Il titolo non lascia adito a dubbi, l’autore ci descriverà la sua personalissima esperienza per il conseguimento della licenza di volo a vela.
Una passione nata fin da ragazzo, che lo porterà a diciannove anni alla scuola sottufficiali di Caserta, e alla fine del corso di marconista elettronico di bordo al reparto operativo di Grosseto. Al IX gruppo caccia intercettori con gli F-104 Starfighter.
Questo suo trascorso militare, la disciplina, la meticolosità lo accompagnerà durante il suo corso di volo a vela e affiorerà più volte.
L’approccio migliore alla lettura di questo libro è quello di essere consapevoli che andremo a leggere una specie di diario. Un diario dove l’autore ha descritto meticolosamente le missioni di volo (non tutte le più salienti), le emozioni provate, le relazioni interpersonali.
Anche lo stile tipografico, le foto a colori raggruppate al centro del testo, la copertina foderata, ci fanno pensare a un diario, che andremo a sfogliare, con il permesso dell’Autore il quale ha deciso di condividerlo.
“Volare in aliante è qualcosa di strano, non è semplice da descrivere, solo chi lo ha provato intensamente riesce ad esprimere quale vera sensazione si prova galleggiando nel cielo al semplice fruscio del vento che avvolge e risuona nell’abitacolo.”
E’ un voler imprimere per sempre il ricordo di questo suo percorso.
“Ogni volta che rileggo questo libro, rivivo esattamente le emozioni che ho provato in quei giorni intensi. E’ come continuare a volare, anche se fisicamente non sono a bordo.”
Il particolare rapporto che si crea con il proprio istruttore:
“Forse lui già lo sapeva che avrei fatto il decollo in quella giornata, io avevo capito che ormai non avrebbe più procrastinato quella data perché era arrivato il momento, e mi sarei trovato solo con me stesso e con il mio addestramento.”
“Un istruttore di volo a vela alle volte assomiglia più ad uno psicologo, che riesce a capire fino a quando un allievo è in grado di spingersi avanti per controllare la situazione circostante e a non farsi sopraffare dall’insicurezza e dalla paura.”
La paura, questo sentimento che, nell’immaginario collettivo, sembra non appartenga ai piloti :
“Avere paura è una cosa normalissima e del tutto normale. Per un pilota è un sentimento che bisogna accettare e controllare e di cui non bisogna mai vergognarsi.”
Come ogni esperienza risente del background, del presente e delle aspettative soggettive.
Certo non ci si aspetta l’uso di certi termini :
“vuoti d’aria” ogni pilota, soprattutto un volovelista sa bene che non esistono, ma sono solo forti discendenze. Ma per fortuna lo troviamo una volta sola.
“cabina” che riferito ad un aliante suona un pochino fuori luogo, infatti nel testo lo troviamo alternato a “abitacolo” termine più appropriato.
Qualcuno potrà riconoscersi negli stati d’animo nelle emozioni provate.
Qualcun altro potrà ritenerle un po’ troppo esagerate.
Il lettore non addentro al mondo del volo potrà rimanere anche un po’ disorientato, se non addirittura annoiato, dal forte dettaglio tecnico nel descrivere il volo.
“Questo è ‘Il mio volo in aliante’, un racconto, una storia realmente accaduta, come un piccolo fotogramma di un periodo della mia vita”
Ebbene sì! Questo è il volo in aliante di Marco Forcella.
Non è un racconto generico, ma il suo personalissimo percorso.
Il suo sentire e vivere il volo.
Essere parte di quel cielo che fin da bambino lo attirava, e che guardava voltando la testa all’insù.
Recensione e didascalie a cura di Franca Vorano
Didascalia e fotografie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR
titolo: La missione segreta che ha cambiato la Seconda guerra mondiale
autore: Eric Carter con Antony Loveless
editore: Newton Compton Editori
anno di prima pubblicazione: 2014, novembre
ISBN cartaceo: 978-88-541-6981-4
Confesso la mia ignoranza! E nell’accezione più genuina del termine: inconsapevolezza, non conoscenza, mancanza di informazione. Ossia, ammetto che ignoravo quasi completamente un episodio storico forse fondamentale eppure religiosamente celato per anni nelle pieghe della storia della II Guerra Mondiale. Mi riferisco a quella che venne denominata in codice: missione “Force Benedict”.
Confessatelo: anche voi vi sentite molto ignoranti, nevvero? Tranquilli, temo che costituiremo una compagnia ben nutrita giacché avremo modo di parlarvi di una delle operazioni militari tra le più segrete fra quelle effettuate dalle forze armate alleate, in particolare britanniche. Soprattutto perché – udite, udite – praticata in collaborazione con quelle sovietiche.
Ma ora metteremo un po’ di ordine fornendo alcune coordinate temporali e geografiche.
Domenica 22 Giugno 1941.
Gran Bretagna.
Primo ministro britannico, al secolo Winston Churcill.
Alle 8 in punto del mattino egli riceve una notizia di una gravità inequivocabile: Hitler ha lanciato la missione in codice Operazione Barbarossa!
Vale a dire che l’invasione dell’Unione Sovietica è cominciata. E tutto lascia pensare che avrà luogo con la stessa fulminea ferocia con cui la Luftwaffe (l’Aeronautica militare germanica) e la Wehrmacht (l’Esercito germanico) hanno già sbaragliato la modesta Polonia, la grande Francia, gli indifesi paesi nordici di Svezia, Finlandia e Norvegia nonché i minuscoli stati neutrali di Olanda, Belgio, Danimarca e Lussemburgo. Solo l’intrepida Gran Bretagna ha resistito all’orda teutonica giacché, grazie ad una difesa aerea moderna e ben organizzata e, non ultimo, all’aiuto di piloti anche stranieri, la RAF (Royal Air Force – Aeronautica militare britannica) ha avuto la meglio in quella che viene universalmente chiamata come “La battaglia d’Inghilterra”. Tuttavia ancora brucia la fuga da Dunkerque del Corpo di spedizione britannico costretto a battere in ritirata, con la coda tra le gambe, lasciando il continente alla mercé dei teutonici.
In effetti, agli occhi miopi del primo ministro britannico, anche se l’assalto al suolo natio appare ormai scongiurato, la resistenza del colosso sovietico non sembra poi così scontata. Anzi.
In un istante egli comprende che, senza l’aiuto della Gran Bretagna e, in misura ancora maggiore, degli amici statunitensi, lo Stato comunista potrebbe cadere facilmente sotto l’incalzare delle armate germaniche. E una volta caduta la Russia quel satanasso di Hitler avrebbe di nuovo rivolto tutte le sue forze – non solo aeree stavolta – verso la Gran Bretagna.
Churcill sapeva perfettamente che la Russia era ancora un paese arretrato con armamenti obsoleti e vertici militari impreparati a gestire un’invasione. Così, probabilmente senza neanche consultare i membri del suo gabinetto, la sera stessa, nel corso di un discorso radiofonico alla nazione, dichiarò il sostegno della Gran Bretagna al paese guidato dal dittatore Josif Stalin.
Detto fatto: dopo neanche un mese, esattamente il 20 luglio, a mezzo di messaggio telegrafico, Churchill annunciò a Stalin che la Gran Bretagna avrebbe fornito un primo stormo di caccia Hurricane al completo. Era nato il 151° Wing e aveva preso avvio la missione Force Benedict.
Come anticipato la missione si avviò, si sviluppò e terminò nella più assoluta segretezza e dunque non ci deve stupire se, a tutt’oggi poco sia trapelato o ricordato. Occorre perciò riconoscere il merito di aver provveduto a questa lodevole opera di divulgazione storica a Eric Carter e Antony Loveless che si sono cimentati nella stesura di un diario dal tono giornalistico che è appunto il volume oggetto di questa recensione.
Il primo, che ci ha lasciato per sempre nel luglio del 2021 alla veneranda età di 101 anni, partecipò alla missione in qualità di pilota mentre il secondo è un affermato giornalista-fotografo, autore di alcuni libri dedicati a piloti del II conflitto mondiale.
Dunque non corrucciatevi per la vostra “ignoranza” in fatto di Force Benedict. Non siete i soli.
Spiega Carter:
“L’obiettivo della nostra missione era consegnare la prima partita di Hurricane, difendere il porto di Murmansk e insegnare ai russi a volare e curare la manutenzione degli aerei. Semplice. Avremmo ceduto ai russi tutto l’equipaggiamento che avevamo portato con noi”
A questo punto occorre premettere che difendere strenuamente la base navale di Murmansk non fu un vezzo eccentrico di Churcill o del ministro dell’Aria britannico. Semplicemente aggiunge Carter:
“Murmansk e il porto di Arcangelo sul mar Bianco assorbivano grandi quantità di aiuti dall’Inghilterra e dagli Stati Uniti, i quali avrebbero giocato un importante ruolo nella sopravvivenza della Russia”.
In effetti Murmansk, porto libero dai ghiacci anche in pieno inverno, era collegato con le regioni della Russia centrale mediante una valida rete ferroviaria tanto che in quel luogo giunsero innumerevoli convogli artici alleati destinati a rifornire tutta la Russia di ogni ben di Dio possibile e immaginabile. Ecco perché la base navale – parole di sir Winston Churchill – “andava difesa ad ogni costo”.
Affinché i nazisti non potessero dilagare nella penisola di Kola partendo da Norvegia e Finlandia e sfondando definitivamente il fronte per giungere poi fino a Mosca, i britannici decisero di dislocare il reparto nell’aeroporto di Vaende, proprio nelle immediate vicinanze di Murmansk. Proprio a ridosso del fronte.
E fin qui – direte voi – niente di particolare. Sì, in effetti … se non fosse per un espediente alquanto originale: una parte degli Hurricane – rigorosamente terrestri, occorre precisarlo – vennero trasportati e lanciati in volo dal ponte della portaerei HMS Argus che incrociava a diverse centinaia di miglia dalla costa russa mentre la restante parte giunse ad Arcangelo (dall’altra parte del Mar Bianco) via Islanda, in nave, smontati all’interno di container. Al loro seguito uomini e mezzi necessari per rimontarli, renderli e mantenerli operativi. Dunque piloti, meccanici, magazzinieri, addetti alla logistica, insomma uno stormo completo e operativo in tutte le sue attività.
Siamo nel settembre del ’41, a soli tre mesi dall’inizio dell’invasione del colosso sovietico. Perdonate la precisazione.
Accenniamo invece all’episodio dell’Argus per farvi comprendere il grado di audacia che contraddistingueva questa missione e che – altra precisazione – presupponeva la piena collaborazione – non certo scontata – dei russi. Viceversa non aggiungeremo altro circa quanto accadde a Vaende fino 6 al dicembre del 1941 quando, ufficialmente, la missione ebbe termine … lasciamo perciò ai lettori il piacere e la sorpresa di leggere di combattimenti aerei all’ultima pallottola, di memorabili ubriacature, nevicate impensabili, miracoli tecnologici e, purtroppo, anche incidenti tragicomici.
Ora, a distanza di tanti anni da quei giorni, viene da chiedersi: il buon Winston aveva visto giusto? E la Force Benedict fu davvero determinante nella vittoria contro Hitler?
Ebbene, con il senno di poi, noi posteri possiamo affermare che il primo ministro britannico aveva visto giusto: le forze militari tedesche, nelle prime settimane di ostilità fecero letteralmente scempio dell’Aviazione con la stella rossa e nondimeno dell’Esercito con la stella rossa. Il paese rischiò davvero di crollare e lo salvò il famoso “generale inverno” di bonapartiana memoria, l’immensità del suo territorio e l’allungamento impossibile delle linee di rifornimento tedesche. Non ultimo la drammatica tattica russa di fare terra bruciata attorno alle armate hitleriane oppure i vertiginosi ripiegamenti o la folle resistenza delle truppe sovietiche con combattimenti casa per casa.
Per quanto concerne la reale utilità della Force Benedict, nell’epilogo del volume, l’autore ammette che non fu una missione davvero determinante ai fini della vittoria della II Guerra Mondiale. Piuttosto fu certamente la missione con la quale presero avvio i convogli artici diretti verso la Russia e, aspetto fondamentale, dimostrò che era possibile una coalizione contro Hitler anche con i sovietici. Non dimentichiamo infatti che, al momento in cui prese avvio della missione, gli Stati Uniti erano ancora ufficialmente neutrali e ben si guardavano, sulla scorta dell’esperienza del precedente conflitto mondiale, di impegnarsi in un’altra guerra sul suolo europeo. Poi avvenne Pearl Harbour … e la storia ebbe tutto un altro percorso!
I russi, viceversa, nel 1939 avevano sottoscritto un patto di non aggressione (il famoso Molotov-Ribbentrop) con la Germania ciononostante erano stati ugualmente invasi dalle armate naziste e dall’oggi al domani si erano trovati nella medesima situazione della Gran Bretagna. Forse peggiore.
In effetti, sintetizzando l’opinione dell’autore espressa nel libro, anche se Murmansk rimase sempre saldamente in mano ai sovietici, poco e quasi nulla fecero a tal fine le prime dozzine di Hurricane del 151° Wing mentre qualcosa di ben più consistente poterono le migliaia di velivoli che giunsero nei mesi successivi attraverso il corridoio artico inaugurato dalla missione Force Benedict.
Intendiamoci: durate la loro breve permanenza a Vaende i piloti britannici le suonarono di santa ragione ai nazisti come pure gli Hurricane scortarono diligentemente i bombardieri sovietici senza che questi fossero minimamente disturbati dai caccia nemici ma di qui a dire che la loro presenza diede una svolta al conflitto … beh, ci siamo capiti!?
Quanto alla collaborazione dei sovietici … la loro vena di disponibilità si esaurì molto rapidamente e divenne pressoché unidirezionale. I sovietici infatti tornarono ad essere sfuggenti, atavicamente diffidenti nei confronti degli stranieri, ossia approfittarono a mani basse degli aiuti alleati ma non si coordinarono mai con loro né adottarono le efficaci tecniche di combattimento introdotte proprio dai piloti britannici. Insomma manifestarono ciò che poi divennero negli anni a venire: un blocco monolitico impermeabile e addirittura avverso all’Occidente.
In buona sostanza il contenuto del libro smentisce i caratteri cubitali maldestramente presenti in copertina che molto ricordano quei tabloid scandalistici britannici attentissimi agli scandali di corte. Copertina sulla quale preferiremmo stendere un velo pietosissimo salvo esprimere la nostra spassionata opinione nella didascalia relativa. E dire che l’edizione in lingua originale ha una copertina impeccabile!
Anche sul modo con cui è stato convertito il titolo originale del libro nutriamo una sincera perplessità. Con tutto il rispetto per la regista Lina Wertmuller … ma questo sembra il titolo chilometrico di uno dei suoi film anziché un libro di guerra!?
Generalmente un editore avveduto si prefigge di catturare l’attenzione di un potenziale acquirente appassionato del mondo aeronautico o di storia dell’aviazione a mezzo di copertina e titolo … beh, questa copertina e questo titolo non lo aiutano certo nel suo scopo. Già il settore della narrativa aeronautica in Italia è ridotto a un lumicino, se poi consideriamo che un siffatto libro non brilla sicuramente di luce propria, è probabile che un potenziale lettore non lo vedrà neanche per errore nel marasma di volumi presenti in libreria, convenzionale o digitale sia. Obiettivo mancato, libro dimenticato.
Venendo al testo del volume, benché diviso in capitoli disposti in modo cronologico, ci è apparso alquanto disordinato nella narrazione iniziale. Infatti, contrariamente a quanto ci potremmo aspettare sfogliando le prime pagine, il libro non segue la logica ferrea di un diario con tanto di date che cadenzano i vari capitoli. E forse, detto tra noi, sarebbe stata la salvezza per il lettore …
Il secondo capitolo, in particolare – quello dedicato alla Battaglia d’Inghilterra – espone una tale sequela di personaggi e di fatti che il lettore ne rimane disorientato. Fortunatamente i capitoli successivi diventano più ordinati e i filo cronologico riprende a dipanarsi senza deviazioni disordinate.
Inoltre il testo del volume, benché in buona parte autobiografico, è fastidiosamente costellato di citazioni di altri volumi, di altri autori o voci narranti che – a nostro modesto parere – sono state enfatizzate in modo assai discutibile da un carattere di dimensioni più minute rispetto al testo di Eric Carter e Antony Loveless. Forse un corsivo sarebbe stato più adeguato a renderlo tipograficamente omogeneo. E anche meno faticoso da leggere giacché siamo a limiti dell’uso di una lente d’ingrandimento. In verità ci domandiamo: da quando in qua si inserisce una citazione con un carattere più piccolo di tutto il resto? Solo in questo libro! Bah …
Anche la scelta di narrare la storia personale dell’autore in ordine cronologico ci appare poco strategica ai fini della cattura dell’attenzione del lettore. Avviare il libro con l’adunata inspiegabile e segretissima dei piloti della missione avrebbe letteralmente incollato il lettore alle pagine successive mentre qualche flashback collocato ad arte avrebbe potuto fornire gli elementi per comprendere meglio certi personaggi, Eric Carter per primo. Ma gli autori lo hanno impostato in altro modo … peccato!
Strepitoso invece il prezzo di vendita per un volume in brossura, rilegato in modo impeccabile, con tanto di sovraccoperta a colori.
Per carità, siamo di fronte ad un libro di nicchia, di buona fattura che, solo per la sua nobile opera divulgativa, merita tutto il nostro rispetto. Inoltre la narrazione risulta piacevole e solo in alcuni tratti appena poco più lenta.
Ottimo il racconto di episodi di battaglia aerea e praticamente assenti svarioni di carattere tecnico.
Eccellente la premessa del libro di un certo Fermot O’Leary il quale chiude con una riflessione la cui bontà costituisce il vero valore aggiunto del libro. Eccola:
“Col passare degli anni è molto importante preservare queste testimonianze di prima mano.”
Si riferisce chiaramente alla testimonianza oculare di Eric Carter. E conclude affermando:
“Voglia il cielo che i nostri figli e i figli dei nostri figli non debbano mai sopportare le cose che Eric e quella della sua generazione hanno vissuto. Ma dovranno conoscere ed essere grati per il sacrificio che tante persone hanno fatto per tutti loro.”
Che poi è il senso ultimo del libro di Eric Carter …
Recensione e didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR
L’11 novembre 1961 tredici aviatori italiani, in missione per conto dell’ONU, furono barbaramente trucidati in Congo, nei pressi dell’aeroporto di Kindu.
Erano i membri degli equipaggi di due velivoli da trasporto Fairchild C-119 Flying Boxcar con nome in codice Lyra 5 e Lupo 33, bimotori da trasporto appartenenti all’Aeronautica Militare Italiana in forza alla 46ª Aerobrigata di stanza a Pisa.
In occasione del 60° anniversario della tragica ricorrenza, il nostro hangar ricorda l’eccidio di questi 13 uomini di pace che, disarmati sebbene militari, furono dapprima imprigionati e poi passati per le armi, infine probabilmente cannibalizzati dai miliziani congolesi.
La loro fu una sorte terribile e – purtroppo – dimenticata o addirittura ignorata ai più, addetti ai lavori e appassionati di storia dell’aviazione compresi.
VOCI DI HANGAR intende perciò svolgere opera di divulgazione presso le nuove generazioni e al contempo di mantenimento della memoria del sacrificio compiuto da quegli uomini in divisa azzurra. Affinché vengano degnamente onorati, oggi come negli anni a venire.
E’ per questo motivo che VOCI DI HANGAR, in collaborazione con l’HAG (Historical Aircraft Group) ha scelto come personaggio storico del premio letterario RACCONTI TRA LE NUVOLE, edizione 2021 proprio quegli uomini e quel terribile episodio della storia recente del nostro paese. La scelta poi è stata fatta propria dagli autori/autrici che hanno partecipato al Premio con i loro racconti, per lo più aventi come protagonisti diretti o indiretti proprio i tredici di Kindu.
Ed è sempre per lo stesso motivo che l’HANGAR li omaggerà nelle prossime settimane pubblicando racconti e recensioni di libri inerenti la triste vicenda.
La pagina del giornale “La Nazione” che annuncia la raccapricciante notizia (foto proveniente da www.flickr.com)
Per l’intanto permetteteci di ricordare gli aviatori italiani così bestialmente martirizzati citandoli appunto in ordine rigorosamente alfabetico di cognome:
† Onorio De Luca † ,
Sottotenente pilota, 25 anni, di Treppo Grande (UD)
† Filippo Di Giovanni † ,
Maresciallo motorista, 42 anni, di Palermo
† Armando Fausto Fabi † ,
Sergente maggiore elettromeccanico di bordo, 30 anni, di Giuliano di Roma (FR)
† Giulio Garbati † ,
Sottotenente pilota, 22 anni, di Roma
† Giorgio Gonelli † ,
Capitano pilota, 31 anni, di Ferrara
† Antonio Mamone † ,
Sergente maggiore marconista, 28 anni, di Isola di Capo Rizzuto (KR)
† Martano Marcacci † ,
Sergente elettromeccanico di bordo, 27 anni, di Collesalvetti (LI)
† Francesco Paga † ,
Sergente marconista, 31 anni, di Pietrelcina (BN)
† Amedeo Parmeggiani † ,
Maggiore pilota, 43 anni, di Bologna, comandante della missione
† Silvestro Possenti † ,
Sergente maggiore montatore, 40 anni, di Fabriano (AN)
† Nazzareno Quadrumani † ,
Maresciallo motorista, 42 anni, di Montefalco (PG)
† Paolo Remotti † ,
Tenente medico Francesco, 29 anni, di Roma
† Nicola Stigliani † ,
Sergente maggiore montatore, 30 anni, di Potenza
Cieli azzurri e sereni a tutti loro.
Un abbraccio di gratitudine alle loro famiglie.
La Redazione di VOCI DI HANGAR.
Nota: la foto di copertina ritrae le 13 bare allineate nell’area parcheggio dell’aeroporto di Pisa (o Ciampino?) appena rientrate dal Congo. A rendere loro gli onori un C-119 e due avieri VAM.
“A ricordo del sacrificio dei tredici aviatori italiani caduti a Kindu in missione di pace l’11 nov 1961”.
Si conclude con questa iscrizione riportata nella IV di copertina un volume assai particolare, ben diverso dal solito libro a carattere storico o con la malcelata intenzione dell‘indagine giornalistica.
In effetti, nell’introduzione del volume, l’autrice dichiara :
“L’idea di pubblicare un libro sull’eccidio di Kindu nasce dal desiderio di approfondire le ricerche svolte per la stesura della mia tesi di laurea […]”
e di questo non possiamo che esserle sinceramente riconoscente.
Anche perché, come ricorda nella sua prefazione il senatore Marco Boato:
“[..] ne’ rammento che ci stiate occasioni – in un’Italia pur prodiga di celebrazioni, anniversari e rimembranze – in cui negli anni e nei decenni successivi si sia cercato a livello nazionale di riportare alla memoria degli italiano il terribile sacrificio di quei tredici uomini, i quali avevano perso la vita per ristabilire la pace in quel lontano e martoriato Paese africano.[…]”
allo stesso modo, aggiunge sempre l’esponente politico:
“[…] Nessuna legge speciale per i familiari, nessuna solenne commemorazione, nessuna rievocazione storica, nessun ricordo nei libri di testo scolastici.”
E ancora:
“Soltanto una stele rievocativa alle soglie dell’aeroporto di Fiumicino […] qualche monumento locale – soprattutto a Pisa , dove aveva sede la 46° Aerobrigata cui appartenevano le vittime di Kindu – qualche celebrazione, […] qualche strada dedicata qua e là, ma sempre senza alcuna risonanza nazionale.”
L’utilità di un volume come quello di Elena Mollica risiede perciò nel ricostruire minuziosamente quanto accadde a Kindu in quel lontano novembre 1961. E non solo, ma anche dopo, praticamente fino ad oggi.
Dobbiamo ammetterlo: riesce pienamente nell’intento giacché col piglio della ricercatrice obiettiva e curiosa, riesce a fornirci un quadro completo e impietoso, una sorta di nitida istantanea che non teme accuse di fotomontaggi (tanto le fonti sono attendibili) nonostante il trascorrere inesorabile del tempo.
Il volume è infatti un esempio di rigore descrittivo e di ricostruzione analitica che, fatto salvo la prefazione e l’introduzione di cui già si è fatto cenno, contiene anzitutto il paragrafo:
“Il Congo fino all’intervento delle Nazione Unite”
e il suo ideale seguito intitolato:
“I militari italiani tra missioni di pace e guerra civile”
Ma la parte che più commuove è quella dedicata alle biografie ai tredici aviatori (corredata da fotografie) che, in prima persona come se fossero ancora tra noi, ci raccontano il loro vissuto, le loro speranze, la loro età – in diversi casi poco più che adulta – e provenienza geografica. Letteralmente toccante.
Naturalmente non poteva mancare la ricostruzione di quanto accadde in quel fatidico 11 novembre 1961 e nei mesi immediatamente successivi al netto di articoli giornalistici, informative parlamentari e indagini giornalistiche la prima delle quali (a cura di un giovanissimo Sergio Zavoli) è addirittura oggi disponibile su Youtube all’indirizzo:
Vi suggeriamo vivamente di visionarla, non tanto per l’enfasi e i ritmi lenti che nulla hanno di moderno quanto per le immagini dei luoghi in cui avvenne l’eccidio.
Il volume si avvia alla conclusione con il paragrafo:
“Ci si domanda perché”
e soprattutto con un breve cenno alla vicenda – questa sì, relativamente recente – inerente il polverone mediatico sollevatosi nel 1990, dopo ben ventotto anni di silenzio, quando un ex mercenario, certo Enzo Generali, all’epoca dei fatti consigliere militare del leader del Katanga Tshombe, dichiara che i due C-119 italiani non trasportavano medicinali e beni alimentari bensì armi e munizioni, autoblindo. E lo testimonierà davanti al giudice istruttore di Venezia, al secolo Carlo Mastelloni.
Sebbene non sappiamo bene come sia poi terminata l’inchiesta giudiziaria, questo aspetto marginale nulla toglie all’efferatezza dell’episodio o alla drammaticità dello status di tredici famiglie private dei loro affetti, mariti, fidanzati o figli che fossero. Medicinali o munizioni per la guarnigione malese di Baschi Blu di stanza a Kindu, poco importa: i nostri uomini operavano sotto l’egida dell’ONU. Erano disarmati e comunque trasportavano materiale per conto nell’ONU che aveva già autorizzato l’uso della forza e delle armi. All’occorrenza e come ultima azione di pacificazione/autodifesa.
Ma la parte che più indigna di questo libro è proprio il capitolo finale che tratta:
“Norme in favore dei familiari superstiti degli aviatori italiani”
in cui l’autrice ci dà conto di come e quando il governo italiano ottemperò ai suoi doveri di sostegno alle famiglie degli aviatori. Ebbene, fatto salvo per la pensione, solo nel 2006, furono risarcite a mezzo di un’apposita legge mentre nel 1994, a opera dell’allora Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, fu concessa ai loro defunti la Medaglia d’Oro al Valor Militare “alla memoria” ponendo fine allo scandaloso comportamento di completa indifferenza seguito dai suoi predecessori (Gronchi, Pertini e Cossiga). Certo i martiri di Kindu non torneranno alle loro case … tuttavia le loro case saranno riscaldate dal calore dell’affetto e dalla riconoscenza tangibile del governo italiano che, in teoria, opera in nome del popolo italiano tutto.
In realtà – e lo apprendiamo dal libro di Elena Mollica – le famiglie godettero rapidamente dei fondi raggranellati grazie a una sottoscrizione popolare istituita dalla RAI. Una somma cospicua per l’epoca: 265 milioni di lire. O meglio di una parte di questa somma giacché una parte fu utilizzata per costruire il monumento-sacrario del caduti di Kindu posto all’ingresso della base della 46° Brigata Aerea a Pisa.
Dopo sole 69 pagine il libro sarebbe ufficialmente terminato tuttavia continua fino a raggiungerne ben 194 in quella che è una lunga ed esauriente “Appendice documentaristica” in cui, ad esempio, vengono fornite le motivazioni per il conferimento delle onorificenza già accennate oppure i verbali dell’inchiesta – che abbiamo trovato in alcuni punti tragicomica – effettuata all’epoca allo scopo di individuare i responsabili dell’eccidio e dunque consegnarli alle autorità congolesi per comminare le opportune pene.
C’è poi il rapporto dell’ONU, preliminare e definitivo nonché la corrispondenza tra le famiglie e i membri della “Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi” relativamente alle rivelazioni di Enzo Generali.
Potremo poi leggere i testi dei telegrammi inviati dal Santo Padre, dal Capo di Stato Maggiore Aeronautica o del Ministro della Difesa Giulio Andreotti all’indomani del terribile evento. E molto altro ancora ancora.
Naturalmente abbiamo apprezzato molto la generosa appendice fotografica che ci consente di dare un volto e un’immagine informale, quasi familiare ai tredici aviatori brutalmente assassinati a Kindu.
E’ un libro che si legge tutto d’un fiato anche se – occorre precisarlo – è un volume di nicchia che può interessare solo pochi curiosi della tragedia occorsa in quella terra lontana.
La prosa dell’autrice è semplice, onesta e spesso utilizza le parole delle testimonianze di personalità riportate integralmente in appendice. Dunque un encomiabile lavoro di collage oltre che di ricerca.
Ovviamente non si tratta di un volume di narrativa, pertanto non c’è trama né intreccio sebbene la storia narrata ci sia fin troppo nota. Purtroppo.
Buona la qualità di stampa, dei caratteri utilizzati e dell’impaginazione; lodevole affidare la stampa del volume ai carcerati ed ex carcerati di un’associazione che mira al reinserimento lavorativo di queste persone particolarmente svantaggiate.
La copertina è efficace e ben costruita nella sua relativa semplicità. Sono presenti simbolicamente gli elementi che ricostruiscono la vicenda: la jungla, i due “vagoni volanti ” Lyra 33 e Lupo 5, infine la lettera di Giulio Garbati – uno dei martiri di Kindu – scritta di suo pugno e inviata alla famiglia poco prima dell’evento, per inciso leggibile in tutta la sua ingenuità e serenità nell’appendice documentaristica.
A proposito dell’autrice possiamo dire poco o nulla: la biografia presente all’interno del volume ci informa che si è laureata in Lettere, indirizzo storia moderna e contemporanea e che, è nata nel ’77, ossia ben dopo l’evento oggetto del suo libro.
Chiudiamo questa recensione affermando, in tutta onestà, che questo libro ci ha aiutato a sanare quelle lacune dovute alla limitazione anagrafica che non ci consentiva di conoscere i dettagli della missione senza ritorno in terra congolese.
Aggiungiamo che per la Segreteria del premio letterario RACCONTI TRA LE NUVOLE è stato il libro cardine su cui documentarsi per impostare il personaggio storico e dunque la lettura dei racconti della IX edizione del Premio. Un sincero grazie all’autrice.
E ora concludiamo davvero. Lo faremo con le parole di Indro Montanelli che Elena Mollica riporta a prologo della sua introduzione:
Un popolo che ignora il proprio passato non saprà mai nulla del proprio presente.
Occorre aggiungere altro?
Noi, nel nostro piccolo, ci abbiamo provato e anche con l’aiuto fondamentale degli autori/autrici del Premio forse ci siamo riusciti. Forse.
Di sicuro la recensione di questo libro cerca di completare e consolidare il nostro tentativo affinché a tenere viva la memoria dell’eccidio di Kindu si uniscano anche i visitatori del nostro hangar … di più non è davvero in nostro potere. Perdonateci.
Recensione e didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR
titolo: Bleeding Sky – The Story of Captain Fletcher E. Adams and the 357th Fighter Group.
autore: Joey Maddox
editore: Xlibris Corporation
anno di pubblicazione: ottobre 2009
ISBN libro: 978-1441555588
ISBN ebook: 978-1-4415-5
Nella recensione di “The Great Rat Race For Europe“, di Joey Maddox, avevo accennato a uno dei piloti del 357° Gruppo Caccia statunitense, di stanza in Gran Bretagna nel corso della Seconda Guerra Mondiale. Il suo nome è Fletcher E. Adams.
Avevo solo accennato alla sua storia, dicendo che ne avremmo riparlato.
Ecco, ne riparliamo adesso. Questo libro è dedicato proprio di lui.
Yoey Maddox, l’autore, nel mettere insieme un gran numero di racconti, che tanti piloti avevano scritto e gli avevano inviato, affinché non si perdesse la memoria delle loro storie, si era trovato addirittura con troppo materiale da inserire in un solo libro. Perciò, ne aveva scritti due.
Il primo è “The great rat race for Europe“, che si può tradurre come “I grandi combattimenti aerei per l’Europa“, oppure anche “Le grandi battaglie aeree per l’Europa” ma così, in italiano, non suona troppo bene. Anche se, all’epoca, il cosiddetto dog-figthing, cioè il combattimento tra aerei da caccia, a volte veniva chiamato anche “rat race”, come dire “corsa di topi”, o “caccia al topo”.
Le frasi idiomatiche sono difficili da tradurre, a volte.
Questo libro, invece, ha un titolo che non necessita di spiegazioni. E’ la storia di un capitano pilota, un asso della caccia.
A lui è dedicato il Museo, della cui inaugurazione avevamo parlato a proposito dell’altro libro. Chiunque fosse interessato può andare a leggere la mia recensione in questa sezione dell’hangar.
All’inaugurazione erano presenti molti piloti che, come Adams, avevano fatto parte del 357° Gruppo caccia. Erano tutti molto anziani, prossimi o già oltre i novanta anni.
Yoey Maddox aveva accennato a questa età elevata, dicendo, senza mezzi termini che “ormai stiamo cadendo tutti come mosche“. E aveva ragione.
Oggi anche un altro illustre asso, presente all’inaugurazione del Museo, uno dei più famosi tra di loro, se ne è andato di recente: Chuck Yeager.
Ora resta in vita un solo altro nome famoso del gruppo: Bud Anderson.
Anderson, nella prefazione di questo libro, scrive:
“The story of Fletcher Adams is one of the vast number of tales that could be told about WWII”.
“La storia di Fletcher Adams è una delle tante storie che possono essere raccontate riguardo alla Seconda Guerra Mondiale”.
Sì. Esattamente. Solo una delle tante storie.
Allora, perché su di lui si scrive addirittura un libro?
Lasciamo ancora la parola a Bud Anderson.
“This book gives us the best insight into a tragic casuality of WWII and the mistery of what happened to captain Fletcher E. Adams. Yoey Maddox’s use of other voices, quotes, and investigative interviews make the story interesting. You’ll not only learn about Fletcher Adams but also the history of the 357th Fighter Group. I found the use of Adams’ personal diary, an illegal practice in wartime, particularly interesting to learn of his personal feelings during his training and combat”.
“Questo libro ci dà la migliore visione dall’interno di un fatto tragico della Seconda Guerra Mondiale e del mistero di cosa accadde al capitano Fletcher E. Adams. L’uso che Yoey Maddox fa delle tante voci, citazioni, e delle interviste investigative, rende la storia interessante. Non soltanto si finisce per conoscere Fletcher Adams, ma anche il 357° Gruppo Caccia. Ritengo l’uso del diario personale di Adams, una pratica illegale in tempo di guerra, particolarmente interessante per scoprire cosa aveva provato durante l’addestramento e durante il periodo di combattimento”.
Adams, infatti, teneva un diario, dove annotava diligentemente tutti i fatti salienti di ogni giorno.
Inoltre, ogni giorno scriveva alla giovane moglie, Aline.
Molti altri piloti tenevano un diario, anche se , formalmente, era proibito farlo. E tutti, o quasi, avevano una ragazza, o una famiglia, a cui scrivere quasi quotidianamente.
La posta era censurata, ma tante cose, apparentemente banali, potevano essere scritte.
Dopo la fine della guerra, la grande quantità di informazioni contenute nei diari e nella lettere, ha aiutato tanti autori a tracciare e tenere vivo il filo dei ricordi. Molti libri sono stati scritti così. Compreso questo.
Il diario di Adams ha costituito una traccia degli avvenimenti del periodo di guerra da lui vissuto. Si comincia dal periodo di addestramento negli Stati Uniti, si continua con la storia del viaggio verso l’Europa, con la storia del primo periodo a Leiston, un aeroporto a poca distanza da Londra, e poi si prosegue con i racconti dei combattimenti aerei successivi. Parliamo del 1943 e dei primi mesi del 1944.
E si termina, purtroppo, con l’abbattimento dell’aereo di Adams sul cielo della Germania, il 30 maggio 1944. Il momento più sbagliato per essere costretti a scendere in un paese ostile, che subisce ogni giorno bombardamenti e mitragliamenti e si trova sul punto di perdere la guerra.
Lo sbarco in Normandia e l’invasione (con la conseguente liberazione) dell’Europa occupata dai tedeschi, sarebbe avvenuta soltanto pochi giorni dopo, il 6 giugno.
Il libro è una raccolta di racconti di diversi piloti. Ogni racconto va a collocarsi lungo la traccia segnata dal diario di Adams.
In questo modo possiamo seguire Adams, non solo nella sua stessa narrazione, ma anche in quella dei suoi commilitoni. E’ come vederlo in azione con gli occhi di chi gli viveva e volava accanto.
Un lavoro davvero ben fatto.
A Leiston era di base il 357° Gruppo Caccia, del quale faceva parte Adams, come abbiamo detto.
Come tanti altri, Adams era partito per l’Europa a bordo della famosa nave Queen Elizabeth. E come tanti, anche lui aveva lasciato la famiglia. E una ragazza.
La ragazza era sua moglie.
Si erano sposati poco prima della sua partenza. Nel diario di Adams non c’è annotazione che non contenga una dichiarazione d’amore per Aline.
E poi, c’era un altro elemento importante, in questa storia: Aline aspettava un bambino.
Sin dal suo arrivo a Leiston (ma diciamo pure sin dalla partenza), non passava giorno senza che Adams scrivesse a sua moglie. E lei faceva altrettanto.
Poiché che il libro è costituito da racconti scritti da tanti piloti, dove Adams si vede partecipare alle azioni, e dalle registrazioni che lui stesso annotava sul diario, possiamo seguire la vita di reparto per tutti i mesi del 1943.
In questo periodo Adams diviene un asso, viene promosso, conduce il suo aereo P-51 Mustang in ogni tipo di missione di guerra.
E continua a scrivere alla sua Aline.
Nei primi mesi del 1944 parla spesso della prossima nascita del loro figlio, di quale nome vorrebbero dargli etc.
La corrispondenza si fa sempre più serrata. Spesso le lettere di Aline tardano ad arrivare e Adams freme, chiedendosi cosa può essere successo. Poi arrivano tutte insieme.
Insomma, la vita normale di due sposi.
Ma la loro vita non era affatto normale. Aline si trovava a migliaia di chilometri di distanza. E lui andava in volo ogni giorno per combattere e in qualunque momento poteva morire, per un motivo o per un altro.
All’epoca, il servizio di spionaggio era molto organizzato. Alla radio tedesca trasmetteva spesso un signore che parlava benissimo l’inglese e che sembrava dedicare il suo programma proprio ai reparti americani e inglesi di stanza in Gran Bretagna. E sembrava conoscerli ad uno ad uno.
Appena arrivato a Leiston, Adams si trovò ad ascoltare quella radio. Il signore di cui sopra, in perfetto inglese, li salutò e diede loro il benvenuto, riferendosi ad essi come agli “Yoxford Boys“.
Infatti, vicino all’aeroporto c’era un piccolo paese che portava questo nome. E dove spesso il gruppo andava in libera uscita.
Segno evidente che il Regno Unito pullulava di spie.
Comunque questo nomignolo rimase in uso e da allora i ragazzi del 357° Gruppo Caccia continuarono a chiamarsi gli “Yoxford Boys“.
E il signore che trasmetteva fu, a sua volta, battezzato “Lord Haw Haw“.
Arriviamo al mese di maggio 1944.
La nascita del bambino era sempre più imminente.
Aline aveva scelto già un nome, sia per un maschio che per una femmina. Ma questi nomi non piacevano ad Adams.
Lui sperava in un maschietto e nel caso, per lui avrebbe scelto il nome Jerry.
Perché proprio Jerry?
Perché, come abbiamo detto sopra, il combattimento aereo era anche chiamato “rat race”, dove il nemico era il topo. E ognuno di loro si sentiva di essere il gatto.
Tom e Jerry, in altre parole.
Infatti, il nascituro si rivelò essere un maschietto. E prese davvero il nome di Jerry.
Dal diario di Adams, un’annotazione del 28 aprile 1944 riporta la nascita di Jerry il 23 o il 24. Qualche giorno prima.
Le altre annotazioni riguardano missioni di guerra, piloti che sono stati abbattuti, notizie di vario genere. Fino al 22 maggio 1944.
Da questo punto in poi, inspiegabilmente, nulla. Le pagine vengono sbarrate da una riga e nessuna annotazione compare più.
Il libro prosegue facendo riferimento ai racconti degli altri.
Ma da questo punto comincia la parte più tragica della vita di Fletcher Adams.
Ora bisogna occorre in evidenza un particolare importante, avvenuto proprio in quei giorni.
Hitler era sempre più rabbioso.
Infischiandosene delle convenzioni internazionali riguardo ai prigionieri di guerra, aveva emanato una direttiva che condannava a morte qualunque pilota alleato che fosse stato costretto a paracadutarsi sul territorio della Germania. Questi piloti dovevano essere considerati criminali, delinquenti, che osavano colpire la popolazione civile inerme. Come se non fosse stato proprio lui, Hitler, ad aggredire per primo la popolazione civile inerme degli altri paesi europei.
Goebbels, dal canto suo, aveva rafforzato l’ordine di Hitler.
E Lord Haw Haw, ovviamente, aveva trasmesso la notizia, per spaventare gli ascoltatori alleati.
Non si sa se Adams avesse sentito alla radio tedesca di questi ordini criminali … possiamo solo ritenerlo molto probabile. Non c’è nessun accenno nel suo diario, che comunque si interrompe improvvisamente e inspiegabilmente al 22 maggio. Ma se anche non avesse ascoltato direttamente la radio, almeno i commenti dei suoi commilitoni li sentì eccome, ne siamo quasi certi.
“On the night of May 29, 1944, the pilots of the 362nd Fighter Squadron were in the pilots’ room listening to German radio. They probably laughed as Lord Haw Haw threatened the next “Dirty Yoxford Boy” shot down, and captured alive with death. We’ll never know whether Fletcher Adams heard the broadcast; he made no mention of it in his last letter to Aline”.
“Nella notte del 29 Maggio 1944, i piloti del 362° Gruppo Caccia erano nella stanza dei piloti e stavano ascoltando la radio tedesca. Probabilmente risero quando Lord Haw Haw minacciò di morte il prossimo degli “Sporchi Ragazzi di Yoxford” abbattuto e catturato vivo. Non sapremo mai se Fletcher Adams ascoltò la trasmissione; non ne fece menzione nella sua ultima lettera ad Aline”.
Se anche l’avesse sentita, di sicuro non ne avrebbe scritto nulla ad Aline, per non farla preoccupare.
Il giorno dopo, nel pomeriggio, Adams era in volo sulla Germania. Stava scortando i bombardieri in una missione di bombardamento della città di Bernberg e stavano sorvolando un piccolo paese, Tiddische.
Il suo aereo, un Mustang P 51 che aveva nominato The Southern Belle (La Bella del Sud, cioè Aline, ma lui aveva evitato di proposito di nominarla perché non voleva andare in guerra con il nome di sua moglie scritto sulla fusoliera) fu colpito. Un gruppetto di caccia tedeschi Me 109 li aveva attaccati.
Un gregario della sua squadriglia raccontò che ci fu un’azione eversiva per sfuggire all’attacco. Ma vide che il The Southern Belle era stato raggiunto da alcuni colpi e stava perdendo liquido refrigerante dal motore: lasciava una scia bianca dietro di sé.
Adams si lanciò immediatamente, prima che l’aereo prendesse fuoco.
Il paracadute si aprì regolarmente e Adams scese dolcemente verso terra.
Nello stesso momento, a poca distanza, era stato abbattuto anche un caccia tedesco e il pilota, Ferdinant Spychinger, era morto nello schianto.
Da questo punto in poi il libro riporta la storia di ciò che avvenne dopo l’atterraggio di Adams, in un campo vicinissimo al paese di Tiddische.
L’aereo, senza controllo, aveva urtato il terreno in una maniera talmente piatta che, dopo alcuni rimbalzi, si era fermato proprio al limite dell’abitato, quasi intatto. E non si era neanche incendiato.
Ora la storia si fa davvero tristissima. Per questo motivo preferisco tracciarne solo le linee essenziali, lasciando al lettore l’onere di leggerla dal libro di Maddox.
Adams venne catturato. Il capo della polizia di Tiddische, Adolf Funke, un fanatico nazista, assolutamente privo di umanità, lo arrestò. Lo portò subito all’interno della sua casa che fungeva anche da ufficio, coadiuvato da un suo nipote, capo della locale sezione della Gioventù Hitleriana.
Adams fu spinto brutalmente, colpito più volte e fatto sedere su una specie di poltrona.
La moglie di Funke lo colpì a sua volta, ripetutamente, con un ferro da stiro, facendolo cadere a terra svenuto.
A queste scene assisté parecchia gente, gli abitanti del paese, che si assembrarono fuori dalla casa e sentirono le urla di Funke, di sua moglie e del nipote. Ma dopo poco furono brutalmente dispersi da Funke, che li minacciò e ordinò loro di andare a casa.
Bisogna dire che la gente comune non voleva che il pilota fosse maltrattato. Era sufficiente prenderlo prigioniero e trattarlo secondo le convenzioni internazionali in vigore.
Ma le rabbiose direttive di Hitler e di Goebbels avevano fatto presa sul nazista Funke.
Il nipote, pur essendo il capo della Gioventù Hitleriana, non era come lo zio. Provò a dissociarsi, ma rischiava di farsi denunciare e arrestare, se non lo avesse assecondato.
E nessuno della popolazione osò muovere un dito. Tutti si ritirarono nelle loro case, spiando dalla finestra. Quelli che potevano vedere qualcosa. Altri non videro più nulla, o almeno così dichiararono dopo la guerra.
Più tardi Adams, che aveva ripreso i sensi, fu condotto a piedi lungo la strada che usciva dal paese, verso un bosco vicino.
Funke sparò due colpi al pilota, che non morì subito. Il nipote, con la pistola cal. 45 di Adams, sparò il colpo di grazia.
Il corpo fu lasciato nel bosco fino al giorno dopo, quando alcuni prigionieri che lavoravano nei campi al comando dei civili tedeschi furono incaricati di prendere il cadavere e seppellirlo in un punto che fu loro indicato, nei pressi di un muro, ad un angolo del locale cimitero.
Nella primavera del 1945, le truppe americane arrivarono a Tiddische e cercarono i resti del loro pilota.
Poi catturarono i responsabili del suo omicidio.
Tutti, tranne Funke, che non fu mai trovato e non pagò mai per i suoi crimini.
Nel libro Maddox rivela che il corpo di Adams subì altri oltraggi. I suoi resti, riesumati, mancavano di alcune parti, come le mani, i piedi e la testa, che non furono mai ritrovati.
A seguito di questo episodio ci furono interrogazioni, processi e condanne.
E solo dopo parecchio tempo i poveri resti di Adams furono riportati negli Stati Uniti.
A questo punto, specialmente dopo aver letto il libro, sarebbero moltissime le considerazioni da fare.
Ci si interroga sul perché di tanta brutalità, gratuita, senza scopo alcuno. Ma questa è la guerra.
Anzi, questa è l’Umanità.
C’è ben poco da aggiungere: l’Umanità è questa ed è capace di compiere azione tanto agghiaccianti.
L’Umanità non è capace di imparare e migliorare davvero. In questo momento storico assistiamo al ritorno di condizioni capaci di rimetterci a rischio di ripetere episodi simili. Anzi, nel mondo non è mai cessata la crudeltà. L’Uomo sembra incapace di vivere in pace evitando di fare del male al mondo intero e a sé stesso.
Anni fa ho letto l’autobiografia del famoso Horst Tappert, meglio noto come l’Ispettore Derrick.
Lui aveva fatto la guerra. Nel libro diceva di essere stato sempre contrario alla violenza e che tutto il popolo tedesco, in generale, lo era. Tranne una piccola minoranza, che però era stata capace di trascinare il resto in un turbine di violenza senza fine.
Derrick aveva scritto una frase che mi aveva colpito:
“Noi tedeschi avevamo imparato a diffidare di chiunque parlasse a voce troppo alta”.
Credo a questa affermazione. Ma credo anche che la memoria della gente sia piuttosto breve.
A distanza di qualche decennio, secondo me, sono pochi quelli che continuano a diffidare. E sempre di più quelli che, invece, sono pronti a seguire.
Recensione a cura di Evandro A. Detti (Brutus Flyer)
Didascalie e fotografie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR
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Aforismi
E\' meglio \"una rapata\" che \"una derapata\".
(un istruttore al proprio allievo)
Q.T.B.
PILOTA: autopilota in modalità \"volo livellato\" scende 200 piedi. MECCANICO: non è possibile riprodurre il problema a terra
(Suggerita da Herr Professor)
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SECURITY: Scusi, signora … ha una bottiglietta d’acqua nella borsa? PASSEGGERO: Sì, sì … ma è senza gas!