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Recensione dei Libri aeronautici

The astronaut wives club

titolo: The astronaut wives club. A true story – [Il club delle mogli degliastronauti. Una storia vera]

autore: Lily Koppel

editore: Headline Publishing Group An Hachette UK Company

eISBN: 978 0 7553 6261 5

anno di pubblicazione:  2013





La dedica che troviamo subito nella prima pagina, dopo l’indice e una brevissima presentazione dell’autrice, è già di per sé illuminante. Nella sua essenzialità, otto parole in tutto, rivela l’intero contenuto del libro: –for the wives who have the “right stuff”- [Per le mogli che hanno la stoffa giusta].

Chi non ricorda il famoso film, a sua volta tratto dal famoso libro di Tom Wolfe, che aveva proprio il titolo di “The right stuff” – [La stoffa giusta]? In effetti in Italia la pellicola fu presentata con il titolo: “Uomini veri”.

Se qualcuno lo avesse dimenticato, o non lo avesse addirittura mai sentito nominare, consiglio di procurarselo con ogni mezzo. Non sarà certo difficile, dopo una rapida ricerca sul web. 

La copertina del libro di Lily Koppel nella sua versione cartacea. Purtroppo, ad oggi, non ne esiste una versione in lingua italiana, viceversa è  disponibile una versione digitale in un comodo e-book 

Sia il libro che il film riguardano, in estrema sintesi, le conquiste che nel ventesimo secolo si sono succedute a ritmo vertiginoso nel campo dell’aviazione, prima, e nel campo spaziale, poi.

E riguardano, soprattutto, i protagonisti che hanno fatto parte di questa straordinaria, lunga, ma per altri versi anche corta, storia umana. Un secolo o poco più di avvenimenti, scoperte, esperimenti, imprese, rischi, disastri e perdite di vite umane e di mezzi, ma anche di conquiste, come non si era mai visto nei millenni precedenti.

Gli uomini che questa storia hanno costruito un pezzo alla volta dovevano certamente avere la stoffa giusta per farlo.

E per uomini intendo proprio uomini, esseri umani di sesso maschile.

Il libro riguarda un periodo storico dove le donne, tranne qualche caso sporadico, restavano in disparte, dietro le quinte. Semmai se ne trovavano in maggior numero negli uffici, all’interno di strutture e servizi che quasi mai arrivavano agli onori della cronaca. In aviazione la maggioranza erano militari di sesso maschile. La struttura sociale era quella che era e la mentalità pure. Stiamo parlando degli Stati Uniti della fine degli anni ‘50

E’ fuori discussione che questi uomini, in pace come in guerra, dovessero avere la stoffa giusta per affrontare le prove alle quali erano chiamati ogni giorno, ogni ora, ogni minuto. Gli aviatori in special modo e gli astronauti ancor di più.

E allora, le mogli degli aviatori e degli astronauti potevano mai fare eccezione?

La dedica in questo ebook, infatti, attribuisce subito anche a loro la stoffa giusta. Ma per fare cosa?

Diciamo subito che, almeno all’inizio, nella selezione degli astronauti, oltre ai requisiti e alle tremende e a volte stravaganti prove che i candidati dovevano superare, c’era anche la clausola, forse non scritta, che la loro situazione familiare dovesse essere irreprensibile e serena. Per gli scapoli, beh, c’era poco da pretendere, ma per gli sposati…

Niente diverbi familiari, separazioni e, men che mai, divorzi.

Dopo una manciata di righe che descrivono le prove psico-fisiche previste dai medici della NASA per selezionare i piloti (inizialmente scelti solo tra i test-pilots, i piloti collaudatori), un altro paio di righe chiariscono i criteri di selezione del momento: “NASA looked into the backgrounds of not only the men but also their wives”. – [La NASA guardò dentro i trascorsi non solo degli uomini, ma anche delle loro mogli].

In questo scatto risalente al 1963 ecco le famose sette mogli del progetto Mercury. Le signore erano spesso coinvolte in celebrazioni, cerimonie e incontri dal chiaro scopo “vetrina” alla stregua delle ben più fotogeniche attrici di Hollywood.

Sembra incredibile, oggi, ma venivano poste domande come: quante volte alla settimana tua moglie cucina in casa? Beve troppo? Frequenta spesso persone di credo comunista?

E così via.

Inizialmente erano stati selezionati i primi sette neo-astronauti, che presero il nome di “the original seven”. Era l’Aprile del 1959.

A questi, nel settembre del 1962, seguirono altri nove.

E in ottobre 1963 fu annunciato il terzo gruppo di astronauti per coprire le esigenze delle missioni Gemini ed Apollo che sarebbero state sviluppate negli anni seguenti. Altri 14 elementi.

E, ovviamente, le loro mogli.

La NASA selezionò altri elementi anche nel 1966. I nuovi si auto-nominarono “the original nineteen”. E arrivarono le mogli anche di questi ultimi. Come è scritto sul libro, tutto ciò significò “another gang of gals” – un’altra banda di ragazze.

Se nella copertina del volume “The astronaut wives club” troviamo le moglie degli astronauti, nella retrocopertina non potevano mancare gli astronauti del progetto Mercury avvolti nella loro tuta argentata

La vita di queste famiglie, già molto prima che i piloti venissero scelti per le missioni spaziali, era quella tipica delle famiglie dei militari. Vivevano in alloggi di fortuna nei dintorni delle basi, o addirittura dentro le basi. Le comodità erano poche. I mariti erano fuori gran parte del giorno, rientravano dopo le cinque del pomeriggio, a volte stanchi, troppo affamati e sfiniti per giocare con i figli o prendersi cura delle faccende domestiche. Spesso partivano in aereo e stavano fuori giorni o settimane.

I piloti collaudatori convivevano con il rischio continuo. E le loro mogli lo sapevano. Si alzavano prima dell’alba per preparare le loro colazioni, salutavano il marito che andava in volo, coscienti che avrebbero anche potuto non vederlo rientrare. C’erano periodi in cui qualche squadriglia perdeva anche due uomini alla settimana. E le donne non potevano farci nulla se non andare al funerale, cantare l’inno della Navy e piangere quasi di nascosto, nascondendo gli occhi dietro il fazzoletto e il bianco dei loro guanti. Alla fine tutte si rassegnarono, continuando a condurre la loro vita fra innumerevoli difficoltà, occupandosi della casa, della logistica, dei figli e cercando di far quadrare il bilancio tra le spese e la modesta retribuzione dei loro mariti.

E conosciamole allora le famose “Mercury wives”! Da sinistra verso destra: Annie Glenn, Renè Carpenter, Louise Shepard, Betty Grissom, Trudy Cooper e infine Marjorie Slayton. Non è presente la la signora Josephine Schirra. Lo scatto le ritrae in gran spolvero in occasione del pranzo offerto in loro onore a Washington D.C. dal club delle donne giornalista statunitensi. Non stupitevi per gli abiti o il parrucco assolutamente desueto … era l’aprile 1962!

Facciamo un esempio per tutte. Marge Slayton, la moglie di Deke Slayton, ossia colui che sarebbe poi diventato il responsabile dei reclutamenti, delle assegnazioni dei piloti e della formazione degli equipaggi, ogni volta che sentiva il rumore delle pale di un elicottero in volo, aveva degli attacchi di paura e di nausea. Non perché temesse quel tipo di macchina, ma perché sapeva che se un elicottero si era levato in volo, probabilmente un jet era caduto e andavano a cercarlo. Lei usciva subito fuori a guardare l’orizzonte, alla ricerca di una eventuale colonna di fumo che salisse da un qualche punto del deserto del Mojave che circondava la base da un orizzonte all’altro. Ma anche se non c’era alcun fumo restava sempre in attesa nella più profonda preoccupazione. Si aspettava che il campanello della porta di casa suonasse e che il cappellano della base venisse ad annunciarle che ora era una vedova.

Queste mogli di aviatori conoscevano bene i disagi della vita militare. Venivano dislocate attraverso l’intera America, con le loro famiglie, sacrificando i migliori anni della loro vita facendo crescere i figli nei diversi angoli del mondo, supportando la carriera dei loro mariti. L’unica facilitazione loro concessa era il trasporto gratuito dei mobili e degli effetti personali ad ogni trasferimento.

Se nel numero in edicola il 12 settembre 1959 la prestigiosissima rivista statunitense Life aveva dedicato la copertina ai magnifici sette aspiranti astronauti del programma Mercury – quello che, dopo il volo del sovietico Yuri Gagarin, avrebbe riportato l’uomo nello spazio, ma stavolta un uomo di nazionalità statunitense – il numero successivo, pubblicato giusto una settimana dopo, rendeva onore alle rispettive magnifiche sette signore del progetto Mercury. Il primo caso editoriale di parità di genere? … macché! Un subdolo espediente per vendere copie? … probabile! … una maldestra risposta al alla curiosità morbosa dei lettori? … forse. Ad ogni modo questa copertina ha fatto la storia e noi siamo lieti di riproporvela a distanza di tanti anni, come se fosse stata appena stampata

L’era delle esplorazioni spaziali arrivò come un fulmine a ciel sereno con il lancio, da parte dell’ Unione Sovietica, del primo satellite artificiale, lo Sputnik. Gli americani si trovarono spiazzati e reagirono subito mettendo a punto la struttura che si sarebbe incaricata di fare di più e meglio di quanto avevano fatto i sovietici, quella che poi divenne la NASA.

E selezionarono i piloti che avrebbero dovuto diventare astronauti.

Perché ormai non si trattava più di lanciare in orbita un satellite che inviasse a terra un bip-bip.

Ora si pensava di mandare nello spazio degli esseri umani.

Improvvisamente le mogli degli aviatori si trovarono ad essere non più solo semplici mogli di aviatori, ma niente di meno che mogli di astronauti, sebbene inizialmente nessuno di loro avesse mai preso parte ad alcun volo spaziale. Per anni si dovevano addestrare e dovevano studiare una montagna di materie, prima di pensare soltanto ad entrare su una navicella posta in cima ad un razzo ed essere sparati fuori dall’atmosfera.

In quel periodo i razzi dei primi esperimenti avevano manifestato l’attitudine ad esplodere direttamente sulla rampa di lancio, prima di essersi alzati di più di qualche metro. Oppure subito dopo. Ormai di quei razzi si diceva che fossero i più grandi candelotti di dinamite del mondo …

Ma anche dopo, quando la tecnologia si era sviluppata al punto di fornire un buon grado di affidabilità, non mancarono gli incidenti. Alcuni di questi avvennero a bordo, non di razzi, ma di comuni aerei da caccia. E allora, di nuovo, funerali, cerimonie, mogli che da sole caricavano la loro macchina e si allontanavano dalla base, con i loro figli, verso un incerto e forse triste futuro.

C’è sempre, in ogni cosa, la cosiddetta altra faccia della medaglia. E arrivò anche per queste donne.

La nuova condizione di mogli di astronauti aveva portato una novità: la celebrità.

La televisione, dal 1945 in poi, si era andata sviluppando in maniera esponenziale. Aveva soppiantato la fotografia, perché la gente preferiva le immagini in movimento rispetto a quelle statiche, anche se in entrambi i casi erano in bianco e nero.

Non è certo il primo né sarà l’ultimo libro a essere oggetto di attenzioni da parte dell’industria cinematografica statunitense. In effetti anche “The astronaut wives club” ha ispirato una serie televisiva che porta lo stesso titolo e che ha come protagoniste, così come nel libro, le sette mogli dei Mercury Seven, ossia il primo gruppo di astronauti del progetto Mercury, antesignano del programma Apollo. Per intenderci, il famosissimo programma Apollo che, in occasione della sua undicesima missione, porterà l’uomo sulla Luna. La serie tv, prodotta dalla rete statunitense ABC, è stata messa in onda negli USA nel 2015 mentre è giunta in Italia nel 2019 con responsi appena tiepidi da parte della critica e addirittura pessimi da parte del pubblico televisivo. Così, se negli Stati Uniti le puntate sono state visionate da uno sparuto numero di spettatori (poco più di 5 milioni, per la prima puntata pilota e sempre peggio per le successive, praticamente una vera inezia per l’enorme platea televisiva statunitense), nel nostro paese è andata addirittura peggio. La rete televisiva La7, a fronte di una pubblico praticamente assente, ha rimodulato la messa in onda in prima serata spostandola al pomeriggio in quello che, in gergo, si dice un vero flop in termini di audiance. E dire che il 2019, complice il cinquantenario del primo allunaggio, una siffatta serie televisiva dedicata allo spazio, astronauti e relative moglie avrebbe potuto riscuotere l’attenzione del grande pubblico, invece … Ovviamente alla prima stagione non seguirà una seconda. Questa è la copertina dell’omonima serie tv, appunto, e questo il link al sito della serie statunitense

I reporters, sia fotografici che televisivi, di fronte a quella immensa novità che era la NASA e la corsa allo spazio, sciamavano a frotte lungo i viali che portavano alle case dove risiedevano le famiglie degli astronauti. Donne che prima se ne stavano in incognito nelle loro case, che uscivano per fare la spesa senza che quasi non si sapesse chi fossero, ora erano braccate ovunque, perfino all’interno delle loro stanze. In molti casi, infatti, si ritrovavano ad essere inquadrate nel mirino di un apparecchio da ripresa che qualche reporter più intraprendente era riuscito ad infilare tra le persiane della finestra. I giardini di cui ogni casa era dotata pullulavano di giornalisti e delle loro attrezzature, cavalletti e luci da ripresa.

La NASA non aveva fornito loro alcuna preparazione su come affrontare queste situazioni. All’inizio dovettero cavarsela da sole. E in breve tempo l’assedio dei media divenne estremamente fastidioso. Ci furono anche casi di crisi nervose e almeno un suicidio.

Ma era anche gratificante. Molte si lasciarono travolgere da quella improvvisa esplosione di popolarità. Indossavano i migliori capi di vestiario, si truccavano in modo da risultare al meglio nelle riprese, assumevano tutte le pose che i reporters richiedevano.

C’erano sempre party, feste di ogni tipo e per ogni occasione.

Negli anni, con il succedersi delle missioni, prima Mercury, poi Gemini e poi Apollo, gli astronauti cominciarono ad essere impegnati per moltissime ore. Lo studio delle materie specifiche, l’addestramento al simulatore, gli spostamenti per tutti gli Stati Uniti, ovunque ci fosse motivo di andare, li tenevano lontani da casa quasi sempre. Per raggiungere gli stabilimenti dove venivano costruiti i vari elementi che costituivano i razzi, le navicelle o i sistemi di ogni tipo, usavano un bel numero di jet militari, i T38, come se fossero aerotaxi privati. Ogni astronauta doveva seguire lo sviluppo di ogni tecnologia, non solo per sorvegliare la loro costruzione, ma soprattutto per fornire indicazioni, affinché tutto rispondesse alla massima adeguatezza possibile.

Erano tutti piloti sperimentali, abbiamo detto.

Ma la loro assenza non poteva lasciare la situazione della famiglia senza conseguenze.

Una volta rientrati felicemente sulla Terra, nell’incertezza che potessero recare un qualche virus non meglio definito o un agente patogeno sconosciuto contratto nello spazio o sulla superficie lunare – con effetti imprevedibili quanto devastanti per l’intero genere umano – , i tre astronauti della missione Apollo 11 furono posti dalla NASA in rigorosa quarantena all’interno del Mobile Quarantine Facility. Furono lì segregati per 21 giorni dopo il volo che, i primi nella storia dell’umanità, aveva permesso loro (in realtà a solo due dei tre) di toccare il suolo incontaminato della Luna. Gli astronauti Neil A. Armstrong, Edwin E. Aldrin Jr., and Michael Collins in questo famoso scatto del 27 luglio 1969, si mostrano attraverso la grande finestra del modulo di quarantena per salutare – le vediamo di spalle – le loro rispettive consorti che sono (partendo da sinistra verso destra): Mrs. Pat Collins, Mrs. Jan Armstrong, and Mrs. Joan Aldrin. Sono sicuramente le “astronaut wives” più celebri di questo singolare club per sole donne. Foto proveniente dall’archivio NASA presente all’indirizzo: https://www.flickr.com/photos/nasa2explore/9352707408/

Le mogli, lasciate da sole con il peso della conduzione della casa, dove l’elemento mancante non poteva apportare alcun aiuto, resistettero a lungo. Passarono parecchi anni, ma le prime avvisaglie di disagio cominciarono a manifestarsi nelle famiglie. Molte si sarebbero separate e divorziate già da tempo, ma resistettero per non provocare problemi tra i loro mariti e la NASA, visto che non sarebbero stati tollerati disordini familiari.

Poi, dapprima in sordina, in gran segreto, ma inesorabilmente, la disgregazione delle famiglie divenne un fatto frequente, quasi normale. Tanto che anche la NASA finì per accettare tacitamente l’andamento di certe dinamiche.

La serie delle separazioni e divorzi continuò per tutto il periodo delle missioni spaziali.

Ma bisogna comprendere che la pressione alla quale le mogli degli astronauti si trovarono esposte era davvero immensa.

Furono costrette per anni a mostrare in pubblico una vita di perfezione. Ma i loro uomini erano impegnati nel programma spaziale anche per 18 ore al giorno. O per periodi lunghissimi di giorni, anche di settimane.

Molte mogli aspettarono la fine del programma spaziale per chiedere finalmente il divorzio e nel frattempo sostennero la parte della moglie perfetta con stoica rassegnazione.

Gli astronauti erano molto famosi, all’epoca. Specialmente quelli che avevano volato nello spazio almeno una volta. Erano più richiesti dalle donne di quanto lo siano oggi le rock star. Venivano “assediati” da un gran numero di ragazze, impazienti di poter avere una storia con loro. Lontano dalle famiglie, molti di loro, forse tutti, approfittarono della situazione. Le mogli, a casa, sapevano anche questo. I tradimenti coniugali erano frequenti.

Dopo ogni missione Apollo, che aveva impegnato nel modo suddetto i membri degli equipaggi, fino al loro ritorno sulla Terra, quando ormai si sarebbe potuto pensare che gli uomini potessero finalmente riprendere la normale vita familiare, cominciarono invece gli interminabili viaggi per esigenze di pubbliche relazioni. Altri mesi e mesi lontani da casa, stavolta gli astronauti potevano portare con loro anche la famiglia. Ma neppure in viaggio c’era l’opportunità e il tempo per alcuna intimità.

Il ritratto dell’affascinante autrice del libro “The astronaut wives club”, al secolo Lily Kopp, ripresa dalla pagina che l’editore Hachette le dedica. In effetti nel web sono presenti numerose foto della giornalista statunitense che, in età matura, ha cambiato notevolmente il suo aspetto.

Molte mogli abbandonarono l’impresa e se ne tornarono a casa. Di nuovo sole, come erano sempre state.

Ecco di cosa parla questo libro. Della vita di donne semplici, travolte per anni dai danni collaterali che anche i loro mariti hanno subito durante lo stesso periodo storico. Del sacrificio degli uomini si era abbondantemente parlato. Di quello, immenso, delle mogli, invece no.

Per questo fondarono l’Astronaut Wives Club. Per avere una valvola di scarico alle loro frustrazioni e avere un’opportunità di evadere dalle occupazioni familiari.

L’Astronaut Wives Club le mostra come eroine. Un onore che si meritano.

Secondo Lily Koppel, l’autrice di questo libro, queste mogli sono state le pioniere del Movimento delle Mogli che cominciò nel 1960.

Lily Koppel ha dovuto viaggiare attraverso l’intera America per riuscire ad intervistare queste donne prima ancora di cominciare a scrivere The Astronaut Wives Club.

Una di loro, alla domanda di cosa provasse ad essere la moglie di un astronauta, rispose: “se credete che andare sulla Luna sia difficile, provate a rimanere a casa”. Dopo aver letto questo libro non stentiamo a crederle.



 


Recensione a cura di Evandro Aldo Detti (Brutus Flyer)

 





Una vita per l’aviazione

titolo: Una vita per l’aviazione – Ricordi di un costruttore di aeroplani

autore: Giuseppe Gabrielli

editore: Bompiani

anno di pubblicazione: 1982

ISBN: non presente




 

Nella storia delle costruzioni aeronautiche del nostro paese si annoverano numerosi nomi di progettisti eccellenti, geniali o addirittura visionari ma solo alcuni di loro possono ritenersi “completi” sotto tutti i punti di vista. Inutile ricordarlo: progettare un velivolo richiede immaginazione, perizia, intuizione e, di base, competenze specifiche; costruire davvero e commercializzare con grande successo (di vendite) le macchine volanti che si sono ideate è invece appannaggio di ben pochi ingegneri. E allora, senza nulla togliere agli altri, sono davvero pochi i nomi di progettisti che ci vengono in mente. Tra loro c’è sicuramente Giuseppe Gabrielli.

Egli unì alle sue indubbie doti ingegneristiche anche una spiccata attitudine all’insegnamento universitario nonché innate capacità di gestione aziendale e, non ultimo, fu personalità di respiro internazionale giacché avviò, già in età giovanile, rapporti con suo omologhi stranieri, mantenuti peraltro nel corso di tutta la sua lunga vita professionale.

Il risguardo interno sinistro del libro autobiografico di Gabrielli

Giuseppe Gabrielli, classe 1903 siciliano di Caltanissetta ma torinese di adozione, fu indubbiamente l’uomo giusto al posto giusto e al momento giusto. Per posto giusto intendiamo Torino e la Fiat mentre al momento giusto ci riferiamo al periodo di grande sviluppo delle costruzioni aeronautiche che avvenne ante e durante la II Guerra Mondiale.

Egli conobbe grandi personaggi della storia dell’aviazione, dell’industria aeronautica nazionale e non solo, oltre che del mondo accademico divenendone meritatamente a sua volta membro illustre.

Il risguardo interno destro di “Una vita dedicata all’aviazione”

A lui vengono accreditati ben 142 progetti di velivoli sebbene la sua matita da disegno abbia contraddistinto la sua ultima creazione con il numero progressivo 222. Alcuni di questi realizzati in grandi numeri, altri giunti a una produzione in piccola serie, altri ancora allestiti solo allo stadio di prototipo e, in alcuni casi, rimasti allo stadio embrionale di progetto. La storia statistica ci enumera poi anche trenta brevetti e circa duecentocinquanta pubblicazioni scientifiche. La sua attività iniziò nel 1927 e terminò a metà degli anni ’80 … in definitiva un’intera vita per l’aviazione.

Il titolo di questo libro a carattere autobiografico non poteva essere dunque più pertinente. Gabrielli lo pubblicò nel settembre 1982 quasi ottantenne.

Ci consente di attingere alla viva memoria dell’autore e rivivere assieme alla lui i numerosi episodi della sua carriera professionale e, inevitabilmente, della sua vita. L’arco temporale è quello che va dal 1925, anno del conseguimento della laurea in ingegneria meccanica presso il Politecnico di Torino, fino al 1982, data in cui avvenne il suo rientro in FIAT per volere dell’allora amministratore delegato Cesare Romiti che lo volle fortissimamente quale presidente della FIAT Aviazione dopo un allontanamento durato tredici anni.

Un’altro ottimo progetto dell’ingegner Gabrielli fu il FIAT G-46 qui ritratto presso il Museo Storico dell’AMI a Vigna di Valle. Da notare la linea filante e il carrello retrattile tipico di un caccia. Foto scattata da Rebus Belli nel 2015 e disponibile a link: https://www.flickr.com/photos/131974570@N05/26499916752/. 

In questo volume ritroveremo perciò la fitta galleria di progetti e personaggi che hanno fatto la storia delle costruzioni aeronautiche italiane ma anche francese, tedesche e statunitensi, incontreremo capitani d’industria, piloti collaudatori e presidenti della repubblica, Lydia (la compagna della sua vita), gli operai della Fiat e illustrissimi colleghi di lavoro come Celestino Rosatelli o il diretto antagonista, al secolo l’ingegner Alessandro Marchetti. E questo solo per citarne alcuni.

Il progetto del G-46 riprendeva la logica dei caccia FIAT della II Guerra Mondiale: agile e maneggevole. Fu prodotto tra il 1948 ed il 1952 nella versione monoposto e biposto addestratore. Fu il primo velivolo della FIAT dopo la fine del conflitto e – tutto sommato – ottenne un buon successo commerciale giacchè fu acquistato dalle forze armate aeree di Italia, Austria, Argentina e Siria. Già nel 1959 fu dismesso dall’AMI e dunque ceduto agli Aeroclub italiani che lo utilizzarono per diversi anni tanto che gli esemplari oggi volanti riportano spesso le matricole militari e quelle civili dell’epoca (generalmente I-AE??). Foto disponibile al link: https://www.flickr.com/photos/131974570@N05/26592528965/in/photostream/. Quello ritratto è sempre l’esemplare presente all’interno del Museo storico dell’AMI. Da notare sullo sfondo, appena dietro le luminosissime pareti vetrate dell’hangar, il lago di Bracciano sulle cui rive sorge il museo. Ad oggi volano in Italia diversi G-46 restaurati, alcuni secondo le livree originali, altri oggetto di fantasie cromatiche di dubbio gusto e sicuramente di nessuna veridicità storica.

In effetti leggere un’autobiografia è il pretesto per il lettore di rivivere da un punto di vista previlegiato – quello del biografo, appunto – non solo un’esistenza intensa ma anche e soprattutto un’epoca che non c’è più o che non gli è propria per ovvi motivi anagrafici. E Gabrielli ci riesce perfettamente benché – occorre ricordarlo – si tratti di una persona scolarizzata nientemeno che nel primo decennio del ‘900. Certo, stiamo parlando di un famoso docente universitario avvezzo alla scrittura sebbene mirata alla stesura di relazioni a carattere tecnico e non necessariamente incline alla cronaca storica in forma narrativa; invece Gabrielli riesce ad appassionare il lettore, a coinvolgerlo nelle sue intuizioni creative, a farlo palpitare come egli stesso palpitò in occasione dei voli di collaudo o degli incidenti di volo che pure capitarono ai velivoli frutto della sua inventiva. Ci sono poi le grandi soddisfazioni professionali come la progettazione e realizzazione del S.55 metallico che dimostrò inequivocabilmente la bontà delle costruzioni in metallo anziché in legno o del G-91, vincitore di un concorso internazionale che sancì il successo della FIAT Aviazione e del suo progettista per antonomasia.

Dunque un libro che si legge rapidamente salvo qualche interruzione fisiologica, giusto per andare a sbirciare le numerose foto disposte in due blocchi all’interno del volume. Originali dell’epoca, rigorosamente in bianco e nero, esse visualizzano le macchine volanti o i personaggi evocati nel corso della narrazione. A loro si aggiungono pregevoli disegni a supporto del testo.

Prezioso poi l’elenco dettagliatissimo che si trova in coda al libro e che riporta tutta la produzione di velivoli dell’autore. Utilissimo anche l’indice dei nomi (meglio personalità) che si trovano seminati sempre all’interno del volume.

Il G91 è probabilmente il progetto meglio riuscito di Gabrielli. E ha costituito anche il velivolo della rinascita dell’industria aeronautica del nostro paese. I dati storici-statici ci riportano il ragguardevole numero di 756 esemplari nelle sue varie versioni, prototipi e preserie. Fu utilizzato principalmente dalle forze aeree italiane, tedesche e portoghesi sebbene effettuò valutazioni negli Stati Uniti (che non ebbero seguito) mentre i francesi – neanche a dirlo – gli preferirono prodotti nazionali. Quello qui ritratto era un G-91 nella versione “R” in forza al 2° Stormo immortalato nel piazzale dell’aeroporto  Pisa San Giusto nel 1981. La foto fu scattata da Pentakrom ed è disponibile all’indirizzo:  https://www.flickr.com/photos/59455242@N07/7351166842/. Ovviamente un esemplare è conservato al Museo storico dell’AMI di Vigna di Valle, presso il museo Volandia e in numerose altre città italiane come “gate guardian” o al centro di rotatorie stradali. Uno è dislocato anche a Caltanissetta, la cittò del suo padre ingegneristico.

Intendiamoci: non tratta di un libro di memorie fine a sé stesse, né l’occasione di togliersi sassolini dalla scarpa; non troverete svelati i grandi segreti industriali della FIAT o le confessioni di una matita geniale semmai, pagina dopo pagina, avrete occasione di essere partecipi di una lunga catena di ricordi ordinatamente disposti ed esposti come solo un vero ingegnere saprebbe fare ossia con sintesi, senza lasciarsi andare a inutili romanticismi. D’altra parte il sottotitolo del libro è appunto: “Ricordi di un costruttore di aeromobili”

La copertina del libro (disegnata da certo Giovanni Mulazzani) riprende le classiche copertine dei libri per ragazzi che venivano pubblicate una volta in collane specifiche e dunque lascia inizialmente interdetti; idem per la IV di copertina che, anziché riportare le canoniche note biografiche dell’autore o una brevissima sinossi del libro, mostra i cinque velivoli forse di maggior successo dell’ing Gabrielli.  O forse cui teneva di più. Disegnati impeccabilmente a colori, per carità, ma pur sempre viste laterali. Fortunatamente i risguardi interni della sovracopertina sono prodighi di numerose anticipazioni per l’eventuale lettore/acquirente. Sono stati curati da certo Giancarlo Masini cui si ascrive anche l’opera di editing del volume.

 

La forma e l’architettura generale del G-91 ricorda moltissimo il North American F-86 Sabre che la FIAT produceva all’epoca su licenza. In effetti il G91 è ben più piccolo e leggero del F-86 tanto che – non a caso – gli fu affibbiato il nomignolo “piccolo Sabre”. I piloti tedeschi gli attribuirono invece il nome affettuoso di “Gina”. Quando il velivolo fu presentato al concorso internazionale indetto dalla NATO per la scelta di una nuova macchina d’attacco e appoggio tattico il G91 vinse facile in quanto rispose brillantemente ai tutti requisiti stabiliti. Anche se Gabrielli si era liberamente ispirato al Sabre statunitense – è vero – egli aveva creato un velivolo quasi perfetto ben migliore del suo padre putativo. Il velivolo volò la prima volta il 9 agosto 1956 all’aeroporto di Torino-Caselle alla presenza dello stesso Gabrielli. In cabina di pilotaggio sedeva il collaudatore Riccardo Bignamini. Ne verranno costruite le versioni R,T, Y e tra queste anche la PAN, ossia quella opportunamente modificata allo scopo e adottata dalla nostra Pattuglia Acrobatica Nazionale. Proprio di questa versione riportiamo un’immagine artistica scattata nel 2014 presente nella pagina: https://www.flickr.com/photos/128921789@N04/16124473740/ ad opera del sig Urbano Ubertino. Ovviamente non si tratta di un velivolo volante bensì dell’esemplare esposto in mostra statica a Caselle, all’ingresso del paese. I G91 dell’AMI rimasero in servizio operativo fino al 1993. Non male per un progetto nato per scommessa.

Un’ultima nota a carattere editoriale: prefazione di Gianni Agnelli. Ecco, Gianni Agnelli è l’unica personalità illustre nei confronti del quale, praticamente nelle ultime pagine, l’autore svela un sottile accenno di risentimento. Motivo? Perché Gianni, il famoso “avvocato” con l’orologio sopra il polsino, a partire dal suo insediamento, avviò in FIAT un processo di rinnovamento che comportò la rimozione di Gabrielli da capo dello studio di progettazione e la proposta di ricoprire il ruolo pressoché simbolico di “sovrintendente” della FIAT Aviazione. Proposta rifiutata da Gabrielli. Ebbene, il nostro ingegnere addebita al rampollo della famiglia Agnelli la responsabilità di non aver fatto nulla affinché ciò non accadesse o comunque di non avergli comunicato in modo diretto e schietto la sua decisione. Ricordiamolo: stiamo parlando di un Gabrielli che tanto aveva dato alla FIAT e in particolare alla persona di Giovanni Agnelli, nonno di Gianni. E invece apprendiamo che l’ingegnere verrà interpellato dell’Ufficio del personale alla stregua di un qualsiasi operaio. Da qui il rammarico dell’autore. Che comprendiamo e condividiamo.

Dal punto di vista tipografico, il libro è davvero ineccepibile: carta di ottima qualità (grammatura generosa e opaca bianca), rilegatura prestigiosa (in brossura cucita) margini abbondanti, testo formattato in modo impeccabile con caratteri di dimensioni medio-piccoli, testo sillabato e indice del contenuto di ciascun capitolo. In definitiva un volume curatissimo in tutti i dettagli come solo un grande editore (Bompiani) saprebbe fare.

La retrocopertina del libro dell’ingegner Giuseppe Gabrielli con un quintetto di suo progetti. Forse quelli cui teneva di più?

L’acquisto di questo volume, disponibile facilmente nel mercato dell’usato, non può essere casuale ed è appannaggio di un lettore di nicchia, ossia orientato verso il mondo industriale aeronautico.

Chi vi scrive vide per la prima volta quella copertina e lesse la recensione del volume nelle pagine di una famosa rivista aeronautica che ha interrotto la pubblicazione ormai da anni. All’epoca, giovane studente con una limitatissima “paghetta” settimanale già spesa per acquistare la rivista in questione e le dispense di una celebre enciclopedia di aviazione, non potei neanche avvicinarmi alla libreria. Anche perché il prezzo di copertina era davvero notevole. Oggi l’ho finalmente acquistato usato sebbene allo stesso prezzo (ma in euro, sigh!) sull’onda della curiosità di conoscere il racconto dell’autore a proposito di un illustre collega di lavoro, come già anticipato, quale Celestino Rosatelli.

Breve inciso: Giovanni Agnelli, allora a capo della FIAT, volle con fermezza che Gabrielli entrasse nella sua azienda. La stessa fermezza con cui, anni prima, aveva voluto Celestino Rosatelli. Con la differenza che la FIAT aveva già un capo progettista: Rosatelli appunto. Ebbene Agnelli creò un ufficio progettazione parallelo e indipendente da quello di Rosatelli. Così, benché a capo di due uffici distinti, i due geniali ingegneri si trovarono da subito faccia a faccia. Scintille? Niente affatto. Così racconta Gabrielli il rapporto con il collega Celestino:

“Il mio ingresso, a parità di grado, non dovette certo fargli piacere; ma la limpidezza del suo animo non gli consentì né invidia né rancore verso il giovanissimo collega che veniva ad affiancarlo in un campo che l’aveva visto per molti anni incontrastato padrone”

Nonostante tutte le sue frequentazioni internazionali che possono farlo apparire erroneamente come un esterofilo convinto, Giuseppe Gabrielli fu un ingegnere che tenne alto il nome dell’ingegneria aeronautica italiana. Lo vogliamo onorare con un grande tricolore creato in aria dai suoi G-222 in volo con formazione a tre. L’immagine scattata a Pisa-San Giusto nel settembre 1995, a detta dell’autore, Zombo78, è stata rpresa da scansione da stampa (https://www.flickr.com/photos/zombo78/2316497313/)

In verità, così come per altri personaggi illustri, l’autore non è poi così prodigo di ricordi a beneficio di Rosatelli, pur dedicandogli un intero capitolo. Ad ogni modo chiunque leggerà questo libro rimarrà colpito dalla delicatezza con cui Gabrielli racconta di un anziano e affaticato Giovanni Agnelli in visita al suo Celestino. Ed è con queste poche righe che vogliamo concludere la nostra recensione:

“[…] quando apprese della morte improvvisa di Celestino Rosatelli, avvenuta il 23 settembre 1945, mi pregò di accompagnarlo per dargli un estremo saluto. Rosatelli abitava in una casa di via Massena al terzo piano. Quando vi giungemmo mi accorsi che l’ascensore non funzionava. Volevo convincere il senatore a rinunciare alla visita, ma egli rifiutò e appoggiato al mio braccio fece lentamente i tre piani di scale. Volle baciare la salma, disse alcune parole di conforto ai familiari e uscì sempre in mia compagnia.

Dopo qualche settimana Giovanni Agnelli si mise a letto e non fu più in grado di alzarsi. […] Dopo pochi giorni spirò. Era il 15 dicembre 1945.”





Recensione e didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR





 

Astronaut Oral Histories

titolo: Astronaut Oral Histories, Group 1 and 2 (Apollo and America’s Moon Landing Program)

autore: National Aeronautics and Space Administration (NASA), World Spaceflight News, Johnson Space Center

editore: Smashwords Edition

anno di pubblicazione: 2013

ISBN: 978-1521152140





L’opera editoriale è composta da due volumi. Il primo include le interviste agli astronauti:

  • Anders,
  • Armstrong,
  • Bean,
  • Borman,
  • Cernan,
  • Collins,
  • Cunningham,
  • Evans,
  • Gordon,
  • Haise.

Il secondo include le interviste a: 

  • Lovell,
  • McDivitt,
  • Mitchell,
  • Schirra,
  • Schmitt,
  • Schweickart,
  • Shepard,
  • Stafford,
  • Worden.

Queste interviste furono raccolte a beneficio del Johnson Space Center Oral History Project della NASA.

Nel corso degli anni successivi al periodo delle missioni Apollo, da subito dopo fino a qualche anno fa, diversi intervistatori hanno incontrato i protagonisti di quelle missioni. Le registrazioni sono state trascritte ed oggi finalmente possiamo trovarle online, scaricarle e leggerle.

La fotografia della Luna vista dalla Terra è quanto di più banale si possa scattare, tuttavia se consideriamo che la Luna è stato l’oggetto del desiderio di una moltitudine di uomini, astronauti del programma Apollo in testa, beh …assume un fascino particolare che va al di là del semplice satellite del nostro pianeta.

Si tratta di colloqui piuttosto informali, il linguaggio è quello parlato, che fa uso di espressioni idiomatiche tipiche della regione di provenienza degli intervistati. E per scelta ben precisa le trascrizioni sono state lasciate in forma integrale, senza “abbellirle” con opportune correzioni.

La lingua è l’anglese, anzi, diciamo meglio, l’americano. E questo comporta una certa difficoltà in più per il lettore che non sia di madre lingua. Ma, allo stesso tempo, rende la lettura ancor più interessante e, se vogliamo, più formativa.

Ho letto tanti libri scritti dagli astronauti e continuo a leggerne di nuovi, man mano che si rendono disponibili. Non tutti gli astronauti si sono cimentati nell’impresa di immortalare le loro esperienze in un libro, certo, ma coloro che lo hanno fatto, hanno parlato anche degli altri colleghi, di tutti i componenti degli equipaggi. Alla fine si finisce per conoscerli tutti. Si conosce la loro vita, la carriera, la storia che è seguita al loro ritorno.

Ora questa raccolta di interviste non fa altro che ribadire gli stessi eventi. Chi aveva letto i loro libri si trova a fare quasi un ripasso della stessa storia, che già conosce. Ma per chi legge solo queste interviste è un’occasione per conoscere qualcosa di cui, probabilmente, ha solo sentito parlare di sfuggita. Specialmente i giovanissimi.

Se c’è una copertina emblematica che riguarda le missioni destinate a raggiungere il suolo della Luna beh … sicuramente ricordiamo quella della rivista scientifica National Geographic e di Life. Ritrae Buzz Aldrin. E’ il nr 5, vol 136 del dicembre 1969.

A parte questo, cosa si ricava dalla lettura di queste trascrizioni?

Beh, dipende da chi legge e da quanto conosce di tutta la storia della conquista dello spazio.

Per quanto mi riguarda, ci sono alcuni elementi, alcune sensazioni e diverse considerazioni che vorrei mettere in evidenza.

Prima di tutto, dalle interviste, avvenute, come ho detto in anni successivi e a volte anche parecchi anni dopo, viene fuori un fatto straordinario: spesso gli astronauti dichiarano di non ricordare con chiarezza molti particolari. E questo sorprende, perché non stiamo parlando di qualcosa di banale, ripetitivo, comune. Ci si aspetterebbe, da chi ha vissuto esperienze così straordinarie, eccezionali e al limite, quasi, delle possibilità umane e tecnologiche, che ricordi tutto, ma proprio tutto, senza dimenticare neanche un singolo particolare.

Invece no. A fronte di alcune parti che ricordano molto vividamente, ci sono pezzi della Storia che non sanno dire con precisione come si sono svolti.

Anche se parzialmente nascosto all’interno della sua tuta spaziale, è possibile riconoscere i lineamenti del viso dell’astronauta Buzz Aldrin, classe 1930, che è ricordato negli annali dell’astronautica per essere stato il secondo uomo a mettere piede sulla Luna, appena dopo il comandante della missione Apollo 11, Neil Armstrong. Inoltre, dopo una carriera costellata da alcoolismo e da una profonda depressione, ci ha regalato diversi volumi che testimoniano la sua esperienza di vita nonchè di astronata proiettato al futuro oltre che al passato. Li abbiamo recensiti:  Return to Earth, (1973),  Magnificent Desolation (2009), “Mission to Mars” del 2013 , e l’ultimissimo “No dream is too high” del 2016. Buzz non ha mai smesso di sostenere le missioni spaziali statunitensi e, non a caso, è il più fervente promotore dell’esplorazione su Marte. A questo scopo non si è risparmiato nel partecipare a convegni, scrivere altri libri divulgativi e a prestare la sua immagine per le future missioni marziane. Chissà che un vecchio “lunatico” non riesca nell’ultima sua impresa “marziana”!?

Strano fatto davvero.

Altro elemento di rilievo, che avevo già scoperto leggendo i libri, ma che qui è ribadito ovunque, è l’immenso senso di competizione che riguardava tutti, ma specialmente gli astronauti.

Aldrin, ad esempio, si è rovinato l’esistenza per non essere stato il primo a scendere dal Modulo Lunare e posare il piede sulla superficie polverosa del nostro satellite. Nella sequenza di fotogrammi della videocamera che lo riprende mentre scende la scaletta del LM (Lunar Module – modulo lunare), quando già Armstrong lo aspettava sul suolo lunare, si vede che sull’ultimo piolo si arresta e rimane fermo per un certo tempo. A chi gli chiede il motivo risponde che si era fermato per… fare pipì! Si, esatto, proprio per fare pipì. Aveva un sistema studiato appositamente per permettere agli astronauti di svolgere questa funzione attraverso un tubicino che portava la pipì in una sacca fissata più in basso. La gravità della Luna, un sesto di quella della Terra, faceva sì che il sistema funzionasse bene. Ma non era per questo che aveva scelto quel momento. Piuttosto voleva essere il primo, se non a mettere piede sulla Luna, a farci la pipì.

Sebbene Eugene Cernan abbia partecipato a ben tre missioni spaziali per conto della NASA (Gemini 9 nel1966, Apollo 10 nel 1969 e il famoso Apollo 17 del 1972), viene ricordato principalmente come l’ultimo uomo ad aver lasciato la superficie lunare il 14 dicembre 1972, il dodicesmo membro del genere umano ad averlo fatto. Anche lui ci ha regalato uno splendido libro in cui racconta la sua esperienza di astronauta che abbiamo recensito in questa pagina: “The Last Man on the Moon” e nella sua versione in ligua italiana “L’ultimo uomo sulla Luna”. Ci ha lasciato all’età di 82 anni nel 2017. E’ qui ritratto nella foto di rito che veniva scattata dalla NASA a beneficio della stampa

E Cernan, l’ultimo a togliere il piede dal suolo lunare nel corso della missione Apollo 17, ha portato per tutta la vita l’etichetta di ultimo… anche se non credo che a lui, questo, abbia dato particolarmente fastidio.

Ma Cernan aveva aperto la strada all’Apollo 11. Con la missione precedente, l’Apollo 10, Cernan era sceso a bordo del modulo lunare fino ad una quindicina di chilometri dalla superficie. La sua poteva essere la missione destinata ad atterrare, ma il modello di Lunar Module che stava utilizzando era ancora troppo pesante. Perciò, meglio non rischiare. Una catastrofe avrebbe fermato tutta la corsa alla conquista della Luna, che doveva avvenire prima della fine del decennio, come Kennedy aveva promesso.

Anche l’URSS era interessata ad essere la prima a scendere sul suolo lunare e l’URSS andava assolutamente battuta. Non si poteva rischiare.

Antesisgnana delle moderne auto elettrice terrestri, il Lunar Rover Vehicle (Rover Lunare) fu utilizzato durante le missioni lunari per consentire agli astronuati di spostarsi anche a notevole distanza rispetto al punto di allunaggio del Modulo Lunare. Aveva un motore elettrico alimentato da batterie chimiche (36-volt argento-zinco non ricaricabili) con autonomia di cento chilometri percorsi a piena potenza ma, in realtà, causa la ridotta attrazione della Luna, marciò sempre a 1/3 della sua velocità massima terreste di circa 15 km/h. Chissà se per guidare sulla Luna gli astronauti conseguirono una speciale patente “lunare”, appunto.

Cernan dovette arrestare l’avvicinamento a quella quota, circa quindici, sedici chilometri. Infatti comandò l’abort e tornò al rendez-vous con il Modulo di Comando (e il Modulo di Servizio, uniti) che intanto stava orbitando intorno alla Luna. Poi tornarono indietro.

E questo, credo, deve avergli dato veramente fastidio, perché poteva essere stato lui il primo.

La retrocopertina del libro alquanto originale redatto dalla NASA contenente i racconti di tutti i sui astronauti delle missioni Apollo

Nell’intervista a Cernan, alla seconda pagina, traspare questo fastidio:

But we only came close. We came within about 47.000 feet but did not land. That’s the way it was planned, although originally one time early on in the program the fourth Apollo flight was going to be the first attempt at landing. That would have been Apollo 10”.

(Ci siamo andati vicino. Siamo arrivati intorno ai 47.000 piedi ma non siamo atterrati. Così era stato pianificato, sebbene originariamente nel programma il quarto volo Apollo avrebbe dovuto essere quello del primo tentativo di atterraggio. Avrebbe dovuto essere l’Apollo 10).

E quello che dice dopo è ancora più illuminante:

“But anyway, I keep telling Neil Armstrong that we painted that white line in the sky all the way to the Moon down to 47.000 feet so he wouldn’t get lost, and all he had to do was land”.

(Ma comunque, io continuo a dire a Neil Armstrong che noi abbiamo disegnato quella linea bianca nel cielo fino alla Luna e giù fino a 47.000 piedi così che lui non si perdesse, e tutto quello che gli rimanesse da fare fosse l’atterraggio).

Come dire: non sarò stato il primo, ma se non fosse stato per me… ti ho tracciato la strada fin quasi al suolo lunare…

Ecco, grande senso di competizione. Ma anche grandissimo senso di collaborazione.

Tornando ai due libri, ogni intervista rivela la linea degli avvenimenti che sono quelli noti, ma dal punto di vista del personaggio di turno. Ogni personaggio ci regala la sua personale visione dei fatti.

L’equipaggio della missione Apollo 17 è quello cui apparteneva l’astronauta Eugene Cernan (qui ritratto seduto a bordo del Rover utilizzato per scorrazzare sul suolo lunare). La foto risale al dicembre 1972 e ha come sfondo il glorioso razzo ettore Saturno V che fu lanciato da Cape Canaveral, l’attuale Space Center intitolato a John F. Kennedy, durante l’unico decollo in notturna di tutto il programma Apollo. Questo è l’ultimo equipaggio che ha effetuato un volo nello spazio extraterreste in quanto tutte le successive missioni spaziali si sono limitate a raggiungere orbite basse prossime alla Terra.

Ma c’è un altro elemento che tutti hanno, in qualche modo, menzionato, o lasciato intendere: il rammarico per l’improvviso arresto delle successive missioni Apollo già pianificate. Dopo l’Apollo 17 tutto si è fermato, molti sono stati licenziati e il budget è stato dirottato nelle missioni di un nuovo veicolo spaziale che stava prendendo forma in quegli anni: lo Shuttle. E la costruzione di quella che oggi è la Stazione Spaziale Internazionale.

Con questo è finita l’era dell’esplorazione dello Spazio profondo e ci si è, per così dire, ritirati in un guscetto che gira intorno alla Terra, appena fuori dalla porta di casa.

C’è molto altro in queste interviste. Si trovano online e chiunque le può scaricare.

Consiglio tutti di leggerle. Qualcuna è più difficile da comprendere, per via delle troppe frasi idiomatiche e parole strane che, a volte, neanche il vocabolario insito nell’applicazione Kobo conosce. Ma si rimedia facilmente con lo smartphone, che trova quasi tutto con facilità.

E in questo modo, ripeto, si impara.

Con questi due libri possiamo conoscere i fatti che hanno riguardato il passato.

Quest’anno, 2019, ricorre il cinquantesimo anniversario del primo sbarco sulla Luna.

L’astronauta Young, tra le altre, passeggiò sulla superficie lunare. Questa è la foto che lo immortala accanto alla omnipresente bandiera statunitense e al Modulo Lunare della missione Apollo 16 e che – giustamente – fu utilizzata per la copertina della sua ottima autobiografia “Forever Young” che abbiamo recensito.

Ma proprio in questo periodo riprende con forza l’interesse per l’esplorazione spaziale. Non solo è previsto il ritorno sulla Luna, ormai lo sguardo umano è rivolto verso Marte e le sue lune e verso altri asteroidi lontani.

Si ritorna nello spazio profondo, con tutto ciò che comporta.

E questa è l’alba di una nuova era che potrebbe portare l’Umanità ad essere una razza multi planetaria. Come forse era già stata. Uno degli intervistati, Al Worden, lo sostiene.

Questa, però, è Storia futura.





Recensione a cura di Evandro Detti (Brutus Flyer).

Didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR





Di questo sono fatti gli aerei

titolo: Di questo sono fatti gli aerei

autore: Giuseppe Braga

editore: Mursia

anno di pubblicazione: 2019

ISBN: 978-88-425-5726-5





Ricordate la famosa barzelletta ambientata in un aeroporto che vede come protagonista il “pupone”? Ma sì, il venerato giocatore della squadra di calcio giallo-rossa della capitale!? E assieme a lui la sua signora, l’ex “letterina” nonché brillante presentatrice televisiva?

No? … beh, ve la riproponiamo:

“Guarda, Francè … l’aeroplano d-e-c-o-l-l-a”

“Macchè de-colla … a Illary … nun vedi che è de f-e-r-o!”.

Ebbene non ci è dato sapere se Giuseppe Braga abbia mai frequentato un ipotetico Bar dello sport della periferia romana che – neanche a dirlo – è ovviamente un noto covo di tifosi della squadra avversaria, quella con i colori bianco/celeste che – per inciso – ha come simbolo un’aquila ad ali spiegate. Perché è lì, o almeno immaginiamo che sia stato proprio lì, che questa freddura denigratoria sia stata proferita per la prima volta.

E non sappiamo dire neanche per certo se il nostro giornalista bolognese sia stato letteralmente folgorato da questa barzelletta – assai beffarda, non c’è che dire – tanto da stimolargli l’intuizione creativa dalla quale potrebbe essere scaturito il suo libro.

Di sicuro il titolo della sua opera letteraria:

Di questo sono fatti gli aerei – Storie e persone con le ali

potrebbe costituire, almeno nelle intenzioni, una risposta chiarificatrice per coloro che avessero un qualche dubbio circa l’affermazione del più amato calciatore della AS Roma.

Il velivolo quadrimotore Lockeed Constallation è legato nel bene e nel male all’eccentrico magnate del cinema e dell’aviazione Howard Hughes che è rimasto famoso nella storia dell’aviazone per aver finanziato la progettazione e la costruzione del famoso “Spruce Goose”. In effetti egli era anche il proprietario della compagnia aerea TWA per la quale ordinò giusto 40 velivoli Constallation solo con lo scopo di coprire le necessità di collegamento con l’Europa. Peccato che, nel frattempo scoppiò la II Guerra Mondiale e tutte le cellule furono requisite e militarizzate.  Alla fine della guerra poi ritornarono ad essere degli ottimi aeroplani per il trasporto commerciale. Un bell’esempio di trasformismo, non c’è che dire!

Nelle intenzioni appunto. Nel concreto non sperate di trovarvi tra le dita uno di quei bei (quanto rari) testi di divulgazione aeronautica, magari un prontuario per volenterosi costruttori di velivoli amatoriali o addirittura un vademecum per disegnatori e progettisti di macchine volanti. No, ci spiace, niente affatto.

Ed ecco come divenne il Constallation, affettuosamente denominato “Connie”, nella sua livrea militare con l’assunzione della denominazione C-69. E’ considerato uno dei velivoli da trasporto (militare e civile) tra i più eleganti mai costruiti al mondo. Merito anche di Howard Hughes?

Fortunatamente il sottotitolo – Storie e persone con le ali – dovrebbe dissipare eventuali equivoci e costituisce il vero manifesto d’intenti del volume, una sorta di anteprima veritiera di quanto potremo leggere all’interno.

Di questo sono fatti gli aerei, a detta del suo autore, è invece:

[…] un volumetto in forma di breviario, perché abbiamo ogni vicenda come una specie di preghiera laica […]

non diviso in capitoli bensì in:

dodici mesi, cinquantadue settimane. Cinquantadue racconti, quattro per ogni mese, di fatti e personaggi che proprio in quel mese vissero le vicende che narriamo.

In effetti, scandita secondo le cadenze del calendario, si tratta di una carrellata avvincente di episodi, situazioni a dir poco rocambolesche, eventi al limite del verosimile che abbracciano la storia dell’aviazione, praticamente dai suoi primordi preistorici fino a un passato relativamente recente.

I protagonisti sono i più disparati.

Si parte, ad esempio, con lo scapestrato Howard Hughes, magnate statunitense assurto alla cronache aeronautiche per aver finanziato la costruzione dello Spruce Goose (l’enorme idrovolante di legno che riuscì a malapena a staccarsi dall’acqua) e a quelle cinematografiche – più recenti – per essere stato impersonato da un giovane Leonardo Di Caprio nella pellicola degli anni ’90 intitolata “The Aviator”. La ricordate? … poco male perché in questo libro viene raccontata invece la vicenda che riguardò il Lockeed Constellation, splendido quadrimotore da trasporto civile pensato per i voli transcontinentali, che subì con onore le angherie volative del funnanbolico Mr Hughes.

Questo nel mese di gennaio.

Nel mese di dicembre si finisce invece con la tragica storia d’amore, più che altro epistolare, tra la splendida Alida Valli, celeberrima attrice degli anni ’40 (premiata al Festival del cinema di Venezia per un memorabile capolavoro come Piccolo mondo antico) e l’ufficiale pilota Carlo Cugnasca, perito in un combattimento aereo nei cieli africani a bordo del suo Fiat G50. I due si erano fidanzati dopo che lei, appena tredicenne, se ne era innamorata perdutamente mentre lui l’aveva notata solo diversi anni dopo per l’insistenza con cui lei gli scriveva lettere appassionate.

Mese di dicembre, dicevamo.

Questo passando per altri dieci mesi, pardon, dieci gruppi di quattro racconti ciascuno che hanno per protagonisti tra i più disparati.

Tanto per raccontarne alcuni, come:

Progettato dal geniale ing. Filippo Zappata, il Cant Z.506 Airone volò la prinma volta nel 1935 e fu realizzato inizialmente come aereo civile e, all’occorrenza, utilizzato come idrovolante postale e da trasporto tuttavia, con lo scoppio della II Guerra Mondiale, divenne un bombardiere, ricognitore e mezzo da soccorso. Lo utilizzarono largamente la Regia Aeronautica e la Regia Marina tanto che, grazie l’Airone fu protagonista di decine e decine di salvataggi e/o di voli a scopo medico/soccorso sanitario. Dopo l’armistizio servì sia presso l’Aeronautica Cobelligerante Italiana che l’Aeronautica Nazionale Repubblicana e addirittura tra le fila della Luftwaffe che ne requisì diversi per lo stesso scopo. La versione militare si rivelò uno dei migliori idrovolanti mai costruiti nella storia dell’aviazione mondiale giacchè, pur essenso costruito prevalentemente in legno era in grado di operare in condizioni atmosferiche proibitive dote che, il suo ben più moderno successore (Il Grumman HU-16 Albatross), proprio non aveva. Fu sostituito egregiamente solo diversi anni dopo dagli elicotteri. La foto che riportiamo (disponibile all’indirizzo: https://www.flickr.com/photos/131974570@N05/25567737824) ritrae due Airone alla fonda e, in particolare la postazione dorsale del mitragliere di coda … proprio quel mitragliere di coda che viene citato nel libro di Braga

– il micidiale italiano mitragliere di coda di idrovolanti da soccorso CANT-Z 506 che abbatteva qualunque caccia nemico gli giungesse a tiro,

oppure:

Ad oggi esiste al mondo un solo esemplare dell’idrovolante Cant Z.506 “Airone”. E’ della versione “B” da bombardamento poi trasformata in “S” soccorso ed è religiosamente conservato in Italia, presso il Museo Storico dell’Aeronautica Militare situato a Vigna di Valle, sulle rive del Lago di Bracciano. Proprio in quel luogo, esso  prestò lungamente servizio (fino al 1960) nel reparto SAR (Search and Rescue – Ricerca e soccorso) che, prima di allora si chiamava Gruppo Soccorso Aereo . In effetti, prima di diventare sede del Museo, l’idroscalo di Vigna di Valle era sede di un munitisso reparto che, dopo l’Airone, ebbe tra le sue fila l’anfibio Grummann HU-16 Albatross e, per scopi addestrativi e di collegamento, anche il ben più piccolo Piaggio P.136. Enorme invece, come ben testimonia questo scatto, l’Airone. 

– il fortunato quanto abile pilota da caccia australiano che sparò con le mitraglie del suo caccia prima dell’inizio della Battaglia d’Inghilterra e che – un vero miracolo – sopravvisse alla II Guerra Mondiale.

E poi come non ricordare:

– i due fratelli Honda che, per la cronaca, combatterono contemporaneamente (ma in cieli diversi) nell’area del Pacifico durante il conflitto mondiale, entrambi piloti del favoloso caccia A6M Zero?

Ebbene il primo sopravvisse  mentre il secondo, fedele compagno di battaglie aeree del grandissimo asso nipponico Saburo Sakai, fu abbattuto in una missione in cui un altro ufficiale lo reclamò come gregario. Sakai, ovviamente, non se lo perdonò mai.

E ancora, non possiamo fare a meno di ricordare:

– il sergente pilota belga che, tra le file della RAF, abbatté prima una V1 (le terribili bombe volanti che devastarono Londra durante la II Guerra Mondiale) grazie alle raffiche di mitraglia del suo Spitfire MK XIV e poi, terminate le munizioni, deviò la traiettoria di una seconda appoggiandosi con l’ala del suo caccia sull’ala a brandelli della micidiale arma nazista.

E allora che dire:

– del famoso direttore d’orchestra Herbert Von Karajan che sul finire degli anni ’70 stupì il suo pubblico con una personalissima quanto vigorosa direzione di un concerto con musiche di Beethoven?

Che si era semplicemente ispirato alla bufera (prodiga di tuoni e fulmini) in cui era incappato in volo con il suo fido copilota a bordo di un Falcon 10 in avvicinamento a Parigi, luogo appunto del concerto in questione.

E vogliamo poi parlare:

– dell’ingegnere aeronautico Pier Luigi Torre?

E facciamolo brevemente … perché egli non viene assolutamente ricordato per aver perfezionato (assieme al divino ing. Alessandro Marchetti) l’originalissimo idrovolante Savoia Marchetti S.55 nella più evoluta versione X oppure per aver partecipato fisicamente alla Crociera del Decennale guidata da Italo Balbo, no. Egli è ricordato per aver regalato alla gloriosa casa ciclo-moto-automobilistica Innocenti un motociclo antesignano degli attuali scooter nonché acerrimo concorrente della mitica Vespa progettata dal collega ingegnere aeronautico Corradino D’Ascanio. Stiamo parlando della: Lambretta. Avete presente?

L’unico esemplare di S.55 arrivato sino ai nostri giorni è la versione C esposta presso il Museu TAM, già Museu Asas de um Sonho, sito a São Carlos nello stato federale brasiliano di San Paolo (São Paulo). L’S.55, soprannominato “Jahú” dal suo ultimo proprietario, l’aviatore João Ribeiro de Barros, lo stesso soprannominato “Alcione” dall’asso italiano della prima guerra mondiale Eugenio Casagrande, venne utilizzato per compiere la trasvolata atlantica del Sud Atlantico nel 1927 (testo e foto prelevate da https://it.wikipedia.org/wiki/Savoia-Marchetti_S.55). La versione X fu allestita migliorando l’S.55A e utilizzata per la la “Crociera aerea del Decennale”. Un progetto del venerabile Alessandro Marchetti e di uno sconosciuto Pier Luigi Torre.

L’elenco potrebbe essere assai lungo, giusto appunto 52 racconti dai contenuti spesso sorprendenti, altri originali e infine noti soli ai veri appassionati del settore aeronautico.

Riassumendo: siamo di fronte ad un volumetto di sole 168 pagine che costituisce una sorta di campionario di varia umanità impegnata o coinvolta suo malgrado e a vario titolo da vicissitudini a carattere aeronautico. Oseremmo dire: un almanacco dell’aviazione, a metà strada tra un annuario e il catalogo di una mirabile mostra di storia dell’aviazione.

Ora vi domanderete come l’autore sia riuscito a curare questo catalogo denso di spigolature e di episodi storici a dir poco singolari. Semplicemente facendo tesoro del suo pluriennale ruolo di direttore responsabile di una delle più gloriose riviste aeronautiche che portava un nome semplice che era ed è tutto un programma: Volare.

E infatti nella prefazione del libro egli confessa che:

questo libretto […] è nato sulla base di una rubrica che tenuto per quasi nove anni sul mensile Volare, periodico che oggi non esiste più, come quasi tutti i sognatori, i geni, ragionieri, i deficienti di cui abbiamo scritto. Destino degli uomini, destino delle cose.

Occorre aggiungere altro? No … salvo una nota a margine che riguarda la prefazione.

Ebbene: non leggetela! O meglio, voi appassionati di cielo, di volo e di aviazione in tutte le sue forme non leggetela (come è naturale che sia) prima di tutti gli altri capitoli o, in questo caso specifico, mesi.

E badate che non è un suggerimento bensì una preghiera spassionata di chi è rimasto basito dalle prime righe di questa prefazione. S’intende: salvo che non vogliate chiudere il libro e gettarlo nell’immondizia. Perciò ascoltateci: leggetela dopo esservi stupiti, commossi e amareggiati visionando le 52 istantanee di vita vissuta da aviatori e pseudo aviatori. Sì perché il nostro direttore potrebbe scatenare in voi una reazione virulenta, quasi di una crisi di rigetto, un dolore lancinante pari ad una stilettata in pieno petto … non ci credete? E allora ecco qua:

[…] da anni ho scoperto che nessun aeroplano ha un’anima. E’ una macchina. […] Un aereo sul piazzale, a guardarlo abbastanza a lungo, diventa un altro oggetto ingoiato dal panorama, come i sassi al bordo della pista, come la pista.

 Vi siete convinti? In realtà il direttore Braga dà dimostrazione di essere un abile manipolatore delle parole; egli attira l’attenzione (o l’indignazione del lettore?) per poi spiegargli, a proposito della macchina volante, che

 […] E’ il soffio vitale dell’ingegno umano. La forza motrice del sogno.

 Per poi concludere la prefazione, a proposito invece del suo volume, che:

 […] Se volete potrete maneggiarlo come un trampolino; e tramite esso, con un balzello dell’anima di cui i passeri e i gabbiani non sono capaci, nel tempo in cui girate una pagina, toccare nuove bellissime altitudini.

E bravo Braga, stupiti e colpiti! Come solo un vero giornalista sa fare.

Nel complesso un libro piacevole che si fa leggere volentieri, snello e che, proprio per la sua struttura multi-storie, non è mai noioso.

Dell’autore possiamo dirvi poco o nulla in più rispetto a quanto dichiarato nella breve biografia presente nella IV di copertina. Potremmo aggiungere che in occasione della I edizione del Premio letterario RACCONTI TRA LE NUVOLE, abbiamo avuto il privilegio di averlo tra i giurati. E chissà che l’idea del racconto divenuto libro non gli sia venuta proprio allora? Di sicuro il direttore Braga non è avvezzo al marketing o alla promozione del proprio lavoro giacché non si è preso neanche la briga (perdonate l’assonanza) di informarcene o inviarci addirittura una copia del volume affinché potessimo parlarvene in anteprima attraverso il megafono del nostro hangar. Ma non per questo ne abbiamo meno stima o non per questo dubitiamo delle sue doti professionali. Però la prossima volta, direttore, manda un razzo di segnalazione, eh?

La brevità di alcune vicende spesso lascia un po’ di amaro in bocca tuttavia costituisce il pretesto per ulteriori approfondimenti da parte del lettore.

La formula letteraria è originale quanto inconsueta e dunque è di difficile collocazione, più vicina al mondo giornalistico che alla narrativa in senso stretto.

La prosa è scorrevole anche se, nel raccontare per 52 volte storie assolutamente diverse, l’autore ricorre a degli schemi che poi risultano ripetitivi, almeno agli occhi di un lettore attento. Ed ecco allora che, a volte, la vicenda narrata ha una premessa criptica con considerazioni apparentemente conclusive per poi dipanarsi e svelarsi, a volte la storia viene narrata con il tipico piglio giornalistico ma in modo lineare, in un’altra ancora la data dell’evento principale è il punto di apertura della narrazione, in talaltre la narrazione prende avvio da una domanda oggettivamente ineccepibile di fronte ad una situazione impensabile eppure realmente accaduta.

Il prezzo di copertina, ahinoi, non si ispira granché al principio della divulgazione disinteressata, tuttavia – occorre ammetterlo – un editore assai prestigioso come Mursia non concede la pubblicazione a chiunque e dunque i 15 euro necessari per acquistare il libro costituiscono una garanzia sulla bontà dei contenuti.

Ottimo e di dimensioni generose il carattere utilizzato per la stampa.

Libro in brossura fresata e carta opaca di qualità di un bianco forse troppo anche troppo luminoso.

Simpatica, eccentrica per alcuni versi, la copertina che – leggiamo – riporta un immagine creata da certo: Ruslan Romanchik.

Insomma un volume da leggere senza avere un segnalibro a disposizione perché non c’è un ordine preciso di pagina; il classico libro da aprire a caso per gettarsi semplicemente nell’oceano della storia dell’aviazione perché ovunque ci si tuffi sappiate che troverete acqua profonda.

 





Recensione e didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR





 

Ustica, i fatti e le fake news

titolo: Ustica, i fatti e le fake news

autore:  Franco Bonazzi – Francesco Farinelli

editore: Logisma

anno di pubblicazione: 2019

ISBN: 978-88-94926-18-7

 





 

Sono rimasto sorpreso nel vedermi capitare fra le mani un ennesimo libro sul tragico epilogo del volo del DC9 Itavia che precipitò in mare dalle parti dell’isola di Ustica nel 1980. Avevo letto diversi libri sull’argomento. Ognuno prendeva in esame la notevole mole di elementi relativi, non solo al volo, ma anche a tutta la situazione politica internazionale di quel momento. Ognuno cercava di formulare delle ipotesi plausibili, ma nessuno riusciva a mettere esattamente a fuoco la vera causa del disastro. Ogni libro indicava una delle cause possibili come quella più probabile e utilizzava gli elementi disponibili in modo da poterla sostenere. E le cause possibili erano già diverse sin dall’inizio.

Si pensava ad una guerra aerea avvenuta nel mediterraneo, con caccia di diverse nazionalità che inseguivano un caccia libico, un MIG 23, che si era messo in formazione sotto l’aereo civile dell’Itavia per non farsi vedere dai radar. Il suo scopo era quello di attraversare abusivamente lo spazio aereo italiano e raggiungere la Libia, proveniente dalle officine aeronautiche che avevano sede nella Yugoslavia.

Giusto per ricostruire la dinamica di quanto avvenne … che è anche quello che tentato di fare, in particolare, uno degli autori,Francesco Farinelli. Egli è dottore di ricerca in storia. Ha iniziato a occuparsi del caso Ustica nel 2010, durante le ricerche per la sua tesi di dottorato presso l’Università di Bologna dal titolo: “La drammatizzazione della storia”. È autore di articoli e saggi in tema di radicalizzazione e terrorismo. Lavora come direttore di ricerca per la European Foundation for Democracy di Bruxelles ed è membro del pool di esperti RAN, Radicalisation Awareness Network, istituito dalla Commissione europea.

Una cosa possibile. Ma sommersa da una gran mole di dichiarazioni e smentite che, di fatto, lasciavano tutto allo stato, appunto, di ipotesi.

Si pensava ad una bomba a bordo, ma anche questa possibilità aveva sostenitori e oppositori, che usavano gli stessi elementi per sostenerla o negarla. Potenza della dialettica…

Qualcuno aveva messo in evidenza le condizioni economiche della società Itavia. Gli aerei non ricevevano le dovute manutenzioni e proprio quel DC9, in un precedente volo, aveva manifestato problemi di forti vibrazioni. Le vibrazioni, per una macchina che vola, sono una cosa deleteria, specie se superano certi valori e persistono a lungo. Ma è anche vero che la robustezza di un aereo di linea è notevole. Difficile che si possa smantellare in volo come se fosse esploso.

Qualcun altro aveva ipotizzato che il Mig 23 potesse aver superato il DC9 per sfuggire ai caccia nemici, coinvolgendolo così nella propria turbolenza di scia, notoriamente temibile. Ma per quanto temibile, la turbolenza di un aereo non potrebbe certamente smembrare un liner. Altrimenti che ne sarebbe di qualunque aereo passeggeri in caso di attraversamento di uno spazio aereo interessato da condizioni di turbolenza in aria chiara (C.A.T. che sta per Clear Air Turbolence), la peggiore esistente?

Il volume intitolato: “USTICA, I FATTI E LE FAKE NEWS – Cronaca di una storia italiana fra Prima e Seconda Repubblica” si aggiunge alla chilometrica lista di libri (nonché film, inchieste giornalistiche televisive e addirittura canzoni) dedicate alla strage di Ustica. I-TIGI, queste le marche del DC-9 Itavia, al momento della sua disintegrazione, volava a circa 7000 m di quota e a una velocità di crociera di 800 km/h. Nell’incidente morirono tutti gli 81 occupanti dell’aeromobile, tra passeggeri ed equipaggio.  La foto ritrae la parte frontale del velivolo così come lo ha visto, seppure attraverso l’occhio digitale di una fotocamera,  Christian Boltanski che ha visitato, a Bologna, il  27/06/2007 il sito ove è stato traferito al termine della lunghissima inchiesta della magistratura.  Ricorreva il 27mo  anniversario della strage e il museo veniva aperto al pubblico per l’inaugurazione, presenti il sindaco Sergio Cofferati, il ministro Giovanna Melandri e la senatrice Daria Bonfietti.

Per ognuna di queste ipotesi esistevano forti indizi nella situazione di quel periodo. Si poteva sostenere tutto e il contrario di tutto.

L’ipotesi della bomba a bordo era stata subito fatta, ma era stata anche accantonata, per lasciare il posto ad ipotesi più evidenti, forse, oppure più convenienti, o solo più “suggestive”. E le fazioni politiche che avevano interesse a far prevalere una teoria piuttosto che un’altra si diedero subito da fare.

Il velivolo dell’Itavia si disintegrò e cadde in un braccio di mare del Tirreno meridionale compreso tra le isole di Ponza e Ustica a circa una sessantina di kilometri in linea d’aria dalle coste siciliane. In quel tratto la profondità del Tirreno supera i 3000 metri e questo costituì per anni il notevole impedimento per il recupero dei rottami del velivolo. Ci si mise di mezzo anche una sedicente società di recupero francese in odore di essere gestita dai servizi segreti francesi: l’ennesimo depistaggio, l’ennesimo tentativo di insabbiare quanto accadde.

Sin dall’inizio la faccenda divenne un guazzabuglio infernale, di proporzioni sempre maggiori.

Nel libro tutte queste teorie sono ben presenti e analizzate, messe in luce sotto diversi punti di vista.

In questo nuovo libro ho ritrovato gran parte delle cose che già sapevo, per aver letto gli altri libri e per motivi personali.

I motivi personali riguardano il fatto che nel 1980 avevo appena lasciato l’Aeronautica Militare. Ero fuori, facevo un altro lavoro, ma ero rimasto sempre nell’ambito aeronautico e, ovviamente, conoscevo tante persone, molti controllori del traffico aereo, compresi alcuni di quelli coinvolti, in modi diversi, in questo fatto. Alcun di loro frequentavano la mia famiglia e quindi ero stato davvero a contatto con la vicenda.

L’articolo con cui il quotidiano di Roma annunciava quella che poi fu definita una strage. L’indagine lunghissima e travagliatissima riempì i quotidiani e i telegiornali per molti anni a seguire, per non parlare di reportage giornalistici più o meno sensazionalistici che periodicamente apparirono in tv. Per i ragazzi nati nel nuovo secolo è però solo un eco lontano di qualcosa di torbido mai chiarito ancora oggi, una delle tante pagine oscure della storia italiana recente.

Però nessuna di queste persone ha mai detto di conoscere la causa del disastro. Nessuno sapeva davvero cosa fosse successo. Anzi, proprio loro avrebbero voluto ardentemente saperlo.

Ognuno conosceva la propria piccola parte.

Si era perso un aereo. Era scomparso dai radar. Erano state avviate le procedure di ricerca previste in questi casi. Di più non si sapeva.

Nei giorni successivi tutti noi cercavamo sulle pagine dei quotidiani gli sviluppi delle ricerche, in attesa di conoscere la verità.

Quella che ancora oggi manca all’appello.

Non senza difficoltà, dopo che il 96% dei rottami del velivolo erano stati recuperati e riassemblati in un simulacro presso un hangar dell’aeroporto militare di Pratica di Mare; una volta terminate le inchieste e le indagini tecnico-scientifiche, nel 2006 il velivolo fu trasferito e sistemato, grazie al contributo dei Vigili del Fuoco di Roma, nel Museo della Memoria di Ustica, approntato appositamente a Bologna, la città da cui il velivolo era decollato. Questa foto ritrae proprio quel luogo.

Diciamo subito che in questo libro la verità non viene rivelata. E, per ammissione degli stessi autori, non è questo lo scopo che si erano prefissi nello scriverlo.

Il loro intento è contenuto nelle ultime tre righe della presentazione della quarta di copertina: “Questo libro vuole ripercorrere quanto accaduto dal 1980 a oggi separando i fatti dalle false notizie. Perché non può esistere alcuna verità laddove il verosimile viene confuso con il vero e le opinioni tradiscono le fonti documentali della storia”.

Ho letto tutto il contenuto con grande interesse e posso dire che lo scopo di separare i fatti dalle false notizie, quelle che oggi si chiamano “fake news”, è stato raggiunto. Gli autori hanno sistematicamente preso in esame ogni singolo elemento, spiegandolo con la perizia che soltanto uno storico e un pilota sperimentale, uniti nel compito, possono fare. Hanno separato i fatti dalle chiacchiere di corridoio, che nel corso degli anni avevano assunto il rango di fatti inconfutabili, ad opera dei media e della loro autorevolezza. Hanno indicato, dove possibile, quali interessi politici avevano sostenuto le varie tesi, anche quando queste erano perfino assurde.

Il velivolo Douglas DC-9 della compagnia aerea italiana Itavia, identificato come volo IH870, era decollato dall’aeroporto di Bologna – Borgo Panigale e stava volando all’interno dell’aerovia denominata “Ambra 13” diretto all’aeroporto palermitano di Punta Raisi; perse il contatto radio con il controllo del traffico aereo sito sull’aeroporto di Roma-Ciampino, responsabile in quel settore e scomparve anche dagli schermi radar degli operatori dei centri radar Poggio Ballone, Grosseto, Ciampino e Licola che ne potevano osservarne la condotta di volo.

Hanno addirittura messo in luce l’opera dei cosiddetti periti, che veri periti non erano, ma che hanno prodotto documenti autorevoli, usati in tempi successivi come riferimento per ulteriori “analisi”.

Ci sono volute tutte le 368 pagine del libro per passare in rassegna la gran quantità di fango che si era accumulato nel corso dei decenni.

Gli autori sembrano orientati verso una delle ipotesi, quella della bomba a bordo. Anche se si sa chi potrebbe aver avuto interesse a compiere una cosa del genere, si sapeva anche all’epoca, nessuno ha mai rivendicato nulla e con gli elementi disponibili non si può provare veramente alcunché.

Tutte le ipotesi restano ancora aperte e lo resteranno finché qualcosa di nuovo, di risolutivo, non verrà fuori.

Non so se l’ipotesi della bomba sia quella giusta oppure no. Come ripeto, ad oggi la verità è ancora celata chissà dove. Non so nemmeno se verrà mai fuori.

Però, per chi fosse interessato a vedere un po’ più chiaramente i fatti, ben separati dalle fake news, questo libro è indispensabile.

Dopo, ognuno si potrà fare la propria idea personale.

 



Recensione a cura di Evandro A. Detti (Brutus Flyer).

Didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR


Ustica, i fatti e le fake news

Ustica, i fatti e le fake news