titolo: Falco F8L – Album del Falco Club – I capolavori di Stelio Frati
a cura di: Gherardo Lazzeri con la collaborazione diSandro Rosati e Luigi Aldini
editore: LoGisma
anno di pubblicazione: 2008
ISBN: 9788887621730
Questo libro, pubblicato dall’editore LoGisma in collaborazione con il Museo aeronautico “Gianni Caproni” di Trento, è una raccolta di articoli, notizie, pubblicazioni e presentazioni, corredate da moltissime foto e da interessanti documenti. La prefazione è di Maria Fede Caproni Armani, di recente scomparsa.
Le 168 pagine del libro tracciano la storia di un fantastico aereo, l’F8L, in particolare, ma anche di tutti gli altri aerei usciti dalla mente e dalla matita del grande progettista Stelio Frati.
Questo aereo fu costruito inizialmente dalla ditta Aviamilano, con sede proprio a Milano, poi la produzione si spostò a Trento, presso lo stabilimento industriale Caproni. La ditta che lo costruiva era la Aeromere, ma in seguito divenne Laverda.
Ho sempre sostenuto che l’aeronautica e il motociclismo hanno gli stesso cromosomi e qui, una volta in più si dimostra che un aereo può essere costruito da una fabbrica di motociclette (ma, ovviamente, la Laverda non costruiva solo quelle).
La Laverda, comunque, da quel momento in poi, costruì tutti gli esemplari oggi ancora volanti, veri gioielli, contesi dagli appassionati e dai collezionisti di tutto il mondo.
L’F8L è conosciuto anche come “la Ferrari del cielo”. Le sue linee pulite, la levigatezza delle sue superfici ed il ridotto ingombro frontale fanno sì che l’aereo possa beneficiare di una ridottissima resistenza aerodinamica e possa raggiungere velocità considerevoli, con una motorizzazione di limitata potenza, di cento o centocinquanta cavalli. Il tutto, unito a consumi davvero molto contenuti.
Oltre al Falco, dalla matita di Stelio Frati sono usciti altri prestigiosi aeroplani, citati ed illustrati nel libro:
l’F7 Rondone,
l’F15 Picchio,
l’F14 Nibbio,
l’F20 Pegaso
l’SF 260
L’ultimo nato era l’LN 27 Furio.
Le caratteristiche eccellenti de questi aerei ne hanno fatto, specialmente nel caso del Falco, una macchina ideale per le gare di rallye aereo, che sono gare di regolarità, ma anche per le gare di velocità, disputate prevalentemente intorno a dei piloni. Infatti nel corso di tanti anni hanno partecipato e vinto numerose gare. Qualche pilota è diventato perfino famoso.
Uno dei più famosi è stato Luciano Nustrini. Un personaggio piuttosto particolare che ho avuto modo di conoscere di persona per aver partecipato al Giro Aereo d’Italia del 1982. Il mio aereo era un Morane Saulnier 150, uno dei più lenti. Il suo era un F8L Falco, velocissimo, divenuto famoso per le vicende che si sono svolte negli anni successivi. Il nominativo era I-ERNA.
Nustrini emigrò in Nuova Zelanda e si portò appresso molte cose, tra cui il suo Falco. E con questo, purtroppo, precipitò in mare perdendo la vita, insieme alla moglie Giuliana, mentre sorvolava una regata che era appena cominciata e alla quale partecipava il suo amico Giovanni Soldini. Pochi giorni prima, Nustrini aveva volato su quelle acque neozelandesi con Soldini come passeggero.
Come ho detto il libro è una raccolta di tanti racconti e articoli, molti scritti dai proprietari stessi, tra cui proprio Nustrini. Nel Giro aereo d’Italia del 1982, nella tratta tra Crotone e Lamezia Terme, il percorso attraversava lo stretto di Sicilia e prevedeva il sorvolo di un punto di controllo situato su una montagna, nella punta nord orientale della Sicilia. Mi ricordo di quella tratta, perché non capita tutti i giorni di attraversare lo stretto a volo d’uccello. Non sono mai stato in Sicilia. L’ho sorvolata quel giorno e basta. Ma la salita verso la montagna siciliana, Antennamare, fu memorabile. Avevo cominciato a salire già dal traverso di Reggio Calabria. Impiegai tutti i circa venti km di mare per raggiungere la quota.
Sul libro Nustrini racconta come condusse lui la traversata e la salita. Altro aereo, altro approccio al problema. Lui si fece i venti chilometri dello stretto a due metri dall’acqua, a 360 km orari, per poi salire ripido, sfruttando anche la spinta di alcune correnti ascensionali dinamiche lungo i costoni che incontrava.
Questo libro è opera di Gherardo Lazzeri, editore LoGisma, che si è avvalso della collaborazione di due piloti proprietari di Falco F8L, Luigi Aldini e Sandro Rosati.
Di Luigi Aldini ho già scritto la recensione del suo libro,”Passione”. Ed ho accennato al Falco che si è costruito da solo. Andate a leggere la recensione pubblicata proprio qui, su Voci di Hangar. Comunque, anche su questo libro, si trova tutta la storia della costruzione, raccontata da Aldini stesso.
Sandro Rosati, del resto, è proprietario di un altro Falco ed è il Presidente del Falco Club. Anche lui partecipa alle gare e insieme ne abbiamo fatte molte, in passato.
Ho citato questi due illustri piloti solo come esempio, ma il libro contiene racconti di altri. Ognuno ha dato il proprio contributo per aggiungere qualcosa alla storia di questi splendidi aerei. Nel libro sono citati tutti i nominativi, con foto ed informazioni. Perfino Stelio Frati, l’ingegnere che li ha creati, ha fornito materiale proprio.
Ma un aereo tanto blasonato non poteva rimanere confinato nel ristretto ambito del paese di appartenenza. Negli Stati Uniti, dal 1982 la “Sequoia Aircraft Inc.” ha messo in vendita un kit di montaggio dell’F8L e sono già stati costruiti centinaia di modelli. Molti tra i proprietari degli esemplari di cui abbiamo parlato fin qui storcono il naso, quando si parla dei Falchi statunitensi. Ma si sa. I puristi lo fanno. In realtà la Sequoia Aircraft Inc. ha impedito che una macchina tanto ben riuscita si disperdesse tra i rottami di un’infinità di altri modelli, nei vari cimiteri degli aeroplani che ogni tanto capita di vedere in qualche angolo di aeroporto o tra mucchi di auto degli sfasciacarrozze delle nostre città. Gli esemplari storici sono qui. Aerei d’epoca, ancora tanto attuali. Quelli della Sequoia sono giovani, lucenti e splendidi. Almeno altrettanto apprezzati dai loro proprietari. Ammirati dai visitatori degli airshows.
La vita del Falco continua.
Recensione a cura di Evandro A. Detti (Brutus Flyer)
titolo: L’ultimo volo – La drammatica avventura dell'”Italia” al Polo Nord
autore: Felice Trojani
editore: Mursia & C.
anno di pubblicazione: 1967
ISBN: non disponibile
Il titolo è di quelli che non lascia adito a dubbi né incertezze. E’ lapidario, quasi laconico. Il sottotitolo svela invece il contenuto delle 244 pagine del libro cui fanno da corredo, in appendice, una preziosa cronologia, l’elenco dei naufraghi e dei soccorritori nonché un utilissimo breve glossario.
Il risguardo interno della sovracopertina puntualizza:
“finalmente la verità sulla sfortunata spedizione di Nobile al Polo Nord a bordo del dirigibile Italia, rivelata da uno dei protagonisti della grande impresa”
Ma cosa accadde esattamente durante quell’ultimo volo? Ricordiamolo soprattutto a beneficio di chi lo ignora per ovvi motivi anagrafici.
La mattina del 19 marzo 1928, il dirigibile modello N4 – ribattezzato “ITALIA” – decolla dall’aeroporto di Ciampino. E’ stato progettato e costruito proprio lì, a Roma, ad opera del generale del genio aeronautico, ingegner Umberto Nobile. Egli è anche a capo della missione – tutta italiana – dall’alto contenuto scientifico che si prefigge di raggiungere in volo il Polo Nord sorvolando, per buona parte della navigazione, territori completamente inesplorati.
A bordo dell’aeronave c’è proprio il nostro Felice Trojani in qualità di timoniere. In realtà egli ha dato un notevole contributo alla missione occupandosi di quello che oggi chiameremmo l’”ingegneria” e la “logistica”.
Dopo diverse tappe e lunghi voli di trasferimento che non risparmiano all’equipaggio momenti di alta tensione, il 6 maggio 1928 l’ITALIA attracca al pilone di ormeggio di Ny Aalesund, microscopica cittadina mineraria situata nella Kingsbay (Baia del re) nelle isole Svalbard, anticamente chiamate Spitsbergen dagli olandesi che le scoprirono.
Nonostante le condizioni meteorologiche non siano delle migliori, nei giorni successivi, non senza difficoltà, l’ITALIA riesce comunque a compiere due voli di avvicinamento al Polo Nord e a tornare alla base di partenza. Ma è nella notte del 24 maggio 1928, alle ore 0,20 locali, che il dirigibile ITALIA, nel corso del suo terzo volo, sorvola finalmente il Polo Nord.
Così Trojani rievoca quegli istanti:
“Furono trasmessi messaggi al Papa, al Re, a Mussolini; poi Nobile iniziò il lancio delle bandiere e dei simboli. Lanciò la bandiera italiana, il gonfalone di Sant’Ambrogio, la medaglia della Vergine del Fuoco di Forlì, la croce che ci era stata affidata dal Papa. Poi brindammo al Polo Nord bevendo una bottiglia di liquore all’uovo preparato dalla signora Nobile”.
Anche se le condizioni meteo non consentono l’atterraggio sulla banchisa polare, tutti i rilievi scientifici vengono effettuati e la missione raggiunge il pieno successo.
Purtroppo, nel volo di rientro a Ny Aalesund, il dirigibile incappa in condizioni meteo ancora più avverse nonché in un guasto al timone di quota.
Alle 10,33 del 25 maggio accade l’immane tragedia: l’aeronave cade inesorabilmente sul pack. Una parte dell’equipaggio, tra cui il nostro Trojani, viene sbalzato fuori della navicella di comando mentre la restante parte viene trascinata di nuovo in volo. Il dirigibile infatti, alleggerito di parte del suo carico umano e di attrezzature, riprende il volo senza alcun controllo. Di costoro e dell’aeronave non se ne saprà più nulla.
La banchisa polare è un luogo desolato, apparentemente disabitato, spazzato quasi costantemente dal vento, bruciato da una luce abbacinante di giorno e di notte, costantemente alla deriva e con temperature che sono perennemente molto al di sotto dello zero. Insomma un vero inferno bianco.
I superstiti della spedizione polare sono male in arnese: Nobile ha una gamba e un braccio fratturati, il viso tumefatto e insanguinato, accusa dolori al torace; Zappi è convinto di avere qualche costola rotta tanto è il dolore che prova anche lui al torace; il taurino Cecioni ha la gamba rotta in due punti, il meteorologo Malgrem è stordito e suppone di avere un braccio rotto; Biagi, il radiotelegrafista, sente forti dolori alla testa e si lamenta per contusioni; Trojani avverte un forte dolore al ginocchio sinistro, il suo viso è insanguinato per un taglio profondo alla fronte; Mariano, Viglieri e Bohunek sono in piedi ma sono anch’essi sotto shock; Titina, la cagnetta di Nobile, è l’unica che zompetta felice finalmente sulla terraferma.
Dovranno resistere fino al fatidico 12 luglio prima che la nave rompighiaccio sovietico “Krasin” li possa salvare e restituirli alla civiltà. Durante ben 48 giorni di permanenza sul pack numerose saranno le disavventure, travagliate le decisioni da prendere, contrastanti gli stati d’animo a fronte a quello che sembra un inesorabile epilogo.
“L’ultimo volo” è dunque il resoconto più sincero e attendibile di quanto accadde nel corso di uno degli episodi più esaltanti ma al contempo tra i più tragici della storia dell’aviazione italiana: la missione al Polo Nord del dirigibile ITALIA.
In effetti, fatto salvo per i diversi libri che scrisse il generale Nobile, solo Felice Trojani riportò minuziosamente quanto accadde: dapprima ne “La coda di Minosse” e poi – ma in misura molto più blanda – ne “L’ultimo volo” che viene considerato, a torto o ragione il “Minossino”.
L’editore Ugo Mursia convinse infatti Trojani a pubblicare una versione alleggerita del “La coda di Minosse”; era sua intenzione creare un secondo volume divulgativo, pensato e illustrato come all’epoca era uso fare per un pubblico molto giovane, giusto quello della collana per ragazzi denominata: “La Meta – viaggi e scoperte”. E in effetti la lungimiranza dell’editore e l’ottimo lavoro di riduzione dell’autore furono premiati: “L’ultimo volo” vinse il premio Castello 1967, per il miglior libro di letteratura giovanile.
Che Felice Trojani fosse un ottimo ingegnere non ne avevamo dubbi: sua fu la progettazione dell’hangar (senza tetto per evitare i sovraccarichi distruttivi della neve) e dei piloni di attracco del dirigibile di Ny Aalesund e di Vadso; sua l’invenzione della tenda di seta grezza divenuta poi virtualmente “rossa”; suo l’allestimento delle attrezzature e delle vettovaglie imbarcate sul dirigibile NORGE prima e sull’ITALIA poi; sua la partecipazione alla progettazione e alla costruzione dell’Aeroporto del Littorio a Roma (oggi Aeroporto dell’Urbe). Semmai nutrivamo dei dubbi sulle sue capacità narrative in quanto, dopo gli studi classici al Liceo “Torquato Tasso” di Roma, egli seguì il corso di laurea presso la Scuola di Applicazione degli Ingegneri di San Pietro in Vincoli, sempre a Roma, che non poteva – e ancora oggi – non può certo definirsi una fucina di letterati o di poeti. Salvo rare eccezioni, s’intende. Perché, in effetti, Felice Trojani costituisce proprio una di queste eccezioni.
Ma veniamo al libro.
Benché il volume abbia, fondamentalmente, i presupposti di un diario, l’autore riesce a tessere attorno ad ogni singola data, ad ogni singolo episodio un racconto fluido e appassionante degno dei migliori scritti di salgariana memoria.
Certo, quanto accadde prima, durante e dopo quei 48 giorni sul pack va al di là di ogni più geniale invenzione narrativa del più fantasioso autore del genere, tuttavia Trojani sa tenere ben alta la tensione della narrazione e non è mai monotono.
Sebbene il libro sia stato scritto a distanza di ben quarant’anni da quegli avvenimenti, la memoria di Trojani è assai lucida e minuziosa – tipica di un ingegnere, oseremmo dire – ma il testo appare elegante e privo di tecnicismi, sebbene asciutto e schivo di inutili riflessioni interiori che pure ci sono ma pur sempre limitate all’essenziale, giusto per dare spessore e carattere ai suoi compagni di sventura o per rendere realisticamente drammatica la terribile esperienza che, loro malgrado, vissero in quella landa dimenticata dagli uomini.
Viene da domandarsi, inoltre, se l’autore fu davvero obiettivo rispetto a quanto fu testimone. Anche perché, a suo dire, fu l’unico a mantenere una condotta positiva e attiva. Solo una volta – confessa – ebbe una crisi di nervi, un istante di profondo smarrimento ma subito rientrato.
Eppure la sua obiettività non può mai essere messa in discussione nel corso di tutto il libro. Ad esempio, nei confronti di Nobile – per alcuni versi il suo mentore – non è certo tenero quando scrive:
“Io, Nobile, lo capivo molto bene, capivo quali erano i sentimenti che lo agitavano: niente o poco lo spirito di conservazione, molto il desiderio che i suoi compagni venissero salvati, moltissimo il rimpianto di non essere più il capo.”
Anche nel momento del grande successo, l’autore rimane lucido scrivendo di sé:
“Non avevo avuto ciò che avevo sognato, la mia vita era stata una serie quasi ininterrotta di insuccessi e delusioni, ma ero ingegnere, facevo parte di un equipaggio di un’aeronave che stava compiendo voli fuori del comune, e avevo collaborato alla progettazione e alla costruzione del dirigibile e alla preparazione dei voli.
Non mi sentivo un eroe, ma provavo l’orgoglio di trovarmi in prima linea, ero contento di aver diviso con i miei compagni tutti i rischi della spedizione, di non essermi fatto indietro pur conoscendo le deficienze della macchina e i pericoli dell’impresa.”
Tornando al suo rapporto con il suo capo missione, Trojani non gli risparmia il suo pragmatismo un po’ beffardo come per esempio in questo passo:
“Nobile ci esortava a non perderci d’animo, dicendo che le nostre famiglie erano state messe al riparo dal bisogno, che noi avevamo fatto il nostro dovere, che eravamo caduti nel compimento di un’impresa di scienza, di bellezza, di poesia alla quale il mondo intero era sensibile, gli italiani avrebbero venerato la mostra memoria […]
Agli argomenti civili ero sensibile anch’io ma non che credessi molto all’affetto degli italiani; contavo sull’assicurazione sulla vita e su ciò che mi doveva la Società Geografica. Quanto alla profezia di Nobile, era proprio bene ispirata: se il fato l’avesse sentita, sarebbe crepato dal ridere …”
E a proposito di fato, Trojani riporta anche la battuta che fu attribuita a Mussolini a fronte delle pressanti richieste di Nobile:
“Non si va due volte contro il destino”.
Lo aveva detto il Duce dopo incertezze e tentennamenti su cui aveva influito – neanche poco – anche Italo Balbo, sottosegretario dell’aviazione e fervente oppositore dei dirigibili quanto sostenitore del volo a mezzo di aeroplani.
La frase, con il chiaro scopo di sconsigliare la spedizione, è in parte condivisa anche dallo stesso Trojani tanto che replica a Nobile spiegandogli che:
“Farebbe male a intraprendere una seconda spedizione. Se andasse bene diminuirebbe il valore della prima perché farebbe credere che raggiungere il Polo e tornare sia cosa facile, se andasse male farebbe pensare che il successo della prima è stato dovuto al caso. […] Ma la proposta è troppo seducente per rifiutarla e può contare su di me”.
In definitiva, l’immagine che ne deriva dell’autore è quella di una persona abbastanza equilibrata, che è forte del proprio “mestiere” ed è animata dai sui bravi principi morali. Egli, nonostante incappi in umani momenti di debolezza, riesce a mantenere una certa autonomia intellettuale pur lavorando -ricordiamolo sempre – accanto ad una stella di prima grandezza come il generale Umberto Nobile.
Gli altri protagonisti del libro vengono descritti da Trojani più per il loro agire piuttosto che per una scrupolosa descrizione fisica o caratteriale. Da qui il merito dell’autore di non aver appesantito la narrazione e, al contempo, di essere riuscito a creare attorno a loro una forte caratterizzazione, uno spessore umano che li rende unici e verosimili.
I profili dei compagni di disavventura dell’autore si delineano perciò assai lentamente ma inesorabilmente a partire dall’episodio drammatico dell’impatto con la banchisa e proseguono fino all’epilogo con l’imbarco sul Krasin. Costoro sono giusto appunto gli esempi di una varia umanità che, variegata e multiforme, è presente a bordo del dirigibile ITALIA.
Colpisce, ad esempio, il capo montatore Cecioni che, seppure statuario e molto valido nelle attività manuali, viene dipinto come un peso morto piagnucoloso, letteralmente paralizzato dal terrore di essere abbandonato sul pack giacché, con la gamba fratturata, sarebbe incapace di marciare.
Quasi all’opposto invece il marconista Biagi che, riparando la radio con la grafite di una matita, è il vero salvatore della missione. A questo si aggiunge la sua fiducia indefessa verso la tecnologia radiotelegrafica nonché la sua dedizione all’ascolto delle trasmissioni radio. Sarà grazie a lui e alla sua perseveranza che il disperato SOS della missione verrà ricevuto da un radioamatore russo che a sua volta, tramite l’ambasciata russa a Roma, metterà in moto le operazioni di soccorso.
La descrizione dell’ambiente in cui si muovono i protagonisti è dettagliata ma non invadente al punto che si riesce ad avvertire sulla propria pelle un brivido freddo e soprattutto il dramma di chi lo visse davvero.
Come già accennato, la prosa dell’autore è fluida e rende la lettura piacevole anche ad un pubblico adolescenziale. D’altra parte il volume era destinato proprio a quel genere di pubblico e dunque non è escluso che l’editore abbia affidato il manoscritto ad un bravo correttore di bozze per le opportune modifiche … ma questo non lo sapremo mai.
Certamente questo è un libro che non può e non deve mancare nella biblioteca di un appassionato di aviazione e del volo in genere, anche se, in ultima analisi, si tratta di una cronaca di una grande impresa aeronautica dall’esito tragico oltre che al resoconto dell’impresa stessa. Ma, d’altra parte, è risaputo che l’attività pionieristica, l’insaziabile sete di conoscenza e lo sviluppo tecnologico hanno da sempre mietuto – e ancora in futuro mieteranno – il loro tributo di vittime; ciononostante ci piace pensare che chiunque sia stato testimone o artefice di grandi eventi della storia dell’aviazione (e Trojani è sicuramente tra questi), anche di fronte all’insuccesso con risvolti luttuosi, non si perderà mai d’animo e farà della memoria di quell’insuccesso il punto di partenza per imprese ancor con più ardite. In questo senso ci piace anche ricordare quanto Felice Trojani scrisse a chiusura del suo ottimo libro:
“Volai ancora, volai in dirigibile, volai in aeroplano, volai in aliante. Non persi la passione del volo, continuai a sentirne tutta la poesia, ma il mio cuore è rimasto lassù, e ogni altro volo mi è sembrato che fosse la continuazione di quell’ultimo volo”.
All’inizio degli anni Ottanta, dopo più di un decennio di volo a motore, decisi di fare il corso per conseguire la licenza di pilota di aliante veleggiatore.
Andai a Guidonia e mi iscrissi come allievo. Dato che avevo già una licenza di pilota di aeroplano, le ore necessarie erano solo quattro in doppio comando e tre da solista. Feci l’esame e ottenni la licenza. Il tutto in circa tre mesi. Ma quella licenza ha cambiato il corso della mia vita fino ad oggi.
Il volo a vela, ancor più del volo a motore o del volo ultraleggero, è un mondo meraviglioso. Si vola nel silenzio, con il sottofondo del tenue fruscio dell’aliante che scivola nell’aria, si sale con le ascendenze fino a quote a volte elevatissime, ci si sposta sopra il mondo immersi nella natura.
Volevo fare il pilota militare, da ragazzo. Per una serie di ragioni non c’ero riuscito e allora avevo preso la strada del pilota civile.
Sin da subito avevo scoperto che i piloti come me non avevano proprio tantissimo da invidiare ai piloti militari. Anzi, leggendo tutti i libri di aviazione che riuscivo ad avere, mi meravigliava il fatto che ce ne fossero pochi dedicati al volo civile, al punto che sin dall’inizio avevo maturato l’idea di scriverne uno io stesso. Un libro che parlasse di come volavamo noi degli Aeroclubs, senza missioni di guerra da compiere, senza obiettivi da colpire, senza bombe sotto le ali, senza mitragliatrici e cannoncini armati e pronti a far fuoco. Non avevamo neanche le coccarde di nazionalità. Volavamo per volare e basta.
A Guidonia, un giorno, un ragazzo appena atterrato mi disse di aver fatto un volo bellissimo e aggiunse che avrebbe scritto un libro per condividere, con coloro che non sapevano nulla del nostro mondo aeronautico, le emozioni e le sensazioni che per noi erano consuetudine. L’idea mi colpì. Era anche la mia, da molto tempo.
Gli dissi che avrei fatto la stessa cosa.
Lui il libro non lo ha mai scritto. Io si.
Scrissi “Zingari del cielo”, un libretto di 135 pagine dove stipai un mucchio di cose tra le più emblematiche del mondo del volo. Mi resi conto di quanto fosse difficile condensare, in poche pagine, fatti che avevano uno svolgimento lungo il corso di anni, sensazioni che un lettore non può immaginare perché non ha termini di paragone, emozioni profonde e personali che non si comprendono se non si fa l’esperienza diretta, volando realmente. Ma non basta andare in volo come passeggeri. Per capire fino in fondo cosa un pilota vuole comunicare, bisogna proprio volare da piloti, con le mani sui comandi.
Tuttavia, nonostante fossi cosciente dell’impossibilità di descrivere con le parole le emozioni del volo, ritenevo doveroso, per chiunque avesse esperienze simili da condividere, farlo attraverso la scrittura di un libro. Inoltre, un libro resta. I ricordi svaniscono. Se non scrivi, nulla resterà del tuo bagaglio di prezioso sapere. Tutti gli altri, che non hanno avuto la fortuna di far parte del tuo mondo e di conoscere ciò che tu sai, saranno privati per sempre della conoscenza di una parte della storia.
Per questo, nel corso degli anni, ho sempre esortato chiunque avesse fatto qualcosa di interessante, a scrivere un libro. E molti lo hanno fatto. Non perché glielo ho chiesto io, lo hanno scritto di propria iniziativa. Lodevole decisione.
Un giorno, a Rieti, uno di questi libri mi è capitato tra le mani. Me lo ha dato l’autore stesso, con tanto di dedica. E questo per me ha significato moltissimo. Ne sono stato oltremodo onorato.
L’autore, Luigi Aldini, è un personaggio di primo piano nella storia del volo a motore, del volo a vela, del volo acrobatico e di tutte le discipline aeronautiche in generale.
La sua attività di pilota e di istruttore, di organizzatore di eventi sportivi aeronautici, di costruttore amatoriale di aerei, si è svolta negli anni, ricevendo apprezzamenti da parte di autorevolissimi e famosi personaggi. Tanto per fare un esempio, quando Luigi Aldini ha costruito un velivolo F8, progetto dell’ingegner Stelio Frati, partendo da zero, modificandolo un po’ e addirittura migliorandolo, il progettista gli ha poi fatto autorevoli complimenti alla fine dell’opera. Una cosa non da poco, considerato che Stelio Frati è stato uno dei più geniali progettisti di cui può vantarsi il nostro paese. I suoi aerei continuano a volare oggi e sono apprezzati nel mondo.
Il libro riporta la storia della costruzione dell’esemplare di Aldini, con tutte le difficoltà che ha dovuto superare.
Noi che frequentiamo l’aeroporto di Rieti abbiamo il privilegio di veder volare quel bellissimo aeroplano, tutto rosso, elegante e velocissimo, pregevole opera di chi lo ha ideato e di chi lo ha costruito.
Il libro racconta tante altre storie, fatti che si sono svolti negli anni e nei luoghi che abbiamo frequentato entrambi. Ci siamo incontrati in alcuni di questi luoghi, ma soprattutto abbiamo vissuto le stesse storie, spesso da posizioni geografiche diverse. Ci siamo avvicendati in un aeroclub come istruttori di volo a vela. Lui non poteva più andare e io sono subentrato al suo posto.
I fatti narrati nel libro ricalcano una buona parte della storia aeronautica degli ultime decenni. E questo rende quella parte di storia visibile, disponibile per chiunque voglia conoscerla. Se Aldini non l’avesse scritta si sarebbe persa per sempre.
Ci sono alcune vicende curiose che vale la pena riportare qui. La storia dei primi approcci al mondo aeronautico, avvenuti negli anni della sua adolescenza, somiglia molto alla mia e credo somigli anche a quella di tanti altri ragazzini che poi sono diventati piloti.
Un altro elemento che abbiamo in comune e che Aldini riporta nel libro è la passione per i trattori. Anch’io, come lui, da ragazzino di pochi anni, subivo il fascino di quelle macchine cingolate. Lui ha fatto restaurare il trattore della sua famiglia. Io mi riprometto di fare altrettanto con il nostro, un giorno o l’altro, appena non sarà più necessario usarlo per i lavori agricoli, come facciamo sin dai primi anni sessanta. Quella cingoletta, come la chiamano al mio paese in Maremma, fa ancora egregiamente il suo dovere.
Questo libro, nelle sue 248 pagine, parla di tanti episodi. Ma soprattutto parla di noi. Di coloro che operano con l’obiettivo di esercitare, sostenere e far progredire il volo in tutte le sue forme, sostenuti da un solo sentimento che si chiama passione. E questa parola è appunto il titolo del libro.
Quando qualcuno mi chiede di scrivere una dedica su uno dei miei libri, spesso mi trovo in difficoltà. Per me è più facile trainare un aliante che scrivere una dedica.
Ma nel libro “Passione” che Luigi Aldini mi ha dato, anche la dedica è quanto di più appropriato potesse aver scritto. Tutto il contenuto del libro, tutte le storie narrate con il suo stile scorrevole e mai pesante, mi è noto per aver fatto parte di quel mondo in un modo o nell’altro. Anche il gran numero di fotografie che corredano i capitoli, potrei averle scattate io stesso perché conosco i luoghi e spesso molte delle persone ritratte. O gli aerei e gli alianti, che non soltanto conosco, ma su molti di essi ho volato per parecchie ore.
La dedica dice: “A Evandro, collega istruttore che potrà così riconoscere alcuni momenti comuni”. Non avrebbe potuto scrivere una dedica più appropriata.
Consiglio questo libro a chiunque sia, in qualche modo, appassionato di volo. A chiunque abbia un minimo di Passione.
Ma lo consiglio ancor di più a tutti i piloti che fanno parte oggi del nostro mondo aeronautico. Oltre ad imparare molte cose sulla nostra storia… ci si potrebbero riconoscere.
Come si legge sulla copertina del libro, una edizione Longanesi § C., si tratta dei ricordi di un pilota d’assalto italiano nei cieli infuocati dell’Africa Settentrionale.
Infatti il volumetto contiene una lunga serie di racconti di guerra, ambientati in quel teatro drammatico quale è stato quello libico.
Se dovessi sintetizzare in poche parole l’intero libro direi che, fondamentalmente, si tratta dell’ennesima testimonianza di come, in quegli anni, si siano contrapposti due elementi: l’eroismo degli italiani in guerra (in qualunque corpo e in qualunque luogo), costretti a combattere una guerra che non sentivano come loro, senza equipaggiamenti e senza organizzazione e la diffusa sciatteria e meschinità, inadeguatezza e, a volte, criminale colpevolezza di coloro che stavano ai vertici del potere politico italiano.
Il libro è scritto da un pilota, cioè da un combattente che poteva vedere le cose dall’alto. Un punto di vista elevato, dal quale era più facile avere una visione d’insieme. In particolare, all’autore appariva ben evidente quale fosse il terreno sul quale si combatteva, l’orografia del paesaggio, le distanze, enormi e spesso costituite da solo deserto, le frequenti tempeste di sabbia e la loro grande estensione, la distanza dal mare degli accampamenti di fortuna nei quali i soldati erano precariamente sistemati etc. Gli aeroporti erano semplici strisce di deserto, livellate alla meglio.
Gli aerei di cui parla il nostro pilota erano i CR 32 e 42. Biplani, superati ormai da anni, ma che il governo di allora manteneva in produzione, probabilmente per non scontentare qualche personaggio dell’industria. Ma intanto gli alleati, gli Inglesi prima e gli americani dopo, avevano aerei molto più performanti, terribilmente meglio armati, veloci, maneggevoli e dotati di maggiore autonomia.
Contro questi aerei i nostri piloti andavano ad ingaggiare combattimento, spesso in numero molto inferiore, magari ad alta quota, con l’handicap delle cabine aperte, senza protezione adeguata dal freddo e spesso senza neanche l’impianto dell’ossigeno.
Questo descrive il libro.
Una lettura, ancora una volta, illuminante. L’eroismo è una cosa. La capacità strategica e la dotazione tecnica sono un’altra faccenda.
Si percepisce chiaramente, anche dove non viene detto esplicitamente, quanto fosse sofferta una simile situazione. E si coglie anche una sorta di fatalismo, di rassegnazione, nei confronti di tragici episodi, frequentissimi, dove si moriva, si restava feriti gravemente, ci si salvava per pura casualità.
E non si poteva in alcun modo protestare. La più lieve parvenza di critica sarebbe stata considerata disfattismo.
Due sono gli elementi che descrivono meglio l’inadeguatezza della politica italiana e tedesca in quella disgraziata guerra del Nord Africa.
Il primo riguarda il fatto che tutti i convogli di navi ed anche le squadriglie di aerei che dall’Italia dovevano rifornire, di truppe e materiali, il Nord Africa, erano soggetti agli attacchi, per mare e per aria, dalla vicina Malta, che non si era pensato di dover neutralizzare prima. Ci si era provato, ma con il pressappochismo e l’improvvisazione soliti, per cui Malta era rimasta lì. Risultato: tantissime navi affondate, squadriglie di aerei, da trasporto e non, abbattuti, migliaia di militari e civili morti e preziose merci perdute. Per anni.
L’altra questione riguarda la geografia del teatro di guerra. Il nemico era stato respinto attraverso migliaia di chilometri, dalla Libia verso l’Egitto. Negli anni le vicende di guerra sono state altalenanti, con perdite e riconquiste di posizione continue. Chi vuole si può documentare meglio attraverso tanti libri. Ma in sintesi, alla fine, il nemico si stava ritirando verso l’Egitto. Mancavano davvero poche decine di chilometri dal confine. L’autore descrive l’arrivo di un’altissima personalità del regime, con macchine al seguito e perfino un cavallo bianco. Si era portato anche la spada dell’Islam che gli era stata donata. Era pronto a fare il suo ingresso trionfale ad Alessandria d’Egitto.
Peccato che nel suo genio strategico non abbia fatto caso che, durante la ritirata, il nemico si avvicinava alla sua roccaforte, con maggiore abbondanza e rapidità di rifornimenti, con più possibilità di sostituzione delle truppe stremante con forze fresche. Mentre per Italiani e tedeschi avveniva il contrario. I rari rifornimenti, quando arrivavano, prendevano terra in Libia, poi dovevano percorrere migliaia di chilometri per raggiungere il fronte avanzato, con i rischi che c’erano. Alle porte dell’Egitto l’epilogo è stato quello che tutti conoscono. L’altissimo personaggio dovette tornare indietro senza neppure il cavallo bianco.
Quanto somigliano, le vicende di allora, a quelle di oggi.
Di sicuro, parlando con tante persone, ci potranno essere molti convinti che le cose siano interpretabili in altri modi. E ognuno fornirebbe la propria chiave di lettura.
Ma qui parliamo di un libro. “I falchi del deserto” parla di quelle vicende e il suo autore ci offre la sua pacata e diplomatica (a volte non tanto) chiave di lettura.
Sergio Flaccomio è toscano. E anch’io lo sono. Nonostante ciò, spesso ho fatto un po’ di fatica a seguirlo, nei suoi modi prudenti, fatti di frasi idiomatiche, che capisco certamente, ma la sua toscanità è un po’ più antica della mia. Non fa molto uso delle virgole. Tuttavia, anche in questo libro come è stato per altri, ho ritrovato gli stessi fatti, descritti da altri autori. Mi è sembrato di ripercorrere strade e ambienti già conosciuti. Soltanto visti con altri occhi e da un’angolazione leggermente diversa.
sottottolo: I retroscena del più esplosivo caso di spionaggio del nostro secolo
autore: David Wise e Thomas B. Ross
editore: Longanesi & C.
anno di pubblicazione: 1963
ISBN: non disponibile
Ecco un libro molto interessante e che varrebbe la pena di andare a cercare su internet o sulle bancarelle dei mercatini. L’edizione in mio possesso è quella con la copertina rigida e senza illustrazioni. Né la ricopre una sovra copertina come è d’uso in questi casi. Il titolo, poi… “L’U-2”, sembra fare riferimento al gruppo musicale U2.
Invece si tratta di uno splendido lavoro, un resoconto dettagliatissimo di una vicenda avvenuta all’inizio degli anni cinquanta, continuata fino ai primi anni sessanta, in piena guerra fredda tra gli Stati Uniti d’America e l’Unione Sovietica. Una vicenda di spionaggio, ma non banale come può essere quella di informatori inseriti nella società del paese nemico. Qui si parla di un pilota americano che, a bordo di un aereo, sorvola il territorio sovietico e fotografa i siti più segreti, dove si pensa possano esistere infrastrutture capaci di nascondere armi nucleari.
Il pilota è un normale ragazzo, nato e vissuto in campagna da una famiglia di umile lignaggio. La sua storia è altrettanto normale: si arruola in aviazione e poco dopo finisce in un gruppo di piloti ai quali viene affidato un compito speciale. E qui comincia l’avventura, che all’inizio sembra normale routine, ma poi…
L’aereo, invece, non è normale.
E’ un jet, uno di quelli del primo periodo. Subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale gli aerei ad elica furono sostituiti dai jet, i cui motori a reazione consentivano di raggiungere velocità ed altezze nettamente maggiori. E già questo è un fatto speciale.
L’autonomia dei jet è ancora oggi molto limitata. Questo aereo, invece, può rimanere in volo moltissime ore.
Normalmente i jet raggiungono una quota massima di dieci o dodicimila metri. Forse qualcosa oltre. Nel mondo intero, nessuno, in quel periodo era in grado di salire di più.
Questo aereo vola tranquillamente a ventuno mila metri, ma potrebbe raggiungere i ventiseimila. Infatti il pilota usa una tuta speciale che ricorda le odierne tute spaziali.
Le ali dei jet sono normalmente piuttosto corte. Questo jet ha ali lunghissime, da aliante. Un motoaliante, per essere più precisi. Ma molto, molto più grande.
A bordo non ci sono soltanto gli strumenti tipici degli aerei. C’è un autopilota capace di seguire un percorso estremamente preciso. Ci sono apparati fotografici capaci di riprendere immagini del suolo assolutamente nitide. Sorprendentemente dettagliate.
Il nome dell’aereo è: U-2.
Nel periodo in cui l’U-2 veniva impiegato per i voli sull’Unione Sovietica, a quella quota, era difficile da rilevare. Spesso non veniva neanche visto. E poi non esistevano aerei in grado di salire lassù per abbatterlo.
Neanche i missili potevano raggiungerlo e colpirlo con la necessaria precisione.
Ma un giorno l’impensabile accade. Un missile lo raggiunge. Non lo colpisce direttamente, ma gli esplode vicino. Tanto basta perché l’aereo venga destabilizzato e cada in una specie di vite. Il pilota si lancia e atterra sul territorio sovietico. Ne segue un incidente diplomatico molto complesso.
Il pilota si chiama Francis Gary Powers. E adesso molti possono ricordare qualcosa, perché questo episodio ha impressionato il mondo intero in quegli anni.
Powers venne scambiato, alla fine, con una spia sovietica catturata in America e tornò a casa.
Il libro comincia con la descrizione di questo scambio. Poi la storia ritorna all’inizio e si snocciola lungo tutti i capitoli successivi.
L’aspetto straordinario dell’egregio lavoro dei due autori è l’accuratezza dei dettagli. Segno evidente che hanno avuto a disposizione ogni possibile documento. La lettura ne risulta davvero piacevole.
Un punto che mi ha interessato notevolmente riguarda l’abbattimento dell’U-2. Il pilota aveva a disposizione il classico seggiolino eiettabile, sebbene non certo del tipo perfezionato come quello dei caccia militari odierni. Ma sapeva anche che al meccanismo di espulsione del seggiolino era collegato un sistema di distruzione dell’aereo. Per paura di esplodere mentre si eiettava, Powers apre la cappottina e si lancia in maniera tradizionale, anche se con notevole difficoltà e a quota ormai piuttosto bassa.
All’aeroporto di Ciampino, qualche decennio fa, atterrò un U-2. Non credo fosse più un aereo-spia. Piuttosto poteva essere davvero usato per rilevamenti atmosferici. Veramente, anche durante il suo impiego come aereo-spia veniva presentato allo stesso modo. Ma a Ciampino chiesi di salire a bordo. C’era una scaletta e mi dissero che potevo salire. La cabina non era molto spaziosa. Le ali erano lunghissime e sostenute da ruotine aggiuntive, dato che il carrello era monotraccia, un po’ come il motoaliante Falke. Ma le punte delle ali arrivavano davvero molto vicine al suolo, come piegate sotto il loro stesso peso. Ricordo con particolare vividezza una specie di tasca laterale dove c’erano un certo numero di albi di fumetti in inglese.
Il pilota, evidentemente, cercava di passare il tempo e di vincere la noia delle lunghe ore a quote così enormi da vedere ben poco della terra.
Ho visto decollare quell’U-2. In volo, il diedro negative delle ali era molto meno evidente.
Un libro da leggere e tenere nella propria libreria anche questo. Un libro che parla di spionaggio, ma anche di diplomazia al lavoro, per cercare di mantenere equilibri delicati fra nazioni potenti, i cui capi stanno costantemente con il dito su un pulsante che potrebbe scatenare l’apocalisse.
Questo è il pericolo che abbiamo corso e che corriamo anche adesso.