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Recensione dei Libri aeronautici

Il padrone del cielo

il padrone del cielo - copertinatitolo: Il padrone del cielo

autore: James Edgar Johnson (Johnnie Johson)

editore: Longanesi & C.

anno di pubblicazione: 1959

ISBN: non disponibile





Da pochi giorni mi è capitato per la prima volta tra le mani questo libro. Avevo letto moltissimi altri libri riguardanti la Seconda Guerra mondiale e in particolare la storia delle battaglie aeree in Europa. Già Pierre Clostermann, con il suo “La Grande Giostra”, aveva descritto tutta la guerra, vista dal suo posto privilegiato nella cabina di pilotaggio del suo Spitfire prima e dei suoi Typhoon e Tempest dopo.

Spitfire ala corta
Gli Spitfire furono costruiti in grandissimo numero e in moltissime versioni contraddistinte, secondo la numerazione della RAF, con l’indicativo MK. Non stupisce perciò che esista, a tutt’oggi, un notevole numero di velivoli perfettamente volanti in ogni angolo del mondo, alcuni restaurati, altri costruiti ex novo e motorizzati con motori moderni. Innumerevoli anche gli Spitfire conservati nei musei dell’aviazione tra cui, in Italia, ricordiamo quello presente a Vigna di Valle (provincia di Roma, sulle rive del lago di Bracciano), sede del Museo Storico dell’Aeronautica Militare italiana. Lo Spit, infatti, prestò servizio anche nella rinata Arma azzurra.

Tutti coloro che hanno scritto libri su questo argomento avevano avuto cura di cominciare proprio dall’inizio, dalla scuola di volo e successivamente dalla battaglia d’Inghilterra, per proseguire negli anni successivi e continuare poi con lo sbarco in Normandia e la lunga marcia verso Berlino. Tanto era il mio interesse per questo argomento che l’ho affrontato con diversi tipi di approccio. Come appassionato di fotografia ero in possesso di tanti libri scritti da famosi fotoreporters di guerra, primo fra tutti Robert Capa. L’approccio fotografico mi ha portato a collezionare centinaia di foto della guerra. E successivamente, da appassionato di viaggi, nel corso degli anni ho visitato ripetutamente i luoghi che avevo trovato descritti da tutti questi autori nei loro libri, fotografici e Spitfire in picchiatanon.

Spitfire visto da sotto
Una serie di bellissimi scatti che pongono in risalto la forma assai particolare dell’ala dello Spitfire, cosiddetta “a pianta ellittica”. Questa è una caratteristica tutta dello Spitfire perché non fu mai più adottata su altri velivoli, salvo il tedesco Heinkel He 70 che però – ad onore di storia – volò ben prima dello Spit (1932 il tedesco mentre solo 1936 per il britannico) dunque, a ben vedere, fu lo Spitfire a ispirarsi all’Heinkel e non viceversa. Il mistero è comunque presto svelato: la progettazione dell’ala fu appannaggio di sir Beverley Shenstone che, prima della guerra, aveva fatto parte dello studio di progettazione diretto da Ernst Heinkel. L’ellisse – secondo Shenstone – era semplicemente la forma che avrebbe permesso di ottenere contemporaneamente un’ala sottile – la più sottile possibile ma strutturalmente solida – con uno spazio adeguato all’interno per alloggiarvi l’armamento – non proprio minuto – e il carrello. Negli anni successivi, quando gli fecero notare l’imbarazzante somiglianza dell’ala dell’Heinkel He 70, Shenstone fu sempre pronto a ripetere che la famosa ala dello Spitfire non fu copiata. Oggi, a distanza di tanti anni, possiamo credergli?

Spitfire ala a pianta ellitticaHo seguito le orme di molti di questi autori. Sono stato dove erano stati loro e ho visto i luoghi. Ho parlato con le persone. Oggi tutto è cambiato. Ma si riconoscono ancora quasi tutti. Ho fatto migliaia di foto e le ho confrontate con quelle d’epoca. Il risultato, in moltissimi casi, è stato entusiasmante.

Quanto sopra per arrivare a dire che, cominciando questo libro, conoscevo già benissimo i luoghi e la storia dove Johnnie Johnsonn ha ambientato tutti i suoi racconti.

Lui inizia da quando, giovanissimo, cercava di entrare nella Riserva Volontaria Inglese o nell’Aviazione Ausiliaria, nella speranza di poter poi proseguire la carriera nella RAF. Non si sa come sarebbero andate le cose se la guerra non avesse creato la necessità di reperire tanti piloti. Ma di fatto questa necessità si è presentata quasi subito e Johnnie ha iniziato la sua vita di pilota militare, prima con il grado di sergente e poi è passato a quello di sottotenente per proseguire la carriera come ufficiale pilota.

Spitfire in volo
La mente geniale che concretizzò l’idea di un caccia purosangue monoplano, moderno, veloce e con grande potenza di fuoco appartenne al progettista britannico sir Reginald Joseph Mitchell. Egli era diventato famoso per aver dato vita agli idrocorsa (idrovolanti per competizioni di velocità) progettati e costruiti esclusivamente per partecipare alla celebre alla Coppa Schneider. L’albo dei vincitori della Coppa contiene più volte il codice dei suoi velivoli (il Supermarine S.5, l’S.6 e l’S6.B) intervallati dai quelli dei nostri italianissimi Macchi

Sin dalle prime pagine ho ritrovato la descrizione della vita delle scuole di volo che tanti altri hanno riportato nei loro libri. E quasi subito, mi è capitato di leggere una sua frase che tanti altri piloti hanno scritto e che per un pilota come me ha un sapore tutto particolare:

Non potrò mai dimenticare quel giorno in cui feci il mio primo volo sullo Spitfire…”.

E questo pezzo, ovviamente, l’ho divorato con gli occhi…

Spitfire cacciabombardiere
Al Supermarine Spitfire non fu risparmiato neanche il compito di cacciabombardiere allorquando la RAF, da prevalente attività difensiva, cominciò a utilizzarli in modalità offensiva contro gli obbiettivi crocenero dislocati sul territorio francese. La foto ritrae appunto un Supermarine Spitfire Mk IXE “AGP” pilotato A.G. Page, Wing Commander del 125° Wing mentre si accinge al decollo per una sortita. Il velivolo è dotato di una bomba da 500 libbre collocata sotto la fusoliera e da due bombe da 250 libbre posizionate nei piloni subalari. Da notare nel ventre delle semiali anche le bande da invasione bianco-nere, segno evidente che questo velivolo fu utilizzato per le operazioni dello sbarco in Normandia

Nei capitoli successivi, nei racconti che vi sono contenuti, ho ritrovato l’atmosfera dell’epoca, i luoghi e la storia dell’epoca, che avevo conosciuto già attraverso le altre letture. Ma proprio per questo mi è sembrato di tornare dopo tanto tempo in posti familiari. Perfino i personaggi, visti con gli occhi di questo pilota, erano gli stessi visti da altri, o conosciuti direttamente attraverso i loro propri libri. Alcuni di questi personaggi, piloti e non, avevano anche prestato la loro opera come controllori ante litteram, guidando gli stormi ad intercettare i velivoli nemici per mezzo del radar di allora. Sono diventati famosi per questo e i loro nomi compaiono anche qui, dando al lettore l’impressione di ritrovare degli amici.

Spitfire a terra
Lo Spitfire fu il velivolo con il quale e grazie al quale molti piloti divennero degli assi. Oltre a Johnnie Johnson che militava nella Tangmere Wing, è impossibile non ricordare il comandante dell suo stesso stormo: Douglas Bader, il famoso pilota con le protesi che sarà proprio l’autore della prefazione de: “Il padrone dell’aria”. Poi, ovviamente, Pierre Clostermann. L’asso francese che volò con i colori della RAF, divenuto famoso anche a livello editoriale in quanto autore di romanzi d’aviazione di universale successo come “La grande giostra” o “Fuoco dal cielo“. Inoltre i pressoché sconosciuti George Beurling, asso canadese, e Colin Gray, neozelandese. Al primo furono accreditati 31 abbattimenti, di cui ventisei sull’isola di Malta. Ma è soprattutto la sua storia personale che merita di essere riportata brevemente: sopravvisse a diverse ferite, malattie varie (tra cui una grave forma di dissenteria) e addirittura a un disastro aereo (un bombardiere B-24 che lo trasferiva da Malta a Gibilterra assieme ai suoi compagni per una breve licenza precipitò). Morì invece nel ‘48, nel rogo di un aereo civile durante l’atterraggio sull’aeroporto dell’Urbe di Roma. Non fu mai svelato il mistero attorno a questa vicenda inspiegabile … certo è che aveva cominciato a trasferire residuati bellici in medio Oriente e, all’epoca, si sospettò che avesse accettato di volare per l’Aeronautica Militare israeliana. Dunque non fu mai escluso che fosse stato eliminato ricorrendo al sabotaggio del suo velivolo. Il secondo asso è stato invece a lungo pressoché ignorato, ancora per anni dopo la fine della guerra. Con il suo Spitfire, durante la battaglia d’Inghilterra, abbatté 14 aerei tedeschi, in gran parte caccia. In seguito, combatté nei cieli del Nord Africa e sull’isola di Malta.

C’è un altro elemento davvero importante ed oltremodo interessante in questo libro: la descrizione minuziosa ed accurata delle strategie e delle tecniche di combattimento aereo. Qualunque pilota nato dopo la guerra vorrebbe sapere come volavano questi aviatori e come combattevano, come si lanciavano da un aereo colpito, cosa provavano nel vedere un caccia nemico andare in pezzi sotto i loro colpi e cadere al suolo. Oggi per noi è una cosa impensabile ma in quei giorni era consuetudine. E quel tipo di guerra aerea, dalla quale deriva quella odierna, non tornerà mai più.

Spitfire visto dall'ogiva elica
Una rara e partcolarissima immagine dello Spitfire ripreso dalla punta dell’ogiva dell’elica. Dire che avesse una linea filante è a dir poco banale.

Sì, decisamente interessante. Entrare nella mentalità di tanti decenni fa, in una situazione drammatica come quella di guerra e soprattutto di guerra aerea, dove già il volo era un pericolo. Non dimentichiamo che il nostro autore volava su un aereo difficile, per quanto stupendo. Non era un mezzo di svago come lo sono oggi i nostri aeroplanetti da turismo o da diporto. Erano strumenti di guerra, di difesa e di attacco, avevano mitragliatrici, otto nel caso dello Spitfire, oppure quattro cannoncini, capaci di un volume di fuoco terrificante. Sotto le ali si potevano collocare delle bombe, anche da duecentocinquanta chili. Tutto questo rendeva le operazioni molto delicate, il decollo e tutte le altre fasi del volo avevano ben altra valenza di quella di un volo di piacere. Eppure i piloti di allora descrivono i loro voli come estremamente piacevoli, il cielo blu, le nubi intorno alle quali giravano o dentro le quali si precipitavano per nascondersi quando serviva, per poi uscirne e attaccare fulmineamente qualche squadriglia nemica. C’era in loro la stessa passione che c’è oggi in noi piloti moderni.

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L’autore del libro, Johnnie Johnson, dichiarò che lo Spitfire fu “il miglior caccia difensivo convenzionale della guerra”. In effetti, ne furono costruite così tante e variegate versioni che, piuttosto che ritenere il velivolo della Supermarine come un modello unico, si può affermare tranquillamente che si tratti piuttosto di una vera e propria famiglia di velivoli, adattata via via per ogni necessità pratica. Insomma, sulla medesima base solida e versatile dello Spit, gli ingegneri britannici riuscirono a creare tanti diversi velivoli con i quali furono in grado di coprire le varie esigenze operative della RAF. L’unico aspetto che li accomunava restò comunque la sua prerogativa di caccia difensivo enfatizzato dall’asso britannico giacchè il raggio d’azione del velivolo non fu mai sufficiente per le lunghe missioni offensive strategiche.

wing leader copertina edizione recente
Il nome Spitfire, che in italiano si può tradurre letteralmente in “sputafuoco”, secondo la storia – che ha il sapore un po’ della leggenda -, è legato indissolubilmente al caratterino bellicoso e oltremodo vivace della sig.na Ann Mac Lean. Quando si trattò di attribuire un nomignolo al nuovo caccia della Supermarine, l’Air Ministry (il Ministero dell’Aeronautica) suggerì infatti alcuni nomignoli piuttosto improbabili tra cui: Shrew (Megera), e Shrike (Averla). Allorchè il problema fu ventilato a Sir Robert MacLean, il direttore della Vickers-Armstrongs che all’epoca costruiva il velivolo nei suoi stabilimenti, egli non esitò un istante: “little spitfire” (piccola sputafuoco). Era giusto appunto il nomignolo che aveva affibbiato alla figlia Ann per indicarne, in stile puramente “english”, la personalità alquanto impetuosa (per non dire velenosa). E Spitfire fu!

Johnnie Johnson descrive alcuni piloti che sono diventati famosissimi all’epoca e lo sono ancora. Uno di questi è il colonnello Douglas Bader, pilota pluridecorato con alcune delle massime onorificenze. Ma non sono queste che lo hanno reso famoso. Il colonnello Bader aveva perduto le gambe in un incidente e volava con delle protesi, evidentemente neanche troppo sofisticate come potrebbero essere quelle moderne. Nel corso di una battaglia aerea sulla Francia del Nord il colonnello Bader venne colpito e fu costretto a lanciarsi. Nell’emergenza perdette una delle protesi. Quando i tedeschi lo catturarono scoprirono anche di chi si trattava. Lo fecero prigioniero, ma riuscirono anche a far sapere agli Inglesi che Bader era sopravvissuto al lancio, che si trovava in una determinata città e che aveva bisogno di una protesi e offrirono un corridoio sicuro per un aereo inglese che volesse attraversare la Manica per lanciare la protesi in un punto stabilito nei dintorni di quella cittadina. Una storia davvero avvincente.

Spitfire a colori
Costruito in 22.890 unità e 29 versioni diverse, fece il suo primo volo nel marzo del ’36 mentre entrò ufficialmente in servizio nella RAF (Royal Air Force – Aeronautica Militare britannica) circa due anni più tardi. Assieme all’Hawker Hurricane fu il caccia da difesa aerea che si oppose a violenti attacchi della Luftwaffe (l’Aeronautica Militare tedesca) nel corso della Battaglia d’Inghilterra.

Un altro pilota era stato ferito durante un combattimento aereo e aveva perduto un occhio. Dopo la convalescenza tornò a volare. Si potrebbe credere, con il senno di oggi, che una simile menomazione non rendesse possibile riottenere l’idoneità al volo. Ma erano altri tempi e c’era la guerra. I piloti esperti erano oro, perciò il nostro pilota, non solo ebbe l’idoneità (si disse che un veterano con un occhio solo valeva molto più di un pilota inesperto con due), ma fece anche diversi voli notturni!

Wing leader vecchia copertina
Lo Spitfire godette la fama di ottimo velivolo da caccia presso i piloti britannici e in egual misura il rispetto dei piloti dei piloti tedeschi che contro di esso si scontrarono. La leggenda narra che il Reichmarschall (maresciallo del Reich) Hermann Göring, capo supremo della Luftwaffe (l’Aeronautica Militare tedesca), chiamò a rapporto tutti i comandanti dei reparti caccia e bombardieri impegnati nell’operazione Adlerangriff (tradotto letteralmente: “Attacco dell’Aquila”) che avrebbe dovuto annientare la RAF (Royal Air Force – l’Aviazione Militare britannica) e lasciare praticamente indifesa l’isola britannica all’invasione delle forze anfibie e paracadutate dei tedeschi . Molto contrariato per le sorti della Battaglia d’Inghilterra, nottetempo, li radunò nel suo bunker e li passò in rassegna chiedendo loro di cosa necessitassero per avere definitivamente la meglio sugli avversari. Il comandane di un reparto caccia rispose che occorreva estendere l’autonomia dei caccia Messerschmitt Bf 109, un secondo chiese motori più potenti sempre per il Bf 109, poi venne la volta di Adolf “Dolfo” Galland, già famoso asso della caccia tedesca. Con freddezza rispose: “Uno stormo di Spitfire”. Fu l’inizio della fine della carriera di Galland.

Un libro indimenticabile, che andrebbe letto anche in lingua originale, per scoprire le espressioni tipiche di quegli anni, lo slang e le frasi idiomatiche usate dai piloti che hanno combattuto in quei giorni gloriosi.

Wing leader copertina moderna
Il nome Spitfire, che in italiano si può tradurre letteralmente in “sputafuoco”, secondo la storia – che ha il sapore un po’ della leggenda -, è legato indissolubilmente al caratterino bellicoso e oltremodo vivace della sig.na Ann Mac Lean. Quando si trattò di attribuire un nomignolo al nuovo caccia della Supermarine, l’Air Ministry (il Ministero dell’Aeronautica) suggerì infatti alcuni nomignoli piuttosto improbabili tra cui: Shrew (Megera), e Shrike (Averla). Allorchè il problema fu ventilato a Sir Robert MacLean, il direttore della Vickers-Armstrongs che all’epoca costruiva il velivolo nei suoi stabilimenti, egli non esitò un istante: “little spitfire” (piccola sputafuoco). Era giusto appunto il nomignolo che aveva affibbiato alla figlia Ann per indicarne, in stile puramente “english”, la personalità alquanto impetuosa (per non dire velenosa). E Spitfire fu!

Johnnie Johnson non risparmia critiche alla strategia applicata durante la Battaglia d’Inghilterra. Così come non risparmia lodi per il colonnello Bader.

La presentazione del libro, ad opera proprio del colonnello Bader, è breve e bellissima. Vale la pena riportarla qui, perché offre un’idea chiara della qualità di questo libro.

Spitfire al tramonto
Che lo Spitfire sia un aeroplano fotogenico lo dimostrano le numerosissime e bellissime fotografie d’epoca che si trovano facilmente anche oggi nel web tuttavia, un’immagine così ben riuscita si deve solo alla giusta combinazione apparecchio fotografico, tramonto e Spitfire restaurato e volante. Oltre ad un provvidenziale scatto eseguito in epoca “moderna”.

Scrive Bader:

Caro Johnnie, non avrei mai creduto che tu sapessi leggere e scrivere. Nonostante quel che scrivi di me, penso che il tuo sia uno splendido libro nonostante quella dissertazione sulla strategia della Battaglia d’Inghilterra, con la quale assolutamente non concordo. Mi piace il tuo stile, che si mantiene nella tradizione dei nostri famosi predecessori della prima guerra mondiale, Ball, McCudden, Mannock e Bishop. Non dobbiamo mai dimenticare che la nostra generazione di piloti imparò proprio da loro le regole fondamentali del combattimento aereo; quando ero allievo a Cranwell, leggevo e rileggevo più e più volte i loro scritti che non ho, poi, mai dimenticato. Sono certo che questo tuo libro sarà letto con lo stesso entusiasmo dalle future generazioni di allievi, alle quali lo raccomando. Tuo Douglas. Londra 7 giugno 1956”.

Una presentazione che non potrebbe essere più efficace nel suo compito.



Recensione a cura di Evandro Detti (Brutus Flyer)





Il pilota di ferro

il pilota di ferro - copertina 01titolo: Il pilota di ferro

autore: Hans Ulric Rudel

editore: Longanesi & C.

anno di pubblicazione: 1964

ISBN: non disponibile





“Ho descritto la mia lotta contro l’Unione Sovietica come avrebbe potuto farlo qualunque altro soldato che, compiuto il proprio dovere, avesse avuto la fortuna di salvare la vita. […]

Queste pagine non debbono essere interpretate come la glorificazione della guerra e non sono destinate a riabilitare un certa classe di persone o i loro metodi.

I fatti vi sono narrati per quello che valgono, con scrupolosa verità e con assoluta fedeltà.

Dedico il libro ai morti di questa guerra e alla nostra gioventù, che sta soffrendo dell’orribile confusione del dopoguerra. Essa non deve perdersi d’animo. Ma aver fede nella Patria e fiducia nell’avvenire, perché solo chi si dà per vinto è veramente perduto

il pilota di ferro risguardo interno
Il risguardo interno del volume contiene – come di consueto – una breve biografia del protagonista nonchè un suo fotoritratto. Nel web ci siamo imbattuti anche in alcune foto a colori che ritraggono Rudel e – udite udite – anche un video a colori che lo mostra senza la protesi alla gamba a colloquio informale con degli ufficiali alleati. Sicuramente è stato girato nel periodo che successivo alla resa e che precede il ritorno a casa dell’asso. Per inciso, egli nacque nell’Alta Slesia, regione che fu inserita nel territorio della Polonia dopo la II Guerra Mondiale

Si chiude con questa breve nota conclusiva il libro che ha come protagonista una delle figure più affascinanti della storia dell’Aviazione militare, in particolare tedesca, che, durante tutto il corso della II Guerra Mondiale, animò i cieli dell’Est Europa. Essa porta il nome altisonante di: Hans Ulrich Rudel.

Per inquadrare l’enormità di questo celebre pilota sarà sufficiente riepilogare in modo asettico i numeri che lo riguardano:

– 2530 missioni di bombardamento in picchiata, attacco al suolo, caccia-carri e ricognizione

– 519 carri armati distrutti (prevalentemente T34 russi) e 150 circa, tra cannoni contraerei e controcarro

– 800 circa, mezzi di trasporto e blindati non meglio definiti

– 11 vittorie aeree (caccia o comunque velivoli da combattimento)

– 70 mezzi da sbarco affondati

– 1 cacciatorpediniere, 2 incrociatori e 1 corazzata (la Marat) affondati

– centinaia di ponti, bunker e linee di rifornimento nemiche

A fronte di questi numeri impressionanti, Adolf Hitler in persona volle decorare Rudel con un’onorificenza appositamente coniata per lui, pertanto egli è ricordato quale unico militare tedesco, fra tutte le armi, ad aver ricevuto la:

 Croce di Cavaliere della Croce di Ferro con Fronde di Quercia in Oro, Spade e Diamanti.

onorificenza Rudel
La decorazione, unica, mai concessa ad un militare tedesco, fu consegnata personalmente da Hitler il 1 gennaio 1945 nel corso di una brevissima cerimonia, presenti i Capi di Stato Maggiore di Marina, Esercito e, ovviamente Aeronautica, certo Hermann Goering, che – racconta Rudel nel suo libro – gongolò giulivo. Per inciso, Berlino era sotto continui bombardamenti alleati, i russi stavano per compiere l’assalto finale, la guerra era irrimediabilmente perduta ma Goering si pavoneggiava davanti ai suoi colleghi delle altre forze armate perchè un suo uomo aveva meritato la più alta onorificenza!?

Rudel fu un soldato instancabile e incorruttibile: benché i suoi comandanti e lo stesso Fuhrer tentarono più volte di allontanarlo dal fronte con incarichi meno pericolosi – e a più alto contenuto propagandistico -, egli volò sul fronte ininterrottamente dall’alba al tramonto, tutti i giorni del conflitto in cui fu possibile alzarsi in volo; compì innumerevoli sortite anche nello stesso giorno, sempre in prima fila, pilotando principalmente uno Stuka e, per una parte della sua carriera, al comando del suo stormo, il famoso StukaGeschwader 2 Immelmann, soprannominato anche “circo Rudel” a seguito delle funamboliche missioni che svolse questo reparto.

Non lo fermò una grave forma d’itterizia, ferite varie, l’amputazione di una gamba fin sotto al ginocchio, i numerosi abbattimenti provocati dalla contraerea russa e talvolta dalla caccia, la rocambolesca fuga dalle linee nemiche con annessa ferita alla spalla e neanche la taglia di centomila rubli che Stalin pose sulla sua testa.

Ma “l’aquila del fronte dell’Est” – così fu soprannominato Rudel – non appartenne alla schiera dei “nobili” piloti da caccia, ossia a coloro che nel corso di un sola missione riuscivano ad abbattere anche più velivoli avversari (magari lenti e poco difesi com’erano i bombardieri russi), no, egli è ricordato come un asso della Luftwaffe (l’Aeronautica Militare tedesca) nella specialità del bombardamento in picchiata, della caccia ai carri armati e di supporto alle truppe di terra.

rudel in cabina
Uno scatto che riprende l’asso della Luftwaffe a bordo – probabilmente – del suo amato Stuka. In effetti Rudel effettuò diverse missioni pilotando anche il famoso Focke-Wulf FW 190 nella versione cacciabombardiere ma non vi si trovò mai a suo agio come con lo Junker Ju-87 Stuka. Nelle pagine del suo libro racconta di averne utilizzati anche più di uno durante la stessa giornata in quanto rientrava dalle sortite con il velivoli talmente messi male in arnese da non poterli utilizzare per la sortita successiva.

Il nome di Rudel è infatti legato in modo quasi inscindibile a quello dello Junker Ju-87 Stuka, una macchina da guerra inizialmente formidabile che Rudel rese strepitosa quando sembrava ormai fin troppo superata. Nato come bombardiere a tuffo (l’unico velivolo, fra tutti quelli utilizzati dai belligeranti del II conflitto mondiale, che poteva eseguire picchiate pressoché verticali), era dotato di aerofreni e di un sistema che lo rimetteva automaticamente in volo orizzontale qualora il pilota fosse svenuto a causa della violenta richiamata. Ebbene, Rudel ne esaltò le doti di precisione, precursore di quello che, oggi, chiameremmo “bombardamento chirurgico”; durante la Battaglia d’Inghilterra, quando, i violenti scontri con i caccia della RAF, ne dimostrarono la vulnerabilità a causa della sua lentezza e della sua limitata manovrabilità, sempre Rudel credette nella sua riconversione in Kanonenvogel (letteralmente: uccello con cannoni), ossia in un micidiale  velivolo anticarro tanto da trasformarlo nel peggior incubo dei carri armati sovietici.

juka rudel 01
Ecco la versione “Knonenvogel” (caccia-carri) del famoso Stuka utilizzato da Rudel sul fronte dell’Est. Si noti la caratteristica mimetizzazione maculato bianca, ideale per il terreno nevoso in cui operò. La capacità operativa di questo velivolo – racconta Rudel – era spesso consentita dai pneumatici decisamente più larghi di quelli installati sugli altri velivoli della Luftwaffe schierati sul fronte russo. Questa particolarità permetteva agli Stuka di potersi muovere anche sulle piste fangose di molti aeroporti.

 

Insomma, Hans Ulrich Rudel fu un guerriero indomabile e instancabile, un esaltato professionista di morte, un impavido stacanovista del combattimento aria-terra, il soldato perfetto del III Reich: resistente alla fatica fisica e psichica, al dolore, alla fame, al freddo.

Eppure, leggendo l’inconsueta prefazione del libro a cura dei suoi genitori, certo reverendo Johannes e mamma Martha, comprenderemo che la guerra provocò in lui una sorta di metamorfosi kafkiana. Così lo ricorda la genitrice:

[…] era un fanciullo delicato e nervoso.

Fino all’età di dodici anni dovetti tenere la sua mano durante i temporali.

Sua sorella maggiore era abituata a dire: “Uli non sarà mai niente di buono nella vita: ha paura di andare in cantina da solo!”.

Proprio questa paura e fragilità spinsero Uli sulla strada del coraggio e della tenacia.

Egli si dedicò agli sport e talvolta trascurò i suoi doveri di scolaro[…]

E per fortuna! … ci viene da commentare.

D’altra parte, anche la sua carriera militare cominciò in modo assai stentato, tra enormi difficoltà. Le sue capacità di pilota verranno giudicate così insufficienti dai suoi istruttori al punto da relegarlo, durante la campagna di Polonia e di Francia, a semplici voli di ricognizione mentre non verrà ritenuto sufficientemente “allenato” per l’impiego operativo durante le ultime fasi della Battaglia d’Inghilterra. Poi, d’un tratto ecco che la larva diventerà libellula.

Rudel, nel libro, lo spiega così:

[…] tutto ad un tratto, dopo un mese esatto, un bel mattino mi dico: “Basta, adesso ho capito tutto! A cominciare da oggi farò del mio cassone tutto quello che vorrò!”. E così faccio.

I miei due istruttori rimangono sorpresi; adesso possono svolgere tutto il programma di addestramento trascinandomi in tutte le figure acrobatiche: resto letteralmente incollato ai loro apparecchi sia che si tratti di un looping, di una picchiata o di un rovesciamento. Quanto alle bombe, le piazzo tutte entro un cerchio di dieci metri e, negli esercizi di tiro a volo, raggiungo novanta bersagli su cento colpi. Per farla breve, sono arrivato al punto “giusto” e mi si promette di lasciarmi partire per il fronte [..]

Ju 87 cacciacarri
Un bellissima inquadratura a terra di uno Stuka equipaggiato dei famosi due cannoni BK 37 da 37 mm che lo resero una formidabile piattaforma di tiro controcarro. In realtà – spiega Rudel nel libro – non era così facile distruggere i carri armati sovietici in quanto fortemente corazzati. L’unica speranza di averne ragione era di colpire le parti meno protette come la posteriore (ove era alloggiato il motore). Già le fiancate erano più ostiche anche se, contendo il carburante o il munizionamento, se perforate, provocavano l’esplosione quasi immediata del mezzo.

Dopodiché nascerà il mito Hans Ulrich Rudel.

Aggiungere altro a proposito di questa icona del mondo dell’aviazione militare lo riteniamo oltremodo superfluo. Certo è che la lettura di questo libro indurrà nel lettore una morbosa curiosità nel sapere di più e nel conoscere le sorti di Rudel dopo la fine della guerra. Almeno a noi così è accaduto … e ne abbiamo scoperte di aspetti interessanti – credeteci -.

Dal punto di vista squisitamente letterario – dobbiamo ammetterlo – l’editore Longanesi, nel lontanissimo 1958, non avrebbe potuto inventare titolo più azzeccato per sintetizzare il contenuto di questo volume che ha un solo protagonista, unico e incomparabile; né sarebbe mai riuscito a trovare un appellativo più consono da affibbiare al nostro asso: ”Il pilota di ferro”.

Noi – certi di non esagerare – avremmo optato per Il pilota d’acciaio o qualunque altro metallo/lega di metalli purché ad alta resistenza … ad ogni modo, anche il ferro è comparabile alla tenacità, alla duttilità, alla durezza e anche tutte le altre proprietà tecnologiche dimostrate dal teutonico Hans.

il pilota di ferro - copertina 02
Una delle varie copertine che ebbe “Il pilota di ferro” nel corso delle varie edizioni pubblicate dall’editrice Longanesi. La foto propone un improbabile gruppo di ben sei Stuka in picchiata, tutti perfettamente uguali, tutti con le stesse ombre, tutti con lo stesso angolo di discesa … si tratta evidentemente di un fotomontaggio di scarsa qualità … e dire che le immagini che ritraggono gli Stuka in azione non dovrebbero essere mai mancate  perchè fu molto fotografato sui fronti – praticamente tutti – in cui operò

Tornando al libro – occorre ricordarlo – quando uscì in Italia, ebbe un notevole successo tanto che la copia in nostro possesso – cartonata con rilegatura rifinita – riporta la dicitura. “terza edizione”. Inoltre fu riproposto successivamente in almeno due versioni dei celebri Super Pocket, sempre dalla stessa casa editrice e, giusto nel 2006, l’Editoriale Domus pensò bene di offrirlo ai lettori della sua rivista Volare, all’interno di un cofanetto intitolato: Eroi del cielo. Per inciso, gli altri due volumi erano: Io sono il Barone Rosso di Manfred Von Richthofen e La grande giostra di Pierre Clostermann.

Infine, giusto nel 2011, l’Associazione Culturale Sarasota ripubblicò il diario di Rudel tale e quale all’originale ma sotto le mentite spoglie di: L’asso degli Stuka, segno evidente di un certo interesse editoriale nei confronti di questo volume.

Se poi consideriamo che libro di Rudel fu pubblicato in diverse lingue (sicuramente in inglese, francese, e spagnolo) oltre che al tedesco e all’italiano, appare evidente che questa autobiografia – o almeno così ufficialmente dichiarata – deve considerarsi a tutti gli effetti un classico della letteratura aeronautica mondiale, uno di quei volumi che gli appassionati di aviazione hanno letto almeno una volta nel corso della loro esistenza o che, più verosimilmente, custodiscono in bella mostra nella loro libreria.

stuka pilot
Ecco la copertina della versione “americanizzata” del libro di Rudel

In verità, attorno a questo volume aleggia un piccolo mistero che una nostra breve indagine editoriale ha presto dipanato e di cui intendiamo rendervi partecipi, non certo per sminuire la figura del “pilota” Rudel, semmai per ridimensionare quella dello “scrittore” Rudel. Di sicuro per rendere giustizia storica a questo libro.

Ebbene, se per l’edizione italiana si deve concedere merito al lavoro di traduzione di certo colonnello Corrado Ricci, è pur vero che non ci è dato sapere ufficialmente da quale volume in particolare fu tradotto: molto stranamente l’editore se ne dimenticò; tuttavia, la risposta è presto trovata … si tratta del libro intitolato: Stuka pilot, pubblicato per la prima volta nel ’57, in inglese, negli Stati Uniti e poi diffuso in tutto il mondo editoriale di lingua anglo-americana.

il pilota di ferro copertina superpocket
Grazie ai Superpocket, alla Longanesi deve essere riconosciuto il merito di aver reso disponibile una notevole quantità di volumi a prezzi decisamente abbordabili e dal formato davvero tascabile. “Il pilota di ferro”, probabilmente, fu uno di quelli di maggior successo. Qui la copertina di una delle due edizioni pubblicate secondo questa formula.

E fin qui, l’alone di mistero è ben sottile; diventa invece più torbido nel momento in cui scopriamo che, purtroppo, si trattò solo di una rielaborazione – non sapremmo dire quanto “addomesticata” – della prima versione del libro di Rudel avente invece titolo: Trotzem, pubblicato nel novembre 1949, dall’editore Durer-Verlag di Buenos Aires, Argentina.

Ora, cosa ci facesse il nostro ex cacciatore di carri armati in Argentina … beh, ve lo lasceremo scoprire nel corso delle vostre ricerche. A livello editoriale rimane però un dato certo: non sarà dall’edizione originale – quella più verace – bensì da quella edulcorata secondo il cattivo gusto tipicamente statunitense, che verranno derivate tutte le edizioni tradotte nelle altre lingue, ivi compresa quella in francese. Edizione che, peraltro, si fregerà di una prefazione a cura proprio del famoso Pierre Clostermann, asso della caccia francese e divenuto amico di Rudel dopo la guerra.

JUNKERS JU 87 - cacciacarri visto da sotto
Una foto spettacolare che ritrae uno Stuka dal basso e in virata. Si può notare la particolare forma in pianta dell’ala e, soprattutto, i pod subalari che contengono i famosi cannoni controcarro, terrore dei carri armati sovietici. Il realtà – sempre secondo il racconto di Rudel – lo Stuka anticarro doveva sempre operare in combinazione con gli Stuka bombardieri in picchiata in quanto le colonne corazzate russe erano  protette letteralmente da una nuvola di cannoni antiaerei. Distrutti quelli, o comunque ridotta l’azione della difesa contraerea, lo Stuka-cannone poteva prendersi cura dei carri. Rudel non fu per nulla un pilota suicidda – come maldestramente riporta il sottotitolo della copertina del libro Longanesi – ma aveva semplicemente messo a punto una tecnica di attacco intelligente e funzionale. Rischiosa – non c’è che dire – ma tutt’altro che suicida.

Questa lunga premessa è doverosa in quanto pone sotto una luce ben diversa il Pilota di ferro: non una composizione genuina bensì un testo manipolato ad arte da qualcuno – probabilmente un giornalista professionista – cui va l’indubbio merito di aver reso estremamente scorrevole – per non dire avvincente – il racconto di Rudel. Beninteso, le imprese narrate sono tante e tali che, probabilmente, anche lo stesso sedicente autore ne avrebbe fatto un testo “onesto” sebbene egli stesso confessi:

Durante gli anni dell’Humanistiche Gymnasium che frequento, perché mio padre ritiene necessari alla mia educazione latino e greco, passo per varie scuole, a seconda degli spostamenti imposti dall’esercizio dell’apostolato paterno.

[…] Dovunque approfitto delle ore libere o delle vacanze per dedicarmi allo sport, anzi, per essere più esatti, a tutti gli sport.

Decathlon in estate, sci in inverno, sono la mia passione […] i miei compiti scolastici soffrono di questa attività. Alla meno peggio, m’avvicino tuttavia alla licenza […].

A ben capire l’autore non era certo un letterato né un fine scrittore tuttavia, la conferma che il suo libro non fu tutta farina del suo sacco – anzi, tutt’altro – viene dalle frequenti “bordate” contro il bolscevismo, la megalomania dei Russi e il loro malcelato desiderio di supremazia assoluta.

Ora, benché Rudel si dichiari animato dai nobili principi della sportività, è facilmente intuibile che non nutrisse simpatia per i russi … anche perché, ad onore di cronaca, li combatté per buona parte della sua carriera militare tuttavia, appare molto stridente la sua affermazione – o di chi per lui, permetteteci di insinuarlo – secondo cui l’offensiva della Germania contro “Ivan” fu preventiva. Insomma – sostenne il pluridecorato pilota da bombardamento – Hitler fu costretto a lanciare l’operazione Barbarossa (l’attacco all’URSS) per non essere sopraffatto da forze preponderanti, ben armate ed equipaggiate che da anni si stavano preparando all’invasione dell’Europa Orientale – almeno -, Centrale – possibilmente -, e magari addirittura Occidentale. Una decisione disperata, l’unica che avrebbe lasciato qualche speranza di vittoria alla piccola Germania contro il colosso bolscevico.

Un alibi inverosimile? Farneticazioni? Forse per Rudel no, di certo neanche per chi – sicuramente statunitense – usò con sottile perfidia il libro del tedesco per inoculare nei lettori una subdola propaganda antisovietica.

Ad ogni modo, comunque sia andata davvero, sarà la storia a stabilire la veridicità di questa congettura. Certo la stonatura letteraria c’è ed è innegabile.

A10 Thunderbolt II
Il Fairchild-Republic A-10 Thunderbolt II, il velivolo statunitense costruito attorno al cannone GAU-8 Avenger da 30 mm a sette canne rotanti, l’unico velivolo moderno davvero specializzato nell’attacco al suolo e nella lotta anticarro. Secondo il sito web: https://alchetron.com/Hans-Ulrich-Rudel-770328-W, il programma di sviluppo di questa formidabile macchina da guerra tenne conto dei suggerimenti espressi da Rudel che in effetti, già nella parte finale del suo libro, accenna alle caratteristiche peculiari dello Stuka e dunque di un suo possibile erede. Non un velivolo veloce perché – spiegherà Rudel negli interrogatori cui lo sottoporranno dopo la sua resa – la mira è più sicura con un velivolo poco veloce piuttosto che con altri velocissimi come potevano essere i P-51 Mustang o i P-47 Thunderbolt. E’ intuitivo: se si vola lenti e stabili si riesce a scaricare sull’obbiettivo un gran volume di fuoco mentre le corazzature e i serbatoi carburante autostagnati renderanno meno vulnerabile il velivolo al fuoco di terra delle armi leggere

Occorre ricordare infine che il volume fu pubblicato in piena Guerra Fredda: c’era già stato il ponte aereo su Berlino, stava per essere costruito il muro di Berlino mentre la cortina di ferro era stata instaurata già da anni. Insomma quale occasione più ghiotta se non usare il libro del distruttore dell’”orda rossa” per lanciare strali contro il nemico comune?

In realtà – è bene ricordarlo – Rudel non nascose mai, durante e dopo la fine della guerra, le sue simpatie per la politica nazista o neo-nazista che dir si voglia. E infatti non ci ha stupito apprendere che nel ‘53, rientrato in Germania (allora Repubblica Federale Tedesca), egli si iscrisse al Deutsche Reichspartei (partito ultraconservatore di estrema destra), per poi presentarsi nelle sue liste come candidato di punta al Bundestag (il parlamento tedesco) senza però risultarne eletto.

Stranamente in Stuka pilot di idee neo-naziste non ce n’è traccia. E dire che, invece, l’altro suo libro, quello nella versione originale, non fu praticamente pubblicato in Germania tanto erano fresche le ferite di guerra causate dal nazismo, tanto erano chiare le frasi inneggianti al neo-nazismo. Insomma, era un libro indubbiamente scomodo, imbarazzante per il corso della nuova Germania … ma da qui a prendersela solo contro i russi, beh, un po’ ne corre – non credete? –

il pilota di ferro copertina 2
La seconda edizione dei Superpocket della Longanesi che riprende la copertina della prima edizione sempre dei Superpocket. Purtroppo il testo del libro è comunque quello tradotto in italiano dalla versione edulcorata e rielaborata negli Stati Uniti intitolata “Stuka pilot”

In tutta onestà qualche dubbio è nato in noi leggendo il pezzo giornalistico presente al seguente link:

http://www.centrostudilaruna.it/la-grande-menzogna-patriottica.html

In ogni caso, preferiamo concedervi questa occasione di riflessione, questo pretesto d’indagine storica e limitarci – per quanto ci riguarda – a valutare il “Il pilota di ferro” esclusivamente sotto il profilo letterario.

Ebbene, il libro si legge con sommo piacere, specie se ci si aspetta – come spesso accade per le autobiografie – una sorta di diario. Viceversa, la prosa è coinvolgente quasi come in romanzo di pura fantasia. Alcune frasi hanno una costruzione inconsueta e anche alcune parole sono ormai desuete ma rammentate che è stato scritto circa 60 anni fa … e questo è il fascino della narrativa d’epoca!?

L’elenco dei luoghi in cui si spostò Rudel con il suo reparto è davvero infinita e non avremmo disdegnato una cartina del fronte Est per seguirne i movimenti nè delle fotografie fuori testo che avessero mostrato almeno il protagonista nonchè i velivoli con i quali volò o si scontrò. Ma ce ne faremo una ragione.

La descrizione della varia umanità con cui Rudel entrò in contatto e di cui parla nel suo libro è spesso stringatissima e solo in alcuni rari casi si concede qualche eccezione.

La narrazione è asciutta, senza ghirigori o raffinatezze; appare come un testo giornalistico della lunghezza di un libro anzichè di un pezzo pubblicato in una rivista di settore. E – dicimocela tutta – tant’è!

In ultima analisi: è un libro da leggere e per il quale spendere qualche euro.

E concludiamo con uno dei motti degli Stuka pilots:

Non far nulla se non sei allenato a farlo

cui fa da contraltare l’aforisma ben più famoso coniato dallo stesso Rudel:

Solo chi si dà per vinto è veramente perduto.

Amen!

 



Recensione a cura della Redazione





La guerra nell’aria

la guerra nell'aria copertina

titolo: La guerra dell’aria

autore: Pierre Clostermann

editore: Longanesi & C.

anno di pubblicazione: 1964

ISBN: non disponibile





Pierre Clostermann ha scritto questo terzo libro per far conoscere alcune delle storie personali degli aviatori che hanno combattuto nei vari teatri operativi della Seconda Guerra Mondiale.

guerra nell'aria spitfire
Raramente accade di non dover commentare le foto presenti all’interno del volume. Stavolta lo ha fatto per noi lo stesso autore

guerra nell'aria me262
All’interno del volume si possono apprezzare dei trittici assolutamente impeccabili dei velivoli che sono protagonisti della narrazione. Questo è un Messerschmitt Me 262, uno dei primi caccia-bombardieri usati dalla Luftwaffe – l’Aviazione militare tedesca – verso la fine del II conflitto mondiale

Le storie sono state scelte “tra le decine di migliaia che resteranno nascoste negli archivi e nei cassetti”. Vi si parla di tutti, dei francesi (lui stesso faceva parte delle Forze Aeree Francesi Libere), degli inglesi, degli americani, dei canadesi, dei tedeschi, dei giapponesi. Ed è questo un elemento di enorme interesse per ogni appassionato di Aviazione, perché permette di scoprire le diverse realtà dell’impiego dell’aviazione in teatri bellici tanto diversi, sia per la mentalità dei popoli che per la posizione geografica dove i fatti si sono svolti. Si va dall’Europa al Pacifico, dai fiordi della Norvegia alle isole Hawaii. Molto interessante.

La traduzione è stata fatta da Corrado Ricci, il quale, almeno nell’edizione da me letta, ha curato anche una presentazione, una sorta di prefazione del libro.

guerra nell'aria copertina interna
La copertina interna del volume di Pierre Clostermann, l’asso degli assi della caccia francese nella II Guerra Mondiale che, tornato alla vite civile, esercitò la professione di ingegnere prima di sedere nel Parlamento francese per diversi mandati. A lui dobbiamo anche la fondazione della società di costruzioni aeronautiche REIMS Aviation che costruì su licenza diversi modelli di velivoli su licenza della CESSNA statunitense

Ed è proprio di questa presentazione che vorrei dire due parole.

clostermann a bordo
Ecco una bella immagine autografata che mostra l’autore del libro a bordo del suo Hawker Tempest soprannominato “Le grand Charles”. Da notare le crocette dipinte sulla fiancata del velivolo che riepilogano il numero di abbattimenti conseguiti da Clostermann. A questi andrebbero aggiunte numerosissime locomotive, cinque carri armati e addirittura due sottomarini

guerra nell'aria zero
Ecco l’inconfonbile sagoma del Mitsubishi ZERO. Scrive Clostermanna a suo prosito del caccia giapponese: “Lo ZERO fu per i giapponesi quel che lo SPITFIRE e il MESSERSCHMITT Me 109 furono per gli inglesi e i tedeschi. Il suo vero nome di famiglia era Mitsubishi A6M5 tipo 0 nell’ambiente della Marina imperiale giapponese; da questo gli derivò il suo primo soprannome ZERO datogli dagli americani che però non voleva avere alcun significato dispregiativo: anzi!”

Sembra che al traduttore abbia dato notevole fastidio che Clostermann (anzi, “il Clostermann”, come lo chiama lui nella prefazione…) nel corso del libro abbia omesso di sviscerarsi in ogni sorta di possibile elogio verso gli aviatori italiani, che hanno combattuto la stessa guerra con equipaggiamenti inadeguati, in numero sempre molto ridotto contro un nemico sempre soverchiante, armati soltanto di coraggio, cuore e spirito di sacrificio. Il che è anche vero. Gli aviatori italiani hanno scritto pagine di puro eroismo, ma questo Clostermann non lo nega, anzi lo lascia chiaramente intendere. Ma non dimentichiamo che Clostermann combatteva dalla parte degli alleati e contro i tedeschi e gli italiani insieme. Non vedo perché avrebbe dovuto dedicare una parte del libro all’eroismo italiano.

Il Ricci (mi prendo la rivincita di chiamarlo così) forse non si rende conto che lo scopo del libro non è quello di lodare un nemico che, ai suoi occhi, non ha proprio un ruolo di assoluto rilievo nelle vicende della guerra. Si potrà anche avere rispetto per un pilota che da solo, con un CR 42 va incontro ad una formazione di Spitfires e viene alla fine abbattuto, magari dopo aver abbattuto a sua volta qualche avversario. Ma sono episodi che rimpiccioliscono rispetto alle grandi battaglie condotte su larga scala. Clostermann giustamente ne parla, ma nella sua narrazione si riferisce soprattutto allo scontro tra alleati e tedeschi.

guerra nell'aria blenheim
Una delle fotografie originali che sono presenti nel libro “La guerra nell’aria”

Dice il Ricci: “Circa gli italiani, dal testo risulta che i piloti italiani combattevano goffamente…”.

OK. Magari la parola non sarà molto opportuna, ma cosa si deve dire di chi si trova a combattere con un velivolo come “la Caprona”, davvero goffo, se paragonato ad uno Spitfire, o anche ad un Hurricane.

Ho letto tutto il libro, con vivo interesse e senza mai provare il disagio o la stizza provata dal traduttore. Anzi, come sempre Clostermann riesce a descrivere gli avvenimenti trascinando il lettore e facendolo sentire come partecipe delle azioni descritte, quasi come se le vivesse egli stesso. Il che non è poco.

guerra nell'aria hurricane
Gli Hawker HURRICANE (letteralmente: uragano) che, assieme ai Supermarine SPITFIRE, costituirono la spina dorsale della caccia britannica. Difesero strenuamente i cieli meridionali dell’isola britannica dagli attacchi dei bombardieri tedeschi nel corso della Battagli ad’Inghilterra

E sinceramente, trovo che ovunque siano descritti gli italiani, a parte la descrizione del loro scarso equipaggiamento, non mi sembra che sia stato loro tolto alcunché.

la guerra nell'aria francese
La copertina del libro di Pierre Clostermann in lingua originale. La copertina della versione italiana, invece, non deve essere costata una grande faticha per chi ne ha curato la grafica: riprende in ordine decrescente di dimensione la vista frontale dei trittici dei velivoli presenti all’interno del volume … se non altro ci consente di comprendere quanto enorme fosse il De Havilland MOSQUITO britannico rispetto allo Yokosuka MXY-7 OHKA, soprannominato dagli statunitensi BAKA

 

Un gran bel libro, che consiglio di leggere. L’edizione in mio possesso è della Longanesi § C Milano. E’ una seconda edizione, non ha sovra-copertina e la copertina, rigida, è in tinta unita di colore verde.

Questo fa parte della collana “Il mondo nuovo” ed è il volume 67. Titolo originale francese: “Feu du ciel” mentre in inglese diventa: “Flames in the sky”.

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Recensione a cura di Evandro Detti (Brutus Flyer)


La grande giostra

Fuoco dal cielo

La guerra nell'aria





Dove il tempo non era mai stato

dove il tempo non era mai stato copertinatitolo: Dove il tempo non era mai stato

autore: Hugo Christensen

editore: Logisma

anno di pubblicazione: 2016

ISBN: 978-88-97530-74-9





I libri sono come piccoli scrigni. Ce ne sono alcuni apparentemente modesti che custodiscono invece degli splendidi diamanti come pure esistono quelli molto prestigiosi che, solo una volta aperti, svelano alla vista della semplice bigiotteria. E pure di qualità scadente.

Dove il tempo non era mai stato, il romanzo di esordio di Hugo Christensen pubblicato nell’estate 2016 dall’editore Logisma, rientra nella logica del forziere piccolo e onesto. Piccolo perché è composto di sole 325 pagine e onesto perché, apparentemente, si mostra come un portagioielli tutt’altro che appariscente. L’immagine di un sottomarino in emersione rapida con una vistosa stella rossa dipinta sulla torretta, il mare in tempesta e una forte luminescenza in cielo che non può essere confusa con la Luna, costituiscono infatti un valido rivestimento esterno di questo forziere – ma nulla di più -. Per inciso, si tratta della piacevole copertina che ritrae l’opera pittorica realizzata dall’artista Allan O’Mill cui si aggiunge – ma è una nostra congettura – anche l’immagine della IV di copertina con una barca a vela in navigazione sotto un cielo notturno a dir poco fantasmagorico.

Dove il tempo non era mai stato IV di copertina
La retrocopertina del volume di Hugo Christensen. Da notare la bella immagine della barca a vela – Golfinho o Savannah – che navigano sotto un cielo magico

Ad ogni modo, è solo scorrendo la nota dell’autore e poi il prologo di questo libro, che comincerà a svelarsi ai nostri occhi il vero contenuto di questo forziere: un grazioso diamante. Magari non del tutto formato, magari un po’ irregolare … ma pur sempre delizioso.

Proseguendo poi la lettura, pagina dopo pagina, nascerà in noi la consapevolezza che, quello che abbiamo sotto lo sguardo, a osservarlo bene, non è un singolo diamante bensì una quaterna di diamanti più piccoli che si confondono in un tutt’uno. Il volume si articola infatti in quattro diversi flussi narrativi che si sviluppano, si avvolgono e si attorcigliano tra di loro fino a formare, nelle ultimissime pagine, il flusso primario del testo. Quello stesso filo conduttore che, in modo molto flebile, unisce il titolo e tutti i capitoli.

Come sapientemente sintetizzato nella sinossi della IV di copertina, le vicende narrate vedono muoversi i vari protagonisti nientemeno che in tutte e tre le dimensioni: spazio, terra e mare. In quest’ultimo caso, addirittura sia “sul” che “sotto” il mare. E non solo – aggiungiamo noi – perché c’è poi la dimensione temporale. Già perché uno dei flussi narrativi prende avvio in piena II Guerra Mondiale mentre gli altri tre potrebbero essere associati ad un recentissimo passato o, volendo, addirittura alla contemporaneità.

Per comprendere poi il pretesto sul quale l’autore ha costruito il romanzo … rimandiamo sempre alla stessa sinossi; ci preme invece spendere qualche parola in più circa i quattro flussi narrativi di cui dicevamo.

Ebbene, in ordine rigorosamente di apparizione, il primo flusso, quello quantitativamente più corposo, lo definiremo “subacqueo”.

sottomarino classe akula fronte
Il moderno sottomarino nucleare russo classe Aula che, nella parte finale del romanzo, darà una caccia spietata al Ryklys.

Come lascia bene intuire il termine e come anticipa la copertina, il protagonista indiscusso è il Ryklys (tradotto letteralmente dal lituano: squalo), formidabile sottomarino della Voenno-Morskoj Flot SSSR (Marina Militare dell’URSS) di base a Murmansk. E, ovviamente, il comandante di questa unità di eccellenza: il Capitano di Vascello Yuri Ivanov.

Gli fanno poi da contorno gli uomini del suo equipaggio tra cui spiccano: il monoculare nostromo Palin, il marinaio Skunkas (letteralmente Puzzola) dalla vista aquilina, l’operatore sonar Mirko Mikoyan soprannominato “il grande orecchio” e, non ultimo, il commissario politico Boris Kozlov che, suo malgrado, veste il ruolo immancabile dello spione ottuso.

Cosa accade in questo primo flusso? Ebbene, senza svelarvi troppi dettagli, vi anticiperemo che: la II Guerra Mondiale è terminata da appena qualche anno; il Ryklys sta facendo il rientro trionfale a Murmansk dopo una difficile missione che lo ha lo visto navigare – non senza difficoltà – sotto la banchisa polare. Neanche il tempo di scendere a terra ed ecco che il capitano Ivanov viene prelevato dagli agenti della polizia politica e condotto al cospetto del braccio destro di Stalin: il famigerato e temutissimo compagno Beria. Da par suo, il capitano Ivanov, veterano di mille battaglie e per nulla impaurito dall’aureola di terrore che aleggia attorno a Beria, accetterà di buon grado la nuova missione, segretissima e ben più difficile della precedente il cui esito potrebbe cambiare il futuro del paese nonché ridisegnare gli equilibri internazionali negli anni a venire.

Un’avventura in cui il capitano dovrà dare fondo a tutte le sue capacità, di marinaio esperto e di stratega fantasioso, mettendo a dura prova la lealtà dei suoi uomini e le doti tecniche del suo eccellente battello.

Tornando invece a parlare di flussi, a quello subacqueo si aggiunge il flusso acquatico ma di superficie.

Anche in questo flusso, molto corposo in termini quantitativi, sono gli equipaggi a farla da padroni. Stavolta si tratta dei membri di ben due equipaggi – uomini e donne -, delle barche a vela oceaniche che portano il nome di: Golfinho e Savannah.

Ovviamente, anche in questo filone spiccano i due capobarca: Malcom Ranieri, affascinante skipper di successo che corrisponde perfettamente all’immagine stereotipata del “lupo di mare”, e la mascolina Tina Gaillard, bretone vigorosa eppure dal cuore tenero.

Le loro tormentate vicende prendono avvio quando Malcom e il suo amico di vecchia data, Tobia, si ritrovano a Porto Cervo, in Sardegna, nella sede del prestigioso Yacth Club Costa Smeralda. Si è appena conclusa la cerimonia di premiazione di una difficile regata in cui Malcom è stato incoronato quale vincitore. E’ lui la persona giusta – ritiene Tobia – per far compiere al Club un salto di qualità: la traversata atlantica in barca a vela, da Gibilterra via Canarie fino alle Azzorre e ritorno.

Sembra cosa fatta quando Tobia, colpito da un grave malore, dovrà cedere il posto all’unica skipper che può sostituirlo: la muscolare Tina … e allora sì che ne leggeremo delle belle!

ISS dopo distacco navicella
L’ISS – International Space Station è una stazione spaziale finalizzata alla ricerca scientifica nello spazio. E’ talmente grande – circa 100 metri di struttura – da rendersi visibile dalla Terra

E’ invece assolutamente extra-atmosferico, anzi – diremmo -, proprio spaziale, il terzo flusso narrativo. Anche in questo caso è sempre un altro equipaggio, ma stavolta quello della ISS (la Stazione Spaziale Internazionale) in orbita a 400 km dalla superficie terrestre, a occupare un po’ di pagine di avventure. O disavventure? … a voi il giudizio.

In quell’ambiente assai ristretto, ovviamente, non c’è da aspettarsi un gran numero di occupanti ma, tra loro, i protagonisti indiscussi sono: il comandante della missione, lo statunitense Brad Callagher e soprattutto l’affascinante astrofisica nonché cosmonauta (attenzione!… non astronauta) Iryna Alessandrovna, di evidente provenienza sovietica.

In questo filone le sorprese non mancheranno anche se – perdonerete il gioco di parole – nello spazio, gli spazi sono limitati e dunque non aspettatevi una grande dinamicità della trama. Ad ogni modo non mancheranno le sorprese e le vicende rocambolesche.

Che il cosmo sia un luogo ostile eppure di incommensurabile bellezza è cosa nota, che la Terra sia un pianeta unico … beh, l’autore del romanzo ce lo ricorda attraverso gli occhi dei suoi astronauti e cosmonauta. Nello specifico, diventa un punto di osservazione privilegiato dello strano fenomeno luminoso di cui parlavamo a proposito della copertina e dunque anche l’avamposto umano più “esposto”.

c5 galaxie parcheggio
Il C5 Galaxie, il velivolo cargo più grande dell’arsenale statunitense e secondo, per capacità di carico, solo al russo Antonov An-225 Mriya, versione esareattore dell’ Antonov An-124 Ruslan molto simile al C5

Infine il quarto flusso che, con un’ambientazione prettamente terricola, è quello più frammentato e anche più denso di personaggi. Per questo motivo ci troveremo catapultati, per esempio, a Bruxelles nella sede europea della Nato o al cosmodromo di Bajkonur, passando per la Casa Bianca a Washington – USA, finendo addirittura in uno talk-show televisivo in terra svizzera. Avremo modo di conoscere il Comandante Supremo delle Potenze Alleate in Europa, generale William Braddock, o il vegliardo direttore dell’osservatorio di Arecibo. Ma non temete perché avrete anche l’occasione di scorrazzare – si fa per dire – per i cieli di mezzo mondo a bordo del mastodontico quadrigetto C-5 Galaxie per un volo rischiosissimo dalla base di Vandenberg in California – USA, fino a Wheeler nell’isola di O’Hau – Hawaii. Ah, per inciso, con a bordo la più temibile bomba termonucleare mai costruita dall’umanità.

c5 galaxie carico
Ancora una bella immagine del C5 Galaxie che, confrontato alla due persone vicino al musone, rende vagamente l’idea di quanto sia immenso.

Quanto al tema di questo flusso, beh … potremmo confidarvi solo l’antefatto: la politica internazionale è in fermento, gli apparati militari in allarme, la comunità scientifica mondiale si interroga circa lo strano evento che si è manifestato nella costellazione di Orione. Si tratta di una strana luminescenza che è apparsa dal nulla e sembra avvicinarsi inesorabilmente alla Terra. Che si tratti di Nibiru, il fantomatico pianeta che ciclicamente appare nel Sistema Solare? Di alieni ostili? Di un banale fenomeno naturale? O c’è qualcosa di senziente che si nasconde dentro a quella nube anomala? … lo scoprirete solo leggendo!

Lo ammettiamo: così sintetizzata, l’idea narrativa di questo romanzo sembra un guazzabuglio di eventi scollegati, di personaggi che nulla hanno in comune se non costituire un vero e proprio rompicapo per il potenziale lettore. Ma non dubitate: proprio questo è il gioco – perverso, non c’è che dire – cui ricorre l’autore per tenerci incollati al volume, pagina dopo pagina, fino all’epilogo. Epilogo che, ovviamente, non potremo svelarvi. Neanche sotto tortura.

E nel gestire questa perversione – occorre ammetterlo – Hugo Christensen ci fornisce prova di grande abilità. Perché non è assolutamente facile né scontato unire l’azione al sentimento, l’avventura allo stato puro con i momenti di tenerezza, le imprese audaci (in cui la sopravvivenza dei personaggi è appesa a un filo) agli incontri carnali che, inevitabilmente, uniranno i vari protagonisti … ebbene in questo romanzo l’amalgama è perfetta e nulla è scontato.

La narrazione fila via liscia liscia che è uno splendore. Anzi, benché alcuni momenti di pausa concedano un po’ di respiro ad un ritmo incalzante, ci si ritrova facilmente in fondo al libro con l’unico rammarico che sia già terminato.

La trama non è affatto prevedibile né scontata mentre l’intreccio è – come dire? – davvero molto intrecciato. Forse troppo.

Fortunatamente capitoli e flussi narrativi sono contrassegnati. Ora, non ci è dato sapere se si sia trattata di una scelta dell’autore per scopi umanitari o un espediente strategico dell’editore … certo è che, fornire la collocazione geografica e una telegrafica anteprima di quanto leggeremo, costituisce un ausilio fondamentale per il lettore. Quel povero e spaurito lettore che, diversamente, risulterebbe disorientato dal frequente cambio di scenario. Sarà stato un caso … ma noi non ci siamo mai persi!

I personaggi di questo romanzo sono numerosissimi, molti marginali, alcuni fondamentali nel respiro generale delle vicende narrate. La connotazione che l’autore ha cucito loro addosso è spesso sintetica, forse troppo essenziale. Così facendo, l’immagine che si crea nella mente dei lettori è più legata alle loro azioni che non a una lunga e noiosa descrizione fisica o interiore.

blanik russo
L’aliante modello LET Blanik che verrà pilotato dall’allieva Irina Alessandrovna durante il corso di volo a vela tenuto dal capitano Andrej Eltsin

La maggior parte di personaggi ha comunque una caratterizzazione originale e credibile anche se – occorre ammetterlo – sono numerosi gli uomini duri, belli e intelligenti. Forse troppi. Ecco perché sarà praticamente impossibile non identificarsi almeno nel capitano Ivanov o nel pilota istruttore Andrej Eltsin. Ma questa – lo ammetterete anche voi – è proprio la magia della finzione narrativa, non trovate? Chi non è stato mai Sandokan, la Tigre della Malesia, o Tremal-Naik, re della jungla nera infestata dai Tugs? … appunto!

blanik e wilga
Nella finzione narrativa, l’aeroplano da traino polacco PZL Wilga porta in volo l’aliante cecoslovacco LET Blanik. Non è finzione, è realtà. Questa foto lo testimonia

In verità, alcuni personaggi come Marione o come la coppia Gruber/Skunkas, avrebbero meritato più respiro. E magari il romanzo ne avrebbe giovato in leggerezza. La loro componente è infatti tragicomica, quasi grottesca, ispira simpatia. E se Marione fosse stato più sguaiato, magari con la battuta dialettale – compresa qualche parolaccia – anche se un po’ gretta … beh, lo avremmo apprezzato ancor di più. Non perché avrebbe confermato lo stereotipo del metalmeccanico ignorante e rude, no, quanto perché avrebbe conferito una connotazione più realistica ad un romanzo pieno di primedonne e di superuomini perfettini.

I due marinai del Ryklys sono protagonisti di un siparietto spassosissimo che allenta la tensione e strappa un sorriso distensivo nel lettore. Eppure l’episodio ha lo scopo di sottolineare l’altissima pressione emotiva cui è sottoposto l’equipaggio del sottomarimo durante la missione e, non ultimo, anche il cieco rispetto per quel padre severo ma equo che è il loro capitano. Forse una presenza più odorosa della Puzzola e dell’omone Gruber avrebbe reso letteralmente strepitoso il flusso subacqueo del romanzo. Peccato!

Le ambientazioni dei vari flussi narrativi sono verosimili e mai eccessive. In molti casi si comprende che il buon Hugo ha visitato – sarebbe meglio dire: frequentato – certi luoghi; alcuni ce li descrive con dovizia di particolari ma senza mai esagerare, altri li accenna appena, frutto di racconti di terze persone o di ricerche documentali.

Certo, alcune parti, specie quelle che riguardano gli aspetti tecnico-scientifici dell’entità radiante, li riteniamo un filino eccessivi per un lettore che predilige l’azione alla congettura astrofica. D’altra parte, fondamentalmente, questo è un volume di movimento in cui storia, fantascienza e dinamismo si uniscono in un tutt’uno. Se poi alla componente scientifica fosse stato concesso meno spazio, beh … siamo certi che nessun lettore ne avrebbe sofferto né avrebbe tolto lustro al testo.

Dunque, per essere il libro di esordio, lo scrittore romano con origini danesi, minaccia di fare un gran bene per il futuro. L’augurio che possiamo formulare – usando un termine marinaresco – è che continui “alla via così”. Chissà che, alla distanza, non germogli davvero un nuovo virgulto della narrativa italiana. Noi glielo auguriamo di cuore.

marko ramius
Yurij Ivanov come Marco Ramius? Difficile immaginare il volto del comandante del RYKLYS diverso da quello del mitico Sean Connery che rese memorabile il personaggio del comandante del sommergibile OTTOBRE ROSSO

Ma se alle lodi – tanto per riciclare un famoso enunciato della dinamica – non possono che corrispondere delle critiche uguali e contrarie, ecco allora che non possiamo esimerci dal far notare alcune similarità tra il personaggio del capitano Yuri Ivanov con quello del capitano Marko Ramius, protagonista del celebre best-sellers di Tom Clancy nonché di quel film intitolato: Caccia a Ottobre Rosso che, grazie a un’icona della cinematografia mondiale come l’attore Sean Connery, è divenuto un vero e proprio classico del genere spy story-avventuroso-sommergibilistico.

Come pure ci tornano alla mente alcune scene della recente pellicola cinematografica Gravity o del più datato Mission to Mars per quanto riguarda alcune situazioni relative al filone spaziale. Ma attenzione: non stiamo parlando di plagi o scopiazzamenti vari, tutt’altro. Vogliamo intendere che, come in quelle pellicole hollywooddiane, anche nel romanzo Dove il tempo non era mai stato certe emergenze spaziali hanno delle dinamiche identiche. E questo perché, al momento, così vengono realmente gestite o risolte dagli enti spaziali. Dunque, niente di più verosimile. Certo un po’ di assonanza occorre ammetterla …

Inoltre, sempre in tema di critiche, non cesseremo mai di bacchettare l’editore nella reiterata scelta di stampare i suoi volumi con caratteri troppo minuti, dimentico che l’età media dei suoi potenziali lettori è sempre più avanzata. Un euro in più sul prezzo di copertina val bene la lettura senza l’ausilio della lente d’ingrandimento!?

Sempre all’editore, rimproveriamo poi di non aver sfruttato pienamente la grande potenzialità dei fonts tipografici oppure del semplicissimo carattere in corsivo per incorniciare alcune parti del romanzo. Quali? … per esempio quelle in cui avvengono le numerose digressioni temporali vissute dai vari personaggi oppure quella che riporta il diario del comandante dell’U-boot. Uno stacco grafico tra la contemporaneità e il passato non l’avremmo disdegnato. Magari nella seconda ristampa qualcuno provvederà, vero?

sottomarino classe akula
Ancora una splendida immagine di un moderno sommergibile classe AKULA. Da notare i due membri dell’equipaggio che si trovano sulla torretta e che rendono l’idea delle dimensioni davvero notevole di questa macchina da guerra

Infine qualche ingenuo svarione di verosimiglianza, onestamente del tutto evitabile. Esempio? … forse il più grossolano è quello di aver sostenuto che un aeroporto militare statunitense possa rimanere senza illuminazione della pista di atterraggio a causa di lavori in corso sul relativo impianto. Avete letto bene: statunitense, non italiano. Se questo non è uno svarione!?

A questo punto, occorre puntualizzare – come spesso facciamo – che, nell’opera prima di un qualsiasi autore, c’è sempre una forte componente autobiografica, nelle vicende narrate come pure nei personaggi che la animano. E anche questo romanzo non viene meno alla sacra regola, ovviamente “non scritta”.

In questo nulla di male – per carità – tuttavia, se da un lato ci possiamo concedere un atteggiamento moderatamente benevolo nei confronti dell’opera di esordio, dall’altro si innesca in noi una sorta di aspettativa per quanto riguarda un eventuale seguito dell’opera di esordio, se ci sarà. Della serie: questo libro è stata una mera casualità o l’autore ha davvero le capacità – nonché la materia prima – per un secondo romanzo? E poi un terzo e così via? … beh, noi ce lo auguriamo. E pure molto egoisticamente perché – di sicuro – saremo noi lettori a beneficiarne.

Tornando alla questione autobiografica, sulla base delle informazioni raccolte dal nostro servizio d’intelligence redazionale, siamo certi che l’autore non abbia faticato granché a inventare o a sviluppare il filone nautico di superficie e aeronautico. Egli infatti, è un provetto velista, volovelista nonché pilota di velivoli. Con secolare esperienza, per giunta. Dunque – immaginiamo – abbia raccontato nient’altro che una serie di disavventure in cui, inevitabilmente, è incappato in prima o, al massimo, in terza persona.

blanik al tramonto
Un immagine splendida del BLANIK immerso nel chiaroscuro del tramonto. Viene da domandarsi se Hugo Christensen si sia ispirato ad essa per raccontare il primo volo volo della sua eroina russa. L’atterraggio avverrà proprio al tramonto, non senza difficoltà

La creazione del personaggio di Andrej Eltsin, ad esempio, siamo certi che abbia comportato per l’autore una fatica letteraria pari pressoché allo zero.

Anche le vicende legate alle prime esperienze di volo in aliante della cosmonauta Iryna Alessandrovna, siamo certi che siano state redatte dall’autore con estrema scioltezza. Per non parlare poi del filone nautico di superficie in cui l’immagine di Malcom si sovrappone e diventa un tutt’uno con quella slanciata, nordica e carismatica proprio di Hugo Christensen in carne e ossa.

E infine, vogliamo parlare di tutte le vicende erotico-sentimentali vissute dai vari personaggi? L’autore vorrebbe farci credere che sono il mero frutto della sua fantasia? … giù la maschera, Hugo!

A questo punto anche noi vi dobbiamo una confessione: abbiamo il piacere e il privilegio di conoscere di persona – e pure da un quarto di secolo, se è per questo – il signor Christensen. Non solo: abbiamo seguito da presso la genesi lunghissima di questo romanzo. Altro che servizio d’intelligence!?

Svelata la tresca – penserete voi – potrebbe essere del tutto inutile continuare a leggere la nostra recensione … faziosa e per nulla equa … per carità, liberi di farlo, tuttavia permetteteci di testimoniare con forza, a chi non ha avuto la fortuna di conoscere di persona Mr Christensen né ha avuto modo di leggere le prime versioni del manoscritto, che questo volume è il frutto di un lavoro immane, minuzioso e paziente, soprattutto sotto il profilo dello stile e della tecnica narrativa. Stile e tecnica che l’autore ha definito e affinato enormemente proprio lavorando sul testo in una sorta di training autogeno.

Ci spiegheremo meglio: se per motivi professionali siete avvezzi a compilare relazioni e documenti a carattere amministrativo, insomma a “verbalizzare”, ciò non implica automaticamente la capacità di saper scrivere narrativa, anzi. E questo pur avendo già in mente trama, intreccio e personaggi di un potenziale libro.

Ryklys
Ve lo immaginate così il Ryklys?

A Hugo, è accaduto proprio questo: la fraseologia settoriale, la metodica e la capacità ormai acquisita di redarre il tipico documento ad uso giudiziario non sono stati per lui un aiuto nella stesura di un manoscritto che aveva in mente per buona parte. Anzi. Semmai hanno costituito un vero e proprio impedimento, una sorta di handicap che lui ha dovuto vincere affinché la sua creatura potesse prendere vita. Viceversa Hugo ha avuto la grande umiltà e anche l’intelligenza necessaria per mettere da parte la sua professione e lasciare spazio al proprio talento narrativo, alla naturale (e mai svelata) attitudine alla scrittura creativa.

Insomma, nulla accade per caso. L’autore ha voluto fortemente questo libro e noi gliene siamo grati perché ci concede di spaziare per mare cielo e terra ad un costo – tutto sommato – abbastanza ragionevole: 15 euro. Se poi considerate che lo scrigno che ci verrà concesso conterrà quattro piccoli diamanti al prezzo di uno … beh, è andata di lusso, non trovate?

Qui giunto, il visitatore più arguto di VOCI DI HANGAR, si domanderà infine perché mai abbiamo voluto concedere un angolino del nostro hangar al libro Dove il tempo non era mai stato nonostante – è evidente – il romanzo non sia prettamente aeronautico.

In effetti ci siamo posti anche noi questo quesito … ma poi ci siamo convinti che questo volume ha dei contenuti aeronautici consistenti anche se – dobbiamo ammetterlo – non preponderanti.

D’altre parte non possiamo ancora pretendere che Hugo Christensen – scrittore in erba – segua le orme squisitamente aeronautiche di Richard Bach. Diciamo che, in questo suo primo libro, Hugo si è ispirato all’autore del Il gabbiano Jonathan Livingston ma, contemporaneamente, ha strizzato l’occhiolino al thrillerista Ken Follett e all’aggrovigliatore storico Glenn Cooper … diciamo pure che sta ancora cercando una sua vera dimensione.

Nessuno è perfetto, men che meno il nostro “giovane” autore; alla prima uscita, egli ha scritto molto di mare, poco di donne e pochino di cielo … ma avrà tempo per redimersi. Nel prossimo romanzo solo donne e cielo! Promesso?

Scherzi a parte, vi assicuriamo che l’aspetto aeronautico è presente nel romanzo, eccome! Sarà sufficiente rivelare – udite, udite – che due capitoli, sebbene adattati, hanno partecipato a due diverse edizioni del nostro Premio fotografico/letterario “Racconti tra le nuvole”. E con buoni risultati, per giunta. Questo prima ancora che tutto il romanzo fosse completato, s’intende. Inoltre, con lo speudonimo Ahug, il nostro Hugo è già da tempo una delle nostre VOCI, ospite del nostro hangar con alcuni racconti che riportano le sue imprese volovelistiche:

La prima termica del mattino,

La Daunia brucia,

Imprese inutili,

e – chicca delle chicche – proprio uno dei racconti partecipanti al Premio intitolato:

Nel cielo di Cecenia

blanik neve
Ecco come ci immaginiamo i decolli del Blanik russo utilizzato dal capitano Andej Eltisin per addrestare i suoi allievi di volo a vela.

Ecco spiegato il perché, avendo tenuto a battesimo le velleità scrittorie di Hugo, ci siamo sentiti in obbligo, una volta dato alle stampe, di recensire o comunque fornire la nostra opinione su questo libro. Serena e distaccata, si spera. E se proprio così non vi sembrasse … saremo lieti di conoscere la vostra opinione sul libro. Dopo averlo letto, s’intende. Chissà che non costituisca un viatico utile per l’autore o – perché no? – un motivo valido per farlo tornare rapidamente alla vela e al volo? Dove non siamo riusciti noi chissà che non possano arrivare i nostri lettori!?

Attendiamo i vostri responsi.



Recensione a cura della Redazione





 

dove il tempo non era mai stato copertinatitolo: Dove il tempo non era mai stato

autore: Hugo Christensen

editore: Logisma

anno di pubblicazione: 2016

ISBN: 978-88-97530-74-9





L’autore, Hugo Christensen, alla sua prima opera ha osato molto, concentrando in un unico romanzo: eventi storici, scienza e fantascienza, mitologia, realtà e immaginazione, mare-terra-aria, l’universo, presente e passato, odio e amore, vita e morte. E’ lo stesso autore, nella nota ad inizio del libro, che ci svela il vero protagonista del romanzo: “il tempo”.

Il lettore all’inizio potrà avere un attimo di smarrimento, ma poi si abituerà rapidamente ai salti temporali e a seguire più storie contemporaneamente.

Siì, perché si tratta di tre storie più una. Tre storie tra di loro separate ma percorse da quella storia unica del sottomarino Ryklys con il suo misterioso carico.

L’intreccio è solo apparente e viene generato dalla disposizione dei capitoli, creando così nel lettore l’illusione e l’aspettativa che le tre storie si andranno a riunire prima o poi.

Questo voler mettere troppe tematiche tutte insieme non ha permesso di sviluppare più profondamente i personaggi e ha portato qualche problema anche all’autore:

– il capitolo 4 sembra quasi una bozza di un qualcosa che poi non si è più sviluppato, o addirittura dimenticato;

– esagerato il racconto del volo del C-5C Galaxy, in cui l’autore ha concentrato in un’unica missione tutto quello che poteva, forse, capitare a un comandante in 40 anni di servizio.

Fa pensare poi il fatto che in tutto il romanzo ci sono tre personaggi che perdono la vita, due anche drammaticamente, e tutte e tre sono donne … qualche problema!!??

E’ evidente un piacere nello scrivere di storie di azione o di eventi storici. La descrizione del ritrovamento dell’U-Boot è un omaggio a tutti i sommergibilisti, di qualunque bandiera, morti nell’adempimento del loro dovere.

ISS sud Italia
La ISS ripresa sullo sfondo di una Terra che mostra un tacco di stivale a noi ben noto e una – apparentemente – vicinissima Grecia

Mentre traspare un disagio nel trattare di sentimenti, quasi un fastidio, che decade in stereotipi come l’allieva che si innamora dell’istruttore o il fascino del comandante; o in amori contrastati, difficili e tragici, che purtroppo decadano in un finale surreale degno della peggiore delle soap opera.  

Peccato perché le capacità narrative non mancano. Lo stile è molto fluido, anche accattivante e appassionante in molti tratti. Sarebbe stato sufficiente ampliare di più la storia di Savannah e Golfinho con il loro carico di umanità, senza andare a scomodare la Stazione Spaziale e le relazioni tra Americani e Russi.

Fortunatamente la lettura scorre piacevole, anche se la scelta tipografica, da vecchia macchina da scrivere con nastro consumato, dei caratteri per l’intestazione dei capitoli ed in alcuni passi del testo risulta alla fine sgradevole e non se ne capisce l’utilità né quale apporto vorrebbe portare al testo.

L’immagine di copertina è molto bella e suggestiva.

La biografia dell’autore è inesistente: non ha nemmeno i requisiti da minimo sindacale.

Che dire…!!

Quando leggiamo un libro ci chiediamo: perché è stato scritto? Che messaggio vuole inviare? Su cosa vuole fare riflettere? Cosa vuole trasmettere?

Una presentazione, degna di questo nome, all’inizio con riferimenti alla vita dell’autore avrebbe aiutato a capire il senso di questo romanzo anche se è evidente che Hugo Christensen scrive molto della propria esperienza e passione per il mare e per la vela. Ma se voleva scrivere di questa sua passione perché andarsi ad impelagare con le altre storie?



Recensione a cura di Franca Vorano





 

Il giorno dell’aquila

giorno dell'aquila - copertinatitolo: Il giorno dell’aquila

autore: Richard Collier

editore: Mursia

anno di pubblicazione: 1968

ISBN: non disponibile





Nella lingua tedesca Adler tag significa: “Giorno dell’aquila”.

Fu con questa parola in codice che il 13 agosto 1940 gli alti comandi della Luftwaffe, l’aviazione militare tedesca, diedero il via alla Adlerangriff o “Attacco delle aquile”, la prima grande operazione di attacco che – almeno nelle intenzioni – avrebbe dovuto smantellare la linea di difesa aerea britannica più avanzata. In effetti questa sarebbe stata solo la fase preliminare di un’operazione militare ben più articolata e distruttiva che aveva il nome in codice di Liechtmeer, in italiano “Mare di luce”. Il suo scopo era di annientare tutte le basi del Fighter Command (letteralmente “Comando Caccia”) della RAF – Royal Air Force, l’aviazione militare britannica, dislocate nella parte meridionale dell’isola britannica. A quel punto, conseguito il dominio dell’aria, Hitler avrebbe dato ordine di procedere ad una “eccezionale, coraggiosa iniziativa” che aveva il nome convenzionale di : “Leone marino”, ossia l’invasione terrestre della Gran Bretagna.

Il giorno dell’aquila (con sottotitolo: La battaglia d’Inghilterra) di Richard Collier, pubblicato nel 1966 con il titolo originale: “The eagle day. The battle of Britain. August 6 – September 15, 1940”, ricostruisce minuziosamente gli eventi verificatesi proprio in quel giorno fatidico nonché nei giorni immediatamente precedenti e seguenti, ossia nell’arco temporale in cui si consumò quella che viene ricordata come la battaglia aerea più imponente e sanguinosa della II Guerra Mondiale.

La versione italiana del libro giunta in nostro possesso, è basata sulla traduzione dall’inglese ad opera di certo Peter Bastogi e fu pubblicata, nell’ambito della collana “Testimonianze storiche tra cronaca e storia”, dall’editore Mursia nel lontanissimo 1968. Si tratta dunque di un volume piuttosto datato che si può trovare solo presso i venditori di libri usati o, preferibilmente, specializzati in aviazione, meglio se nella cosiddetta “militaria”.

Il giorno dell'aquila - II copertina
La sottocopertina del bel libro di Richard Collier, autore di numerosi libri sulla II Guerra Mondiale e di numerosi articoli pubblicati nel corso della sua lunghissima carriera da magazines britannici e statunitensi

Non ci è dato sapere se, all’epoca, il libro ebbe successo. Di sicuro – dopo averlo letto, s’intende – non ci sentiamo in animo di definirlo quale un classico della letteratura aeronautica mondiale benché inquadri un periodo storico e un’area geografica in cui ebbe luogo lo scontro più cruento tra le due aeronautiche militari europee tecnologicamente meglio dotate. Periodo di estremo interesse per chi è interessato a questioni di storia militare, dell’aviazione militare in particolare.

Eppure Richard Collier, londinese purosangue, classe 1924 e autore assai prolifico di saggi storici – uno dedicato anche a Mussolini -, affronta il suo compito con l’originalità espositiva e il ritmo incalzante che non sono abitualmente prerogative del saggio a carattere storico. Beninteso, “Il giorno dell’aquila” non è un romanzo di guerra ma neanche un susseguirsi cronologico e asettico di eventi; obbiettivamente può considerarsi la ricostruzione della Battaglia d’Inghilterra attraverso il racconto degli accadimenti – tra i più disparati – che videro come protagonisti una miriade di persone appartenenti ad entrambe gli schieramenti. Ne scaturisce un puzzle storico, frammentato eppure nitido, composto dai cento volti di uomini e donne, piloti da caccia ma anche semplici contadini che vissero – loro malgrado – quei giorni terribili quanto memorabili.

Inizialmente – lo riconosciamo – al lettore sarà difficile abituarsi all’espediente narrativo di Collier giacché non ci sono personaggi principali né secondari ma è tutto un susseguirsi di micro-eventi e di micro-personaggi racchiusi nell’arco temporale che va appunto dal 6 agosto al 15 settembre 1940 e collocati nella Gran Bretagna meridionale – terra e cielo -, Stretto della Manica – mare e cielo – e coste francesi – mare e cielo.

Il giorno dell'aquila - sovraccopertina
Il risguardo interno della II di copertina del libro “Il giorno dell’aquila” che riporta una breve sinossi e alcune informazioni relative all’autore

Ovviamente l’esito della Battaglia d’Inghilterra è noto ma leggendo il libro vi accorgerete che non fu poi così scontato. Da ambo le parti, s’intende. Sicuramente ne esce uno spaccato che conferma pienamente alcuni stereotipi universali come il carattere pragmatico e altezzoso dei britannici come pure quello martellante e schedulare dei teutonici.

La prosa del libro – neanche a dirlo – è fluida e piacevole, lo stile dell’autore è quello tipico dello storico navigato che sa alternare in modo armonico la narrazione in terza persona e i colloqui/affermazioni dei personaggi; preziose le 39 foto fuori testo; utilissima la cartina geografica relativa dell’Inghilterra meridionale nel 1940 con indicata tutta la miriade impressionante di aeroporti e stazioni radar.

Ottima la qualità di stampa in termini di carta e dimensioni dei caratteri anche se non ci è dato conoscere il prezzo di copertina.

Insomma un libro che abbiamo letto con piacere e che, a distanza di tanti anni risulta ancora vivo ed evocativo come solo i libri di storia sanno essere.  Quelli migliori, è ovvio. 



Recensione a cura della Redazione