titolo: Astronaut Oral Histories, Group 1 and 2 (Apollo and America’s Moon Landing Program)
autore: National Aeronautics and Space Administration (NASA), World Spaceflight News, Johnson Space Center
editore: Smashwords Edition
anno di pubblicazione: 2013
ISBN: 978-1521152140
L’opera editoriale è composta da due volumi. Il primo include le interviste agli astronauti:
Anders,
Armstrong,
Bean,
Borman,
Cernan,
Collins,
Cunningham,
Evans,
Gordon,
Haise.
Il secondo include le interviste a:
Lovell,
McDivitt,
Mitchell,
Schirra,
Schmitt,
Schweickart,
Shepard,
Stafford,
Worden.
Queste interviste furono raccolte a beneficio del Johnson Space Center Oral History Project della NASA.
Nel corso degli anni successivi al periodo delle missioni Apollo, da subito dopo fino a qualche anno fa, diversi intervistatori hanno incontrato i protagonisti di quelle missioni. Le registrazioni sono state trascritte ed oggi finalmente possiamo trovarle online, scaricarle e leggerle.
Si tratta di colloqui piuttosto informali, il linguaggio è quello parlato, che fa uso di espressioni idiomatiche tipiche della regione di provenienza degli intervistati. E per scelta ben precisa le trascrizioni sono state lasciate in forma integrale, senza “abbellirle” con opportune correzioni.
La lingua è l’anglese, anzi, diciamo meglio, l’americano. E questo comporta una certa difficoltà in più per il lettore che non sia di madre lingua. Ma, allo stesso tempo, rende la lettura ancor più interessante e, se vogliamo, più formativa.
Ho letto tanti libri scritti dagli astronauti e continuo a leggerne di nuovi, man mano che si rendono disponibili. Non tutti gli astronauti si sono cimentati nell’impresa di immortalare le loro esperienze in un libro, certo, ma coloro che lo hanno fatto, hanno parlato anche degli altri colleghi, di tutti i componenti degli equipaggi. Alla fine si finisce per conoscerli tutti. Si conosce la loro vita, la carriera, la storia che è seguita al loro ritorno.
Ora questa raccolta di interviste non fa altro che ribadire gli stessi eventi. Chi aveva letto i loro libri si trova a fare quasi un ripasso della stessa storia, che già conosce. Ma per chi legge solo queste interviste è un’occasione per conoscere qualcosa di cui, probabilmente, ha solo sentito parlare di sfuggita. Specialmente i giovanissimi.
A parte questo, cosa si ricava dalla lettura di queste trascrizioni?
Beh, dipende da chi legge e da quanto conosce di tutta la storia della conquista dello spazio.
Per quanto mi riguarda, ci sono alcuni elementi, alcune sensazioni e diverse considerazioni che vorrei mettere in evidenza.
Prima di tutto, dalle interviste, avvenute, come ho detto in anni successivi e a volte anche parecchi anni dopo, viene fuori un fatto straordinario: spesso gli astronauti dichiarano di non ricordare con chiarezza molti particolari. E questo sorprende, perché non stiamo parlando di qualcosa di banale, ripetitivo, comune. Ci si aspetterebbe, da chi ha vissuto esperienze così straordinarie, eccezionali e al limite, quasi, delle possibilità umane e tecnologiche, che ricordi tutto, ma proprio tutto, senza dimenticare neanche un singolo particolare.
Invece no. A fronte di alcune parti che ricordano molto vividamente, ci sono pezzi della Storia che non sanno dire con precisione come si sono svolti.
Strano fatto davvero.
Altro elemento di rilievo, che avevo già scoperto leggendo i libri, ma che qui è ribadito ovunque, è l’immenso senso di competizione che riguardava tutti, ma specialmente gli astronauti.
Aldrin, ad esempio, si è rovinato l’esistenza per non essere stato il primo a scendere dal Modulo Lunare e posare il piede sulla superficie polverosa del nostro satellite. Nella sequenza di fotogrammi della videocamera che lo riprende mentre scende la scaletta del LM (Lunar Module – modulo lunare), quando già Armstrong lo aspettava sul suolo lunare, si vede che sull’ultimo piolo si arresta e rimane fermo per un certo tempo. A chi gli chiede il motivo risponde che si era fermato per… fare pipì! Si, esatto, proprio per fare pipì. Aveva un sistema studiato appositamente per permettere agli astronauti di svolgere questa funzione attraverso un tubicino che portava la pipì in una sacca fissata più in basso. La gravità della Luna, un sesto di quella della Terra, faceva sì che il sistema funzionasse bene. Ma non era per questo che aveva scelto quel momento. Piuttosto voleva essere il primo, se non a mettere piede sulla Luna, a farci la pipì.
E Cernan, l’ultimo a togliere il piede dal suolo lunare nel corso della missione Apollo 17, ha portato per tutta la vita l’etichetta di ultimo… anche se non credo che a lui, questo, abbia dato particolarmente fastidio.
Ma Cernan aveva aperto la strada all’Apollo 11. Con la missione precedente, l’Apollo 10, Cernan era sceso a bordo del modulo lunare fino ad una quindicina di chilometri dalla superficie. La sua poteva essere la missione destinata ad atterrare, ma il modello di Lunar Module che stava utilizzando era ancora troppo pesante. Perciò, meglio non rischiare. Una catastrofe avrebbe fermato tutta la corsa alla conquista della Luna, che doveva avvenire prima della fine del decennio, come Kennedy aveva promesso.
Anche l’URSS era interessata ad essere la prima a scendere sul suolo lunare e l’URSS andava assolutamente battuta. Non si poteva rischiare.
Cernan dovette arrestare l’avvicinamento a quella quota, circa quindici, sedici chilometri. Infatti comandò l’abort e tornò al rendez-vous con il Modulo di Comando (e il Modulo di Servizio, uniti) che intanto stava orbitando intorno alla Luna. Poi tornarono indietro.
E questo, credo, deve avergli dato veramente fastidio, perché poteva essere stato lui il primo.
Nell’intervista a Cernan, alla seconda pagina, traspare questo fastidio:
“… But we only came close. We came within about 47.000 feet but did not land. That’s the way it was planned, although originally one time early on in the program the fourth Apollo flight was going to be the first attempt at landing. That would have been Apollo 10”.
(Ci siamo andati vicino. Siamo arrivati intorno ai 47.000 piedi ma non siamo atterrati. Così era stato pianificato, sebbene originariamente nel programma il quarto volo Apollo avrebbe dovuto essere quello del primo tentativo di atterraggio. Avrebbe dovuto essere l’Apollo 10).
E quello che dice dopo è ancora più illuminante:
“But anyway, I keep telling Neil Armstrong that we painted that white line in the sky all the way to the Moon down to 47.000 feet so he wouldn’t get lost, and all he had to do was land”.
(Ma comunque, io continuo a dire a Neil Armstrong che noi abbiamo disegnato quella linea bianca nel cielo fino alla Luna e giù fino a 47.000 piedi così che lui non si perdesse, e tutto quello che gli rimanesse da fare fosse l’atterraggio).
Come dire: non sarò stato il primo, ma se non fosse stato per me… ti ho tracciato la strada fin quasi al suolo lunare…
Ecco, grande senso di competizione. Ma anche grandissimo senso di collaborazione.
Tornando ai due libri, ogni intervista rivela la linea degli avvenimenti che sono quelli noti, ma dal punto di vista del personaggio di turno. Ogni personaggio ci regala la sua personale visione dei fatti.
Ma c’è un altro elemento che tutti hanno, in qualche modo, menzionato, o lasciato intendere: il rammarico per l’improvviso arresto delle successive missioni Apollo già pianificate. Dopo l’Apollo 17 tutto si è fermato, molti sono stati licenziati e il budget è stato dirottato nelle missioni di un nuovo veicolo spaziale che stava prendendo forma in quegli anni: lo Shuttle. E la costruzione di quella che oggi è la Stazione Spaziale Internazionale.
Con questo è finita l’era dell’esplorazione dello Spazio profondo e ci si è, per così dire, ritirati in un guscetto che gira intorno alla Terra, appena fuori dalla porta di casa.
C’è molto altro in queste interviste. Si trovano online e chiunque le può scaricare.
Consiglio tutti di leggerle. Qualcuna è più difficile da comprendere, per via delle troppe frasi idiomatiche e parole strane che, a volte, neanche il vocabolario insito nell’applicazione Kobo conosce. Ma si rimedia facilmente con lo smartphone, che trova quasi tutto con facilità.
E in questo modo, ripeto, si impara.
Con questi due libri possiamo conoscere i fatti che hanno riguardato il passato.
Quest’anno, 2019, ricorre il cinquantesimo anniversario del primo sbarco sulla Luna.
Ma proprio in questo periodo riprende con forza l’interesse per l’esplorazione spaziale. Non solo è previsto il ritorno sulla Luna, ormai lo sguardo umano è rivolto verso Marte e le sue lune e verso altri asteroidi lontani.
Si ritorna nello spazio profondo, con tutto ciò che comporta.
E questa è l’alba di una nuova era che potrebbe portare l’Umanità ad essere una razza multi planetaria. Come forse era già stata. Uno degli intervistati, Al Worden, lo sostiene.
Questa, però, è Storia futura.
Recensione a cura di Evandro Detti (Brutus Flyer).
Didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR
titolo: Falling to Earth – an Apollo 15 astronaut’s journey [Cadendo sulla Terra – un viaggio dell’astronauta dell’Apollo 15 ]
autore: Al Worden with Francis Franch
editore: Smithsonian Books – Washington
(2011, edizione digitale, prima edizione)
eISBN: 978-1-58834-310-9
Questo è davvero un libro speciale.
Tutti i libri possono esserlo, ma alcuni sono più speciali di altri. Già l’argomento, le missioni spaziali, le prime in assoluto da quando esiste l’essere umano sulla Terra, è di un interesse travolgente. Queste missioni si sono svolte in un periodo di pochi decenni. Un tempo insignificante, se messo in confronto con i millenni che l’umanità aveva già alle spalle. E considerato anche che la conquista dell’aria, cominciata si nel 1800, ma realmente perfezionata solo nei primi anni del 1900, aveva avuto anche questa uno sviluppo esponenziale che ha del prodigioso.
Nessuno si sarebbe mai immaginato di poter camminare sul suolo lunare così presto.
Sulla scia della rivalità e della competizione con l’Unione Sovietica, il presidente Kennedy aveva promesso di portare l’Uomo sulla Luna prima della fine del decennio. Erano gli anni sessanta.
Per mantenere la promessa, gli Stati Uniti avevano posto in atto uno sforzo immenso, sia dal punto di vista tecnologico che economico. E anche di risorse umane. Gli equipaggi erano stati selezionati tra i migliori piloti del momento, quasi tutti piloti sperimentali, super qualificati e provenienti da tutte le aviazioni, sia dell’Aeronautica che dell’Esercito, della Marina e dei Marines.
Lo spazio, però, è un ambiente diverso rispetto all’atmosfera. Dal 1969, l’anno del primo allunaggio ad opera dell’Apollo 11, fino al 1972, anno dell’ultimo allunaggio portato a termine dall’Apollo 17, possiamo contare tre meri anni durante i quali 12 uomini hanno passeggiato sulla Luna e sei sono rimasti ad orbitare velocemente sopra di loro, soli a bordo e con una miriade di compiti da svolgere.
Poi tutto è finito. Le missioni Apollo hanno lasciato il posto all’epoca dello Shuttle, alla costruzione delle stazioni spaziali, una russa (la MIR) e una americana, ma più che altro internazionale, la I.S.S. (International Space Station).
Solo in questo periodo, un paio di decenni dopo il 2000, si sente di nuovo parlare di ritorno nello spazio profondo, lontano dall’orbita terrestre, addirittura si parla di Marte e di alcuni asteroidi lontani.
Il libro di cui parliamo riguarda la vita di uno dei membri dell’equipaggio dell’Apollo 15. E precisamente di colui che non era destinato a scendere sul suolo lunare, ma a restare in orbita, solo e con tantissime cose da fare.
E già qui la storia comincia a farsi interessante. Perché Alfred Worden è un tipo speciale e tutta la sua storia lo è, a cominciare dalla sua infanzia fino ai giorni nostri.
Ha scritto solo questo libro, ma che libro!
Le prime pagine cominciano con la prefazione del Capitano Dick Gordon, astronauta e pilota della Gemini 11, poi pilota del modulo di comando dell’Apollo 12 (anche lui destinato ad orbitare la luna senza scendere al suolo) e poi comandante di riserva dell’Apollo 15. Ogni equipaggio in addestramento per una missione aveva un altro equipaggio che si addestrava in parallelo ed ogni membro di backup era immediatamente pronto e disponibile a sostituire il titolare per qualunque ragione che gli avesse impedito di partire, fosse pure un banale raffreddore.
Poiché una recensione è essenzialmente una presentazione, destinata a chi, venuto a conoscenza dell’esistenza di un libro, vorrebbe conoscerne il tipo di contenuto per decidere se leggerlo o meno, non esito a consigliare chiunque abbia un Kobo a comprare “Falling to Earth” subito e cominciare a leggerlo. E’ in inglese. Purtroppo non esiste, per quanto ne so, la versione italiana. Ma di questo problema ho già parlato nelle altre recensioni, qui su VOCI DI HANGAR.
Per chi ha letto le mie precedenti recensioni di libri sullo stesso argomento e scritti da altri astronauti, diciamo subito che anche questo traccia un po’ la vita dell’autore, dall’infanzia fino alle scuole iniziali, al periodo dell’Accademia militare, in questo caso West Point (forse la più prestigiosa), fino ad arrivare alla scuola di volo.
Worden opta per l’Air Force. Molti suoi colleghi vennero arruolati invece dalla Navy, la Marina americana. Altri scelsero i Marines.
Alcuni, molti, finirono a combattere in Vietnam.
Erano molti i reparti di volo dove tutti questi piloti prestavano servizio e dove furono raggiunti dalla notizia che la NASA, l’ente spaziale americano, ricercava piloti da avviare alla carriera di astronauti. Anche se, all’inizio, li cercava solo nei reparti sperimentali di volo.
Infatti, tutti i primi neo-astronauti, tranne qualche eccezione come Buzz Aldrin, erano test-pilots, i piloti sperimentali, il meglio in assoluto per esperienza e capacità. In altre parole i più indicati per entrare a far parte di un settore nuovo come l’astronautica, dove ogni cosa sarebbe stata essenzialmente sperimentale. Con tutte le incognite e i rischi associati.
Molti piloti mandarono il proprio curriculum e furono inviati alle visite mediche e ai colloqui necessari. Worden si trovava in Inghilterra, presso il Centro sperimentale inglese. Fu fatto rimpatriare, superò i test ed entrò a far parte della NASA come membro di equipaggio.
Gli anni che seguirono furono anni durissimi, come si può immaginare. La disponibilità degli equipaggi doveva essere totale, il lavoro andava ben oltre le canoniche otto ore, spesso durava giorni e notti con appena qualche ora di sonno. Si lavorava anche nei fine settimana. Inoltre i centri della NASA e le sedi dove venivano costruiti i veicoli spaziali, i centri di addestramento e i simulatori di ogni tipo erano sparsi per tutto il paese. Gli astronauti dovevano attraversare gli Stati Uniti in lungo e largo, migliaia di chilometri che percorrevano a bordo del caccia biposto T38. Questo meraviglioso addestratore veniva usato come aereo executive personale. Ogni astronauta ne aveva uno e lo usava per andare dove serviva, quasi come un’automobile.
Worden era sposato con Pamela. Avevano una figlia e poi ne ebbero un’altra. Ovviamente la moglie restava da sola per periodi lunghissimi e aveva sulle proprie spalle la responsabilità della famiglia della quale mancava sempre un elemento importante. I trasferimenti erano molto frequenti, bisognava cambiare stato, città, casa. Una vita dura.
Tutti questi disagi non andavano certo a favore di una serena unione familiare.
Dopo alcuni anni anche Worden si trova ad affrontare un divorzio. Come quasi tutti i suoi colleghi.
Ci furono almeno due incidenti terribili, in quegli anni. Sapevo già, dalla lettura dei libri di altri astronauti, dell’incendio della navicella sulla piazzola di lancio, di quella che doveva essere la missione Apollo 1 (che per questo cambiò anche nome, anzi, numero), dove persero la vita tutti i tre membri di equipaggio e dell’incidente di volo di due colleghi di Worden, mentre cercavano di atterrare in condizioni di scarsissima visibilità, a bordo di un T38. Morti entrambi.
Ma Worden rivela in questo libro anche altri incidenti di cui non sapevo nulla.
La moglie Pamela, però, sapeva eccome. E aveva cominciato a capire che il lavoro del marito era estremamente pericoloso. E non stava mai tranquilla. Aveva visto come altre mogli di astronauti avevano ricevuto la notizia della morte dei loro mariti e si aspettava anche lei, in ogni momento, una visita del genere. Non ce la faceva più.
In questo libro, Worden mette bene in evidenza tanti elementi, compresi i rischi inerenti al suo lavoro. Diciamo che, leggendo i capitoli, si viene ad avere, via via, una idea molto più chiara di tanti episodi già letti in altri libri.
L’autore è un tipo deciso, caparbio, meticoloso. Sa scrivere in modo molto vivido ed ha le idee chiare su ogni cosa. Si percepisce dalla lettura, ma oggi si può anche fare riferimento ai tanti video di Youtube. Andate a vedere il tipo, come è oggi, come parla e come si muove. Ha una simpatia innata, modi amichevoli e tranquilli, ma si vede la decisione in ogni suo gesto.
Negli anni che hanno preceduto il suo divorzio da Pam, tanto per fare un esempio, sperimentava i voli sub-orbitali, utilizzando un velivolo F104 modificato. Decollava, saliva ad un livello altissimo, accelerava al massimo, poi tirava su il muso in una ripida cabrata che lo portava oltre il limite dell’atmosfera, intorno ai cento chilometri di quota. Il motore veniva spento e l’aereo entrava in una traiettoria balistica che per alcuni momenti avveniva in uno strato basso dello spazio. Poi ricadeva nell’atmosfera, il motore veniva riacceso e si tornava a terra, spesso atterrando sulla superficie dura e liscia di un lago asciutto della California.
Chuck Yeager, il famoso pilota sperimentale, aveva già perso un velivolo in questo modo e si era dovuto lanciare. Nel lancio, il canottino gonfiabile che aveva addosso, aveva preso fuoco e per spegnerlo e sganciarlo si era ustionato le mani.
Come dare torto a Pamela?
Alla fine, sia pure in condizioni di massima civiltà e senza liti, i due si separano.
Al Worden ne parla nel libro.
“Although I will always regret that my marriage to Pam did not work out, once it ended I saw I never could give her what she needed in life. She wanted stability and comfort. That wasn’t me”.
“Sebbene sarò sempre rammaricato che il mio matrimonio con Pam non abbia funzionato, una volta finito mi sono accorto che non avrei mai potuto darle ciò di cui lei aveva bisogno nella sua vita. Lei voleva stabilità e comodità. Quello non ero io”.
E dice che solo due mesi dopo il divorzio Pam venne a trovarlo a casa insieme al suo nuovo compagno. Il suo nome era Jim e a lui piaceva lavorare dalle nove alle diciassette, tornare a casa mettere le pantofole e fumare la pipa.
Beh, certo, era tutto un altro tipo di uomo. Dice Worden:
“Pam had found happiness, at last”. “Pamela aveva trovato la felicità, alla fine”.
Gli scienziati che contribuivano a preparare le missioni lunari erano interessati soprattutto a scoprire l’origine geologica del suolo lunare e delle rocce che erano presenti intorno ai crateri. Pensavano che i crateri fossero originati dall’impatto di meteoriti, ma volevano scoprire se fossero anche il risultato di eruzioni vulcaniche.
Negli anni, prima della missione Apollo 15, Worden fece tanto addestramento in giro per l’America, per essere in grado di riconoscere e distinguere l’origine di ogni roccia, se era vulcanica o no.
Divenne quasi un geologo lui stesso, ma nell’ultima missione, Apollo 17, la NASA mandò sulla luna un geologo vero, come ho scritto nella recensione del libro di Gene Cernan.
I capitoli si susseguono, il racconto della vita operativa di Worden contiene tanti aspetti che altri, nei loro libri, non hanno neppure sfiorato. Si impara, da questo libro. Devo dire che la missione Apollo 15 ha avuto molti più compiti delle precedenti, molti più esperimenti da portare a termine. Una delle pareti del modulo di servizio, quello che contiene il motore e resta in orbita lunare insieme al modulo di comando, in un tutt’uno che si separerà solo poco prima del rientro nell’atmosfera terrestre, era letteralmente zeppa di strumenti, sensori e macchine fotografiche.
Le pellicole impressionate, gli archivi con le registrazioni di tutti questi strumenti dovevano essere recuperati nel volo di rientro perché il modulo di servizio non era destinato a tornare a terra. Worden portò a termine questa operazione (E.V.A. Extra vehicular activity) nel primo terzo di percorso tra la Luna e la Terra. Nessuno aveva mai fatto questo. E’ la passeggiata spaziale più lontana dalla Terra di sempre. E da lì poteva vedere Terra e Luna contemporaneamente.
Worden rimase in orbita lunare da solo per sei giorni, mentre i suoi due colleghi scendevano al suolo a bordo del LM (Lunar Module). Ad ogni giro intorno alla Luna fotografava e mappava la superficie con strumenti di ogni tipo. Un lavoro enorme. Gli strumenti erano in grado di rilevare la presenza di qualunque elemento chimico, gas o particella, specialmente di origine vulcanica.
Una cosa curiosa che Worden riporta nell’ambito di questa ricerca è abbastanza impensabile e non mi sarebbe mai venuta in mente, se lui non l’avesse detta.
Ad un certo punto, mentre orbitava e faceva rilevamenti con i suoi sensori, questi hanno scoperto la presenza di particelle di origine terrestre e che… non dovevano essere lì. Ma subito il fatto aveva trovato la sua spiegazione.
Durante il viaggio verso la Luna, in tre giorni e mezzo, è umano che si debbano espletare le tipiche funzioni fisiologiche. Sia la pipì che il resto veniva messo in apposite buste, sulle quali veniva segnato il nome, l’ora etc. Questi reperti sarebbero stati studiati al rientro. Ma a volte il contenuto veniva inserito in uno scomparto che lo sparava fuori nel vuoto spaziale. Però nello spazio ci sono altre leggi fisiche. La nuvola di scorie non si disperdeva, ma seguiva la navicella, anche quando questa entrava in orbita intorno alla Luna. In una di quelle orbite, i sensori ne avevano rilevato la presenza, con una certa sorpresa per l’astronauta che operava quei sistemi.
Bene. Fin qui, a parte la meticolosità e l’abbondanza delle descrizioni e la vividezza del modo di narrare dell’autore, potrei quasi dire che si tratta di un normale libro scritto da un astronauta.
Worden era al suo primo volo spaziale, a differenza di altri che avevano partecipato alle missioni Gemini. Veniva da anni di addestramento, da studi di tutti i tipi, corsi di geologia e voli parabolici per simulare la condizione di assenza di gravità. E da lunghe sessioni subacquee per simulare la cosiddetta attività extra veicolare (E.V.A. o extra vehicular activity).
Era entusiasta e aveva un gran rispetto gerarchico per i superiori, compreso il suo comandante Dave Scott. Ed era animato da un grande senso di cameratismo e amicizia per l’altro membro di equipaggio, James Irwin.
E forse proprio per questo, poco prima del lancio, avvenne qualcosa di sconcertante, di banale e allo stesso tempo di gravissimo. Qualcosa che avrebbe rovinato la carriera di questo grande pilota e grande uomo. E dopo aver portato a termine la missione in maniera tanto perfetta. Dopo aver fatto molto di più di altri astronauti. E dopo aver ricevuto continui elogi e riconoscimenti per la perfezione della sua opera, sia dai colleghi, che da tutto l’apparato di controllo a terra e sia dai membri del congresso e dalla Casa Bianca.
Cosa era successo?
Il lettore lo scopre sin dalle prime parole della prefazione, scritta da Worden stesso.
“It was the worst day in my life. I’d had low points before. A failed marriage. Friends dead in car wrecks, aircraft, and spacecraft. This day was almost worse than death. Everything I had worked towards over a lifetime of service was ruined, and I was all alone. Yust a few months before, heads of state had onored me. Congress asked me to address them. I was called a hero. Now I was clearing out my rented apartment, loading boxes into a trailer, and preparing to leave Houston forever. I’d been fired in disgrace and frozen out by my colleagues. I had lost everything: My career, and the respect and trust of those for whom I would have given my life”.
“Era il giorno peggiore della mia vita. Avevo già avuto punti bassi prima. Un matrimonio fallito. Amici morti nei rottami di un’auto, aereo e veicolo spaziale. Questo giorno era quasi peggio della morte. Tutto ciò per il quale avevo lavorato attraverso una vita di servizio era rovinato, ed ero solo. Pochi mesi prima, capi di stato mi avevano onorato. Il congresso mi aveva invitato a fare un discorso. Ero stato chiamato eroe. Ora stavo pulendo il mio appartamento in affitto, caricando scatole in una roulotte e mi preparavo a lasciare Houston per sempre. Ero stato scacciato e scaricato dai miei colleghi. Avevo perso tutto: la mia carriera ed il rispetto e la fiducia di coloro per i quali avrei dato la vita”.
Parole terribili. Specialmente se le leggiamo già all’inizio di un libro.
Il giorno di cui Worden parla si riferisce all’estate de 1972. La missione Apollo di cui aveva tanto onorevolmente fatto parte risaliva al 1971. Pochi mesi erano passati, ma un grande guaio era scoppiato, come una bomba ad orologeria.
A questo argomento sono dedicate tante pagine, perché si tratta di una cosa complessa. Ma per sintetizzarla al massimo, diciamo che si era trattato di qualcosa di molto banale. Tutti gli equipaggi, ad ogni volo, portavano con sé alcuni gadget che poi, una volta tornati, avevano acquistato valore per essere stati nello spazio. Figuriamoci se erano stati addirittura sulla luna.
Nel corso delle missioni ai semplici gadget si erano aggiunte certe buste affrancate, con annulli che ogni filatelico avrebbe pagato a peso d’oro. Il comandante Dave Scott, nella missione Apollo 15, ne aveva portate centinaia, un po’ per l’equipaggio stesso, quindi anche per Worden, e un po’ per alcuni personaggi estranei. Questi faccendieri, alla fine della missione avevano subito messo in vendita le buste, facendo scoprire un illecito che la NASA si era trovata a dover giustificare, con grande imbarazzo, verso l’opinione pubblica e verso il governo degli Stati Uniti.
Ovviamente non era consentito trarre vantaggi economici da una professione per la quale si era già pagati.
La vicenda entra in una spirale perversa, passano decenni prima che se ne venga a capo. Alla fine la colpa si riduce ad un illecito di scarso valore e tutti sono riabilitati, ma intanto la rovina era fatta.
Jim Irwin si ritirò subito e andò in pensione, Dave Scott rimase, ma ebbe comunque gravi ripercussioni nella carriera.
Worden, invitato a lasciare la NASA e a rientrare nei ranghi dell’Aeronautica, dove la sua carriera sarebbe stata comunque compromessa, ci pensò sopra per alcuni giorni. Poi, il suo carattere indomito si rifiutò di subire la conseguenza di una stupida leggerezza indotta più che altro dall’intraprendenza del suo comandante. Lui aveva solo acconsentito per rispetto gerarchico, ma non aveva mai pensato di lucrare su una cosa del genere.
Perciò decide di rifiutare l’invito e di passare al contrattacco.
Chi leggerà questo libro vedrà come si svolgono i fatti negli anni successivi.
Il danno era fatto, ma…
Giusto per la cronaca, in questa missione c’è stato anche un altro elemento di rilievo che Worden mette bene in risalto. Dave Scott e Jim Irwin, durante i giorni passati sul suolo lunare, si sottoposero ad un lavoro estenuante. Il loro cuore si era talmente affaticato da preoccupare gli scienziati a terra già durante il volo di rientro. Infatti richiesero loro di indossare sempre un sensore per tenerli sotto controllo continuo. Senza comunque rivelare che almeno Jim rischiava una attacco di cuore in ogni momento.
Dave Scott si riprese abbastanza bene. Irwin no. Ebbe problemi, subì interventi chirurgici e alla fine, nel 1991, solo venti anni dopo essere tornato, morì di infarto. Nella sua vita successiva alla missione Apollo e al pensionamento si era dedicato interamente alla religione. Della quale non aveva mai parlato prima. Strani effetti della Luna.
Senza dubbio l’Apollo 15 ha tante cose particolari che lo caratterizzano. Al Worden ne parla diffusamente.
Ma ce ne è anche una che riguarda l’ultima parte della fase di rientro, quando si devono aprire i paracadute che frenano la caduta della navicella fino al cosiddetto splashdown sull’oceano.
Prima che la capsula tocchi l’acqua è necessario scaricare il carburante rimanente, quello che alimenta i piccoli getti di stabilizzazione. Si tratta di un elemento chimico tossico. Meglio non rischiare che una eventuale perdita contamini l’acqua. Di solito si scarica nell’atmosfera, dove i forti venti di alta quota disperdono tutto.
Stavolta i venti non ci sono e l’elemento tossico e corrosivo finisce sui paracadute. Uno di questi si deteriora. Grandi buchi si allargano sulla calotta, che si affloscia.
Anche un secondo paracadute incomincia a bucarsi, ma per fortuna la navicella ammara prima che succeda il peggio.
Su Youtube si trovano i video sulla discesa della navicella. Uno dei paracadute è quasi chiuso.
Oppure, per chi volesse approfondire l’argomento, ci sono tante foto, filmati e articoli sul sito www.alworden.com.
Una frase conclusiva che sintetizzi tutto quanto esposto sopra?
Un gran bel libro.
Vale la pena cercarlo e scaricarlo sul Kobo. Anche se per farlo dovesse essere necessario comprare anche il Kobo.
Recensione a cura di Evandro Aldo Detti (Brutus Flyer)
Didascalia della Redazione di VOCI DI HANGAR
Nota della Redazione
Tutte le fotografie presenti in questa recensione sono state prelevate gratuitamente dallo splendido sito web Apollo archive che vi invitiamo a visitare in lungo e largo. Troverete centinaia di scatti a colori e in bianco e nero che ripercorrono le missioni Apollo nonchè le pre e post Apollo. Ricco di didascalie e di ulteriore materiale collaterale, è un sito divulgativo cui non smetteremmo mai ti attingere. Perchè se è vero che la storia, per essere viva, deve essere vissuta, ebbene siamo certi che questa è la migliore opportunità offerta a coloro che vogliano farlo davvero
titolo: Forever Young.A life of adventure in air and space – [Per sempre Young – Una vita di avventure in aria e nello spazio]
autore: John W. Young e James R. Hansen
Prefazione di: Michael Collins
editore: University Press of Florida
ISBN: 978-0-8130-4209-1
Anno di pubblicazione: 2012
Ecco un libro unico nel suo genere. Fino adesso avevo letto le biografie di molti altri astronauti, specialmente di quelli più famosi che avevano attraversato i decenni delle conquiste spaziali e della Luna. Tra quelli che avevano camminato sulla Luna, o solo le avevano girato intorno mentre gli altri due scendevano sulla superficie per operarvi, a volte per ore, altre volte per giorni, tutti o quasi avevano raccontato le stesse cose. E dopo il ritorno sulla Terra avevano affrontato vicende burrascose, come divorzi, problemi di alcool, incapacità di riadattarsi alla vita normale. Qualcuno, dopo una missione Apollo, si era ritirato dal servizio attivo e non era più tornato nello spazio, altri avevano cercato di entrare a far parte di successive missioni di pari importanza, ma poi tutti avevano finito per accettare incarichi che solo marginalmente avevano a che fare con l’esplorazione spaziale.
John Young, invece, dopo la missione Apollo 16 che lo aveva portato a camminare sul suolo lunare, ha continuato l’avventura delle missioni che hanno riguardato lo sviluppo dello Space Shuttle e della costruzione della Stazione Spaziale Internazionale (ISS).
Unico astronauta ad aver operato in tutte le missioni, Gemini, Apollo e Shuttle.
Una vita operativa dedicata interamente al volo, in ogni sua forma.
John Young, nato a San Francisco, ma cresciuto ad Orlando, in Florida, ha anche un modo chiarissimo di scrivere. In tutto il libro, piuttosto lungo, visto lo spazio temporale che copre la sua carriera, non ho trovato più di una decina di frasi idiomatiche delle quali non ho saputo interpretare appieno il significato. Le descrizioni più tecniche sono talmente chiare da trasformare la lettura in una specie di corso di materie scientifico-spaziali.
Ho imparato moltissime cose, in questo libro.
La descrizione della missione Apollo 16 non ha rappresentato per me una gran novità, dato che avevo letto i libri degli altri astronauti. Il vero interesse è venuto dopo, con lo sviluppo dell’Orbiter, capace di portare un notevole carico nello spazio, decollando in verticale attaccato a grossi motori a propellente solido, perfezionare orbite intorno alla Terra ad altezze variabili per poi rientrare nell’atmosfera ed atterrare come un aereo. Anzi, come un aliante. Parliamo di quello che ha preso il nome di SpaceShuttle e che ha operato per tanti anni. E che è stato protagonista di terribili incidenti con esito fatale per gli equipaggi a bordo.
Young ha pilotato il primo Shuttle nello spazio.
Ma prima di ciò, un prototipo è stato usato per mettere a punto tutti i sistemi, le procedure ed i parametri entro i quali mantenere una macchina tanto sofisticata. Gli altri esemplari sono stati costruiti dopo che il prototipo aveva fornito tutte le indicazioni di cosa era necessario modificare. Dopo che ogni apparato era stato testato a dovere. Young e altri astronauti si sono dedicati a questo compito, utilizzando simulatori e aerei allestiti allo scopo, per mettere a punto ogni aspetto delle operazioni di volo che avrebbero riguardato gli Shuttle già in costruzione.
E per mettere a punto la tecnica di atterraggio.
Lo Shuttle, pur avendo i motori a razzo necessari alle operazioni nel vuoto spaziale, non ha alcun motore utilizzabile nell’atmosfera. E atterra, appunto, come un aliante, con tutto ciò che ne consegue. Non può, ad esempio, sbagliare l’atterraggio. Se arriva “corto”, non può dare motore per portarsi più avanti verso la pista. Se arriva “lungo”, non può riattaccare e fare un altro circuito per riportarsi in finale.
Come è per tutti gli alianti… ma le similitudini finiscono qui.
Un vero aliante ha un’efficienza (rapporto tra la quota e la distanza percorribile) intorno a 40, fino anche a 60. Da mille metri potrebbe percorrere dai 30 ai 60 km in aria calma, a circa 90 km/h.
Lo Shuttle ha un’efficienza di 4.2 circa. E a quasi 300 nodi, oltre cinquecento km/h. E quando tocca la pista lo fa ad una velocità di poco meno di 200 nodi.
Un aliante per modo di dire… solo perché è senza motore.
Il racconto di queste fasi di messa a punto è di un interesse immenso. Un paio di esempi fra tutti riguardano la tecnica di trasporto da una base all’altra montando lo Shuttle sopra un Boeing 747 allo scopo allestito. E l’uso di un bireattore Gulfstream II modificato, ma tanto modificato, per essere utilizzato in una configurazione che permetta di eseguire avvicinamenti ripidissimi come quelli dello Shuttle. Perfino i motori erano stati modificati in modo da poterli usare con il reverse in volo (cioè con un sistema che devia il getto dei reattori in avanti, cosa possibile, ma normalmente usato solo a terra, nella corsa di decelerazione post atterraggio).
Con questo bireattore si sono addestrati gli equipaggi di volo destinati alle future missioni dello Shuttle, Young compreso. La sigla usata per indicare questo trainer era STA ovvero Shuttle training aircraft. La sigla militare era C11. E il programma di addestramento era indicato con l’acronimo ALT, ovvero approach and landing test.
Per avere un’idea di che tipo di aliante è uno ShuttleOrbiter, riporto la descrizione che ne fa l’autore stesso. Una descrizione molto precisa, visto che proviene da colui che lo ha sperimentato.
“It took considerable preparation for us to get that Orbiter ready for testing. At an altitude as high as 55.000 feet, it was going to have as much a 360-degree turn over the landing field, initially at supersonic speed. Then following guidance onto the final approach, it would have to make a similar big turn while flying at 300 knots and 2500 feet and on a 20-degree glide path. The deceleration approach was to be achieved by slowly pulling the nose of the Orbiter up and getting the touchdown air speed (depending on weight) down between 185 and 205 knots”.
[Ci è voluta considerevole preparazione da parte nostra per approntare l’Orbiter per i test. Ad una altitudine di 55.000 piedi, si faceva una virata di 360 gradi sopra il campo di atterraggio, inizialmente a velocità supersonica. Seguendo il tratto finale di avvicinamento si doveva fare una grande virata a 300 nodi e 2500 piedi e con un angolo di discesa di 20 gradi. La decelerazione durante l’avvicinamento si doveva ottenere tirando lentamente su il muso dell’Orbiter portando la velocità di toccata – che dipende dal peso – tra 185 e 205 nodi].
Queste simulazioni venivano effettuate anche con il caccia T 38, ma solo alcune di esse.
Non è tutto qui. Le problematiche che emergevano durante i voli di collaudo richiedevano costanti interventi e modifiche. E lunghi peridi di attesa per riprendere i collaudi. E spese, ingentissime spese.
La seconda parte del libro riguarda tutta la lunga sperimentazione e i primi voli nello spazio. Anche se ci sono complesse spiegazioni tecniche, non ho mai dovuto affrontare nessun calo di interesse durante la lettura. Anzi, ad ogni problema che sorgeva, descritto nella maniera magistrale tipica dell’autore, aumentava la curiosità di sapere in che modo sarebbe stata affrontata e risolta. E ci sono state anche notevoli sorprese. Aspetti sconosciuti, di cui non avevo mai sentito parlare. Le notizie che ci trasmette la televisione non sono sempre accurate.
Young era il capo dell’ufficio astronauti. Era lui a decidere la composizione degli equipaggi. E poi si doveva occupare anche della loro sicurezza. Perciò, la risoluzione dei problemi tecnici, specialmente quelli che riguardavano la sicurezza, erano uno dei suoi primi compiti. E’ sorprendente scoprire quanto le sue richieste e i suoi suggerimenti fossero incisivi e precisi. E come questi, nella maggioranza dei casi venissero ignorati. Spesso si sfiorava la catastrofe, come nel caso di certe mattonelle di materiale refrattario applicate sotto la fusoliera e le ali e che dovevano impedire alle altissime temperature, dovute al contatto con l’atmosfera nella fase di rientro, di diffondersi al resto della macchina, che altrimenti sarebbe bruciata in pochi minuti. Mattonelle che spesso si staccavano. O come certi o-ring difettosi che non furono efficacemente modificati, nonostante le ripetute richieste e nonostante fosse perfettamente chiaro che avrebbero potuto portare alla perdita dello Shuttle e del suo equipaggio, lasciando entrare flussi di gas ad altissime temperature all’interno dei sistemi meccanici dello Shuttle.
Venivano opposte questioni di spesa, soldi che non c’erano, tempi lunghi per la modifica. Ripeto, non si rischiava un incidente da poco, si rischiava la perdita della macchina con tutte le persone a bordo.
Cosa che puntualmente avvenne e comportò la perdita di due Shuttle e degli equipaggi.
Chi come me seguiva le missioni dello Shuttle negli anni ottanta-novanta-duemila ricorda sicuramente qualcosa di questi fatti. Ma non avevo mai avuto idea di quanti problemi e quante mancate tragedie si erano verificate in quelle missioni.
Il libro di Young le rivela tutte. E sono numerosissime.
Finalmente posso sapere cosa successe realmente. Young lo spiega nei minimi dettagli. Compresi i dettagli della situazione politica di quei giorni, che non è stata, manco a dirlo, estranea alle vicende.
Durante la sua lunga carriera, terminata il 31 dicembre 2004 con il pensionamento, al quale hanno fatto seguito altri anni con il programma spaziale americano, non ha mai cessato di indicare possibili problemi di sicurezza e possibili soluzioni.
Quasi tutte, però, sono state ignorate.
Quando era assistente speciale del Direttore del Johnson Space Center aveva accumulato un gran numero di documenti riguardanti la sicurezza e le possibili soluzioni.
Durante la sua carriera, con l’utilizzo dello Shuttle, ha seguito la costruzione della Stazione Spaziale Internazionale. Ed ha pilotato lui stesso l’Orbiter in un altro di questi voli, nonostante la consapevolezza dei rischi connessi.
Ma in quegli anni era emerso un nuovo problema, quello dei detriti e dei meteoriti che transitano intorno alla Terra e che possono collidere con tutto ciò che si muove in orbita. I satelliti, i veicoli spaziali e la ISS stessa sono in costante pericolo. E nessuno ha pensato ad un eventuale piano di salvataggio. L’abbandono della ISS, al momento, non può avvenire in condizioni di emergenza. Il costo di un eventuale veicolo, pronto a ricevere gli astronauti e a riportarli a terra in tempi brevissimi, è troppo elevato. Infatti non esiste.
Anche per questo problema Young ha dato l’allarme e ha proposto soluzioni.
Senza essere veramente ascoltato. Senza che si sia fatto nulla in proposito.
Nel leggere le molte pagine dedicate a questa realtà, tanto sottovalutata ed ignorata quanto terribilmente vera, mi sono sentito letteralmente gelare il sangue. Il problema dei meteoriti e dei detriti spaziali (la cosiddetta spazzatura spaziale) è qualcosa che diverrà ancora più evidente molto presto nei prossimi anni. Young dice che, seppure esistono i mezzi per rilevare la presenza di oggetti prossimi al nostro pianeta, non possiamo scoprirli tutti e soprattutto non abbiamo elaborato e messo in opera alcun sistema di difesa. Come dire che, nel caso di un asteroide più grande di un chilometro che dovesse impattare sulla Terra, ci coglierebbe inermi verso una minaccia capace di annientare la nostra esistenza.
Young aggiunge a tutte le problematiche che riguardano la sopravvivenza dell’umanità sul pianeta Terra anche quella relativa a possibili eruzioni di super vulcani. Con le loro ceneri proiettate sull’atmosfera, ci potrebbe essere un cambiamento rapidissimo della temperatura, una terribile glaciazione che annienterebbe gran parte della vita.
E’ evidente che il futuro della razza umana non può essere mono planetaria. Urge cercare altri possibili pianeti sui quali installare delle basi permanenti, dove una nuova linea evolutiva di esseri umani possa vivere autonomamente. E urge altresì sviluppare tecnologie idonee a risolvere tutti i problemi inerenti, compresi quelli di difesa verso catastrofi potenziali che oggi possono apparire remote, ma che non lo sono. Sono vicine a casa nostra, dove viviamo ignari e tranquilli.
Si pensa ad un ritorno sulla Luna, ma soprattutto all’esplorazione e alla colonizzazione di Marte e non solo.
Come dice Young: “The massage is clear. Single-planet species don’t last… The potential of catastrophe is serious _ and close to home… But who in NASA has been putting the development of these technologies on a high-priority basis?”
[Il messaggio è chiaro. Le specie che vivono su un solo pianeta non durano… Il potenziale di una catastrofe è serio _ e prossimo alla nostra casa. Ma chi alla NASA ha messo lo sviluppo di queste tecnologie sulla base di una priorità alta?].
Certe tecnologie dovrebbero essere in cima alla lista delle priorità, dovrebbe essere fatto ogni sforzo, anche economico, per diffondere la consapevolezza, la volontà e la capacità di difenderci.
Ma, se mi guardo intorno, devo convenire con Young, nessuno sembra preoccuparsene affatto.
Young ci ha lasciato all’inizio dell’anno 2018.
E ha lasciato anche una moltitudine di problemi ancora aperti ed insoluti.
Recensione a cura di Evandro Aldo Detti (Brutus Flyer)
Didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR
titolo: Capronis Farmans and SIAs – US Army Aviation training and combat in Italy with Fiorello LaGuardia 19-17-1918
con la collaborazione di: Jack B. Hilliard
editore: Logisma
anno di pubblicazione: 2006
ISBN: 88-87621-60-8
C’era una volta il libro. Intendo il libro fisico.
So bene che recensire libri scritti in inglese non serve a molto. In questo paese la lettura non è un’attività diffusa, già per quanto riguarda pubblicazioni in italiano, Figuriamoci in inglese…
Tuttavia, dal momento che l’inglese è studiato nelle scuole e siamo in molti ad averne almeno una minima conoscenza, varrebbe la pena approfondirlo, altrimenti si rischia anche di dimenticarlo.
Lo sforzo richiesto dalla lettura di un libro, scritto in una lingua che non sia la nostra, varia a seconda del proprio livello di conoscenza di quella lingua. Ma se, ad esempio, abbiamo studiato l’inglese e ne vogliamo mantenere o addirittura incrementare il livello personale di comprensione, dovremmo prendere, almeno all’inizio, un libro su un argomento che ci interessa molto. Così avremo una buona motivazione per leggerlo, superando la fatica iniziale della ricerca continua di un’infinità di parole sul dizionario. Man mano che la lettura procede, lo sforzo sarà sempre minore e questo per i seguenti motivi.
Primo, molte parole si capiscono dal contesto, dalla frase e se ce n’è una sconosciuta, spesso, si comprende senza bisogno di cercarla.
Secondo, molte parole si ripetono. Una volta cercate e trovate sul vocabolario, si acquisiscono senza accorgercene, andando ad aumentare il nostro vocabolario personale.
Terzo, chiunque sia l’autore, come accade per tutti noi, non può avere un vocabolario personale infinito. Tutti tendono ad usare sempre gli stessi termini ed una volta che li abbiamo cercati sul dizionario e ce ne siamo appropriati… sono diventati anche i nostri. E questo vale pure per tutte le frasi idiomatiche che un autore tende ad usare.
Inoltre, dopo aver letto alcuni libri, anche meno di dieci, siamo già in grado di leggere in inglese quasi come se leggessimo in italiano.
Il problema è iniziare e poi non mollare. Per questo consiglio tutti di cominciare da qualcosa che interessa fortemente. Saremo così sostenuti dalla curiosità di sapere, di scoprire di più, prenderemo mille volte il dizionario, pur di capire una frase sibillina, o intuire il significato di un modo di dire.
Alla lunga il premio è la possibilità di accedere ad una biblioteca infinita.
Almeno, la mia esperienza è stata questa.
Per noi piloti o appassionati di cose aeronautiche esistono milioni di libri che parlano di volo, di personaggi, di guerra aerea etc. Ed un’alta percentuale di essi è in inglese.
Prima dell’era digitale era difficile reperire libri in inglese. Bisognava farseli spedire dagli stati Uniti o dal Regno Unito.
Dopo, è stato sempre più facile.
Oggi basta avere un Kobo o un Kindle e si possono acquistare libri di ogni tipo stando comodamente seduti sul divano. Pochi click su una tastiera e il libro arriva via etere in una manciata di minuti.
Il mio Kobo, ormai, ne è pieno. Da tempo leggo quasi solo libri in inglese e alcuni in francese.
Qualche tempo fa, in occasione di un raduno annuale dell’associazione Hag (Historical Aircraft Group) e della premiazione del Premio fotografico/letterario “Racconti tra le nuvole” presso il Museo storico di Vigna di Valle, alle porte di Roma, ho visitato una mostra fotografica allestita in un hangar del museo.
Avevo sentito parlare di questa mostra. L’argomento era perfettamente in carattere con quello del gruppo di appassionati che si riuniva quel giorno.
Si parlava di un evento storico poco conosciuto, ma di estremo interesse. Si parlava di piloti, delle loro vicende, di un aeroporto che esiste ancora oggi. Si parlava della Prima Guerra Mondiale e soprattutto di aerei storici.
Chi sono i soci dell’Hag?
Sono piloti, proprietari di aerei storici.
Ma per spiegare meglio chi sono riporto qui una parte della presentazione che loro stessi hanno messo nel sito http://www.hag-italy.it :
“L’Historical Aircraft Group è un associazione senza fini di lucro che si prefigge lo scopo di ricercare, valorizzare e restaurare in condizioni di volo aeroplani di valore storico. Ufficialmente formatasi nel 2004 dalla passione di un piccolo gruppo di amici con differenti background, l’H.A.G. ha saputo, nel giro di breve tempo, ritagliarsi un ruolo chiave nel panorama dei velivoli storici italiani.
L’Historical Aircraft Group si rivolge alla folta schiera di appassionati, piloti, collezionisti e storici interessati alla conservazione, diffusione e all’approfondimento delle tematiche relative al patrimonio storico e tecnologico che gli aerei storici rappresentano.
Un aereo storico e’ il compendio di una vasta gamma di tematiche che spaziano dalle tecnologie costruttive, ai propulsori alle combinazioni di volo e non ultimo le storie degli uomini che, sia in pace che in guerra, hanno contribuito in meno di un secolo, allo sviluppo dell’aviazione….”
Anche la mostra riguardava, insomma, aerei storici.
Il gran numero di pannelli che spiegavano l’intero argomento di questa mostra erano stati sistemati sotto la notevole mole di un maestoso aereo da bombardamento della Prima Guerra Mondiale e vicino si potevano ammirare aerei da caccia di vari tipi, ma dello stesso periodo storico.
L’aereo sotto il quale ci trovavamo era un Caproni. Uno di quelli che comparivano anche nelle foto montate sui pannelli della mostra.
Ascoltai, insieme ad un gruppo di presenti le interessanti spiegazioni del celebre storico aeronautico Gregory Alegi e dell’editore LoGisma – al secolo Gherardo Lazzeri -, personaggi che non hanno bisogno di presentazioni.
Di questa mostra LoGisma aveva pubblicato due libri. Il primo è intitolato:
“CAPRONIs, FARMANs and SIAs. U.S.Army Aviation Training and Combat in Italy with Fiorello La Guardia 1917-1918”.
Il secondo è intitolato:
“Dear Bert. An American Pilot flying in World War I Italy”.
All’inizio di settembre 1917 alcune centinaia di aviatori statunitensi, dopo aver ricevuto una buona preparazione teorica in madre patria, vennero spediti in Italia per ricevere la formazione pratica e prendere poi parte, insieme agli italiani, alle operazioni della Prima Guerra Mondiale.
Quando gli Stati Uniti entrarono in guerra spedirono i propri contingenti in tutta Europa. I piloti di cui si parla nei libri suddetti sono quelli che arrivarono in Italia. Erano aviatori e giunsero a Foggia, nell’aeroporto che esiste ancora oggi e prende il nome da Gino Lisa, un ufficiale che fece parte dell’attacco alle navi austriache presenti nel golfo di Kotor (Cattaro), sulla costa del Montenegro. A quell’offensiva partecipò anche Gabriele D’Annunzio.
Il periodo addestrativo di questi aviatori a stelle e strisce durò parecchi mesi. Quando finalmente furono pronti ad andare al fronte, la guerra stava per finire ed alcuni di loro riuscirono a compiere solo poche azioni. Ma durante la loro permanenza a Foggia ebbero luogo alcune battaglie importanti, di cui i nostri sentirono solo parlare, come la disfatta di Caporetto, l’offensiva del Piave e il volo su Vienna di D’Annunzio.
Molto probabilmente non avremmo mai saputo nulla di questo gruppo di aviatori, alcune centinaia, appunto, non un grande numero. La loro storia sarebbe sprofondata nell’oblio del passato, nonostante il fatto che tra loro ci fosse un personaggio divenuto famoso successivamente, un ufficiale che si chiamava: Fiorello LaGuardia.
Il capitano LaGuardia, italo americano che parlava la nostra lingua, prese in carico il gruppo di connazionali a Parigi e li condusse a Foggia. Dopo la guerra entrò in politica ed oggi è intestato a lui uno storico aeroporto della città di New York di cui divenne sindaco nel 1930.
L’elemento straordinario che ci ha permesso di conoscere le vicende di questi aviatori sta nel fatto che parecchi di loro erano appassionati di fotografia (macchinette e pellicole dell’epoca che hanno tuttavia fatto egregiamente il loro lavoro) e che hanno puntigliosamente immortalato ogni momento rilevante della loro permanenza a Foggia e dei loro frequenti viaggi a Roma, a Milano o in altre località limitrofe. Inoltre, hanno avuto la costanza di tenere un rigoroso diario giornaliero, segnando tutti gli avvenimenti, compresi pranzi, menù, feste, cambi di alloggio e così via.
Tutti scrivevano a casa e ricevevano lettere e pacchi. Anche la corrispondenza, conservata scrupolosamente, costituisce un ulteriore diario, nel quale scopriamo, qua e là, riferimenti a fatti storici eclatanti del periodo.
Poiché questi aviatori hanno tenuto nota di ogni cosa, nel periodo di fine 1917 e per tutto il 1918, quindi giusto cento anni fa, è possibile addirittura, oggi, ogni giorno o quasi, andare a cercare il corrispondente giorno del loro diario e vedere cosa successe in quella data.
Esattamente cento anni fa!
E con tanto di fotografie, alcune delle quali sono di un interesse davvero notevole. E’ un archivio fotografico vero e proprio, quello contenuto in questi libri.
L’editore LoGisma ha curato l’edizione di questo volume con una qualità elevatissima, sia per quanto riguarda la carta, il formato e la rilegatura, ma anche la stampa e, soprattutto, la riproduzione delle foto.
Il secondo libro, intitolato “Dear Berth”, aggiunge a quanto detto sopra una particolarità ancora più appassionante. L’autore si chiama Edward Davis Lewis. E’ il figlio (uno dei sei figli, in verità) del protagonista, George Davis Lewis, uno del gruppo di aviatori americani del nucleo di Foggia. Uno dei “Foggiani”.
George giunse in Italia insieme agli altri. E come i suoi commilitoni tenne il proprio diario, scrisse e ricevette le sue lettere, fece fotografie.
La sua corrispondenza era prevalentemente diretta alla fidanzata, Bertha Harsch.
Dopo la guerra George tornò negli Stati Uniti, si sposò, ebbe i suoi sei figli. Uno di questi, Edward, raccolse il diario, le lettere e le foto e ne fece questo libro.
Giusto per informazione, Edward aveva sposato una donna italiana, Vivina, che lo ha aiutato nel lavoro di selezione del notevole materiale.
Edward definisce Vivina come la sua true italian connection, ma ci sono altre connessioni.
L’ingegner Caproni aveva progettato e costruito gli aerei sui quali i “Foggiani” volarono. E Maria Fede Caproni è stata l’ispirazione e il motore che ha spinto il progetto della mostra e dei libri che li riguardano.
Il Museo Caproni di Trento, del resto, insieme all’editore LoGisma, ha curato la realizzazione di questi libri, che sono, a parer mio, un vero, piccolo tesoro, letterario e storico.
Recensione a cura di Evandro Aldo Detti (Brutus Flyer)
Didascalie delle foto a cura della Redazione di Voci di hangar
titolo: Dear Bert. An American Pilot flying in World War I Italy
autore: Edward David Louis
editore: Logisma
anno di pubblicazione: 2002
ISBN: 88-87621-20-9
C’era una volta il libro. Intendo il libro fisico.
So bene che recensire libri scritti in inglese non serve a molto. In questo paese la lettura non è un’attività diffusa, già per quanto riguarda pubblicazioni in italiano, Figuriamoci in inglese…
Tuttavia, dal momento che l’inglese è studiato nelle scuole e siamo in molti ad averne almeno una minima conoscenza, varrebbe la pena approfondirlo, altrimenti si rischia anche di dimenticarlo.
Lo sforzo richiesto dalla lettura di un libro, scritto in una lingua che non sia la nostra, varia a seconda del proprio livello di conoscenza di quella lingua. Ma se, ad esempio, abbiamo studiato l’inglese e ne vogliamo mantenere o addirittura incrementare il livello personale di comprensione, dovremmo prendere, almeno all’inizio, un libro su un argomento che ci interessa molto. Così avremo una buona motivazione per leggerlo, superando la fatica iniziale della ricerca continua di un’infinità di parole sul dizionario. Man mano che la lettura procede, lo sforzo sarà sempre minore e questo per i seguenti motivi.
Primo, molte parole si capiscono dal contesto, dalla frase e se ce n’è una sconosciuta, spesso, si comprende senza bisogno di cercarla.
Secondo, molte parole si ripetono. Una volta cercate e trovate sul vocabolario, si acquisiscono senza accorgercene, andando ad aumentare il nostro vocabolario personale.
Terzo, chiunque sia l’autore, come accade per tutti noi, non può avere un vocabolario personale infinito. Tutti tendono ad usare sempre gli stessi termini ed una volta che li abbiamo cercati sul dizionario e ce ne siamo appropriati… sono diventati anche i nostri. E questo vale pure per tutte le frasi idiomatiche che un autore tende ad usare.
Inoltre, dopo aver letto alcuni libri, anche meno di dieci, siamo già in grado di leggere in inglese quasi come se leggessimo in italiano.
Il problema è iniziare e poi non mollare. Per questo consiglio tutti di cominciare da qualcosa che interessa fortemente. Saremo così sostenuti dalla curiosità di sapere, di scoprire di più, prenderemo mille volte il dizionario, pur di capire una frase sibillina, o intuire il significato di un modo di dire.
Alla lunga il premio è la possibilità di accedere ad una biblioteca infinita.
Almeno, la mia esperienza è stata questa.
Per noi piloti o appassionati di cose aeronautiche esistono milioni di libri che parlano di volo, di personaggi, di guerra aerea etc. Ed un’alta percentuale di essi è in inglese.
Prima dell’era digitale era difficile reperire libri in inglese. Bisognava farseli spedire dagli stati Uniti o dal Regno Unito.
Dopo, è stato sempre più facile.
Oggi basta avere un Kobo o un Kindle e si possono acquistare libri di ogni tipo stando comodamente seduti sul divano. Pochi click su una tastiera e il libro arriva via etere in una manciata di minuti.
Il mio Kobo, ormai, ne è pieno. Da tempo leggo quasi solo libri in inglese e alcuni in francese.
Qualche tempo fa, in occasione di un raduno annuale dell’associazione Hag (Historical Aircraft Group) e della premiazione del Premio fotografico/letterario “Racconti tra le nuvole” presso il Museo storico di Vigna di Valle, alle porte di Roma, ho visitato una mostra fotografica allestita in un hangar del museo.
Avevo sentito parlare di questa mostra. L’argomento era perfettamente in carattere con quello del gruppo di appassionati che si riuniva quel giorno.
Si parlava di un evento storico poco conosciuto, ma di estremo interesse. Si parlava di piloti, delle loro vicende, di un aeroporto che esiste ancora oggi. Si parlava della Prima Guerra Mondiale e soprattutto di aerei storici.
Chi sono i soci dell’Hag?
Sono piloti, proprietari di aerei storici.
Ma per spiegare meglio chi sono riporto qui una parte della presentazione che loro stessi hanno messo nel sito http://www.hag-italy.it :
“L’Historical Aircraft Group è un associazione senza fini di lucro che si prefigge lo scopo di ricercare, valorizzare e restaurare in condizioni di volo aeroplani di valore storico. Ufficialmente formatasi nel 2004 dalla passione di un piccolo gruppo di amici con differenti background, l’H.A.G. ha saputo, nel giro di breve tempo, ritagliarsi un ruolo chiave nel panorama dei velivoli storici italiani.
L’Historical Aircraft Group si rivolge alla folta schiera di appassionati, piloti, collezionisti e storici interessati alla conservazione, diffusione e all’approfondimento delle tematiche relative al patrimonio storico e tecnologico che gli aerei storici rappresentano.
Un aereo storico e’ il compendio di una vasta gamma di tematiche che spaziano dalle tecnologie costruttive, ai propulsori alle combinazioni di volo e non ultimo le storie degli uomini che, sia in pace che in guerra, hanno contribuito in meno di un secolo, allo sviluppo dell’aviazione….”
Anche la mostra riguardava, insomma, aerei storici.
Il gran numero di pannelli che spiegavano l’intero argomento di questa mostra erano stati sistemati sotto la notevole mole di un maestoso aereo da bombardamento della Prima Guerra Mondiale e vicino si potevano ammirare aerei da caccia di vari tipi, ma dello stesso periodo storico.
L’aereo sotto il quale ci trovavamo era un Caproni. Uno di quelli che comparivano anche nelle foto montate sui pannelli della mostra.
Ascoltai, insieme ad un gruppo di presenti le interessanti spiegazioni del celebre storico aeronautico Gregory Alegi e dell’editore LoGisma – al secolo Gherardo Lazzeri -, personaggi che non hanno bisogno di presentazioni.
Di questa mostra LoGisma aveva pubblicato due libri. Il primo è intitolato:
“CAPRONIs, FARMANs and SIAs. U.S.Army Aviation Training and Combat in Italy with Fiorello La Guardia 1917-1918”.
Il secondo è intitolato:
“Dear Bert. An American Pilot flying in World War I Italy”.
All’inizio di settembre 1917 alcune centinaia di aviatori statunitensi, dopo aver ricevuto una buona preparazione teorica in madre patria, vennero spediti in Italia per ricevere la formazione pratica e prendere poi parte, insieme agli italiani, alle operazioni della Prima Guerra Mondiale.
Quando gli Stati Uniti entrarono in guerra spedirono i propri contingenti in tutta Europa. I piloti di cui si parla nei libri suddetti sono quelli che arrivarono in Italia. Erano aviatori e giunsero a Foggia, nell’aeroporto che esiste ancora oggi e prende il nome da Gino Lisa, un ufficiale che fece parte dell’attacco alle navi austriache presenti nel golfo di Kotor (Cattaro), sulla costa del Montenegro. A quell’offensiva partecipò anche Gabriele D’Annunzio.
Il periodo addestrativo di questi aviatori a stelle e strisce durò parecchi mesi. Quando finalmente furono pronti ad andare al fronte, la guerra stava per finire ed alcuni di loro riuscirono a compiere solo poche azioni. Ma durante la loro permanenza a Foggia ebbero luogo alcune battaglie importanti, di cui i nostri sentirono solo parlare, come la disfatta di Caporetto, l’offensiva del Piave e il volo su Vienna di D’Annunzio.
Molto probabilmente non avremmo mai saputo nulla di questo gruppo di aviatori, alcune centinaia, appunto, non un grande numero. La loro storia sarebbe sprofondata nell’oblio del passato, nonostante il fatto che tra loro ci fosse un personaggio divenuto famoso successivamente, un ufficiale che si chiamava: Fiorello LaGuardia.
Il capitano LaGuardia, italo americano che parlava la nostra lingua, prese in carico il gruppo di connazionali a Parigi e li condusse a Foggia. Dopo la guerra entrò in politica ed oggi è intestato a lui uno storico aeroporto della città di New York di cui divenne sindaco nel 1930.
L’elemento straordinario che ci ha permesso di conoscere le vicende di questi aviatori sta nel fatto che parecchi di loro erano appassionati di fotografia (macchinette e pellicole dell’epoca che hanno tuttavia fatto egregiamente il loro lavoro) e che hanno puntigliosamente immortalato ogni momento rilevante della loro permanenza a Foggia e dei loro frequenti viaggi a Roma, a Milano o in altre località limitrofe. Inoltre, hanno avuto la costanza di tenere un rigoroso diario giornaliero, segnando tutti gli avvenimenti, compresi pranzi, menù, feste, cambi di alloggio e così via.
Tutti scrivevano a casa e ricevevano lettere e pacchi. Anche la corrispondenza, conservata scrupolosamente, costituisce un ulteriore diario, nel quale scopriamo, qua e là, riferimenti a fatti storici eclatanti del periodo.
Poiché questi aviatori hanno tenuto nota di ogni cosa, nel periodo di fine 1917 e per tutto il 1918, quindi giusto cento anni fa, è possibile addirittura, oggi, ogni giorno o quasi, andare a cercare il corrispondente giorno del loro diario e vedere cosa successe in quella data.
Esattamente cento anni fa!
E con tanto di fotografie, alcune delle quali sono di un interesse davvero notevole. E’ un archivio fotografico vero e proprio, quello contenuto in questi libri.
L’editore LoGisma ha curato l’edizione di questo volume con una qualità elevatissima, sia per quanto riguarda la carta, il formato e la rilegatura, ma anche la stampa e, soprattutto, la riproduzione delle foto.
Il secondo libro, intitolato “Dear Berth”, aggiunge a quanto detto sopra una particolarità ancora più appassionante. L’autore si chiama Edward Davis Lewis. E’ il figlio (uno dei sei figli, in verità) del protagonista, George Davis Lewis, uno del gruppo di aviatori americani del nucleo di Foggia. Uno dei “Foggiani”.
George giunse in Italia insieme agli altri. E come i suoi commilitoni tenne il proprio diario, scrisse e ricevette le sue lettere, fece fotografie.
La sua corrispondenza era prevalentemente diretta alla fidanzata, Bertha Harsch.
Dopo la guerra George tornò negli Stati Uniti, si sposò, ebbe i suoi sei figli. Uno di questi, Edward, raccolse il diario, le lettere e le foto e ne fece questo libro.
Giusto per informazione, Edward aveva sposato una donna italiana, Vivina, che lo ha aiutato nel lavoro di selezione del notevole materiale.
Edward definisce Vivina come la sua true italian connection, ma ci sono altre connessioni.
L’ingegner Caproni aveva progettato e costruito gli aerei sui quali i “Foggiani” volarono. E Maria Fede Caproni è stata l’ispirazione e il motore che ha spinto il progetto della mostra e dei libri che li riguardano.
Il Museo Caproni di Trento, del resto, insieme all’editore LoGisma, ha curato la realizzazione di questi libri, che sono, a parer mio, un vero, piccolo tesoro, letterario e storico.
Recensione a cura di Evandro Aldo Detti (Brutus Flyer)
Didascalie delle foto a cura della Redazione di Voci di hangar
Recensione di Evandro A detti (Brutus Flyer)
L'unico sito italiano di letteratura inedita (e non) a carattere squisitamente aeronautico.
Aforismi
Quanno è giornata da pijallo \'n culo er vento t\'arza la camicia. Quanno è giornata da pijallo \'n culo er vento t\'arza la camicia.
(Quando è giornata di prenderlo nel didietro il vento t\'alza la camicia)
(suggerito da Jacomo Messeri)
www.aforisma.it
Q.T.B.
PILOTA: Non passa in Sollfar da vario elettrico. MECCANICO: la commutazione da vario a solfahrt è possibile solo ponendo il selettore AUTO/SC sulla posizione V: solo allora è attivo il comando remoto sulla cloche
(Suggerita da Big Mark)
Check-In
SECURITY: Signora, può tornare indietro, togliere le scarpe e metterle nella macchina? PASSEGGERA: Nella macchina? Ma scherza? E poi che faccio? Torno scalza dal parcheggio?