titolo: Carrying the fire – [Portando il fuoco]
autore: Michael Collins
editore: Farrar, Strauss and Giroux, 120 Broadway, New York 10271
anno di pubblicazione: 1974 (prima edizione)
edizione ebook: 2019
eISBN: 9781466899261
Tutte le fotografie sono cortesia della NASA
Alla lettura di questo libro ho dedicato un tempo considerevolmente maggiore del solito. Non perché il libro fosse più lungo o più difficile da leggere ma perché, sin dalle prime pagine, si è rivelato straordinariamente interessante. L’autore, l’astronauta Michael Collins, è evidentemente dotato di una personalità insolita, accattivante, modesta, semplice, piacevole, sebbene si percepisca da subito la sua immensa preparazione, la sua profonda conoscenza tecnologica, unite, però, a un altrettanto immensa cultura umanistica.
La recensione di questo libro potrebbe essere scritta parlando solo dell’autore.
Il libro in sé stesso ricalca il classico percorso seguito da altri astronauti. Comincia dalla descrizione del periodo infantile, la vita familiare durante i primi anni di vita, le prime esperienze, non necessariamente relative al mondo aeronautico, ma che portano comunque a incontrare questo mondo, al primo volo etc.
Collins è nato a Roma nel 1930. Il padre era un ufficiale dell’esercito degli Stati Uniti. In quell’anno si trovava a Roma in qualità di attaché militare presso l’ambasciata americana. Ma l’anno successivo tornò in patria, quindi il tempo vissuto da Michael in Italia è stato davvero minimo. Eppure, leggendo il suo libro si sarebbe tentati di dire che quel tempo minimo sia stato sufficiente a conferirgli una sorta di imprinting, un qualcosa di italiano che sembra venire spesso fuori nel suo modo di essere e nel modo di esprimere il suo pensiero. I concetti che esprime, in altre parole, sembrano fin troppo riconoscibili come familiari, almeno per una mentalità italiana.
Non sempre, in verità, ma è quasi una costante in tutto il libro.
Per il resto la sua carriera ha avuto uno svolgimento tipicamente americano.
In estrema sintesi, il percorso della sua vita è caratterizzato da poche pietre miliari. L’accademia di West Point, dove ha incontrato altri personaggi divenuti poi protagonisti delle stesse vicende in ambito NASA; l’Air Force, appena divenuta una forza armata indipendente; il servizio come jet pilot, sia in patria che in Europa; l’entrata nella NASA; la prima missione spaziale con la Gemini 10 nel 1963 e la missione Apollo 11 del luglio 1969, nella quale rimase in orbita intorno alla Luna mentre i suoi due compagni, Neil Armstrong e Buzz Aldrin, effettuavano il primo allunaggio della Storia.
In mezzo a queste poche pietre miliari, però, c’è un’intera vita, intensa e piena di avvenimenti. Ed è questa vita che il libro racconta.
La sequenza delle vicende che copre decenni di servizio attivo dell’autore sembrerebbe la stessa di tutti gli altri suoi colleghi che hanno, a loro volta scritto libri. Quasi tutti quelli che ho letto e recensito cominciano dall’infanzia, raccontano di come sono entrati nei corpi militari dai quali sono poi transitati nella NASA, delle selezioni, dei personaggi che hanno incontrato, delle difficoltà e di come le hanno superate, dell’addestramento. Proseguono la narrazione descrivendo il loro o i loro voli spaziali e poi le missioni Apollo alle quali hanno partecipato e infine parlano del dopo, quando l’ultima missione Apollo 17 ha segnato la fine di un’era e l’inizio di un’altra, quella delle stazioni spaziali e dello Shuttle.
Questo libro segue lo stesso schema ma c’è già una differenza: per quasi tutti il dopo ha portato difficoltà a riprendere la vita normale e questo ha causato divorzi, disordini nella vita familiare e affettiva e altri problemi.
Per Collins no.
Lui è addirittura rimasto sempre con sua moglie Patricia, che ha amato per tutta la vita, fin quando lei è scomparsa a causa di una malattia. Infatti il libro è dedicato proprio ed esclusivamente a lei.
Collins non ha avuto problemi a riadattarsi alla vita normale.
Aver fatto parte del primo equipaggio che aveva portato due uomini, per la prima volta, sulla superficie di un altro pianeta, gli avrebbe permesso di ottenere qualunque posizione sociale ai massimi livelli, raggiungere guadagni altissimi anche solo facendo conferenze in tutto il mondo, pubblicità, incarichi politici etc.
Ma Collins avrebbe potuto continuare con la NASA e tornare nello spazio, o magari dirigere settori chiave nella stessa organizzazione. Oppure in qualunque società industriale che con la NASA aveva rapporti di collaborazione.
Poteva aspirare a tutto.
Ma lui, ancor prima di partire per la Luna, aveva detto che con questa missione avrebbe finito. Infatti, appena tornato ha prestato fede alle sue dichiarazioni e ha lasciato il servizio.
Non proprio subito, perché, come tutti gli equipaggi, negli anni successivi, anche il suo equipaggio ha dovuto fare il giro del mondo, visitando tantissimi stati e facendo conferenze in molte città. Pubbliche relazioni. Ma nel frattempo maturava la sua decisione e alla fine ha lasciato la NASA.
Dopo una breve esperienza in politica si è ritirato in una piccola università del suo paese, Cincinnati, come professore.
Poi la dolorosa scomparsa della moglie. E nella assolata Florida, dove intanto aveva stabilito la sua residenza, ha continuato a vivere dipingendo quadri con la tecnica dell’acquarello e andando a pesca, che è un’altra delle sue passioni.
Alcuni anni fa mi trovavo a Washington. Tra le altre visite ho ritagliato un po’ di tempo per vedere lo Smithsonian National Air and Space Museum.
Appena si entra l’attenzione è catturata da un grande disco liscio e splendente, posto quasi in verticale in fondo alla prima stanza, grandissima e piena di mezzi aerei e spaziali. Ci si trova subito smarriti, appena si entra. L’ambiente è enorme e c’è tanta gente in giro. Ma dopo poco, appena ci si avvicina a quel disco, si scopre che quella è la parte più larga di una capsula a forma di tronco di cono, un modulo di comando che appartenne ad una delle missioni Apollo. Ed è proprio l’Apollo 11, nel quale Armstrong, Aldrin e Collins sono rimasti per giorni nel viaggio di andata e ritorno per la Luna. E nel quale Collins è rimasto da solo a girare in attesa del ritorno dei due che erano scesi sulla superficie con il Modulo Lunare.
Nella realizzazione di questo museo Collins ha avuto un ruolo chiave e ne è stato il direttore per parecchio tempo.
Ho descritto solo la prima stanza alla quale si accede direttamente dall’ingresso principale. Ma il museo è immenso e dentro si trovano tantissime macchine, come il Flyer dei fratelli Wright e anche lo Spirit of Saint Louis di Charles A. Lindbergh, con il quale quest’ultimo ha attraversato l’Oceano Atlantico (ed è proprio di Lindbergh la prefazione alla prima edizione del 1974 del libro di Collins).
Collins parla di tutto questo in “Carrying the fire“
Allora dove sta la differenza tra questo libro e gli altri, scritti dai suoi colleghi astronauti?
Sta nel modo di scrivere. Nella semplicità con la quale parla di cose complesse come se fossero facilissime. Sta nella modestia con la quale affronta ogni argomento. Parla come chiunque di noi parlerebbe con gli amici, di un volo in aliante (Collins è un volovelista, tra l’altro).
La sua voce non sembra provenire dall’alto, da uno che ha addirittura conquistato la Luna, ma proviene dal nostro stesso livello. Anzi, a volte sembra perfino provenire dal basso, come quando descrive la sensazione di inadeguatezza che lo coglieva in alcuni momenti particolari. Proprio come chiunque di noi.
Non dichiara mai di essere un valoroso, uno che ha straordinarie capacità, quasi al di fuori dell’umano.
Dice, invece, di essere fortunato. E cita tanti episodi che dimostrano quanto la fortuna lo abbia favorito nella vita. Alcuni di questi episodi sono anche molto divertenti.
Uno per tutti: quando era in Francia con il suo reparto di volo, un giorno si trovava nel sud del paese e volava in coppia con un altro pilota. Procedevano a bassa quota. L’aereo era un F86. Ad un tratto il suo gregario segnalò che l’aereo di Collins aveva preso fuoco e che vedeva le fiamme uscire dalla fusoliera. In quel caso l’unica cosa da fare era lanciarsi e pure alla svelta. Collins si servì del sedile eiettabile un attimo prima che l’aereo esplodesse.
L’F86 si schiantò al suolo.
Collins atterrò con il paracadute. Fu preso da alcuni contadini della zona e accompagnato all’ospedale.
La violenza dell’espulsione, che all’epoca era ottenuta tramite una vera e propria carica esplosiva posta sotto il sedile, gli aveva provocato una piccola lesione alla colonna vertebrale, anche se sul momento questa sembrava poca cosa.
All’ospedale fu messo in anticamera e costretto ad aspettare per ore.
Quando la sua pazienza venne meno, Collins costrinse qualcuno a rendergli conto del perché di questa lunga attesa e gli fu risposto, con i problemi di comprensione di allora a causa delle diverse lingue, che non c’era nessuno che potesse visitarlo, perché c’era stato un incidente aereo nelle vicinanze e tutti erano andati nella zona a cercare il pilota che non si trovava.
Divertente.
Ma a parte questo, negli anni successivi, la lesione che aveva riportato in questo incidente produsse dei problemi quando Collins era in addestramento come astronauta alla NASA.
Dovette essere operato e rischiò addirittura di essere messo a terra ed escluso dalle missioni. Non fu così, l’operazione andò bene. Ma produsse un ritardo e uno slittamento nell’assegnazione a un equipaggio.
La fortuna fu che in questo modo venne assegnato proprio all’Apollo 11.
La descrizione del lungo viaggio verso la Luna e il ritorno verso la Terra occupa una gran parte del libro. Prima ci sono altri capitoli, che parlano delle fasi precedenti, come la missione Gemini 10. In questo volo Collins rivela aspetti straordinari del lancio, delle sensazioni che ha provato, dell’assenza di gravità sperimentata per la prima volta. E lo fa con quel suo modo colloquiale, preciso e semplice allo stesso tempo. Come si descriverebbe una gita fuori porta di un pomeriggio qualsiasi.
Allo stesso tempo, però rivela aspetti che altri hanno solo sfiorato. Spiega ogni cosa usando un insieme di modi che comportano una straordinaria vividezza di immagini, unica e personale. Il risultato è che i concetti riescono veramente a passare dalla sua mente a quella di chi legge.
Una grande efficacia di comunicazione.
Finalmente mi sono chiari aspetti che non avevo ben compreso leggendo altri libri.
Collins è un pilota, certo, anzi un test pilot, un pilota collaudatore, come si dice da noi. Ma è anche un ingegnere.
E deve essere sempre stato un ottimo insegnante, perché fa uso di molte tecniche della metodologia didattica. E il lettore capisce.
Sono passati più di 50 anni dalla missione Apollo 11. Ma il ritorno dell’interesse per lo spazio e la ripresa di progetti per nuove esplorazioni fa tornare attuali i fatti del passato.
La descrizione di Collins, riguardante l’intero viaggio, è talmente precisa che questi 50 anni svaniscono di colpo. E sembra di essere lì, ad osservare la Terra che diventa sempre più piccola nelle altrettanto piccole finestre del modulo di comando, intanto che questo si allontana ruotando lentamente su sé stesso. La lenta rotazione, proprio come quella di una fila di polli arrosto sopra un barbecue, si rende necessaria perché tra la Terra e la Luna c’è il giorno continuo. La notte non esiste e il Sole splende sempre. Perciò la parte di capsula esposta al Sole diventerebbe troppo arroventata, mentre la parte in ombra gelerebbe.
Per i tre giorni di viaggio i tre astronauti sono rimasti all’interno della capsula in lenta rotazione.
Collins descrive la vita a bordo, le operazioni, le lunghe check list da eseguire, l’allineamento della piattaforma inerziale, la posizione stabilita per mezzo di un sestante, i pranzi e le cene, le ore di riposo, le comunicazioni. Tutto.
Descrive le orbite da solo intorno alla Luna, il passaggio dietro la parte nascosta dove le comunicazioni con la Terra si interrompono, descrive il momento in cui la Luna è totalmente oscura perché non illuminata né dal Sole né dalla luce riflessa dalla Terra. Allora la Luna c’è, è lì, ma non si vede. Ed è totalmente solo.
Collins ha sempre detto di non aver mai avuto il minimo problema per questo, di non essersi mai sentito a disagio. Anzi.
“I like the feeling. Outside my window I can see stars – and that is all. Where I know the moon to be, there is simply a black void; the moon’s presence is defined solely by the absence of stars”.
“Mi piace la sensazione. Fuori dalla mia finestra posso vedere le stelle – e questo è tutto. Dove so che c’è la Luna, c’è semplicemente il nero vuoto; la presenza della Luna è definita soltanto dall’assenza delle stelle”.
Bellissima descrizione e bellissima immagine. Terrificante, però.
Collins descrive bene anche alcune cose meno belle, come gli odori. Tre uomini dentro una capsula chiusa per una settimana… ma questo è un aspetto che preferisco saltare, lasciandolo a chi leggerà “Carrying the fire“. Del resto, anche altri astronauti hanno scritto libri saltando, però, questa parte.
Il lettore troverà il piacere di leggere un libro bellissimo, dal quale non riuscirà a staccarsi neppure quando la fatica di leggere tante pagine in inglese arriverà a sopraffare la sua resistenza.
Nel quattordicesimo e ultimo capitolo troviamo una esauriente spiegazione dei motivi per i quali non ha avuto i problemi del dopo missione. O meglio, anche lui si è sentito disorientato, ma con pochi effetti.
Semmai, questi effetti, gli sono stati utili per migliorare. Non si innervosiva più per motivi futili. La soglia della misura di cosa è importante si era alzata di parecchio.
Il volo nello spazio ha cambiato tutti quelli che lo hanno compiuto, ognuno ha reagito in maniera personale. Tutti, però sono stati concordi su un aspetto: la Terra, vista da fuori della sua atmosfera, appare fragile. L’atmosfera stessa, un sottile velo di cipolla che la avvolge, appare fragile e vulnerabile. I politici dovrebbero essere tutti ben consci di ciò. Tutti i politici.
Collins dice:
“I really belive that if the political leaders of the world could see their planet from a distance of, let’s say, 100.000 miles, their outlook could be fundamentally changed”.
“Credo veramente che se i leaders politici del mondo potessero vedere il loro pianeta da una distanza, diciamo, di 100.000 miglia, la loro prospettiva cambierebbe in maniera fondamentale”.
La fragilità del nostro pianeta è apparsa talmente chiara ed evidente a tutti coloro che in qualche modo sono usciti dai limiti dell’atmosfera che tutti ne hanno parlato con enfasi, cercando di comunicare al resto del mondo la necessità di averne grande cura. Sono nati movimenti ovunque, organizzazioni ambientaliste, gruppi di scienziati e perfino partiti politici che hanno cercato di sostenere idee più conservative verso l’ambiente, ma, purtroppo con scarsi risultati. La società dei consumi e il mondo capitalista in generale, hanno inferto ferite profonde a questo fragile pianeta e le offese verso l’ambiente continuano.
Collins, con il suo linguaggio pacato e tranquillo, nel suo libro che risale al 1974, scrive:
“The Earth must become as it appears: blue and white, not Capitalist or Communist; blue and white, not rich or poor; blue and white, not envious or envied…”.
“La Terra dovrebbe divenire così come appare: blu e bianca, non Capitalista o Comunista; blu e bianca, non ricca o povera; blu e bianca, non invidiosa o invidiata…”
Sono perfettamente d’accordo con lui.
Dice anche, a proposito della sua fragilità:
“If I could use only one word to describe the Earth as seen from the moon, I would ignore both its size and color and search for a more elemental quality, that of fragility. The Earth appears “fragile”, above all else. I don’t know why, but it does. As we walk its surface, it seems solid and substanzial enaugh, almost infinite as it extends flatly in all directions. But from space there is not hint of ruggedness to it; smooth as a billiard ball, it seems delicately poised in its circolar journey around the sun, and above all it seems fragile”.
“Se potessi usare una sola parola per descrivere la Terra come si vede dalla Luna, ignorerei sia la grandezza che il colore e cercherei una qualità più elementare, quella di “fragilità”. La Terra appare “fragile”, sopra ogni altra cosa. Non so perché, ma così sembra. Quando camminiamo sulla sua superficie, sembra abbastanza solida e sostanziale, quasi infinita mentre si estende orizzontalmente in ogni direzione. Ma dallo spazio non c’è indizio di asprezza; liscia come una palla da biliardo, sembra delicatamente in bilico nel suo viaggio circolare intorno al sole, e soprattutto sembra fragile”.
Insomma, la Terra è fragile. E altrettanto lo sono i suoi abitanti. Tutti i suoi abitanti, animali e piante compresi.
E tanto fragili sono apparsi anche i pochi temerari che hanno avuto l’ardire di lasciare la fragilità del loro pianeta per dirigersi verso un altro, sorretti solo da una limitata conoscenza tecnologica e da una solida e incrollabile curiosità. E sete di esplorare.
Per un tempo interminabile sono rimasti all’interno di una fragile capsula che ha sfrecciato a velocità inimmaginabile attraverso il vuoto assoluto, circondati solo dal nero, altrettanto assoluto, ma punteggiato di stelle.
Il quattordicesimo capitolo di questo libro rappresenta la sintesi di tutto il libro. E’ come la conclusione di un racconto, quello della vita di un astronauta, un uomo che è stato tanto fortunato da vedere cose che tutto il resto dell’umanità, tranne pochissimi, neanche immagina.
Ma nonostante questo resta umile. Comprende la bellezza del mondo ed esorta ad averne cura.
L’umiltà, la mancanza di protagonismo, la semplicità, l’essere schivo e distaccato, qualità che lo hanno sempre fortemente caratterizzato, hanno prodotto l’effetto che, nei decenni successivi alla missione, il mondo lo dimenticasse. Soltanto oggi, con i social media, ha ritrovato un minimo di visibilità. Oggi Mike Collins è su Facebook. Se lo cercate, trovate il suo profilo, ed è anche piuttosto attivo. Chatta con tutti, apprezza i commenti con un like o risponde a chi gli chiede qualcosa. Ve lo garantisco per esperienza personale.
Ma solo oggi è così. Finora era stato per decenni “l’astronauta dimenticato”.
Il 16 settembre 1969, Collins parlò ad una riunione del Congresso, a Washington, la sua città.
“Mr President, members of Congress, and distinguished guests”…
così iniziò il discorso, che si snoda in diverse pagine.
“Signor Presidente, membri del Congresso e distinti ospiti”…
Ma poche righe prima, scriveva:
“For me, that date and these words marked the end of Apollo 11, and closed an extraordinary chapter in my life”.
“Per me quella data e quelle parole segnarono la fine dell’Apollo 11, e chiusero uno straordinario capitolo nella mia vita”.
Il discorso di cui parlo si trova facilmente su YouTube.
In questi anni, alcuni degli astronauti delle missioni Apollo ci hanno lasciato. John Young e Gene Cernan tra questi.
Qualche giornalista deve aver fatto confusione con i nomi e riportato, per sbaglio, la morte di Collins (proprio in questi giorni, mentre mi accingo a chiudere questa recensione, ci ha lasciato per sempre anche Al Worden).
A questa notizia avevo creduto. Ma poi, per fortuna ho scoperto che Mike Collins è ancora vivo e vegeto. E continua a dipingere e pescare nel Sud della Florida. Sono sicuro che tante persone credono ancora che sia morto. Nessuno parla di lui, nessuna cronaca, nessun telegiornale. Armstrong non c’è più, ma se ne parla ad ogni occasione. Aldrin continua a spingere a tutta forza l’idea di andare alla conquista di Marte, senza nemmeno passare prima per il ritorno sulla Luna almeno per costruirci sopra una stazione intermedia. Tutti i media continuano a diffondere i suoi appelli, perché lui vende magliette e gadget online con la scritta;
“get your ass to Mars“,
letteralmente; “porta il culo su Marte“….
Di Collins non si sente dire mai nulla.
Ma lui era anche chiamato “l’astronauta dimenticato”. Tutti conoscono Armstrong e Aldrin. Collins… se lo ricordano in pochi.
Se cercate Mike Collins su Google troverete molto probabilmente qualcun altro, che non è lui e che appare nei primi posti della lista.
Per trovare lui, dopo aver digitato il suo nome, dovete aggiungere un’altra parola: astronaut.
Recensione a cura di Evandro Aldo Detti (Brutus Flyer),
Didascalie della Redazione di VOCI DI HANGAR