrestri. Ai comandi di uno di questi, un Hawker Hurricane, c’era proprio il nostro autore. Inutile precisare che si sarebbe trattato di una missione di sola andata: o atterravi a Malta aeroporto o ammaravi … Tom Neil atterrò a Malta! (foto proveneiente da www.flickr.com)
Tom Neil arrivò a Malta attraverso il Mediterraneo a bordo di una portaerei inglese.
Quando giunse vicino a Malta, ma non troppo vicino, la sua squadriglia decollò dal ponte della nave e raggiunse l’isola in volo.
La descrizione di questo viaggio è interessantissima e lascio il piacere di leggerla a chi lo vorrà fare.
Non si tratta di una storia semplice. E’ intrisa di avventure di ogni tipo, difficoltà di navigazione, pericoli, avarie (una delle peggiori toccata proprio a Neil) e di strategie militari tipiche di un teatro di guerra tra i più pericolosi e subdoli. Basta pensare al fatto che il Mediterraneo non è piccolo come sembra se lo guardiamo sulla superficie di un mappamondo. Ore e ore di navigazione senza riferimenti sul mare, con un ingombrante serbatoio supplementare sotto la fusoliera, senza armi, che erano state tolte per compensare il maggior peso costituito dalla benzina in più. E con un solo motore.
Ancora una splendida ripresa frontale del caccia più famoso della Battaglia d’Inghilterra: il Supermarine Spitfire. Nello specifico, si tratta di un Mk VC appartenente al 315° Czechoslovak Squadron di stanza a Yeovil (nel Somerset – Gran Bretagna) nel 1942. (foto proveneiente da www.flickr.com)
Ammarare, sapendo che l’Hurricane affonda immediatamente dopo aver toccato, lascia poco tempo tra la possibilità di vivere o morire.
I capitoli successivi raccontano della vita su Malta. E sono di estremo interesse, specialmente per chi conosce la Malta di oggi.
Neil operava da un aeroporto che oggi non esiste più, ma se si guarda l’isola in una delle fotografie di Google Earth si riesce facilmente a localizzarlo. L’impronta della pista e delle vaste aree aeroportuali è ancora ben stampata nel paesaggio, come la cicatrice di una ferita. Basta digitare il nome del vecchio aeroporto, Ta Kali, nel campo di ricerca di Google Earth per trovarlo.
Nei primi mesi del 1941, i pochi Hurricanes presenti a difesa dell’isola dovevano affrontare i caccia e i bombardieri tedeschi. Ma le incursioni, abbastanza frequenti, non sembravano fare molti danni. Oltretutto, appena i tedeschi entrarono in guerra con i loro ex alleati russi, aprendo sprovvedutamente un altro fronte, trasferirono ad Est le loro forze aeree e rimasero solo gli italiani ad attaccare l’isola.
Thomas Francis “Ginger” Neil ci ha lasciato alla veneranda età di 98 anni, tre giorni prima del compimento del suo compleanno e, al di là delle medaglie conseguite, delle onorificenze che gli furono attribuite per la sua breve quanto intensa attività di pilota da caccia, ci piace ricordarlo come il ragazzo appena ventenne che si trovò nel bel mezzo della Battaglia d’Inghilterra prima, e di Malta poi.
Leggendo queste vicende mi imbattevo spesso nella parola “Huns” che significa “Unni” e che si riferisce ai tedeschi. E questo termine mi era chiaro per averlo trovato in tutti i libri di Neil. Evidentemente era un termine molto usato all’epoca.
Ma ad un certo punto ho trovato la parola “Eyeties“. E questa non era mai stata usata prima, né spiegata in alcun modo.
Non sapendo come tradurla ho continuato a leggere per vedere se più avanti, almeno dal contesto, potessi venire a capo del dilemma.
Pian piano ho cominciato a capire che si riferiva agli attaccanti, ai nemici. E siccome ormai i nemici erano solo, o prevalentemente, gli italiani, doveva riferirsi a loro. Ma in che modo?
Una breve ricerca su Internet ha chiarito la faccenda.
Quando gli alleati prendevano prigionieri scrivevano la nazionalità accanto al loro nome. Nel caso degli italiani mettevano la sigla “IT” che sta per “Italian“.
E come si pronunciano, in inglese queste due lettere? Si pronunciano “Ai Ti”.
Al plurale si dice “Ai Tis”.
A forza di usare questa sigla, divenuta di uso comune, qualcuno ha preso a riferirsi agli italiani come agli “Eyties“.
Uno dei velivoli protagonisti della Battaglia di Malta fu il Macchi MC-200 Saetta che qui vediamo ritratto preso il Museo Storico dell’AMI a Vigna di Valle sul Lago di Bracciano. Il Saetta fu il primo velivolo moderno entrato in servizio nei reparti della Regia Aeronautica. Arrivò nel 1939, mentre imperversavano ancora i biplani; si presentò come il primo monoplano interamente metallico con carrello retrattile e struttura a guscio … peccato che avesse un motore troppo poco potente (solo 840 cv), un armamento assai limitato (solo de mitragliatrici calibro 12, 7 mm) e la cabina aperta. Certo era maneggevole (sebbene fu inizialmente afflitto da problemi di autoritazione poi risolti) e, in più occasioni, tenne testa agli Hawker Hurricane nel combattimento manovrato ma non aveva granchè possibilità di vittoria contro i ben più veloci Spitfire (foto proveniente da www.flickr.com)
Il primo vero riferimento agli Eyties che Neil fa, e che riguarda il modo in cui erano considerati i nostri connazionali si trova nel ventesimo capitolo.
“Soon, the Hun units, which had dealt so harshly with our ships and aircraft in and around Malta, would be departing for the borders of Russia, leaving us only the Italians with whom to wage war. Had we known of this at the time, we might have felt rather better; The Germans we could just about cope with, the Eyties we regarded as easier meat. After all, were they not the chaps whose tanks were said to have one forward gear and four reverse, and who boasted that nothing could catch their cruisers and destroyers?”.
“Improvvisamente, le unità tedesche, con le quali avevamo avuto a che fare così duramente con le nostre navi e aerei nell’isola di Malta e nei suoi dintorni, erano partiti per il fronte russo, lasciandoci solo gli Italiani con i quali fare la guerra. Lo avessimo saputo all’epoca, ci saremmo sentiti piuttosto meglio; con i Tedeschi potevamo appena competere, gli Italiani li consideravamo come carne più facile. Dopo tutto, non erano forse quelli, dei cui carri armati, si diceva che avessero una marcia avanti e quattro indietro, e che si vantavano che niente potesse raggiungere le loro navi da guerra?”.
E aggiunge, riferendosi ai nostri aerei che avevano attaccato, tempo prima, l’Inghilterra:
“…we had heard all about the Fiat BR 20 bombers and CR 42 fighters. Biplane fighters!”.
“…avevamo sentito dei bombardieri Fiat BR 20 e caccia CR 42. Caccia biplani!”.
Più avanti Neil parla di quattro aerei Savoia italiani intercettati vicino all’isola. Uno era stato abbattuto e solo un componente dell’equipaggio si era salvato. Ma anche un pilota inglese, un sergente di nome Rex, era stato abbattuto.
L’inglese, sostenuto dalla sua Mae West, aveva preso a nuotare, purtroppo nella direzione sbagliata.
L’italiano si era aggrappato ad un pezzo di ala che galleggiava e ci si era sistemato sopra.
Un coppia di Fiat BR-20 Cicogna in volo in alta quota. Il bombardiere bimotore, progettato dall’ing Celestino Rosatelli, partecipò alla Battaglia di Malta ma il suo carico bellico limitato e l’armamente difensivo non certo portentoso non furono determinanti nell’esito dello scontro. E pensare che, allo scoppio dello ostilità, le difese dell’isola sarebbero state sopraffatte assai facilmente in quanto male in arnese sia a livello numerico che tecnologico (foto proveniente da www.flickr.com)
Entrambi furono salvati da una lancia. Il viaggio di ritorno verso la costa durò due ore.
Dice Neil:
“Rex and the Eytie spent the next two hours sitting in the launch, commiserating with each other”.
“Rex e l’Italiano passarono le successive due ore seduti nella lancia, commiserandosi a vicenda”.
Alla fine, siamo proprio tutti esseri umani.
L’italiano era ferito e ustionato. Fu portato all’ospedale in una località di nome Imtarfa.
Un paio di giorni dopo, Neil e altri commilitoni andarono a far visita all’italiano ferito. Gli portarono alcune cose che pensavano potessero essergli utili e perfino un rasoio per potersi radere.
Lo trovarono in uno dei vani dell’ospedale e sembrava molto in apprensione per la propria sorte.
Con l’assistenza di un medico che parlava italiano cercarono di calmarlo e rassicurarlo. Passarono un certo tempo con lui.
Mi viene da pensare che forse andarono più per interrogarlo che per confortarlo. E forse lo fecero senza parere, sfruttando la naturale tendenza degli italiani alla socializzazione e al fatto che pochi, all’epoca, erano quelli che veramente volevano la guerra.
Quando andarono via il piccolo uomo li salutò con gratitudine e amicizia, felice come un bambino.
Ora sarebbe interessante fare una ricerca, vedere chi fu abbattuto in quella data nel mare di Malta e scoprire chi fosse quell’uomo. E che fine ha fatto dopo il ricovero in ospedale.
C’è anche un altro abbattimento, descritto nelle pagine successive. In questo caso, però, i superstiti erano di più. E rimasero a galleggiare in mare per parecchio tempo. In loro soccorso partì un idrovolante italiano della Croce Rossa. Giunto nei pressi dei superstiti l’aereo si apprestava ad ammarare.
Una squadriglia, di cui Neil non faceva parte, sorvolò la zona e riportò per radio, al controllo dell’epoca, il quadro della situazione.
A leggere le vicende narrate da Tom Neil nel suo libro, era probabilmente un idrovolante come questo – un Cant Z 501 Gabbiano – che, nonostante le insegne della Croce Rossa, fu abbattuto nello specchio di mare antistante l’isola di Malta. Da questa foto d’epoca s’intuisce che un velivolo del genere era praticamente inoffensivo, disarmato e utilizzato solo per la ricerca e il soccorso non certo per operazioi offensive (foto proveniente da www.flickr.com)
L’ordine fu perentorio: abbattere l’aereo soccorritore.
Il caposquadriglia rispose rabbiosamente che non si poteva fare una cosa del genere, aggiungendo che l’aereo aveva le croci rosse ben visibili su ali e fusoliera.
Ma stavolta non c’era nessun sergente Rex da salvare. L’ordine fu confermato in maniera perentoria.
L’aereo fu abbattuto. E, forse, altri uomini furono lasciati a morire in mare, in modo orribile.
Bene. Devo dire che Neil afferma di aver rilevato una notevole costernazione per quell’ordine e per quello che qualcuno aveva dovuto fare. Tutti erano rimasti sconcertati dal fatto che qualcuno potesse aver dato un ordine tanto estremo e che qualcun altro avesse dovuto trovare la forza per eseguirlo.
Ma anche così, la realtà non cambia.
La guerra è una cosa stupida e crudele. Ma mi permetto di aggiungere, poiché lo credo fermamente, che gli “Eyeties” non si sarebbero macchiati di un crimine del genere.
Nei mesi di permanenza di Neil a Malta si susseguono scontri con squadriglie italiane. I caccia Macchi 200 erano piuttosto ridicoli agli occhi degli inglesi. Il fatto che avessero la cabina aperta, con solo un deflettore, faceva pensare che gli italiani li preferissero così.
E vi sono racconti di incursioni sulla Sicilia, per attaccare le nostre basi.
In generale, però, se le nostre formazioni passavano in quota e non si mostravano aggressive, qualche volta gli inglesi non si degnavano neppure di partire per intercettarli.
La vita sull’isola era piuttosto miserabile. Neil scrive di stormi di zanzare, eserciti di pulci dalle quali non ci si poteva difendere neppure con quintali di DDT, che facevano più male alle persone che ai parassiti. Il caldo era atroce. Il cibo pessimo.
Tutti cercavano di sopravvivere al meglio possibile.
All’epoca si leggevano certi libri che andavano per la maggiore. Uno di questi era “Winged Victory“, di Victor Yeates.
Ho recensito già questo libro, con il titolo di “Vittoria tra le nuvole“, qui su Voci di Hangar.
Il libro autobiografico “Winged Victory” o “Vittoria tra le nuvole di Victor Yeates citato da Tom Neil nelle pagine de suo volume
Si trova anche con altri titoli, come “Alta quota“.
Invito a cercare la mia recensione e leggerla. E’ davvero un libro interessante.
Nel raccontare la vita quotidiana su Malta, Neil riporta anche alcuni episodi che credo di aver identificato in certi fatti storici letti in altri libri. Si tratta di attacchi alle navi inglesi nel porto di Malta, che la nostra Decima MAS condusse con successo e che rappresentò il valore dei nostri militari, anche se la Storia ha finito per rendere evidente che combattevano dalla parte sbagliata.
Sbagliata, certamente, perché non si può pensare che combattere al fianco di un pazzo criminale come Hitler significasse stare dalla parte giusta.
Era un’altra epoca, si credeva in altri valori, non c’era modo di confrontarsi con altre idee, non c’era internet, la televisione era appena in embrione e la radio trasmetteva solo ciò che serviva al regime. Ma il valore è un’altra cosa.
Neil descrive i famosi barchini velocissimi che si presentarono vicino al porto maltese e attaccarono con decisione la flotta alla fonda. Alcuni furono distrutti e gli incursori uccisi o catturati.
Erano Eyeties, ma erano eroi. Qualunque cosa pensassero gli inglesi degli italiani.
Il caccia Macchi 202 faceva la sua comparsa in quel periodo.
“There was news, too, of the Eyeties getting something called a Macchi 202, which had the same in line engine as the 109 and was supposed to be about as fast. None of us had seen any, but we were not too concerned about the prospect of meeting them. Eyeties were Eyeties, when all was said and done”.
“C’erano notizie, pure, che gli Italiani avessero qualcosa chiamata Macchi 202, che aveva lo stesso motore del Me 109 e che avrebbe dovuto essere altrettanto veloce. Nessuno di noi ne aveva mai visto uno, ma non eravamo troppo preoccupati dalla prospettiva di incontrarli. Gli italiani erano italiani, dopo tutto”.
Una splendida immagine dal basso di uno Spitfire. Nell’attivazione dello scramble e durante lo scramble gioca un ruolo fondamentale il sistema di avvistamento radar e il sistema di controllo a terra chiamato sinteticamene “Guidacaccia”. In effetti l’intrusione viene dapprima rilevata dai radar di terra (o aviotrasportati ), quindi la Sala comando direziona e coordina i velivoli intercettori verso il “bogey”. Durante la Battaglia d’Inghilterra assunse un ruolo determinante la rete dei radar costieri che, sebbene ad un livello tecnologico piuttosto grezzo, quasi sperimentale, erano in grado di rilevare l’avvicinarsi – e spesso lo stesso involarsi – degli aerei nemici in avvicinamento alla costa britannia. A quel punto, i piloti del sistema di difesa aerea dell’isola venivano allertati con l’ordine di scramble. Era sufficiente una semplice telefonata ricevuta dal comando del reparto ad attivarli. Dopodichè partiva una corsa contro il tempo: i piloti si precipitavano nei propri velivoli – se non erano già a bordo – e decollavano prima possibile nel tentativo di contrastare il nemico prima possibile. (foto proveniente da www.flickr.com)
Concetto piuttosto chiaro.
Che gli italiani combattessero malvolentieri e che si sentissero, almeno alcuni di loro, dalla parte sbagliata, corrisponde a tanti racconti che ho sentito da persone che la guerra l’avevano fatta. Si sapeva addirittura di possibili sabotaggi ai siluri che i nostri aerosiluranti andavano a sganciare a poche centinaia di metri da una nave avversaria. Nave che sparava su di loro con tutte le armi disponibili, per tutto il percorso di avvicinamento, anche quando l’aereo era costretto a sorvolare quella nave ad appena poche decine di metri di quota e poi per tutto il lento allontanamento successivo.
Spesso l’aereo veniva abbattuto.
Neil racconta uno di questi siluramenti, mentre andava in Egitto, al termine della sua permanenza sull’isola di Malta. Il convoglio, del quale faceva parte la nave sulla quale era imbarcato, fu attaccato da un aerosilurante italiano. Il siluro fu sganciato proprio sulla sua nave, ma non scoppiò.
L’aereo fu abbattuto.
Come ho detto, sarebbe interessante fare un raffronto tra questi racconti e i documenti ufficiali, per risalire ai nomi degli eroici Eyeties…
E Neil dice anche che spesso riuscivano a sapere il destino degli equipaggi dei nostri abbattuti. La radio italiana ne parlava e a Malta molte persone erano di origini italiche e capivano la nostra lingua. Gli inglesi avevano ormai radicate relazioni con le donne maltesi. Qualcuno si è poi addirittura sposato con una di loro.
“If we had shot at a Macchi, a Cant or a Savoia, we simply asked the girlfriend the following day for news of its fate. And usually they were able to oblige”.
“Se avevamo sparato ad un Macchi, un Cant o un Savoia, chiedevamo semplicemente ad una delle ragazze, il giorno successivo, notizie del suo destino. E di solito erano in grado di dircelo”.
In questo libro tutto è molto interessante.
La mia curiosità riguardo all’interazione con i nostri connazionali che, in un certo senso, tenevano Malta sotto una sorta di assedio, è stata abbastanza soddisfatta. Neil parla di tutto ciò, molto più di quanto io abbia riportato in questa recensione.
Non posso dire che ci stimassero. Certamente no. Chi leggerà il libro si farà un’idea personale al riguardo. Gli episodi furono tanti, nei pochi mesi di permanenza di Neil.
Nel corso delle varie battaglie aeree che si consumarono durante la II Guerra Mondiale – prima fra tutte la Battaglia d’Inghilterra – c’erano spesso lunghe attese tra uno scramble e l’altro per i piloti della difesa aerea. La foto ritrae un pilota da caccia pronto al decollo, a bordo del suo Spitfire che osserva con indulgenza il proprio specialista mentre egli aggiorna l’inventario dei velivoli nemici abbattuti. Giusto per allentare la tensione … giacchè sono entrambe in attesa di uno scramble. Siamo a Malta che fu lungamente bersagliata dagli attacchi aerei della Regia Aeronautica e della Luftwaffe in quello che viene considerato l’assedio o la Battaglia di Malta. Nella piccola perla del Mediterraneo, caposaldo e crocevia dei flussi navali diretti verso il Nord Africa, non fu allestita la mirabolante difesa aerea realizzata e fortemente voluta dall’Air Marshal, sir Hugh Dowding che protesse la madrepatria, tuttavia la vincente logica dello scramble fu praticata a Malta come in Gran Bretagna. E il successo dei difensori si compì a Malta come in Gran Bretagna a dimostrazione che, pert difendere il suolo e il cielo patrio, non occorreva tenere in volo grandi formazioni di velivoli da caccia in attesa di “ricevere” gli attaccanti. (foto proveniente da www.flickr.com)
La Storia generale è più ampia. Solo su Malta si potrebbero scrivere metri cubi di libri.
Questo libro prosegue con l’interessantissimo viaggio di ritorno dell’autore nella madre patria, la Gran Bretagna, sempre con un convoglio di navi. Il racconto, zeppo di episodi che fanno trattenere il respiro, parla della circumnavigazione dell’Africa, delle soste in porti adeguati per rifornirsi e di soste in mare aperto, in giorni di tempesta.
Ma per concludere, voglio riportare un episodio avvenuto su Malta. E’ un altro dei tanti.
Ero un po’ deluso dalla dilagante opinione negativa che riguardava gli italiani. Non nascondo che spesso aspettavo la conclusione dei racconti con il malcelato desiderio che qualche Eyetie, alla fine, gliele suonasse di santa ragione. Poi mi sono imbattuto in questo episodio, che spero possa ripagare il lettore del tedio di leggere una recensione così lunga:
“Later the same day, Butch Barton, with the other half of 249, chased a minor swarm of Macchi 200s toward the sicilian coast, at which point, to Butch’s considerable consternation, the Eyeties suddenly turned and fought like tigers”.
Oggi, in Italia, la difesa dello spazio aereo è affidata a quattro squadriglie, tutte equipaggiate con caccia multiruolo Eurofigher Typhoon: il 4° Stormo di base a Grosseto e il 51° Stormo di base a Istrana, il 36° di base a Gioia del Colle e il 37° di base a Trapani. Grosseto fornisce la copertura del centro-nord ovest, Istrana copre per il nord est, Trapani e Gioia del Colle il sud del paese. Ogni squadriglia ha sempre una coppia di intercettori pronti al decollo in un manciata di minuti dal segnale di scramble mentre gli equipaggi sono pronti al volo 24 ore al giorno per 365 giorni l’anno. Quello ritratto è appunto un Typhoon appartenente al IV Stormo di stanza a Grosseto. (foto proveniente da ww.flickr.com)
“Più tardi lo stesso giorno, Butch Burton, con l’altra metà della squadriglia 249, inseguì un piccolo gruppo di Macchi 200 verso la costa siciliana, e a quel punto, con considerevole costernazione di Butch, gli italiani virarono improvvisamente e combatterono come tigri”.
Recensione a cura di Evandro Aldo Detti (Brutus Flyer),
Didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR
Dopo aver letto altri due libri di Bruno Servadei, “Vita da cacciabombardiere” e “Ali di travertino“, mi è capitato tra le mani questo di cui mi accingo a scrivere la recensione, dopo averlo letto con notevole gusto.
I primi due erano molto interessanti. “Vita da cacciabombardiere” era tutto focalizzato sull’attività dell’autore come pilota militare e quindi raccontava tanti episodi di volo. Per un pilota di Aeroclub come me rappresentava l’occasione di poter gettare uno sguardo all’interno di quel tipo di vita che avevo tanto desiderato fare, ma che mi era sfuggita per un soffio.
Avevo chiuso l’ultima pagina augurandomi che l’autore non si fermasse al primo libro e ne scrivesse altri. Ricordo vagamente di aver sentito dire che questa fosse la sua intenzione, così almeno sembra avesse detto a qualcuno.
Se sperate di ritrovarvi tra le mani un libro pieno di avventure di volo, di rocambolesche missioni in territorio nemico, di manovre acrobatiche al limite della resistenza fisica del pilota, beh … ritenetevi pure vittime di un piccolo equivoco: nelle pagine di “Un pilota a palazzo” il nostro pilota (e che pilota!) vola solo “con le scrivanie” e semmai in qualità di passeggero a bordo di velivoli rigorosamente disarmati. Quali? … questo, per esempio. Si tratta di uno splendido Gulfstream III immortalato in uno scatto risalente al 1992 a Edimburgo. Utilizzato dall’Aeronautica Militare Italiana in quelli che vengono chiamati “voli di stato, era in forza presso il 31 Stormo di stanza a Ciampino (Roma). Era, perché è stato radiato nel 2004 dopo anni di onorato servizio spesi per trasportare appunto il Presidente della Repubblica e i suoi assistenti, Bruno Servadei compreso. E chissà quanto avrà sofferto l’autore a non potersi sedere in cabina di pilotaggio … Di certo non soffrirà il lettore perché – ve lo anticipiamo – questo libro si legge che è un vero piacere e scorre via veloce nonostante i precedenti libri di Servadei descrivano situazioni ben più dinamiche. Dunque a maggior ragione va riconosciuta ed elogiata la capacità narrativa dell’autore che, seppure muovendo la narrazione all’interno del Palazzo (o poco più), riesce a catalizzare l’attenzione del lettore fino all’ultima pagina senza annoiarlo. (foto proveniente da www.flickr.com)
Poi, un giorno, mi capitò il suo secondo libro: “Ali di travertino“, focalizzato sul periodo di servizio che l’autore aveva svolto al Ministero dell’Aeronautica di via Castro Pretorio a Roma, presso lo Stato Maggiore Aeronautica.
Anche questo mi aveva interessato moltissimo, perché anch’io avevo passato nove anni di vita militare in quel palazzone, nel reparto telecomunicazioni.
Dopo aver letto il secondo libro contattai Bruno Servadei, ma non ricordo come. Lui aveva promesso che, se qualcuno glielo avesse chiesto, avrebbe inviato un paio di DVD contenenti foto e video della sua vita di pilota militare. Infatti li ricevetti e ancora li conservo con cura.
In quel periodo lavoravo come controllore sulla Torre dell’aeroporto dell’Urbe. Qualche anno dopo andai in pensione.
Francesco Maurizio Cossiga, sassarese di nascita, ci ha lasciato nell’agosto 2010 dopo aver segnato in modo indelebile la politica italiana nel corso di quella che viene abitualmente identificata come “Prima Repubblica”. Tra i tanti incarichi rivestiti, è stato anche l’ottavo presidente della Repubblica dal 1985 al 1992 quando, in anticipo di qualche mese dalla naturale scadenza del mandato, si dimise, giusto per dare l’ennesimo scossone al “sistema”. In effetti è ricordato dagli italiani per essersi definito un “picconatore del sistema” sebbene, più lontano del tempo, fu spesso considerato un “ministro di ferro” in virtù del polso fermo con cui svolse più volte il ruolo di Ministro degli Interni. Certamente fu un politico controverso, un presidente eccentrico per alcuni versi, e rimarrà nella memoria collettiva per le sue celebri “picconate” o “esternazioni”. (foto proveniente da www.flickr.com)
Questo libro, “Un pilota a palazzo” riguarda i tre anni di servizio che Bruno Servadei ha trascorso presso il Quirinale, quale consigliere aggiunto per l’Aeronautica Militare del Presidente della Repubblica, che allora era Francesco Cossiga.
Il bel libro di Bruno Servadei, contrariamente ai suoi precedenti, non si svolge in un aeroporto militare o in un poligono di tiro dell’Aeronautica Militare Italiana bensì nel Palazzo del Quirinale, a Roma. Si tratta di un palazzo storico, eretto sull’omonimo colle e affacciato sull’omonima piazza. Già residenza papale, divenne la residenza ufficiale del Re d’Italia e poi, con l’avvento della Repubblica, dal 1946 ospita il Presidente della Repubblica Italiana. Assieme a Palazzo Madama e a Palazzo Montecitorio, è dunque per antonomasia un simbolo dello Stato italiano. La prima “salita al colle” dell’autore è al limite del tragicomico: egli entra dall’ingresso di rappresentanza ma viene prontamente placcato da un sedicente funzionario che lo invita a ripetere l’operazione da una delle entrate di servizio del Quirinale. Il lettore non potrà fare a meno di ghignare giacché questo pilota, capace di raggiungere un obiettivo in territorio nemico a velocità folle, a bassissima quota e portandosi appresso un carico bellico (anche nucleare), beh … toppa l’ingresso al Quirinale! (foto proveniente da www.flickr.com)
Il primo capitolo comincia proprio con l’arrivo dell’autore al Quirinale, un luogo che per tutti noi rappresenta semplicemente uno dei punti caratteristici di Roma. Non solo per noi che viviamo in questa città, ma anche per ogni turista al quale capiti di passarci davanti.
Il Palazzo del Quirinale ha una dimensione davvero notevole: ben 110 mila e 500 m² di superficie al punto che è annoverato come uno dei palazzi del potere tra i più grandi al mondo. Tanto per fare un confronto, si consideri che il complesso della Casa Bianca (Stati Uniti) ha superficie di circa 1/20 di quella del Palazzo del Quirinale. Chissà quante volte il nostro Bruno Servadei avrà scorrazzato da una parte all’altra del grande cortile interno del Quirinale e chissà se avrà mai esplorato gli sconfinati giardini del Quirinale, naturalmente per motivi di servizio … (foto proveniente da www.flickr.com)
Ma una cosa è vedere da fuori l’ingresso del Quirinale, con i suoi corazzieri di guardia e una cosa ben diversa è presentarsi davanti a loro per entrare a prendere servizio nell’entourage del Presidente della Repubblica Italiana.
Già dalle prime righe del primo capitolo si entra in una realtà così coinvolgente che ci lascia incollati alle pagine. E queste scorrono via veloci da subito, perché lo stile di Bruno Servadei è davvero coinvolgente. Il suo modo chiaro, semplice, anche nelle descrizioni più complesse, fa sentire il lettore come se stesse al suo fianco. E si finisce per provare fisicamente le emozioni descritte dall’autore.
Nel secondo capitolo si parla di quali erano le sue funzioni, ma ci si arriva gradualmente, come passando attraverso una sorta di cortina di incertezza. Non appare subito chiaro ed evidente quali compiti deve assolvere una figura come la sua. Dovremo girare molte pagine prima di saperlo con certezza. Ma l’interesse aumenta a ogni pagina girata, perché non capita spesso di ritrovarci ad esplorare certi ambienti, generalmente troppo lontani dalla nostra realtà.
La figura del Presidente Cossiga resta quasi costantemente un po’ sfocata nelle descrizioni, tranne in poche occasioni, quando si fa più vicina e distinta. Ma Cossiga è stato un personaggio di un certo spessore nella Storia del nostro paese. E proprio il fatto che il Presidente di quel periodo fosse lui rende ancora più avvincente questo libro.
La copertina della versione digitale del libro di Bruno Servadei
Per quanto mi riguarda, ho trovato molto interessanti i riferimenti a certi avvenimenti di rilievo dei quali avevo una conoscenza più diretta. Per esempio, Servadei parla delle esercitazioni Wintex, che ogni due anni avevano luogo e coinvolgevano tutti i reparti dell’Aeronautica, compreso il Centro Comunicazioni dove prestavo servizio. Ero un Marconista, allora. Ma non un operatore, ero un tecnico. In quelle esercitazioni dovevo realizzare, a richiesta, sia di giorno che di notte e quasi immediatamente, nuovi collegamenti telefonici, telegrafici (telescriventi) o addirittura nuovi canali radio.
Interessantissimi sono i riferimenti anche alla cosiddetta “Strage di Ustica“. Pur senza rivelare nulla di inedito, come è ovvio che sia, dal momento che ancora oggi resta un caso irrisolto, è avvincente conoscere il suo parere.
Poi ci fu un altro episodio, in quegli anni. Quello di Abu Abbas, che coinvolse un reparto dei nostri carabinieri nell’aeroporto di Sigonella. La stampa diede molto rilievo al fatto che i nostri carabinieri si opposero alla consegna di Abu Abbas ai Marines americani.
Chi ricorda questi avvenimenti troverà interessante il parere di Servadei.
E il sequestro dell’Achille Lauro?
Servadei mette in evidenza che a quell’epoca non esisteva un centro dove si potesse far fronte ad avvenimenti complessi e sensibili, dove si potessero concentrare specialisti di ogni settore e strumenti idonei a valutare velocemente situazioni da gestire in tempi rapidi, magari dopo un efficace coordinamento con tutte le organizzazioni dello Stato.
L’idea prende corpo e si profila il progetto di un ufficio, una sala, dedicata allo scopo.
E non mancano neppure svariati commenti contrari all’idea e resistenze di vario genere. Ma il progetto, sostenuto dall’alacre lavoro di Servadei, va avanti.
Si arriva così alla creazione di una sala situazione, un centro che fosse in grado di coordinare molti altri servizi importanti, compresi i Servizi Segreti.
Con la sua proverbiale schiettezza, Servadei così liquida il palazzo in cui trascorse tre anni della sua esistenza: “Per descrivere il Quirinale occorrerebbe un libro dedicato, e non intendo nemmeno provarci.” Pratica risolta! Nello scatto si noterà il torrino ove fanno bella mostra tre bandiere: quella dello Stato Italiano, dell’Europa e lo stendardo del Presidente, se presente in sede.(foto proveniente da www.flickr.com)
Nel libro non si parla solo del Quirinale. C’è anche una parte relativa alla tenuta di Castel Porziano, sul litorale laziale, di proprietà della Presidenza della Repubblica. La descrizione di questa grande area, con la sua pineta e la sua spiaggia, inaccessibile e sconosciuta a tutti, anche se si sa bene che esiste, è di grande interesse. Servadei ci conduce all’interno della tenuta e così possiamo “vederla”.
“Al centro dell’ampio portale, un po’ arretrato rispetto alla soglia, troneggiava un corazziere in alta uniforme. Ero anch’io in divisa, da colonnello pilota dell’Aeronautica ma ero ben lungi dall’avere un aspetto così imponente.” Descrive così Servadei l’immagine della Guardia di rappresentanza del Presidente, altrimenti chiamata “Corazzieri”. Neanche a dire che l’autore soffra di nanismo … no, sono proprio i Corazzieri che sono statuari (foto proveniente da www.flickr.com)
Una parte del libro è dedicata ai corazzieri. Li conosciamo tutti, da fuori. Ci stupiscono con la loro statura e la loro divisa che somiglia vagamente ad un’armatura, qualche turista riesce perfino a farsi una foto con qualcuno di loro, ma poi ognuno se ne va, lasciando l’episodio a livello di un semplice incontro.
In questo libro, invece di andarcene, entriamo dentro la loro realtà, nei loro locali, nella loro mensa. E ci sembra di conoscerli come si conoscono dei colleghi di lavoro.
In questo libro si parla poco di aerei, se ne accenna appena, qua e là.
Si parla invece di moto.
Non solo di quelle dei corazzieri, che all’epoca erano delle Moto Guzzi. E servivano ad accompagnare il Presidente nei suoi spostamenti ufficiali.
La retrocopertina di “Un pilota a palazzo” che, secondo la migliore tradizione editoriale, contiene dei brevi cenni biografici dell’autore. E sottolineiamo brevi perché il buon Servadei, nel corso della sua lunga carriera di pilota militare, ne ha viste e ne ha fatte davvero molte. Fortuna nostra vuole che ce le abbia pure raccontate!
Servadei abitava ai Castelli Romani, ad una certa distanza dalla città di Roma. Il traffico della Capitale è micidiale. La mattina si formano code tremende verso Roma e lo stesso avviene nel pomeriggio, verso fuori città. Le ore di punta rendono difficoltosi gli spostamenti. Una moto risolverebbe il problema.
E cosa fa Servadei? Rinuncia alla macchina ministeriale con autista e si compra una moto. Così può arrivare in perfetto orario, se non addirittura in anticipo, alzandosi tre quarti d’ora più tardi.
Che dire, anni fa, sia quando ero militare, sia dopo, quando lavoravo per quella che oggi è l’ENAV, anch’io ho risolto così il problema del traffico romano. Ho sempre avuto una moto, una passione che per me è stata seconda solo a quella per gli aerei e gli alianti.
Con la moto andavo tranquillamente a Ciampino o a Pratica di Mare, alzandomi più tardi e arrivando sempre in tempo nonostante le indescrivibili code del mattino. E tornavo a casa in breve tempo, superando chilometri di automobili che procedevano a passo d’uomo.
Io avevo una Moto Guzzi. Servadei opta, invece, per una Ducati.
Questione di gusti personali.
Una parte del libro parla dei voli di stato. E coinvolge anche i voli del Papa, il quale, come è noto, utilizza un elicottero dell’Aeronautica Militare. Nei viaggi più lunghi utilizza un aereo, all’epoca era un DC 9 oppure un Gulfstream G3, come fanno le alte cariche dello Stato Italiano.
Ma il Papa, formalmente, è il capo di uno Stato estero.
Eh, questa parte del libro è decisamente molto gustosa. Almeno lo è stata per me, durante la lettura.
Il nostro servizio di intelligence ci ha fornito questa preziosissima immagine che ritrae l’autore a colloquio segreto con l’allora il Presidente della Repubblica. In realtà lo scatto è pubblico ed è riportato diligentemente in un archivio a testimonianza storica dell’udienza tenutasi presso il Quirinale esattamente alle ore 10 e 30 di mercoledì 27 settembre 1989 nel corso della quale Il Presidente della Repubblica Francesco Cossiga ricevette il Col. Pil. Bruno Servadei. Con questa stretta di mano congedò formalmente il suo Consigliere Militare Aggiunto per l’Aeronautica e si chiuse così la frequentazione a Palazzo del nostro autore (Foto proveniente dal Portale storico della Presidenza della Repubblica https://archivio.quirinale.it/aspr/fotografico/PHOTO-001-079284/presidente/francesco-cossiga/col-pil-bruno-servadei-consigliere-militare-aggiunto-l-aeronautica-visita-congedo#n)
E le visite di Stato? Altra parte interessantissima. Queste hanno dato all’autore l’occasione di girare mezzo mondo, con molti aneddoti tutti da leggere. Anche in questi viaggi, alcuni dei quali in vari stati africani, abbiamo l’impressione di far parte delle delegazioni diplomatiche. Al punto che, chiuso il libro, ci sembra di essere appena tornati dalle missioni.
E quando il libro finisce veramente, lasciamo Servadei in procinto di essere trasferito.
Ma il nuovo incarico è altrettanto promettente. Si occuperà di cooperazione internazionale nel settore dell’industria della difesa con tutti i paesi della NATO, più alcuni altri.
Nelle ultime pagine, poche parole descrivono la cerimonia di commiato.
Il giorno dopo Servadei è su un volo per Montreal con un gruppo di persone sconosciute.
E mentre il suo aereo rimpicciolisce nell’immensità del cielo, verso nuove avventure, a noi resta una vaga speranza che appena ne avrà il tempo, non mancherà di raccontarcele.
Recensione di Evandro A. Detti (Brutus Flyer),
didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR
Facebook, a volte, è un social impagabile. Ci si trovano spesso cose straordinarie. In mezzo a tante banalità, bisogna dire anche questo. Stavolta ci ho trovato questa storia di guerra. Mi è piaciuta e l’ho copiata e tradotta. Ringrazio chi ha deciso di condividerla.
Questo bellissimo post mi sarebbe sfuggito, se colui che l’ha condiviso non avesse scritto quattro parole di presentazione: questa storia fa piangere.
Probabilmente le foto e le didascalie di questa recensione vi appariranno di parte … ebbene sappiate che ci è capitato raramente di poter parlare e mostrare materiale fotografico relativo a macchine volanti di costruzione germanica. Dunque lasciateci sfogare! Probabilmente è la sindrome dei vinti, sarà l’influenza del monopolio culturale anglo-britannico che ha dominato l’Europa occidentale a seguire la II Guerra Mondiale – e tuttora domina, diciamolo! – chissà … tuttavia, dal punto di vista storico e tecnologico, quanto riuscì mettere in aria la Forza armata germanica (la Luftwaffe) nel corso del conflitto costituisce qualcosa di prodigioso, specie se tenuto conto delle pesanti restrizioni cui era stata soggetto il paese all’indomani della sconfitta della I Guerra Mondiale. La Società delle Nazioni (l’equivalente dell’odierno ONU) aveva infatto stabilito condizioni molto stringenti in fatto di armamenti che consentivano agli uffici tecnici tedeschi delle aziende aeronautiche di progettare solo alianti e velivoli da turismo o di costruirli su licenza. La Messerschmitt, ad esempio, all’epoca chiamata Bayerische Flugzeug Werke di Augusta era letteralmente sull’orlo del fallimento agli inizi del 1930 e forse il velivolo mostrato nella foto non avrebbe mai visto la luce sui tavoli da disegno della BFW se Herr Willy Messerschimtt non avesse creduto nella bontà del suo estro creativo e dei suoi ingegneri. Il Bf 109 volò per la prima voltà nel 1935, vincitore di un concorso emesso dall’Aeronautica militare tedesca per un nuovo caccia con cui dotare la neonata forza armata. Vinse contro ogni previsione giacchè si scontrò con colossi come Arado, Heinkel, Focke-Wulf. Quando vinse fu decretato virtualmente l’inizio di una nuova generazione di caccia: monoplani, ala bassa, struttura metallica, carrello retrattile, cabina chiusa, motore raffreddato a liquido. Essa avrebbero dominato l’aria fino all’avvento di un’altra generazione ancora: i caccia a reazione. Ma quella è un’altra storia. (foto proveniente da www.flickr.com)
Stavo per andare oltre, ma l’argomento riguardava aerei, perciò ho deciso di leggerla. Ed ho fatto bene, perché si tratta di una storia certamente vera, con nomi, luoghi e date.
Lo dico subito: non mi ha fatto proprio piangere, ma ci è mancato poco. Di sicuro mi ha commosso.
Conosco almeno un paio di film dove viene rappresentato un caso come questo.
Uno è: “Il Temerario”, con Robert Redford. Anche se lì si parla di due piloti di caccia e la guerra non è la seconda, ma la prima. Però c’è sempre un forte spirito di cavalleria, di onore e di umanità.
L’altro è un episodio di “NCIS”, la serie televisiva ambientata a Washington, dove il padre del personaggio principale, Leroy Jethro Gibbs, a bordo di un caccia americano si trova perso, con gli strumenti in avaria sopra la Germania e un altro pilota, tedesco, quindi nemico, si affianca e gli indica la strada per tornare in Inghilterra, poi lo saluta militarmente, alzando la mano guantata allo stesso modo di Stigler. E qui siamo nella Seconda Guerra Mondiale. Questa scena è decisamente più simile, quasi uguale, a quella vera.
Sono sicuro che esistano altri film dove un evento simile viene utilizzato perché fa breccia nell’animo della gente e la scuote.
E’ una scena che commuove. Che fa piangere, appunto. Trovare anche nella ferocia della guerra un piccolo spazio per un gesto di umanità, non è cosa da poco.
Salvo che per averlo toccato con mano – si fa per dire – in qualche raro museo ove ne è conservato un rarissimo esemplare oppure avendolo visto da molto vicino in qualche memorabile manifestazione aerea, è assai diffcile rendersi conto delle dimensioni reali di un Bf 109. Ebbene questa foto dell’epoca ci consente di comprendere quanto fosse smilzo il caccia germanico, al di là dei suoi 10 metri di apertura alare, i quasi 9 metri di lunghezza e i 3,40 metri di altezza. Pesava “solo” intorno ai 2000 kg, dunque un condensato di ingegneria e di intuizioni vincenti. In effetti Messerschmitt aveva riunito nella sua creatura tutti quegli elementi e soluzioni tecniche avverinistiche che la tecnologia aeronautica, metallurgica e motoristica dell’epoca aveva da poco reso disponibili … un po’ come alla stregua dei fratelli Wright con il loro Flyer. Ma giusto una trentina di anni dopo gli albori dell’aviazione umana, a conferma che la storia – anche quella aeronautica – è un ciclo e riciclo: cambiamo le date, i luoghi, i nomi delle persone ma gli esseri umani sono sempre gli stessi. Da notare la bella decorazione del velivolo (foto proveniente da www.flickr.com)
Mi viene da pensare che gli autori delle due suddette scene possano aver conosciuto e riprodotto nella finzione, l’episodio vero di Stigler e Brown.
In realtà non dovrebbe essere la manifestazione di solidarietà che riceviamo da un altro essere umano considerato nemico, a farci commuovere. Semmai dovrebbe essere l’idea della guerra, della distruzione, della ferocia, da parte di qualunque essere umano, a farci inorridire.
Ma l’umanità, purtroppo è fatta così.
Le persone non sono tutte uguali. Nemmeno due gemelli monozigoti, che chiamiamo gemelli identici, sono davvero identici.
Eppure, a mio avviso, anche se l’umanità può essere tanto diversa a seconda di dove vive, di quale religione professa e di quale educazione ha ricevuto, potrebbe essere considerata, non uguale, ma sicuramente equivalente. E’ sempre la stessa. Se guardiamo secoli, perfino millenni di storia che affonda nel profondo passato, ci accorgiamo che le caratteristiche peculiari della razza umana non sono mai cambiate. E’ cambiata la cultura, la conoscenza, la tecnologia. Sono state fatte scoperte sensazionali, conquiste immense. Siamo arrivati sulla Luna. E nel prossimo futuro andremo ancora più lontano.
Il vero B-17 Flying Fortress recante il nomignolo “Ye old pub” sulla fiancata del muso. E’ il co-protagonista del racconto ed è qui ripreso in volo durante una manifestazione aerea. (foto proveniente da www.flickr.com)
Ma l’Umanità è sempre quella. Può compiere azioni che vanno dall’estremità del male all’estremità del bene. Qualunque essere umano può fare qualunque cosa. Da un’estremità all’altra. Con tutte le possibilità intermedie.
E questo dipende da chi è quell’essere umano. Dipende dal suo carattere, dalla sua storia, dalla sua cultura e dalla sua coscienza.
Quindi, dipende da chi si incontra.
Il tedesco della nostra storia era soltanto uno di questi esseri umani.
E allora perché il suo gesto ci commuove fino a farci anche piangere?
Eh, penso che anche questo dipenda da chi legge la storia. Non tutti provano lo stesso sentimento.
Anche ogni lettore non è altro che un altro essere umano.
Recensione a cura di Evandro A. Detti (Brutus Flyer)
Se lo Spitfire costituisce il simbolo della RAF e della tecnologia aeronautica britannica nel corso della II Guerra Mondiale, allo stesso modo e nello stesso periodo storico, il Messerschmitt Bf 109 rappresenta per antonomasia il velivolo da caccia della Luftwaffe e dell’industria aeronautica tedesca. Diremo di più: assieme allo Zero nipponico e allo Spitfire britannico è considerato il miglior caccia di tutti i tempi. E non solo perchè quando apparve – era il 1935 – costituì lo spartiacque con un passato che era appannaggio di biplani con motori radiali raffreddati ad aria, carrello fisso e cabina aperta ma anche e soprattutto perchè, nel corso del conflitto, fu la base di partenza per versioni sempre più evolute che ne fecero una macchina da guerra sempre al passo con i tempi e addirittura un passo avanti rispetto ai suoi avversari. Dunque ebbe esattamente la stessa sorte dello Zero e dello Spitfire, a dimostrazione della validità indiscutibile del progetto iniziale ispiratore da cui tutte e tre queste macchine presero avvio. Il Bf 109 qui ritratto è di proprietà dell’Imperial War Museum di Duxford nel Cambridgeshire (Gran Bretagna) ed è apparso nel corso del “Flying Legends Airshow” tenutosi nel 2017. Si tratta di un velivolo che fu costruito su licenza in Spagna e, anzichè del celebre motore Daimler Benz DB-605, è equipaggiato da un “convenzionale” Rolls-Royce Merlin. E’ stato verniciato con la livrea che fu della Legione Condor, il reparto tedesco che partecipò con circa 40 velivoli di questo tipo alla campagna di Spagna. Fu un ottimo banco di prova che confermò l’eccellenza di questo piccolo velivolo, potente e abbastanza ben armato (per il periodo) e, sebbene poco contrastato dall’aviazione repubblicana – dotata di caccia sovietici tipo Rata -, confermò ai vertici della Luftwaffe che l’ingegno ingegneristico teutonico aveva fornito loro una macchina da guerra letteralmente formidabile. (foto proveniente da www.flickr.com).
Confessiamo che non abbiamo mai avuto una particolare predilezione per Facebook e per gli altri cosiddetti social network.
A dire il vero li consideriamo luoghi più inclini pettegolezzo che a una concreta opportunità di reincontri o di frequentazioni a distanza.
Foto d’epoca di una di quelle classiche formazioni serrate di B-17 di cui, si legge nel racconto, aveva fatto parte anche lo sfortunato-miracolato “Ye old pub” nella sua missione di bombardamento sulla Germania.
Diciamo tutta la verità: in questi contenitori di varia umanità regna sovrano il ciarpame e la paccottiglia, tuttavia appaiono talvolta foto di un certo valore storico come pure documenti di pregevole fattura sebbene di autore ignoto. Di condivisione in condivisione, di inoltro in inoltro, certe informazioni purtroppo si perdono eppure la bontà del materiale rimane inalterata.
Il mitico Messerschmitt Bf 109 G-6 “Gustav” è il protagonista del racconto. E’ pilotato da un generoso pilota della caccia tedesca che, rispettoso degli antichi valori della Cavalleria, non infierisce su un nemico mortalmente colpito e incapace di nuocere, anzi lo aiuta quanto basta per poter avere una possibilità di sopravvivenza. Una storia esemplare che fa da contraltare a molte, troppe storie, in cui i piloti abbattuti e lanciatisi con il paracadute, venivano ignominiosamente mitragliati oppure i velivoli miracolosamente atterrati più o meno incolumi dopo un duello aereo in cui avevano subito danni gravissimi venivano ugualmente annientati al suolo, pressochè inermi. Nello scatto il “109” è stato sorpreso dal fotografo da dietro, in rullaggio con i flaps abbassati. (foto proveniente da www.flickr.com)
In tutta onestà, apprendere dove i nostri amici sono andati in vacanza o cosa abbiano mangiato a pranzo non è di grande utilità sociale – ne converrete – viceversa, visionare squarci di un passato relativamente recente altrimenti destinati all’oblio o apprendere fatti e vicissitudini singolari di persone più o meno comuni ma collocati in particolari periodi storici, beh … ha indubbiamente qualcosa di più culturale tale da nobilitare e dare un senso meno frivolo a questi spazi sociali globali. Opinione del tutto personale, per carità, condivisibile o meno, liberi di continuare a postare luoghi esotici di vacanza o pranzi luculliani …
Una splendida fotografia che rende merito alle linee armoniose del B-17 e che, considerate le forme generose e il ruolo di bombardiere a lungo raggio, sono ancora oggi apprezzabili.
La frequenza con cui appare il materiale nobile – perdonerete l’aggettivo – è però talmente ridicola che costituisce il motivo per cui non abbiamo mai creduto granchè in questo canale privilegiato … eppure qualche tempo fa un prezioso collaboratore dell’hangar ci ha sottoposto un testo colto nelle pieghe di Facebook. Una sorta di cronaca storico-giornalistica davvero notevole – in lingua inglese, purtroppo – che meritava di essere divulgata al di fuori del “ghetto” del famoso social network, a beneficio di coloro che non lo frequentano o che non hanno avuto la medesima fortuna del nostro “agente segreto”. Inutile sottolineare che a lui dobbiamo anche la preziosa traduzione in italiano.
In effetti avevamo già trovato più o meno lo stesso racconto all’interno del volume: “Di questo son fatti gli aerei” di Giuseppe Braga che abbiamo recensito in un angolo dell’hangar. Ora, a prescindere da chi abbia elaborato il testo originale o ne sia stato ispirato, abbiamo ritenuto doveroso renderlo disponibile ai nostri visitatori affinchè ne traggano motivo di riflessione e ne mantengano vivo il ricordo.
Ancora un “Gustav” conservato in un museo. Era con uno di questi temibilissimi caccia che il pilota della Luftwaffe Franz Stigler ingaggiò il B-17 al comando del tenente Charles “Charlie” Brown. Fatta eccezione per il sovietico Iljuscin Il-2, il caccia tedesco detiene il record per essere stato il velivolo costruito nel maggior numero di esemplari in tutto il mondo: ben 34 mila esemplari nelle sue numerose versioni (ivi comprese quelle realizzate su licenza dalla Hispano Suiza spagnola e dalla Avia romena). Non a caso può essere definito “l’aquila della Luftwaffe”. Alla data del 2016 esistevano ancora 67 velivoli Bf 109 conservati in museo o volanti, la maggior parte dislocati negli USA, Germania e Gran Bretagna.(foto proveniente da www.flickr.com)
I protagonisti del racconto, ambientato verso la fine della II Guerra Mondiale, sono un equipaggio statunitense di un bombardiere B-17 Flying Fortress (in particolare il suo comandante) e un pilota da caccia della Luftwaffe con il suo Messerschimtt Bf-109. Il loro non sarà il solito, prevedibile incontro come tanti ce ne furono nei cieli dell’Europa centrale. Da qui l’originalità di un testo che si lascia leggere velocemente con sommo piacere e, non privo della sorpresa finale, vi lascerà quel non so che di curosità tale da spingervi a ulteriori letture e magari ricerche sul quel periodo storico o quelle macchine volanti. A noi è capitato così …
Ancora una splendida immagine di un Bf 109 G oggi ancora volante. L’immagine è stata colta nel maggio 2019 in Virginia, a Virginia Beach, USA. La variante “Gustav” fu prodotta in maggiore quantità rispetto a tutte le altre – circa il 70% – ma non venne ritenuta la migliore in assoluto tra quelle che furiono realizzate tra cui – lo ricordiamo a titolo esemplificativo – rimasero allo stadio di protitipi anche una versione imbarcata con ali ripiegabili e gancio di arresto, una versione con motore radiale BMW, una con cabina pressurizzata e una addirittura con carrello triciclo. Ancora una particolarità: le versioni del Bf 109 furono contraddistinge da una lettera e da un nomignolo che riprendeva l’alfabeto fonetico in uso allora in Germania. Oggi siamo abituati all’alfabeto fonetico NATO ma allora, in Germania, G era Gustav, E Emil e F Friederich e così via. (foto proveniente da www.flickr.com)
Per dovere di documentazione concludiamo con un’annotazione a margine: la vicenda di Charles Brown e Franz Stigler è riportata con ulteriori dettagli, retroscena ed epiloghi paralleli nella pagina di Wikipedia dal titolo: Charlie Brown and Franz Stigler incident , in lingua inglese ma facilmente traducibile a mezzo di traduttore automatico.
Ma la pagina web che vi esortiamo a visitare e a leggere avidamente è quella tutta italiana a cura del Gruppo Ricercatori Aerei Perduti Piacenza che, per merito di Mario Migliavacca, riporta la stessa vicenda corredata da foto e disegni assai pregevoli. E’intitolata: Un Angelo in volo sopra Brema.
Quando gli angeli esistono e volano a bordo di macchine volanti da guerra.
Recensione a cura della Redazione
Foto di copertina proveniente da www.flickr.com.
Si tratta del famoso Boeing B-17 Flying Fortress soprannominato “Sally B”, ripreso dal fotografo in una simulazione di incendio ai motori effettuata nel corso del Old Buckenham Airshow.
Era il 20 dicembre 1943 e nell’aria gelida sopra la Germania il tenente Charles “Charlie” Brown cercava in tutti i modi di mantenere in volo il suo bombardiere estremamente danneggiato.
Brawn era ferito ad una spalla, il suo mitragliere di coda, il sergente Hugh “Ecky” Eckenrode era morto e diversi altri membri dell’equipaggio erano feriti, alcuni gravemente.
L’aereo, un B-17F al quale era stato dato il nome di Ye Old Pub, era stato colpito due volte dalla contraerea mentre si stava avvicinando al suo bersaglio, una fabbrica di Focke-Wulf nella città tedesca di Brema, costringendo l’equipaggio a spegnere uno dei motori e a metterne al minimo un altro. Questo aveva fatto rimanere il bombardiere indietro rispetto alla formazione, che apparteneva al 379° Gruppo da Bombardamento e gruppi di caccia tedeschi si erano avvicinati come squali attirati dal sapore del sangue nell’acqua.
Una quindicina di caccia avevano attaccato il bombardiere e l’intera sezione di coda era stata ridotta in pezzi, il cono del muso era saltato via, il sistema elettrico, quello idraulico e dell’ossigeno erano danneggiati, la radio era fuori uso e le viscere del bombardiere crivellato drappeggiavano nella corrente d’aria che passava attraverso gli squarci spalancati della fusoliera.
Ma i B 17 sono robusti e questo in qualche modo continuava a volare nonostante i danni.
Brown era svenuto per un po’ a causa del dolore, perdite di sangue e mancanza di ossigeno e il bombardiere stava spiralando verso il suolo. Ironicamente, questo poteva aver convinto i caccia attaccanti che fosse finito perché nessuno lo aveva seguito nella caduta. Brown si era ripreso e si era accorto di essere soltanto a poche centinaia di piedi sopra il terreno. In qualche modo aveva ripreso il controllo e virato ad Ovest, verso l’Inghilterra e la salvezza, distante duecentocinquanta miglia.
Brown non poteva mantenere una quota di molto al di sopra di un migliaio di piedi e si era a malapena accorto di essere passato ai bordi di un aeroporto tedesco. Subito dopo aver realizzato questo, un caccia BF 109 tedesco era arrivato e volava a breve distanza di fianco a lui.
Era così vicino che Brown poteva vedere il pilota germanico indicare a gesti il terreno, segnalando a Brown di atterrare in qualche campo lì sotto.
La maggior parte dei mitraglieri erano feriti, solo alcune mitragliatrici erano ancora usabili e nessuno era in grado di sparare a quel caccia nemico che li seguiva. Brown poteva soltanto guardare il pilota tedesco e scuotere la testa in segno di diniego. Charlie Brown non era sicuro di farcela a volare fino in Inghilterra, ma di sicuro non voleva atterrare in Germania.
Per un po’ il Messerschmitt volò a fianco del bombardiere. Poi scivolò via, sopra e dietro. Brown aspettò la scarica di mitragliatrice che avrebbe significato la fine di Ye Old Pub.
Non accadde nulla.
Con sua grande sorpresa si accorse che il caccia tedesco volava così per scortare il B-17, non per abbatterlo. Infatti dopo aver superato la linea di costa il caccia continuò a mantenere la sua posizione.
Solo quando furono ben al di fuori dello spazio aereo tedesco il caccia scivolò ancora di fianco, vicino al bombardiere.
Brown guardò di lato, il pilota tedesco guardò verso di lui, poi alzò la mano guantata in segno di saluto militare e, inclinando il suo aereo virò via per tornare indietro verso est.
Brown cercò di portare a terra Ye Old Pub, non certo sulla sua base di Cambridgeshire, ma sulla base del 448° Gruppo vicino Norfolk in East Anglia. Lui e il suo equipaggio, tranne il mitragliere di coda, sopravvissero.
Al debriefing Brown raccontò la storia del caccia tedesco che lo aveva scortato. Fu deciso di tenere il fatto segreto, l’idea di un onorevole pilota tedesco che aveva scelto di non abbattere un bombardiere danneggiato non si conciliava con il messaggio che l’America voleva diffondere.
Charlie Brown sopravvisse alla guerra, tornò a casa e andò all’Università, poi si arruolò di nuovo nell’Aeronautica nel 1949. Restò in servizio fino al 1965 quando andò in pensione con il grado di colonnello. Non disse mai a nessuno del pilota tedesco che lo aveva scortato verso casa nel Dicembre 1943. Fu soltanto molto più tardi, nel 1986, ad una riunione di piloti combattenti in pensione chiamata “Riunione delle Aquile” che per la prima volta parlò di ciò che era accaduto.
La reazione fu forte, sebbene alcuni si chiedessero se l’intera faccenda fosse realmente accaduta. Perfino Brown cominciò a domandarsi se non lo avesse solo immaginato – il ricordo di quel giorno del 1943 era nebuloso a causa delle sue ferite, dello sfinimento e dello stress da combattimento.
In retrospettiva, l’idea di un pilota tedesco che lo aveva scortato sopra la Germania e perfino salutato lasciando che il bombardiere se ne tornasse verso l’Inghilterra sembrava inverosimile.
Poteva ricordare i fatti in modo sbagliato?
Brown decise di cercare il pilota tedesco coinvolto nell’episodio, anche solo per provare che non avesse davvero immaginato tutto.
Ci vollero quattro anni, ma nel 1990 Brown finalmente ricevette una lettera da un uomo di nome Stigler che viveva in Canada. Stigler spiegò che lui era stato il pilota del caccia tedesco che aveva scortato Ye Old Pub.
Il 20 Dicembre del 1943, Franz Stigler era un pilota veterano con all’attivo 27 abbattimenti con il Jagdeschwader 27. Aveva volato contro i bombardieri americani nel suo Messerscmitt Bf-109 G-6 quella mattina e stava facendo rifornimento al suolo quando Ye Old Pub gli passò sopra.
Sebbene l’aereo di Stigler fosse danneggiato nel precedente combattimento, lui decollò per abbattere il bombardiere americano.
Comunque, appena si avvicinò allo “zoppicante” aereo, poté vedere quanto fosse malamente danneggiato. Più tardi disse di non aver mai visto un aereo più danneggiato di questo che continuasse ancora a volare. Attraverso gli squarci della fusoliera poteva vedere il mitragliere di coda morto e altri membri dell’equipaggio feriti.
Il comandante del JG27 aveva detto ai suoi piloti di non sparare mai ad un nemico che scende con il paracadute. Anche se l’equipaggio di Ye Old Pub non si era lanciato, non era comunque più capace di combattere e Stigler decise che non avrebbe potuto attaccarli.
Piuttosto, si affiancò per dire a Brown di tentare un atterraggio di fortuna. Stigler più tardi disse di non aver fatto quei segnali perché voleva che Brown si arrendesse, semplicemente non riusciva ad immaginare che un un aereo così crivellato potesse farcela a raggiungere l’Inghilterra.
Quando Brown rifiutò, Stigler prese una straordinaria decisione. Invece di abbatterlo, volò in formazione con il B-17, sperando che questo potesse evitare che le batterie della costa aprissero il fuoco (per timore di colpire il loro caccia). Volò con il bombardiere ben al largo, sul Mare del Nord, finché fu completamente fuori dallo spazio aereo della Germania e solo allora lo lasciò continuare verso l’Inghilterra.
Stigler non raccontò a nessuno quanto era successo – aver risparmiato un bombardiere americano avrebbe comportato una punizione e perfino una condanna a morte, ma spesso si domandava se questo ce l’avesse fatta a raggiungere la sua base. Stigler continuò a pilotare caccia per tutta la durata della guerra. Nel 1953 emigrò dalla Germania al Canada dove cominciò un’attività di successo.
Quando fu contattato da Charlie Brown nel 1990, Stigler confermò ogni aspetto della sua storia. Franz Stigler e Charlie Brown erano stupiti di scoprire che avevano vissuto a meno di duecentocinquanta miglia di distanza l’uno dall’altro per molto tempo dopo la guerra – Stigler si era sistemato a Vancouver, British Columbia, mentre Brown viveva a Seattle, nello stato di Washington.
I due uomini divennero amici stretti per il resto della loro vita, spesso facendosi visita e parlando con altri aviatori delle loro esperienze reciproche. Nel 2008 morirono a pochi mesi di distanza l’uno dall’altro.
Ci sono molte storie di coraggio e di eroismo nella Seconda Guerra Mondiale. Comunque, come per la storia di Franz Stigler e Charlie Brown, a volte perfino in guerra e nelle peggiori circostanze, alcune persone possono ancora trovare dentro se stesse non soltanto coraggio, ma anche onore, compassione e umanità.
Traduzione a cura di Evandro Aldo Detti (Brutus Flyer),
Attenzione: Non esiste il Tag Autore FRANZ STIGLER E CHARLIE BROWN
Durante oltre mezzo secolo di vita aeronautica che ormai grava sulle mie spalle ho sentito un numero immenso di racconti da parte di un altrettanto immenso numero di persone. Piloti, soprattutto. Molti dei quali avevano fatto la guerra, avevano combattuto, avevano riportato ferite. E avevano visto accadere tante cose tremende, davanti ai loro occhi. O, magari, tante cose bellissime.
Sin da ragazzino ho sempre ascoltato i racconti dei veterani con grande interesse. E sono certo di aver esortato ognuno di loro a scriverle, queste loro avventure. Sin da sempre mi sono sentito fortunato ad aver avuto accesso a tanti eventi che altrimenti non avrei mai neanche sospettato potessero essere avvenuti, ma allo stesso tempo mi convincevo che tutti avrebbero dovuto essere altrettanto fortunati da sentirli. Perciò, chiunque avesse avuto qualcosa da raccontare, avrebbe fatto meglio a scriverla. E subito. Prima di correre il rischio di dimenticare.
Una fantasmagorica immagine che ritrae un Supermarine Spitfire ripreso frontalmente in volo. Il velivolo, assieme all’Hawker Hurricane, costiuì il nerbo del Fighter Command britannico posto a difesa dell’isola nel corso della famosa Battaglia d’Inghilterra (foto proveniente da www.flickr.com)
Neanche a dirlo, ancora oggi non perdo occasione di esortare tutti coloro che incontro e che hanno storie da raccontare, di non raccontarle solamente, ma di scriverle, perché non vadano perdute.
Ben pochi, però, mi hanno dato ascolto.
Tuttavia qualcuno lo ha fatto. E di ciò mi sento piuttosto fiero.
Per fortuna molti personaggi che non conosco, che hanno vissuto lontano da me, in altre realtà e in altri paesi, hanno scritto le vicende della loro vita operativa, senza che a spingerli siano state le mie esortazioni.
Per gli amanti delle statistiche e/o dei numeri sarà utile ricordare che alla Battaglia d’Inghilterra (virtualmente cominciata il 10 luglio e terminata il 31 ottobre 1940) parteciparono circa 2300 piloti di cui ben 574 piloti provenienti da paesi diversi dal Regno Unito, alcuni facenti parte delle nazioni ex colonie britanniche e altri ancora esiliati oppure rifugiati originari dei paesi dell’Europa allora occupata dalle truppe tedesche. Il gruppo più numeroso era costituito dai piloti polacchi con ben 145 unità, a seguire i neozelandesi con 135 piloti, quindi i canadesi con 112 e 88 di cecoslovacchi. Belgi, australiani e sudafricani in ordine decrescente. Potremmo continuare poi con i francesi, gli irlandesi e via discorrendo. In effetti anche i piloti statuntensi parteciparono in ragione di 11 uomini sebbene sotto mentita nazionalità: gli USA erano allora ancora ufficialmente neutrali e, per non compromettere la loro neutralità, il governo statunitense minacciò i suoi connazionali di cancellare loro il passaporto e ventilò addirittura la prigione. Fu allora che i piloti a stelle e strisce si dichiararono di nazionalità canadese … e i reclutatori della RAF non indagarono oltre. Tornando alle statistiche, a testimoniare la bontà dell’operato dei piloti “stranieri” della RAF, occorre precisare che, dopo i primi tre piloti britannici, nell’albo d’oro degli assi della Battaglia d’Inghilterra si annoverano immediatamente dopo il sergente cecoslovacco Josef František con 17 velivolo abbattuti, il neozelandese Brian Carbury con 15 e 1/3 aeroplani accreditati, quindi il polacco Witold Urbanowicz con 15 abbattimenti accertati e un’altro neozelandese Colin Falkland Gray con 14 e 1/2 e così via scorrendo l’elenco… ciò anche a dimostrazione che i britannici non rimasero mai soli a contrastare gli agguerriti piloti della Luftwaffe. Nella stupenda foto anticata (scatto del 2013) possiamo ammirare un pilota con indosso la combinazione di volo dell’epoca utilizzata dai piloti polacchi. Egli è seduto sul bordo d’attacco di uno Spitfire Mk Vb utilizzato dai reparti polacchi appunto. (foto proveniente da www.flickr.com)
Esistono infatti molti libri (non solo le autobiografie o le biografie scritte da storici o studiosi vari) che raccolgono testimonianze, racconti, relazioni ufficiali o personali. Ed esistono perché qualcuno, dalla mente brillante e lungimirante, ha pensato di raccogliere tutti questi pezzi di Storia prime che andassero perduti per sempre.
Il libro di cui mi accingo a parlare è nato così.
La prefazione, scritta dal Flight Lieutenant Charles “Tich” Palliser, pilota pluridecorato che ha combattuto nella Battaglia d’Inghilterra, non è altro che una sorta di ringraziamento agli autori, proprio per aver raccolto tante storie e per averle pubblicate. Molti dei piloti, le cui vicende sono narrate nel libro, erano già ben conosciuti da Palliser, che aveva combattuto con loro. Uno di questi è Tom Neil, autore di altri libri, alcuni dei quali ho recensito per Voci di Hangar. Neil era stato il comandante di Palliser.
Un altro pilota, Terry Crossey, sud africano, è particolarmente caro a Palliser, perché attraverso di lui ha conosciuto una ragazza che poi è divenuta sua moglie.
Ancora una bella immagine di uno Spitfire recante livrea e insegne di un reparto polacco che partecipò attivamente alla Battaglia d’Inghilterra. Mentre Winston Churcill, nel suo celebre aforisma, definì “few” – pochi i piloti che difesero l’isola britannica, lo storico Dennis Richards, sempre a proposito di coloro che combatterono nei cieli britannici nel 1940, espresse questo toccante commento: “La Battaglia d’Inghilterra fu combattuta dalla più allegra brigata di gente che mai dovette sparare le proprie armi con rabbia” e concluse con: “… i piloti di Dowding avevano qualcosa di più che non il solo coraggio”
Qualcun altro gli aveva donato un dipinto, che ancora fa bella mostra di sé su una parete della sua abitazione.
Ma, alla fine della prefazione, Palliser aggiunge qualcosa che mi trova particolarmente d’accordo:
“This work also pays tribute to the pilots from New Zealand, Poland and Czechoslovakia – a wonderful band of men. Of course, there are many wonderful pilots in this book who I never knew and never met but I very much enjoyed reading about them all. I offer my congratulations to Christopher and Adrian on producing a wonderfully written book”.
“Questo lavoro costituisce anche un tributo ai piloti neozelandesi, polacchi e cecoslovacchi – un gruppo di uomini meravigliosi. Naturalmente, ci sono altri meravigliosi uomini in questo libro, che non ho mai conosciuto né incontrato, ma mi è molto piaciuto leggere di tutti loro. Porgo le mie congratulazioni a Christopher e Adrian per aver prodotto un libro meravigliosamente ben scritto”.
Il velivolo qui ritratto è uno Spitfire Mk LF Mk XVI gelosamente conservato nel Muzeum Lotnictwa Polskiego (Museo dell’Aviazione polacco) situato a Krakòw (Cracovia) a testimonianza fisica e indelebile del contributo enorme – e forse determinante – che i piloti polacchi prestarono nel corso della II Guerra Mondiale nella difesa della Gran Bretagna durante la Battle of Britain (come la chiamano gli anglosassoni) o Battaglia d’Inghilterra. Sottolineiamo “gelosamente conservato” perché questo esemplare costruito nel 1944 ed ex RCAF (abbreviazione della Royal Canadian Air Force – Reale Forza Aerea canadese) fu acquisito, dopo diverse peregrinazioni – non ultimo la partecipazione a un film intitolato “Battle of Britain” – dal Museo polacco di Cracovia solo nel 1977. In effetti già in passato il Museo dell’Esercito polacco di Varsavia aveva ricevuto in dono ben due esemplari di LF Mk XVI E ma con delle vicissitudini dal risvolto distruttivo. Andò cosi: al termine della guerra la RAF organizzò una manifestazione aerea internazionale proprio a Varsavia e, ovviamente si esibirono i due spitfire. In seguito i due velivoli rimasero in Polonia (non era certo il caso di riportarseli in Gran Bretagna) tuttavia, a causa dell’ostracismo e dell’atteggiamento manifestatamente ostile nei confronti di qualunque simbolo capitalista da parte delle autorità comuniste polacche, i due esemplari finirono letteralmente rottamati. L‘esemplare oggi musealizzato mostra la livrea e le sigle che furono di un velivolo realmente appartenente al 308° Fighter Squadron “Città di Cracovia”, reparto soprannominato in polacco “Zefiry” (zefiro) che faceva parte del 131° Polskim Skrzydłem Myśliwskim (Stormo Caccia polacco). Il velivolo originale prestò servizio in combattimenti aerei, attacchi al suolo, alle vie d’acqua e alle basi di lancio delle V1 e V2 tedesche. Vi invitiamo perciò a visitare fisicamente lo splendido Museo di Cracovia e, se proprio impossibilitati, il sito web del Museo all’indirizzo: http://muzeumlotnictwa.pl/muzeum/en/
Ecco, due sono i contenuti salienti di questo libro: una raccolta di racconti fatti da personaggi diversi, piloti attivi nel periodo della battaglia d’Inghilterra e, sempre attraverso racconti, un contributo al giusto proposito di portare a conoscenza del mondo l’esistenza di altre squadriglie di volo della RAF che erano però costituite da piloti stranieri. E, posso aggiungere in accordo alla dichiarazione di Palliser, un tributo al valore di questi equipaggi non inglesi che non hanno trovato, finora, un posto adeguato nella luce della Storia.
Eppure, il loro valore non era stato secondo a nessuno. Anzi. Il numero totale degli abbattimenti di aerei nemici da parte delle squadriglie di non inglesi è, molto verosimilmente, addirittura superiore a quello del resto della RAF.
Allora perché non sono mai usciti alla ribalta delle cronache dell’epoca e ancora oggi la Storia tiene le loro gesta in una certa oscurità?
Forse per una serie di motivi, non ultimo proprio il fatto che non si sia voluto mettere in ombra il prestigio nazionale. Conoscendo il carattere degli inglesi, mi pare poco probabile che potessero essere lieti di dichiarare al mondo che degli stranieri avessero avuto il merito di aver fatto meglio di loro. Gente che non parlava neanche bene l’inglese! Un buon motivo per considerare una persona come se fosse di un lignaggio inferiore.
Oggi come allora la messa in moto di uno Spitfire produce … fiamme! (foto proveniente da www.flickr.com)
E’ mia opinione personale che proprio la scarsa conoscenza della lingua abbia operato una sorta di separazione inesorabile. Una lingua difficile da imparare subito, almeno al punto da evitare che un inglese possa capire senza storcere il naso. Senza che gli venisse subito sul volto la classica espressione semi disgustata e rispondesse, con il labbro tirato (Stiff upper lip, per il quale gli inglesi sono famosi), in maniera classica ed inevitabile:
“I can’t understand you. Speak english, please”!
I piloti di lingua slava restarono in disparte. Nonostante la loro bravura e il loro valore. Erano parte dello stesso mondo, stavano dalla stessa parte, combattevano contro lo stesso nemico, ma erano divisi da un muro di difficile comunicazione. Perciò restarono inevitabilmente ai margini della RAF.
Inoltre, dopo la guerra questi stranieri se ne sono andati. Sono tornati ai loro paesi di origine, nelle loro aviazioni. E sono scomparsi dalla scena.
Alcuni di loro si sono impegnati in altre professioni. Altri hanno continuato a volare.
Qualcuno ha scelto di continuare la carriera militare, mentre altri hanno preferito entrare nelle compagnie aeree civili, che stavano nascendo ovunque in quegli anni e hanno dato un contributo notevole al loro sviluppo.
Comunque sono pressoché svaniti. E la storia ha appena accennato alla loro esistenza.
Vorrei anche ricordare un fenomeno ricorrente che si è verificato dopo la fine delle tragedie belliche. Si è sviluppato un certo rifiuto a ricordare. E’ intervenuta una forte ritrosia a raccontare episodi tanto dolorosi. Spesso le mogli, i figli, gli amici non sapevano quasi nulla di ciò che erano state le vicende attraverso le quali erano passati i loro cari, prima di fare ritorno.
Non capita spesso di vedere uno Spitfire biposto al tramonto (o all’alba?). L’occhio sintetico del fotografo ha invece immortalato questo istante magico regalandoci in chiave moderna quello che molti piloti vissero realmente prima e durante la Battaglia d’Inghilterra. A proposito della lunga cappottina trasparente di questo raro velivolo biposto ci viene in mente quanto disse lord Hugh Caswell Tremenheere Dowding, capo supremo della Difesa Aerea britannica durante la II Guerra Mondiale a proposito della necessità di dotare i “suoi” caccia di vetrature in blindo-vetro. Ebbene, di fronte ai burocrati ottusi dello Stato Maggiore che ridacchiavano sotto i baffi (lasciando intendere che la richiesta era grottescamente impraticabile), Dowding disse loro con fermezza: “Se i gangster di Chicago possono disporre di vetri a prova di pallottole per le loro vetture non riesco a vedere per quale ragione anche i miei piloti non debbano esserne provvisti”. I piloti ringraziarono a posteriori per le tante vite salvate da Dowding e i suoi gangster. (foto proveniente da www.flickr.com)
Infatti non ne sappiamo granché neanche noi, oggi. Difficile capire, con la nostra mentalità moderna. Arduo rappresentarci una realtà tanto diversa, che era la vita quotidiana negli anni di guerra.
“From a modern perspective it is difficult to appreciate what Second World War pilots went through when they saw their collegues’ aircraft fall from the sky in combat, when they witnessed friends collide with other aircraft and when parachutes failed to open. Such sights occurred on a daily basis as young men from all over the world fought for their respective countries”.
“Da una prospettiva moderna è difficile apprezzare cosa hanno dovuto attraversare i piloti della Seconda Guerra Mondiale quando vedevano gli aerei dei loro colleghi cadere dal cielo durante i combattimenti, quando vedevano gli amici scontrarsi con altri aerei e quando i paracadute non si aprivano. Questi fatti accadevano giornalmente mentre uomini giovani provenienti da ogni parte del mondo combattevano per i loro rispettivi paesi”.
Sì. Molti hanno preferito tacere. Dimenticare e andare avanti.
E invece avrebbero dovuto fare proprio il contrario. Raccontare. Condividere, come diciamo oggi. La parola “condivisione” dilaga ormai in tutti i cosiddetti “social“.
Rise Against Eagles è importante proprio per questo motivo.
I vari racconti, di autori diversi, vanno a riempire le quattro sezioni dell’opera e si leggono, come sempre, con estremo interesse.
Uno di questi autori, tanto per fare un esempio, parla di Tom Neil.
Il velivolo qu ritratto reca le insegne che furono del sergente pilota cecoslovacco Josef Frantisek appartenente al 303° Polish Squadron basata a Northholt. Josef Frantisek è ricordato come l’asso che abbattè il maggior numero di velivoli tedeschi durante la Battaglia d’Inghilterra e per questo gli fu attribuita la DFC, la Distinguished Flying Medal, con una Bar. Ghirlande e omaggi floreali continuano a essere deposti ogni anno nel giorno del suo compleanno al monumento fuori dalla casa di famiglia a Otaslavice nell’attuale Repubblica Ceca. La foto è stata scattata nell’ottobre del 2020 nel corso del Duxford Showcase Airshow. Così si espresse lord Dowding a proposito dei piloti polacchi che presero parte alla battaglia: “Se non fosse stato per il magnifico materiale (umano) fornito dagli Squadron polacchi e la loro insuperabile galanteria, esito a dire che l’esito della battaglia (d’Inghilterra) sarebbe stato lo stesso”. (foto proveniente da www.flickr.com)
Ed è straordinario, dopo aver letto i suoi libri e visto il mondo dal suo punto di vista, vedere ora lui con gli occhi di un altro.
Il nome di Tom Neil appare in vari racconti. Così come le descrizioni delle battaglie aeree e delle vicende quotidiane nelle quali i protagonisti si muovevano, anche i protagonisti stessi finiscono per riapparire qua e là nei racconti che costituiscono le quattro sezioni del libro.
Ma vorrei soffermare l’attenzione soprattutto su alcuni capitoli.
Il capitolo cinque, il sei, il sette e il dieci parlano proprio dei piloti polacchi e di altri paesi, come ad esempio l’Ucraina, ma qualcuno viveva in Cecoslovacchia prima dell’inizio della guerra. Tutti sono accomunati dal fatto che parlano, sì, lingue diverse, ma sono tutte lingue slave e tra loro si capiscono benissimo.
La loro storia è di grandissimo interesse.
Tutti, alle prime avvisaglie di aggressione da parte della Germania, decidono di partire. E di raggiungere l’a gran Bretagna per combattere contro i tedeschi invasori.
Qualcuno fugge in aereo, altri con mezzi terrestri, ma il loro percorso conduce infine alla Gran Bretagna, sebbene con tappe intermedie di diverso tipo.
Un Supermarine Spitfire, pietra angolare del Comando Caccia britannico. Qui mostra le bande d’invasione applicate ala vigilia del D-Day, ossia l’operazione con la quale gli Alleati lanciarono l’invasione della Normandia e dunque la riconquista dell’Europa. La strategia di sir Dowding, artefice della vittoria della Battaglia d’Inghilterra, era chiara e lineare. La spiegò con queste poche parole: “I tedeschi dovevano cercare di facilitare il trasferimento delle loro forze di terra attraverso la Manica per invaderci il paese e così porre termine alla guerra. Io, invece, non stavo cercando di vincere la guerra per mezzo del mio Comando caccia; dovevo soltanto cercare disperatamente d’impedire ai tedeschi di raggiungere il successo nella loro preparazione per un’invasione. Il mio era un ruolo puramente difensivo per cercare di fermare la possibilità dell’occupazione e dare così alla nazione un periodo di respiro perché, dopo averlo ottenuto, avremmo potuto vincere o perdere la guerra o avremmo potuto accordarci per una sospensione delle ostilità: nel futuro tutto sarebbe potuto accadere. […] Dovevo farlo impedendo loro di prendere il controllo del cielo”. Ma la scelta più lungimirante di Dowding fu di divulgare fin da subito questa sua semplice strategia a tutti i suoi uomini lasciando ai suoi diretti subalterni la necessaria autonomia nelle scelte tattiche o nelle tecniche di combattimento più appropriate (foto proveniente da www.flickr.com)
Le tappe possono essere, ad esempio, Praga – Francia – Gibilterra – Scozia – Inghilterra.
Il percorso scelto dipendeva dal particolare momento e dagli avvenimenti che caratterizzarono gli spostamenti tedeschi nella loro opera di aggressione alle varie nazioni europee.
Era una fuga, non una gita di piacere.
Dall’Algeria, ad esempio, molti andarono via mare verso Gibilterra perché la Spagna e il Portogallo erano neutrali. Tuttavia, specialmente dopo Gibilterra, il resto del viaggio li esponeva all’attacco dei sottomarini tedeschi che infestavano l’Atlantico. Appena i tedeschi cominciarono ad invadere gli stati limitrofi il pericolo rappresentato dai sottomarini era già presente.
Come ho detto, nella RAF combatterono piloti di ogni nazione. C’erano gruppi di neozelandesi, di australiani, di francesi, di polacchi, di cecoslovacchi e di altri stati. La Francia, al comando del generale De Gaulle era presente in Inghilterra con una sigla divenuta abbastanza famosa: FAFL, Forse Armate Francesi Libere. Di queste faceva parte Pierre Clostermann, che combatté nella RAF pilotando uno Spitfire e poi un Tempest. Ho recensito il suo libro “La grande Giostra” qui su Voci di Hangar.
Allora, perché mi voglio soffermare proprio sui piloti che venivano da Polonia e Cecoslovacchia?
Perché nel leggere il libro ho notato una certa somiglianza con le vicende di un film.
Si tratta di “Dark blue World“. Un film uscito alcuni anni fa, che mi era piaciuto moltissimo.
Si trova facilmente in DVD, ma è possibile vederne alcune parti anche su You Tube.
La famosa frase di Winston Churchill adorna gli altorilievi dedicati ai “few” – “i pochi” del memoriale dedicato alla Battaglia d’Inghilterra. Il monumento riporta infatti i nomi dei 2.936 aviatori e personale di terra di 14 paesi che presero parte alla battaglia (foto proveniente da www.flickr.com).
Nel cuore di Londra, sulle rive del Tamigi, nei pressi Westminster ha trovato collocazione il memoriale inaugurato nel 2005. A noi piace pensare che fossero semplicemente “piloti” coloro che si trovavano a bordo degli Spitfire oppure dei Bf-109, degli Hurricane come pure degli Heinkel He-111 e così via. Tutti indistintamente equipaggi di velivoli che svolsero il loro dovere di soldati a prescindere dalla livrea, le insegne e la bandiera disegnata sulla loro ala e sulle fiancate delle fusoliere. (foto proveniente da www.flickr.com)
Nel libro si parla di un istruttore che insegna a volare ai suoi allievi. Il vento di guerra comincia a spirare. L’istruttore decide di partire, seguito da alcuni allievi.
Anche nel film viene rappresentata questa scena.
Chissà che gli autori del film non abbiano tratto spunto da qualche racconto di questi?
Lascio la lettura del libro a chi lo vorrà leggere. Ma invito tutti anche a vedere il film che ho appena menzionato.
Una scena che si può cercare su YouTube e che ricalca quanto ho detto sopra, mostra un gruppo di piloti cecoslovacchi della RAF che partono su allarme. Salgono sui loro Spitfire e decollano.
Dopo il decollo salgono nel cielo, ad intercettare i bombardieri e i caccia nemici.
In altre parole, salgono contro le Aquile, come venivano chiamati gli aerei del terzo Reich.
Questo è appunto il titolo del libro: Rise Against Eagles.
Basta digitare “dark blue world – Spitfire and Bf 109 Scene“, ma anche solo “dark blue world“, nella stringa di You Tube. E’ il primo video che appare.
E’ una scena bellissima. Mostra i giovanissimi piloti che corrono verso gli aerei e mettono subito in moto. Una volta in volo si sente la voce del controllore radar che li guida verso le formazioni nemiche.
La locandina del film dedicato ai piloti polacchi che contribuirono al successo nella Battaglia d’Inghilterra
La locandina del film che racconta la storia del famosissimo 303° Squadron polacco
Si sentono le loro risposte rapide. Ed è subito evidente la loro diversa pronuncia delle parole inglesi.
Segue qualche frase concitata in lingua slava.
Immancabilmente, la voce del controllore, tra il seccato e il severo, interviene subito:
“I don’t understand. Speak English, please”!
Recensione a cura di Evandro Aldo Detti (Brutus Flyer),
Didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR
L'unico sito italiano di letteratura inedita (e non) a carattere squisitamente aeronautico.
Aforismi
Sai quanti ne ho conosciuti di quelli che avevano paura (di volare)? ... sono tutti morti!
(Enzo Mela)
Q.T.B.
PILOTA: Se possibile sostituire copricappottina. MECCANICO: sostituita.
(Suggerita da Big Mark)
Check-In
PASSEGGERA con bimbo piccolo: Senta scusi, siccome la bimba non sta tanto bene, posso usare le maschere d’ossigeno dell’aereo per farle un po’di aerosol?