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Recensione dei Libri aeronautici

Sullandai

titolo: Sullandai

autore: Glauco Nuzzi

editore: Pagine

anno di pubblicazione: 2004

ISBN: 88-7557-058-2




Il protagonista indiscusso e ineguagliabile della premiazione del nostro premio letterario RACCONTI TRA LE NUVOLE, VIII e IX edizione, è stato sicuramente il Com.te Glauco Nuzzi e il suo Sullandai.

Racconta Glauco Nuzzi nel suo libro a proposito del C-119: «Viaggiava ad una velocità di 150 kts e praticamente arrivava dappertutto.» e aggiunge: «Non aveva un radar meteo per cui se si incappava in qualche cumulo nembo affogato erano botte da orbi per il malcapitato equipaggio». (foto proveniente da www.flickr.com)

Nella fantasmagorica cornice dell’Auditorium del Palazzo dell’Aeronautica di Roma, domenica 17 ottobre 2021, egli ha raccontato con la vividezza della sua voce le sue esperienze di volo – e di vita – in Congo così come, in modo articolato e ben più esteso, aveva già confessato nel 2004 in forma scritta nel suo libro autobiografico Sullandai, appunto.

Appena ventenne, nei primissimi anni ’60, partecipò infatti alla missione di pace in quel martoriato paese africano sostenuta dall’Aeronautica Militare Italiana e sotto l’egida dell’ONU. Missione che comportò un massiccio impegno di uomini e velivoli della 46a Aerobrigata di Pisa e purtroppo tragicamente passata la storia per il terribile eccidio di Kindu in cui due equipaggi di C-119 italiani furono barbaramente trucidati dai tagliagole congolesi.

C119 motore
Una splendida immagine frontale della enorme elica con passo variabile e con antighiaccio di cui era dotato il velivolo. Il Com.te Nuzzi ricorda ancora oggi il rumore assordante – e sinistro – prodotto dall’elica quando i grossi frammenti di ghiaccio impattavano contro la fusoliera minacciando da un momento all’altro di frantumarla o comunque di aprirle un grosso buco. I motori di cui era dotato il C-119 erano quasi identici a quelli che avevano equipaggiato il bombardiere strategico B-29 Superfortress (quello che aveva sganciato la bomba su Hiroshima e Nagasaki , giusto per intenderci). Li distingueva solo l’assenza della sovralimentazione che non invalidò particolarmente le prestazioni del C-119, anzi ne elevò notevolmente  l’affidabilità … certo agli equipaggi che operarono sovraccarichi, a temperature infernali e su piste semi-preparate del Congo non sarebbero dispiaciuti. (foto proveniente da www.flickr.com)

Il drammatico episodio, in occasione del suo sessantesimo anniversario, è stato assunto quale personaggio storico del Premio letterario appunto, edizione 2021. O meglio, lo sono stati i due equipaggi rispettivamente del velivolo Lyra 5 e del Lupo 33 che sono dunque divenuti oggetto di numerosi racconti in qualità di protagonisti o elementi principali della trama. Un modo diverso per unire la conservazione della memoria con la divulgazione storica e al contempo per onorare i tredici aviatori caduti nello svolgimento del loro dovere; storia e narrativa unite in un connubio snello eppure evocativo.

Il velivolo protagonista del libro di Glauco Nuzzi è stato per anni il nerbo fondamentale della 46a Brigata Aerea di Pisa, poi sostituito dal Lockeed Hercules C-130 con tanto di scandalo all’italiana. Nel suo volume il Co.m.te Nuzzi ammette che il Fairchild C-119 Flying Boxcar (letteralmente “Vagone volante”) : “Aveva una buona autonomia e una discreta strumentazione elettronica il che ci obbligava moralmente a partire sempre e dovunque per andare dovunque e sempre.». Da qui l’affermazione che quelli della 46a – a differenza degli aviatori degli altri reparti dell’AMI – erano ognitempo, non si fermavano mai e arrivavano dappertutto. (foto proveniente da www.flickr.com)

Per gli organizzatori del Premio, una volta stabilito il personaggio storico della IX edizione, associarlo al nome dell’autore è stata una questione di pochi istanti. Per il Presidente dell’HAG, Stefano Gambaro, Glauco Nuzzi è stato infatti un istruttore di volo fondamentale – quanto indimenticabile – nel corso della sua carriera professionale di pilota commerciale; per il gestore di VOCI DI HANGAR nonché Segretario del Premio, Glauco Nuzzi era invece l’autore di un romanzo autobiografico recuperato in modo singolare e letteralmente divorato un paio di anni prima. Un autore da cui era stato molto favorevolmente impressionato per la semplicità narrativa ma anche per il realismo del racconto.

A testimoniare l’apprensione che nei piloti inevitabilmente innescava il minimo sussulto dei motori, il Com.te Nuzzi così ricorda i suoi lunghi voli sopra la jungla inatterrabile: «Guardavo sull’ala l’elica che girava tranquilla nel suo alone luminescente, l’ogiva rossa del II Gruppo, il grosso Wright Cyclone da 3500 HP …” e con il suo immancabile dialetto romanesco parlava direttamente con il motore: «Aoh! Nun fa lo scemo, cerca de regge che se ce ammolli …» In effetti, in caso di piantata motore, il velivolo non era in grado di volare con un solo motore, specie se carico. L’atterraggio di fortuna era pressoché inevitabile e quasi sempre con risultati rovinosi. Anche perché non esisteva la possibilità di soccorso e recupero aereo ma solo via terra. E possiamo immaginare quanto problematico potesse essere giungere sul punto dell’impatto attraversando centinaia di chilometri di foresta vergine.Oltre ai 13 aviatori di Kindu, l’AMI subi infatti altre perdite di vite e mezzi proprio a causa .di guasti tecnici e conseguente atterraggi nella jungla. Gli annali dell’AMI riportano che, durante tutta le operazioni in Congo il reparto subì la perdita complessiva di 21 aviatori, 6 feriti e 3 velivoli distrutti in incidenti di volo. (foto proveniente da www.flickr.com)

Da qui è nato il comune desiderio di coinvolgere in modo fattivo il Com.te Nuzzi in quelle che sarebbero state le dinamiche del Premio, ossia: preparare una speciale prefazione da inserire nell’antologia, svolgere lo spinoso incarico di giurato – nel suo caso, speciale – da aggiungere alla schiera dei giurati ”convenzionali” del Premio, godere della sua presenza in occasione della cerimonia di premiazione attribuendogli il ruolo dell’ospite d’onore.

In realtà, presi dall’onda dell’entusiasmo di poter attingere a una fonte autorevole quanto mirabile, gli organizzatori hanno avuto l’ardire di chiedere al loro beniamino anche la stesura di un eventuale racconto inedito che traesse spunto dalla sua pluriennale carriera di pilota cominciata proprio tra le fila della 46a Aerobrigata in Africa.

Un esemplare di C-119 che, generoso nelle dimensioni ancora oggi non passa inosservato, è conservato nel museo di Piana delle Orme a Latina. L’AMI ricevette un lotto iniziale di 40 velivoli ma, anche a seguito dell’intensa attività svolta in Congo a partire dal l’11 luglio 1960 al 19 giugno 1962 (ossia 22 mesi continuativi) la flotta risultò rapidamente usurata e costrinse la forza armata a rimpinguare le fila con con altri 25 esemplari della serie C-119J denominati in gergo “cacciavite”, per la particolare forma dei portelloni posteriori. Resteranno in servizio (sempre molto intenso) fino al 1973 quando verranno sostituiti dagli Hercules, affiancati poi – a partire dal 1978 – dai più piccoli Aeritalia G222. In giro per l’Italia, a mo’ di “gate guardian” esistono perciò diversi esemplare in buone-discrete-cattive condizioni. (foto proveniente da www.flickr.com)

La risposta dell’ormai ultraottantenne autore romano non si è fatta attendere né si è fatto pregare di fronte a tante richieste audaci – non c’è che dire – tanto che si è dichiarato subito disponibile su tutta la linea e anzi, tempo qualche giorno, ha fornito alla Segretaria del Premio ben due racconti inediti, uno dei quali costituisce virtualmente un gustoso antipasto di quello che è il suo romanzo Sullandai.

Il risguardo sinistro di “Sullandai” contenente le note biografiche dell’autore e una sinossi estremamente stringata

E’ dunque consapevoli del grande privilegio che ci ha concesso che pubblichiamo in questo speciale angolo del nostro hangar i racconti intitolati:

Il viaggio – L’inizio dell’avventura

e

Il pappagallo

oltre che la presente recensione del volume.

Il risguardo destro del volume del Com.te Glauco Nuzzi, classe 1938, romano.

A proposito della recensione, in verità, contavamo di pubblicarla diversi mesi orsono ma la scelta di non influenzare gli autori/autrici impegnati con il Premio in corso ci ha fatto desistere; ora che la classifica di RACCONTI TRA LE NUVOLE è stilata, divulgata e i premi sono stati consegnati, possiamo renderne partecipi i nostri visitatori. E senza indugio alcuno.

Ebbene … se la motivazione che si pone quale causa scatenante della stesura del libro è alquanto singolare, altrettanto fortuite sono state le combinazioni che hanno reso possibile per noi recuperare una copia del volume. Ma di questo ne verrete edotti in coda alla recensione …

Tra le pieghe delle vicissitudini narrate dall’autore in “Sullandai” è possibile imbattersi in questa confessione: “Deglutendo mi pareva che il rumore dei motori cambiasse: uno sguardo al torsiometro, CHT, pressione e temperatura olio dei motori.». E’ tangibile la tensione dell’autore che ammette: «Sapevo benissimo che bastava un semplice calo di potenza ad uno dei motori per fare una gran bella fiammata per terra.». La foto in bianco e nero ritrae invece un C-119J dell’AMI denominato confidenzialmente “cacciavite” per via della forma dei portelloni posteriori che non era più tondeggiante bensì a punta come un cacciavite, appunto. Siamo a Biggin Hill nel 1969 al Raf Open day. (foto proveniente da www.flickr.com)

Viceversa ci teniamo a precisare che Sullandai – e non ce ne voglia l’autore – non è un best sellers né mai lo diventerà nonostante la genuina pubblicità che gli organizzatori del Premio hanno svolto nel corso della premiazione. Anche perché, a oggi, non ci risulta che ne siano disponibili copie nella rete di vendita on line o che qualche editore sia disposto alla sua ristampa. Forse ne esiste qualche rara copia usata in circolazione. Nulla più. Peccato. E questo rende vieppiù pregiata la copia in nostro possesso o in possesso dei fortunati possessori.

Il Flying Boxcar venne utilizzato nel film del 2004 “Il volo della fenice” remake dell’omonimo film proiettato nei cinema nientemeno che nel 1965 (dove però si utilizza un C-82 Packet). Nella versione moderna del film, fatto salvo per la radiosa bellezza degli effetti speciali impensabili nella prima edizione, la sceneggiatura e i personaggi sono pressoché immutati: nel corso di un volo di trasferimento attraverso il deserto libico di un gruppo di tecnici addetti alla trivellazione petrolifera, il velivolo incappa in una terribile tempesta di sabbia e precipita, distruggendosi parzialmente. I superstiti, non senza difficoltà, riusciranno dopo varie peripezie a ricavarne un’improvvisata macchina volante  che consentirà loro, in modo a dir poco rocambolesco, a involarsi e a raggiungere la civiltà salvandosi da soli la pelle. E’ la trasposizione cinematografica moderna del mito della Fenice – araba – che, dopo la morte risorge dalle sue ceneri e spicca il volo. E’ il simbolo della capacità – propria del genere umano e di alcuni suoi esponenti in particolare – di far fronte in maniera positiva alle avversità facendo leva su risorse insospettate insite nell’uomo (e nella donna, s’intende). (foto proveniente da www.flickr.com)

Sullandai è’ invece un piacevolissimo diario che non ha le fattezze del diario – in termini di rigidità cronologica – bensì ha la fisionomia di un lungo racconto quasi confidenziale. Si snoda lungo un periodo di tempo incentrato agli inizi degli anni ’60 e in quei loghi distribuiti principalmente sul suolo/cielo del Congo e dintorni.

Protagonista – neanche a dirlo – è l’autore che narra gli eventi e gli innumerevoli episodi in prima persona senza però stancare il lettore o rallentare il suo resoconto.

C’è poi una cospicua messe di coprotagonisti tra cui spicca Giulio Garbati – soprannominato dall’autore  Garbulio – che il destino beffardo vorrà privarlo per sempre all’affetto dei suoi cari e consegnarlo alla storia come uno dei tredici martiri di Kindu.

L’autore – sempre il destino ha voluto – visse gli eventi congolesi prima e dopo l’eccidio di Kindu tuttavia, da commilitone ma soprattutto da vero amico del capitano Garbati, fu letteralmente travolto dalla drammatica vicenda di Kindu.

Il romanzo infatti si colloca in diverse situazioni, non necessariamente di servizio e di volo. Dunque, parafrasando il sottotitolo del volume, contiene storie varie degli aviatori italiani in terra d’Africa, specie in Congo, ma non solo.

Che l’autore fosse stato accidentalmente comandato volontario in Africa, ce lo confesserà subito; che prima ancora fosse stato destinato d’autorità ai “pesanti” (gli aerotrasporti) anziché ai caccia (come era nei suoi desideri) ce lo ricorderà più volte nel corso della sua narrazione. Anzi la svolta finale, peraltro del tutto imprevista – finalmente secondo il suo volere – lo coglierà ugualmente contrariato perché ormai si era affezionato al reparto e agli aeroplani che non si fermavano mai perché volavano ognitempo. Quelli della 46a

Il titolo del volume trae dunque origine da una delle tante situazioni rocambolesche vissute dall’autore. E’ una parola in lingua svedese ed è la parola magica che salverà l’equipaggio del C-119 impegnato in una missione impossibile – una delle tante – dalla concreta minaccia di abbattimento ad opera dell’unico “pseudo caccia” nemico (un Fougà Magister) che imperversa nei cieli congolesi.

Vi possiamo anticipare che – incredibile – l’espediente funzionerà e i nostri uomini la faranno franca ancora una volta grazie alla loro inventiva e alle loro indubbie capacità tecniche ma anche freddezza unita a una sottile vena di audacia. Al lettore, viceversa, rimarrà la tensione che trasuda dalle righe di questo episodio e vi assicuriamo gli rimarrà addosso per molte pagine ancora.

Un piccolo inciso: anche in questa missione il nostro beniamino parteciperà come volontario accidentalmente comandato.

In effetti l’autore ci spiega il senso figurato della parola – e ce lo ha ribadito nel corso della premiazione, immancabilmente interrogato sull’argomento – ma non ci spiega il significato espressamente letterale del termine “sullandai” né ci è stato fornito alcun conforto dal tanto osannato traduttore universale disponibile in rete. Purtroppo in Redazione non disponiamo nessuno/a di origine scandinava, come pure non abbiamo amici, conoscenti, lontanissimi parenti capaci di sciogliere questo enigma. Confidiamo però nei nostri visitatori/lettori. In verità auguriamo loro di intrattenersi con uomini/donne provenienti da quell’area geografica, magari nel corso di qualche vacanza balneare, affinché il contatto sia anche culturale. Oltre che di corpi e di anime, s’intende.  Sullandai, ricordatevi. E fateci sapere.

La prosa dell’autore è rapida, efficace, leggera in quanto inframezzata di brevi note esplicative a carattere tecnico ma anche di riflessioni intime come pure di battute fulminanti – spesso in dialetto romanesco – mentre non mancano le descrizioni delle bellezze naturali  o le situazioni grottesche sottolineate da quel disincanto o quel pragmatismo tipicamente romano di cui l’autore era già illustre esponente. Il tutto unito a una sottile sagacia congenita con l’autore.

La cabina di pilotaggio del C-119 era spaziosa e relativamente confortevole, almeno per l’epoca. Questo scatto riprende due piloti statunitensi intenti a svolgere i loro compiti. In realtà erano coaudiuvati dal motorista che rimaneva appollaiato tra di loro, nel bel mezzo tra i due sedili, impegnato a gestire i vari comandi dei due motori collocati nella consolle centrale tra i due sedili, appunto.(foto proveniente da www.flickr.com)

L’alchimia tra periodi in terza persona e quelli con discorso diretto è ottima e non ci si accorge di leggere un romanzo di memorie tanto che, senza le opportune premesse, si può scambiarlo tranquillamente per un buon romanzo di fantasia. Inoltre non mancano le irrinunciabili battute in dialetto, romanesco e pisano che rendono assai veraci i dialoghi e i personaggi evocati.

Il nostro Glauco dimostra perciò di  saper usare sapientemente l’ostica lingua italiana alla stregua dei comandi di volo del pesante “Vagone volante” e il lettore, capitolo dopo capitolo, quasi non si accorge di essere giunto al termine delle 188 pagine che compongono il volume. Perché vicende drammatiche e tragicomiche, avventurose, di terra e di cielo si alternano in un susseguirsi per nulla artificioso.  Il tutto è inoltre inframezzato da numerose foto in bianco e nero, generose nelle dimensioni e dotate di preziose didascalie.

Il formato del libro è ottimo, la carta di stampa impeccabile, la dimensione dei caratteri di stampa è standard, l’impaginazione professionale.

Avremmo qualche riserva sul contorno nero della copertina tuttavia – occorre ammetterlo – esalta la foto di copertina. Non è invece presente la IV di copertina.

Il C-119 in assoluto meglio conservato – ma non volante – nel nostro paese è quello collocato a mò di “gate guardian” di fronte al Sacrario delle vittime di Kindu, in prossimità dell’ingresso dell’aeroporto di Pisa San Giusto, sede della 46a Brigata Aerea che oggi come allora è operativa 365 giorni l’anno, 24 ore il giorno e impiega i suoi uomini e i suoi velivoli in ogni parte del mondo in molteplici attività non necessariamente a carattere militare bensì per lo più per scopi umanitari e di soccorso. (foto proveniente da www.flickr.com)

Valida la biografia presente nei risguardi interni e, sebbene la sinossi sia pressoché inutile, è davvero striminzita.

Onesto il prezzo di vendita (di allora) a testimonianza che sia l’autore che l’editore non intendevano fare business con un libro che aveva tutt’altri scopi.

Insomma un volume che consigliamo agli appassionati di volo ma anche di viaggi, non solo alla ricerca di informazioni circa l’eccidio di Kindu.

Di certo questo volume ha appassionato l’autore nello scriverlo giacché, giusto qualche anno dopo, ha  pubblicato altri volumi (di cui vi daremo conto in altre recensioni), ugualmente piacevoli e meritevoli di attenzioni.

Se non fosse per la venerabile età di Glauco – lungi da noi volersi prendere gioco di lui – vorremmo scrivere che, come autore, è certamente destinato a crescere e a migliorarsi in futuro … tuttavia sappiamo che il Com.te Nuzzi, con i suoi libri, ci ha regalato le sue preziose esperienze come pilota a tutto tondo (militare, commerciale, sportivo, amatoriale) con lo stesso spirito con cui un qualsiasi nonno trasmetterebbe le sue esperienze di vita al suo amato nipotino, convinto che l’inesorabilità del tempo li allontanerà per sempre. Prima o poi.

La schiettezza dell’autore è davvero disarmante ma rende l’idea di quale spirito di gruppo creò l missione in Congo. Alla fine del volume così si confida: «Alla 46° Aerobrigata non ci ero andato volentieri, anzi decisamente inviperito, ma cominciavo ad essere orgoglioso di questo Reparto». (foto proveniente da www.flickr.com)

Ebbene, per quanto ci riguarda, possiamo dire di aver avuto il privilegio di conoscere fisicamente il Com.te Glauco Nuzzi, di aver goduto della sua squisita compagnia, di essere stati partecipi delle sue vicissitudini aeronautiche. Grazie Glauco. Ciò nonostante il viso radioso degli occhi guizzanti di questo nostro grande nonno lo serberemo in un angolo speciale del nostro cuore mentre alle sue testimonianze scritte concederemo volentieri l’angolo migliore della nostra memoria. Perché tanto ci ha reso senza nulla pretendere.

Lunga vita a Glauco!!!





Prologo di “Sullandai”



“Aeroporto di Milano Linate. In attesa dell’imbarco passeggeri […]

Rassegnato a un potenziale ritardo mi accomodo su una delle poltrone anteriori del MD-80 […] sfoglio distrattamente un quotidiano.

Vedo con la coda dell’occhio salire a bordo l’atteso personaggio che si mette a discutere con l’Assistente di Volo 

– Va bene, fra due minuti vi arriva tutto quello che manca, scusate il disservizio […] Arrivederci, otikala malamu!

– Kenda malamu – rispondo istintivamente mentre l’uomo si avvia alla scaletta per scendere. […]

– Io ho salutato per scherzo in dialetto lingala …

– E io ho risposto sul serio in lingala, ma lei come fa a sapere il dialetto congolese?

– E lei?

– Sono stato in Congo […]





Recensione e didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR





Un mondo ultraleggero

titolo: Un mondo ultraleggero

autore: Bruno Servadei

editore: Independently published

anno di pubblicazione: 2019

pagine:  272

ISBN cartaceo: 1085921581

ISBN alternativo: 978-1085921589




Dopo aver acquistato su Amazon alcuni libri di Bruno Servadei, avevo contattato l’autore su Messenger, per informarlo e invitarlo a leggerne le recensioni che, dopo averli letti, avrei scritto e pubblicato su VOCI DI HANGAR. Nel sito era già presente la recensione di un altro dei suoi libri, “Ali di travertino“, scritta dal webmaster qualche tempo prima, e un racconto intitolato “Coppia” che aveva partecipato, senza giungere tra i finalisti, al premio letterario RACCONTI TRA LE NUVOLE.

Avevo già letto, nel 2009, “Vita da cacciabombardiere“, il primo libro di Bruno Servadei. Mentre aspettavo l’arrivo dei quattro nuovi libri mi ero messo a rileggere “Vita da cacciabombardiere“, giusto per rinfrescarmi la memoria. A suo tempo mi era piaciuto moltissimo. Servadei aveva scritto un capolavoro, nel campo aeronautico. Non era solo opinione mia, mi ricordo che diversi amici, piloti di aereo o di aliante, avevano espresso lo stesso apprezzamento.

Non saranno la PAN – Pattuglia Acrobatica Nazionale dell’Aeronautica Militare Italiana – le mitiche Frecce Tricolori -, eppure la formazione acrobatica denominata “Blu Circe” non ha nulla da invidiarle … nemmeno il tricolore! Bruno Servadei ne fa parte nel ruolo di analino di coda. A causa della pandemia la formazione ha subito un drastrico rallentamento delle sue attività ma ha potuto archiviare un 2019 letteralmente memorabile giacchè l’ha vista in turnée addirittura in Cina (proveniente da www.flickr.com)

Servadei mi aveva suggerito un ordine di lettura dei libri, basato probabilmente sull’ordine nel quale li aveva scritti. E ovviamente, questo di cui mi accingo a parlare, dal titolo “Un mondo ultraleggero“, essendo il più recente, doveva essere letto per ultimo.

Ma nel messaggio, con mia sorpresa, lo aveva definito “libercolo“.

Intanto, finito di rileggere il primo, ne avevo scritto la recensione. Poi avevo ripreso in esame i nuovi quattro, li avevo messi in ordine e stavo per cominciare la lettura del primo della lista.

ULM, non è una città tedesca della regione Baden-Württemberg nota soprattutto per aver dato i natali ad Albert Einstein, bensì l’acronimo di Ultra Leggero Motorizzato. In effetti la sigla trae origine dalla definizione francese di Ultra-Léger Motorisé da cui ULM, appunto. L’ultra leggero, che si tratti di un velivolo, un elicottero,un aliante o un autogiro è considerato a tutti gli effetti un aeromobile sebbene a esso non è sia applicabile il Codice della Navigazione Aerea. Il concetto di ultra leggero dovrebbe essere sinonimo di macchina volante di piccole dimensioni, costruttivamente semplice, quasi spartana, con prestazioni modeste ossia destinata al volo lento e con autonomia limitata, equipaggiata di pochi strumenti per non dire essenziali. Dovrebbe. O meglio, all’inizio lo era. Oggi, in realtà solo una piccola parte, degli ULM volanti nel nostro paese risponde a questo canone. L’altra parte – la maggioranza –  degli ultra leggeri (davvero leggeri?) sono dotati di carrello retrattile, motore con potenze di tutto rispetto, elica a passo variabile, aerodinamica e struttura sofisticata, autonomia ben più che interregionale mentre possono raggiungere velocità piuttosto elevate (intorno ai 350 km/h). Alcuni sono capaci anche di svolgere attività acrobatica di un certo livello.. Niente male per un ultra leggero, no? In termini di avionica poi, affrancati da tutte le restrizioni e le certificazioni tipiche degli aeromobili dell’Avazione Generale, gli ULM sono spesso e volentieri dotati di una strumentazione che nulla ha da invidiare al cosiddetto “glass cockpit” dei fratelli maggiori pesanti, anzi, semmai il contrario: non c’è ULM che non abbia almeno un paio di schermi digitali a bordo e non imbarchi apparati di radio-navigazione che farebbero impallidire pure un’astronauta della Stazione Spaziale Internazionale! I velivoli che sono ritratti nelle foto sotto e sopra questa didascalia appartengono all’idea primordiale di ULM, quello ritratto nella copertina di “Un mondo ultraleggero” è invece in linea con la filosofia contemporanea. Notate qualche differenza? 

Ma la parola “libercolo” mi risuonava nella mente.

La copertina di “Un mondo ultraleggero” riportava l’immagine di un piccolo aereo immortalato nella fase rovescia all’apice di un looping. Una foto azzeccata, che attrae l’attenzione.

Uno di quei “trespoli” – così come li ha definiti l’autore in uno dei capitoli del suo libro – che animano, o forse è meglio dire, animavano il mondo ultraleggero.

Dopo una veloce scorsa alle pagine, ai capitoli e alle foto all’interno del libro, avevo intuito che il contenuto doveva essere molto interessante. Altro che libercolo!

Ok, avrei cominciato proprio da quello.

Il primo capitolo ripercorre la linea degli eventi che avevano preceduto l’arruolamento nell’aeronautica come pilota militare. Parla di scuola, dell’esame di maturità, delle vacanze a Rimini, di ragazze che frequentavano la riviera romagnola durante l’estate. Parla anche di sport nei quali si era impegnato. E troviamo riferimenti ad aerei, perfino idrovolanti, che però non erano stati quelli che lo avevano ispirato a diventare un pilota, di lì a poco. Parla anche di aeromodellismo, ma forse la passione per il volo non gli è derivata neanche a questo.

Una cosa è sicura: dopo l’Accademia Servadei ha fatto una mirabile carriera, prima come cacciabombardiere, poi è entrato nel mondo diplomatico, è stato all’estero per qualche anno come attaché militare, ma ha sempre continuato a volare. Divenuto Generale di Brigata, alla fine è arrivata la pensione. Ha chiuso con l’Aeronautica e per alcuni anni non ha più pensato al volo.

Finché, un giorno…

Bruno Servadei a bordo del suo velivolo e nell’ambiente che gli è più congeniale: l’aria. Qualche impertinente direbbe anche il fumo … (foto proveniente da www.flickr.com)

Il secondo capitolo si intitola: “Primi contatti con gli ULM”. E da questo punto in poi iniziamo a seguire il tortuoso percorso che lo aveva condotto, dopo essere stato un top gun e aver pilotato gli aerei più potenti, verso il mondo aeronautico più umile e semplice, quello degli aerei ultraleggeri.

Passare dai jet militari agli ULM (Ultra Light Machine) non è un salto da poco, anche se oggi queste macchine non sono più quelle di alcuni decenni fa. Esistono ancora i cosiddetti “tubi e tela”, ma fanno ormai parte di una nicchia di appassionati di volo minimale. Oggi i modelli di punta dell’aviazione ultraleggera sono aerei a tutti gli effetti, con motori di notevole potenza e prestazioni di tutto rispetto. La loro autonomia consente voli abbastanza lunghi da raggiungere mete lontane. E hanno anche una notevole affidabilità.

Quando gli ULM cominciarono a fare la loro comparsa negli anni settanta e ottanta del secolo scorso, dopo un periodo di totale anarchia, la famosa legge centosei arrivò a mettere ordine nel settore. I tubi e tela erano divertenti, alla portata di tutti, usavano quasi esclusivamente motori a due tempi. Salivano che era un piacere, molto meglio di qualsiasi Cessnino di Aeroclub.

Dietro un pilota c’è spesso un aermodellista. E’ il caso anche dell’autore del libro che confessa: “Non vi è dubbio che il germe che mi ha nel tempo portato a intraprendere una vita da pilota mi è stato inculcato, di certo inconsapevolmente, da mio padre quando, ancora bambino, mi ha interessato il mondo del volo introducendomi all’aeromodellismo”. Certo, all’epoca, i modelli realizzati dal giovanissimo Bruno Servadei non erano così enormi e maniacalmente perfetti come quello ritratto … ma pur volavano! (foto proveniene da www.flickr.com)

Furono costruite parecchie aviosuperfici, cominciarono a comparire tanti tipi di aeroplanetti cosiddetti tre assi perché avevano i comandi tradizionali uguali agli aerei veri e molti deltaplani a motore, che allora chiamavamo pendolari. Oppure apparecchi ad ala basculante.

Ma era un mondo molto caotico, c’era troppa anarchia, troppa improvvisazione. E ci furono troppi incidenti.

L’Aeroclub d’Italia ebbe il merito di mettere ordine in questo settore con una legge, la centosei, abbastanza ben recepita e apprezzata da tutti. E le cose cominciarono ad andare meglio.

Il mondo ultraleggero si è sviluppato moltissimo nel corso degli anni e, pian piano, i grezzi modelli del primo periodo hanno cominciato ad assumere, sempre più marcatamente, le sembianze di aerei veri.

La Rotax, fabbrica austriaca di motori, quella che già forniva i suddetti motori a due tempi, ha cominciato a produrre motori a quattro tempi.

Così, l’aviazione ultraleggera si è sviluppata lungo lo stesso percorso che aveva caratterizzato l’aviazione generale. Eravamo in molti a credere che prima o poi saremmo giunti a ricostruire gli stessi ambienti dal quale molti si erano allontanati, quello dei tradizionali Aeroclub.

Bruno Servadei è giunto al mondo ULM quando ormai tanta strada era stata percorsa e gli aerei erano già uguali a quelli dell’Aviazione generale, o quasi. Anzi, per certi versi erano anche migliori.

Se dovessimo rappresentare in una singola immagine il mondo ultraleggero, senza indugio alcuno lo faremmo con uno scatto come questo: la pattuglia acrobatica Blu Circe! (foto proveniente da www.flickr.com)

Dopo aver conseguito l’attestato per pilotare gli ultraleggeri e aver sostenuto anche l’esame per poter portare un passeggero, era pronto a comprarsi un ULM tutto suo.

Strano a dirsi, dopo essere uscito dall’Aeronautica, per sette anni non aveva volato affatto. Poi aveva conseguito l’attestato di pilota di ultraleggero, senza aver mai avuto la licenza di pilota privato.

Nel libro racconta il suo approccio a questo nuovo mondo con modestia.

Ma non dimentichiamo chi era stato: un pilota cacciabombardiere che aveva volato con un jet e una bomba atomica attaccata sotto la fusoliera. Uno capace di decollare con ogni tempo, penetrare a bassissima quota in un territorio nemico e colpire l’obiettivo assegnato.

Uno capace di volare in formazione per ore dentro le nubi, senza visibilità, guardando solo gli strumenti.

A dispetto del tono umile con il quale descrive i primi approcci con gli ambienti delle aviosuperfici e degli ultraleggeri, sappiamo chi è l’autore di questo libro. Anche se ha solo l’attestato di volo VDS (Volo da Diporto o Sportivo), neanche del tipo avanzato, che è venuto dopo, Servadei non è un pilota come gli altri.

Basta leggere i capitoli successivi per rendercene conto.

La retrocopertina del bel libro di Bruno Servadei. Al momento è il suo ultimo libro pubblicato in ordine di tempo … speriamo non sia l’ultimo!

Già lo si capisce dal tipo di velivolo che sceglie, un Eurostar, prodotto dalla Evektor-Aerotechnik che ha sede in Repubblica Ceka. Un bellissimo aereo, 100 HP di potenza, ottime prestazioni.

Sebbene un ULM non potrebbe essere usato per fare acrobazia, leggete questo libro e alla fine mi saprete dire se può farla. Servadei non ha fatto altro per decenni, anche in formazione stretta.

Inizia poco alla volta, si allena in modo da prendere la mano sul mezzo, poi comincia ad esibirsi da solo sul cielo campo dell’aviosuperficie.

Nel corso del tempo viene anche osteggiato. In molti non gradiscono la sua esuberanza e le sue capriole. Finché si trova costretto a spostarsi in una diversa aviosuperficie e in un altro club. Ma qui lo trattano in maniera diversa e gli tributano ben altri onori.

Vista la sua capacità di acrobata e anche la capacità di volare in formazione, qualcuno gli chiede di entrare a far parte di una pattuglia acrobatica costituita da tre velivoli ultraleggeri. Mancherebbe un quarto elemento. E mancherebbe anche la sua esperienza.

Ancora una bella immagine del velivolo dell’autore scattata durante una delle tante manifestazioni aeree cui ha partecipato la sua pattuglia acrobatica Blu Circe. Un’altro luogo comune che spesso rieccheggia quando si parla di aviazione è che tuttii i piloti siano fascisti o comunque simpatizzanti del regime fascista. Anche Bruno Servadei, ricordando le sue origini di pilota, indugia sull’argomento ricordando che: “Il volo, e tutto ciò che vi era connesso, ha avuto un grande rilievo al tempo del fascismo. Volare era incentivato e a livello sportivo era di certo più facile di oggi: l’Italia era piena di aeroporti e idroscali, a loro volta pieni di aeroplani”.Il volo da diporto sportivo praticato con gli ultraleggeri ha costituito idealmente la prosecuzione della logica fascista che voleva – o propagandava – un’aviazione sportiva aperta e praticata dalle masse (foto proveniente da www.flickr..com)

E’ così che comincia la storia della famosa pattuglia acrobatica Blue Circe, quella che non manca mai nelle varie manifestazioni aeree, non solo italiane, ma perfino all’estero.

Nel libro la storia che ho appena sintetizzato è molto più lunga e particolareggiata, inframmezzata anche da racconti di vita personale.

Ci sono molte fotografie. In una di queste l’autore compare tra i musetti di due aerei. Si, perché, come leggerete, attraverso varie vicissitudini, ad un certo punto si trova proprietario di due ultraleggeri, l’Evektor e un Fl100.

Quest’ultimo è un mezzo molto più performante e molto più idoneo all’utilizzo in una pattuglia acrobatica.

Questo non è esattamente un libro autobiografico di Bruno Servadei. E’ anche una testimonianza di come si è evoluto il mondo ultraleggero in questi ultimi anni. Ed è la storia della pattuglia acrobatica dei Blue Circe. Ci consente di avvicinarci a un mondo decisamente emozionante, anche per chi non ha la passione del volo. Tutti noi abbiamo visto le evoluzioni di questi aeroplanetti che evoluiscono lasciandosi dietro una scia bianca rossa e verde. I colori della bandiera italiana.

Li abbiamo visti da fuori. Ora, leggendo il libro, abbiamo l’occasione di entrare nel loro mondo, di conoscerli, di vederli da dentro.

 

Con la consueta sagacia che abbiamo imparato ad apprezzare leggendo i volumi già pubblicati, l’autore ci rivela come avvenne il suo primo contatto con il mondo ultraleggero … ed è molto tutto tragicomico: “Un giorno uno del gruppo dei modellisti annunciò che un tizio un po’ svitato, forse un maresciallo dell’Aeronautica, si era costruito uno strano attrezzo volante a motore e lo avrebbe collaudato nel pomeriggio in un campo lì vicino. Ovviamente tutti decidemmo di andare a vedere.” A quest punto, siamo certi che sarete curiosissimi di sapere come andò il famoso volo di collaudo … ebbene non possiamo svelarvelo tuttavia, possiamo rendervi partecipi dell’opinine che maturò l’autore all’indomani di quella rocambolesca esperienza: “Non so se il soggetto abbia continuato i suoi voli con quell’attrezzo: per la sua salute spero di no. In ogni caso a me è rimasta l’impressione che fosse l’attività per aspiranti suicidi e che se quello era il volo ultraleggero degli anni ’70 di certo non aveva creato in me alcun desiderio di praticarlo.” Mai dire mai, caro Bruno Servadei! (foto proveniente da www.flickr.com)

Ma se questo non bastasse, Servadei ha un canale You Tube nel quale ha pubblicato un gran numero di filmati, sia quelli “antichi” di quando volava con il T6, un vecchio e mitico addestratore militare, sia quelli moderni, girati con una delle più recenti versioni di telecamera digitale, la GoPro.

E poiché queste telecamerine possono essere montate ovunque, sia dentro che fuori dal velivolo, nei filmati di You Tube abbiamo davvero la sensazione di essere “dentro” le scene.

Il canale si può raggiungere digitando “Upload Bruno Servadei” nel campo di ricerca di You Tube.

I libri, invece, occorre ordinarli su Amazon. Una scelta dell’autore. Ma arrivano in tre o quattro giorni dall’ordine.

Oppure basta avere un Kindle.

Vorrei ricordare, infine, che se non si possiede un Kindle, è possibile avere questi libri anche con un tablet. Basta scaricare l’applicazione Kindle. Funziona altrettanto bene. Le foto di questo libro sono in bianco e nero, ma l’applicazione Kindle sul tablet consente di leggere tutti i libri, anche quelli che hanno foto a colori, con il vantaggio, non solo di vedere le foto a colori, ma di poter ingrandire le pagine a piacere.

Perciò, non avere un Kindle, se si ha il tablet, non è uno svantaggio, anzi.

Forse è decisamente meglio.






Recensione di Evandro A. Detti (Brutus Flyer)

Didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR


Ali di travertino

Un pilota a palazzo

Vita da Cacciabombardiere

Deci 83-86. I Ricordi di "Tiro 0"

Ali diplomatiche. In Svezia con le cordelline

Ali in valigia





Il mio cuore a gravità zero

titolo: Il mio cuore a gravità zero

autore: Carolina Dellonte

editore: Cartabianca Publishing

anno di prima pubblicazione: 2016

anno di seconda pubblicazion: 2019

ISBN cartaceo: 888880529X

ISBN digitale: 978-88-8880-521-4




“Questo è un ambiente difficile per una donna. … Quindi se

sei brava non basta, devi esserlo più degli altri e sempre, mai

abbassare la guardia”

(Carolina Dellonte – “Il mio cuore a gravità zero”)

Anche se il titolo “Il mio cuore a gravità zero”, potrebbe farci pensare a un astronauta, il sottotitolo – una ragazza, un aereo e la loro storia – ci svela subito la realtà.

Una ragazza – l’autrice, Carolina Dellonte, per dieci anni, pilota civile in una compagnia executive;

Un aereo – il P180;

Il Piaggio P180 Avanti in uno scatto perfettamente frontale che evidenzia la generosa forma ovoidale della fusoliera e gli ingombri di motori, semiali e carrello. Il velivolo è nato da un progetto dell’ingener Alessandro Mazzoni  e ha cominciato a volare nella galleria del vento già nel 1980; ad oggi risultano costruiti circa 250 esemplari, dunque un buon successo di vendite se si considera l’affollata categoria – quella dei velivoli executive – in cui si colloca l’Avanti. Nel 2005 il progetto ha subito alcuni notevoli miglioramenti dando vita alla versione Avanti II ma la vera svolta sostanziale – motori più potenti e silenziosi nonchè più parchi nei consumi, un’ala con allungamento aumentato del 50%, eliche pentapala a scimitarra più silenziose, serbatoio aumentato dl 50% – prende il nome di MPA (Multi Patrol Aircraft) e dovrebbe trovare impiego in attività di pattugliamento, sorveglianza e intelligence. Ha invece volato nel 2015 – ma con esito dai contorni piuttosto nebulosi – la versione con comando remoto (una sorta di grande drone) contrassegnata come P.1HH HammerHead. Nelle intenzioni dei progettisti della Piaggio, il velivolo dovrebbe svolgere varie missioni di sorveglianza, ricognizione e attacco ma, trattandosi di una commessa militare, è avvolta in una cortina fumogena in cui hanno messo lo zampino anche gli Emirati Arabi Uniti (foto proveniente da www.flickr.com)

La loro storia – non leggeremo di una “Superwoman”, ma di una donna normale con la passione, anzi l’amore per il volo, e la sua esperienza all’interno di quel mondo.

L’autrice ci condurrà nella sua bellissima avventura chiamata “volo” che l’ha portata appunto a diventare pilota e a lavorare per una compagnia executive.

Molto spesso una donna pilota si sente rivolgere la domanda: “cosa l’ha portata a prendere la licenza di volo?”

La risposta … semplice: “Lo stesso motivo per cui un uomo diventa pilota.”

E’ quella attrazione che si prova per il cielo, non è sfida ma una voce interiore che ti dice che lì vuoi andare.

Sì, perché senza passione non si diventa piloti, che tu sia uomo o donna. Per carità, la licenza la si consegue ma poi, alla prima difficoltà, ci si allontana. Proseguire per diventare un pilota professionale richiede dedizione, studio, grande volontà.

Nei tredici capitoli, l’autrice ripercorre le fasi della sua esperienza, attraverso una narrazione molto scorrevole mai noiosa.

Non è un’autobiografia, né un diario ma un ripercorrere le tappe salienti e i momenti più significativi di questa esperienza rivivendola, a distanza di tempo, con la consapevolezza di aver fatto la scelta giusta.

Sottolineare che il P180 abbia una configurazione alquanto originale è pressochè banale; è l’unico aeroplano al mondo prodotto in serie che sia stato progettato, sviluppato e certificato con una configurazione con ben tre superfici portanti: come tutti i velivoli canard è dotato infatti di alette sul muso ma anche di un equilibratore/stabilizzatore a T alto convenzionale. Dunque non è un canard! Inoltre ha un’ala con elevato allungamento, rastremata, con profilo laminare. I motori sono ugualmente inconsueti: a turbina con elica spingente, piazzati sul bordo d’uscita del dorso alare come la Piaggio aveva già preferito nei velivoli predecessori: l’anfibio P136 e il trasporto P166. Questo tipo di scelta rende la cabina assai confortevole dal punto di vista acustico in quanto i motori si trovano ben distanti dall’abiacolo ma rende unico il ronzio dell’Avanti per la sua particolarissima impronta sonora piuttosto acuta (foto proveniente da www.flikr.com)

Nel capitolo 1 – Le origini – conosceremo la sua famiglia e l’importanza che essa ha rivestito nella formazione della Dellonte, nonostante nessuno fosse interessato al volo, anzi la mamma era terrorizzata all’idea di volare.

Questo a voler dimostrare di quanto l’amore per il volo sia qualcosa che appartiene all’anima, non si trasmette geneticamente.

Per poi proseguire, con il periodo di addestramento presso la compagnia. Ci renderà partecipi delle sue emozioni : gioia, rabbia, serenità, tenacia, timore.

Il titolo del capitolo 3 – Amore a prima vista – potrebbe indurci in errore… sarà una love story con un compagno di corso??

“Solo quando fui sul punto di uscire alzai lo sguardo sulla parete di fronte alla scrivania dove stava seduto il mio nuovo capo. Ed eccola lì. Una foto gigantesca di uno strano aereo baffuto che sfrecciava tra le nuvole. Il Piaggio P180 Avanti.”

Si proprio lui, l’aereo del sottotitolo:

L’Avanti può trasportare da 6 a 9 passeggeri e può essere pilotato da uno o due piloti. L’avionica di cui è dotato è decisamene moderna trattandosi di una cosiddetta “glass cockpit”. Essa riunisce sui tre schermi LCD tutte le informazioni generate dai sensori di cui dispone il velivolo: parametri di volo, motori, apparati di comunicazione e navigazione, anticollisione e, naturalmente, i dati dei sistemi del velivolo. Noterete da questo scatto che i famosi “orologi” (strumenti a capsula o comunque analogici) non sono presenti nel cruscotto. Chissà come l’avrebbe presa Amelia Earhart ? (foto proveniente da www.flickr.com)

“… è un piccolo gioiello di cui l’industria italiana può andare fiera. La sua fama di essere, in aria, un aereo estremamente onesto, divertente e facile, si è sempre scontrata però con la credenza che le eliche siano più pericolose dei motori a reazione, una credenza ingiustificata nutrita da un immaginario comune piuttosto disinformato sull’argomento. È purtroppo la sfortuna di tutti gli aerei a elica, ma il P180 cresciuto in una nicchia per soli amatori, lentamente iniziò a farsi conoscere e a farsi amare. La nostra compagnia volava in tutta Europa ed era l’unica che avesse in flotta solo P180. Il nostro titolare, che lo amava moltissimo, contribuì non poco a renderlo famoso. Quando mi fu comunicata la data di inizio del mio addestramento ripensai a quando avevo visto quella fotografia sul muro dell’ufficio.”

Il P180 ha avuto un buon successo di vendite nel mondo civile nazonale e internazionale tuttavia, anche le Forze Armate italine hanno contribuito alle commesse con diversi esemplari. Quello ritratto svolge servizio tra le fila della Polizia di Stato italiana (foto proveniente da www.flickr.com)

Nei successivi capitoli, senza timore, con molta serenità ed onestà ci paleserà le difficoltà incontrate, sia durante il percorso addestrativo sia in seguito, nel dover vivere le dinamiche di un mondo tutto al maschile.

Ero l’unica donna in un team di venti piloti. Questo per certi versi fu sia un vantaggio, nel senso che ero vista come il tocco esotico in un gruppo di barbe, baffi e muscoli, sia uno svantaggio, nel senso che essere donna in un’epoca dove il lavoro del pilota in Italia era ancora di dominio maschile mi costrinse a faticare più del necessario.”

E ancora:

“Mi resi conto più avanti anche di quanto effettivamente questo mondo fosse difficile, non tanto per la sua organizzazione ma per le persone che ci lavoravano. Non solo, ma l’essere donna era sempre alla fine uno svantaggio, non tanto perché sei “donna” in un mondo fatto di uomini, ma perché, se sei brava, onesta e, diciamolo pure, incorruttibile, diventi un elemento fuori dal comune senso del controllo, e una donna fa sempre più paura di un uomo: è sempre stato così, è atavico, ancestrale”

Sapevate che in un’area che si trova al largo della costa ligure e a ridosso della Corsica esiste una zona di mare che assomiglia contemporaneamente all’Area 51 e al Triangolo delle Bermuda? No? Eppure l’autrice è convinta che esista tanto che ci si è trovata dentro con il suo mitico P180 … e ce lo ha raccontato minuto per minuto in un capitolo del suo libro. Da brivido! Come lo scatto che ritrae un P180 sotto un diluvio, Splendida la livrea. (foto proveniente da www.flickr.com)

I vantaggi e gli svantaggi di essere piloti nell’aviazione commerciale privata. Spirito di avventura e inesistenza di una vita privata.

Non esistono turni o se esistono raramente vengono rispettati. Il cliente può chiamare all’improvviso e stravolgere la pianificazione di un’intera settimana.”

Il piacere di conoscere posti nuovi, e il dispiacere di non poter coltivare una vita familiare.

Il volo si intreccia alla vita terrestre; i ricordi di bambina ai sentimenti di donna adulta; la vita familiare alle relazioni interpersonali con i colleghi.

Nel capitolo 12 – Quando un amore muore – l’autrice ci renderà partecipi dei motivi che l’hanno portata dopo 10 anni a lasciare il mondo del volo commerciale. Un analisi lucida, indice della forte personalità e del solido carattere di Carolina Dellonte.

“Volevo qualcosa di più. Qualcosa di più per me come persona, non come pilota”

“L’amore per il volo non lo avrei mai perduto, di questo ero certa, non era lui in discussione, ma tutto quello che ruotava intorno a quella vita.”

La copertina del libro di Carolina Dellonte nella sua versione cartacea con copertina rigida. In uno dei primi capitoli si può leggere il seguente periodo: “La prima vola che ebbi il coraggio di dire ad alta voce che volevo fare il pilota avevo undici anni, poi per i successivi venti non lo dissi più”. Niente di più singolare, non trovate? E qui si dimostra il talento dell’autrice che riesce a intrigare il lettore fino all’ultima riga dell’ultima pagina. Niente male per un pilota!

La brevissima biografia che troviamo al termine del libro, quasi una didascalia alla foto dell’autrice con il suo amato P180, non ci dà molte informazioni sulla sua vita.

Dopo aver lasciato l’aviazione executive, diventa istruttore CRM:

“volevo insegnare alle persone quello che sapevo di quel mondo e di quel lavoro. Diventare un istruttore nelle scuole di volo, riuscire a trasmettere conoscenza e amore a chi, come me tanti anni prima, si avvicinava al mestiere di pilota. In modo particolare mi aveva sempre appassionato il CRM (Crew Resource Management), quella disciplina che come piloti eravamo obbligati tutti gli anni a studiare. Lo studio del fattore umano in volo e la capacità di risoluzione delle emergenze usando tutte le risorse umane possibili.”

Si è laureata in psicologia e ha coltivato il suo interesse per la storia romana.

“Volevo tornare all’Università. Volevo riprendere i libri in mano e ricostruirmi un futuro.”

 Un cambio molto radicale alla sua vita, nessun rimpianto o nostalgia.

“Nella vita bisogna saper affrontare l’ignoto. Quando si resta fermi e si aspetta si perde solo tempo. Si tiene prigioniero un qualcosa che è nato per volare, qualcosa che è nato per andare. Bisogna lasciare che quello spirito che abbiamo dentro possa risorgere… Ascoltarlo è l’unica cosa che ci resta da fare per essere di nuovo liberi.”

Questo libro, come la stessa autrice scrive nei ringraziamenti, è un tributo a quel periodo della sua vita e a tutte le persone che più o meno consapevolmente hanno contribuito a renderlo ricco di emozioni.

Ancora una bella immagine di un P180 ghiacciato che pone in risalto la forma tutte curve della fusoliera (foto proveniente da www.flickr.com)

In appendice troviamo un capitolo: “Amelia Earhart: quando i piloti erano aviatori”, un omaggio e una bella riflessione su i piloti ante tecnologia elettronica, niente GPS, niente ILS, senza radar meteo. Tutto ciò che è assolutamente normale oggi ma ieri neanche pensabile.

Un omaggio a tutte le donne, che sin dall’inizio dell’aviazione, hanno voluto, a ragione, farne parte.

Anche se il cielo è blu, l’altra metà del cielo è rosa.

“There is a big difference between a pilot and an aviator. One is a technician; the other is an artist in love with flight”(E.B.Jeppesen)

che in italiano si traduce come:

“C’è una grande differenza tra un pilota e un aviatore. Uno è un tecnico; l’altro è un artista innamorato del volo”

La lettura è adatta a tutti: amanti del volo e timorosi di salire su un aereo; giovani e meno giovani.

Sicuramente una riflessione per le giovani donne, a non rinunciare ai loro sogni, a non lasciarsi intimorire, a non aver paura di osare.

A non accettare soprusi, a non farsi mettere in un angolo solo perché “donne”. 

E non poteva mancare la biografia ufficiale dell’autrice così come riportata all’interno del volume di esordio. Una precisazione è però d’obbligo: il secondo libro è stato pubblicato e s’intitola: “Volo vedo vivo”.

Nel mondo dell’aviazione le donne sono ancora una piccola minoranza, ma la loro presenza si fa sempre più sentire.

Quando, a bordo di un aeroplano, una voce femminile vi dirà: “Qui è il vostro comandante che vi parla abbiamo ultimato le operazioni di imbarco e siamo pronti a muoverci” rilassatevi e godetevi il volo perché una donna è ai comandi e si prenderà cura dei suoi passeggeri e del suo aeroplano come solo una donna sa fare … e gli aeroplani lo sanno.

Happy landings






Recensione di Franca Vorano,

Didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR





Scramble!

titolo: Scramble! – The dramatic story of a young fighter pilot’s experience during the Battle of Britain & the Siege of Malta

autore: Tom Neil

Editore: Amberley Publishing, www.amberley-books.com

data di pubblicazione:  2015

ISBN libro cartaceo) : 9781445649511

ISBN ebook: 9781445649528




Quando Tom Neil cominciò a raccogliere le proprie memorie degli anni di guerra pensava di scrivere un solo libro. Ma poi, accumulò materiale per almeno tre libri. Per anni aveva scritto e pubblicato le sue avventure di pilota di caccia durante la guerra. Si può ben immaginare che le maggiori riviste del settore aeronautico fossero interessate ai suoi articoli.

Oltretutto, Neil ha un modo di scrivere veramente accattivante. Le sue pagine sono intrise di quel classico umorismo inglese che non ha mancato di conquistarmi nel corso della lettura. Ho finito per comprendere perfino le sue frasi idiomatiche, così difficili da compenetrare per noi italiani.

L’umorismo inglese lui lo mette anche nella descrizione delle tragedie più terribili. Ma in “Gun button to fire” aveva spiegato chiaramente che la guerra li aveva abituati ad accettare, con un’elevata indifferenza, ogni avvenimento, fin dai primissimi giorni. Non c’era molto dell’umorismo inglese in quel libro. Forse lo aveva riservato tutto per i libri successivi, per “The silver Spitfire” e “Scramble!“. E infatti in questo ultimo volume non si finisce mai di ridere, nonostante i fatti tragici, immancabili, che descrive. Perché in questo libro, evidentemente, ha scelto di usare un modo ironico che sottolinea gli aspetti tragicomici della guerra e altrettanto bene della vita comune.

E poi, lo dico subito: “Scramble!” è sorprendente.

Il britannico Tom Neil, classe 1920, è stato un autore piuttosto prolifico: ha dato alle stampe ben 10 volumi a partire dal 1990 al 2017 ed è stato capace di raccontare in modo invidiabile le sue esperienze di pilota da caccia della RAF nel corso della II Guerra Mondiale. A distanza di tanti anni, il suo racconto è divenuto una vera e propria testimonianza storica di un epoca ormai lontana che appartiene ai nostri bisnonni più che ai nostri nonni. A Tom Neil dobbiamo dunque riconoscere il merito di un’apprezzabile opera narrativa, assai piacevole, quasi giornalistica che però non si limita al ricordo cronologico delle vicende vissute in prima persona, alle sue sensazioni e ai sentimenti provati nel corso di quegli anni terribili, alle persone conosciute e frequentate … ma anche e soprattuto riesce a tratteggiare con mirabile vividezza un periodo storico tra i più bui dell’umanutà intera. 

Gun button to fire” era un lungo racconto di vita, un compendio di Storia aeronautica, centrato sul periodo della cosiddetta “Battle of Britain“(o Battaglia d’Inghilterra).

Scramble!” invece, sebbene cominci dai suoi primi anni di vita dell’autore e poi ricalchi la linea di narrazione dei primi anni di guerra, tanto da avermi fatto fare un bel ripasso dell’altro libro, è molto più particolareggiato in ogni descrizione.

Qui troviamo la vera vita di un tempo lontano, la Gran Bretagna di allora con tutte le sue caratteristiche peculiari, la mentalità, i luoghi, i modi di viaggiare, i personaggi tipici, il loro ancor più tipico modo di ragionare e di comportarsi. Il tutto, descritto in modo delicatamente comico. Ma estremamente vivido e riconoscibile.

Tom Neil è stato un grande pilota, ma anche un grande scrittore.

Il suo talento si estende dalla prima pagina fino all’ultima e riesce veramente a far vivere al lettore le sue stesse vicende. Su queste pagine mi sono fatto un mare di risate perché … in verità gli stessi episodi, in fondo, avvengono pari pari anche qui da noi. Ne ho riconosciuti molti, ma descritti da un inglese diventano impagabili.

Mi sono preso la briga di seguire la narrazione di Neil riguardo a tutti i suoi spostamenti nel territorio del Regno Unito, da un aeroporto all’altro, da una città all’altra, cercando su Google Earth ogni location e tutti i suoi dintorni. Molto interessante.

Scrive Neil:

“… I became quite an expert on the major rail junctions on all four railway systems in Britain… I grew to know (some stations) like the back of my hand, especially as seen between the hours of midnight and 4 a. m.! I often reflected that, were I to survive and have grandchildren, I should be able to claim, not so much that I had flown aircraft during the war, but that I had travelled to every known inch of Britain by rail – and mostly at dead of night”.

“… Divenni abbastanza esperto delle principali stazioni di scambio dei quattro sistemi ferroviari inglesi… imparai a conoscere (alcune stazioni) come il palmo della mia mano, specialmente come apparivano tra la mezzanotte e le quattro di mattina! Pensavo spesso che, se fossi sopravvissuto e avessi avuto nipoti, avrei dovuto affermare, non tanto di aver pilotato aerei durante la guerra, ma di aver viaggiato per ogni conosciuto angolo d’Inghilterra in treno – e nella maggior parte dei casi a notte fonda”.

Questa parte mi ricorda molto i miei viaggi in treno durante il periodo di permanenza nell’Aeronautica Militare Italiana, molti anni più tardi. Anche a me capitava spesso di viaggiare di notte. Oggi non si può più fare, almeno a cuor leggero. Non è più sicuro come prima. Allora si stava tranquilli.

In uno di questi viaggi Neil perse il treno notturno per una località che si chiamava Dundee, perché il treno, appunto, era partito tre minuti prima dell’orario stabilito.

ll termine “scramble”, tradotto dalla lingua inglese, significa letteralmente arrampicare. In effetti si tratta di un verbo che, sebbene usato anche nella quotidianità, ha assunto una connotazione squisitamente militare e, in particolare, dell’Aeronautica militare. Nel gergo aeronautico moderno lo scramble consiste in una serie di operazioni rapidissime – il più rapide possibile – che sono finalizzate a far decollare uno o più caccia intercettori – in genere una coppia – allo scopo di identificare un aereo sconosciuto che ha violato lo spazio aereo nazionale. Per scarmble s’intende perciò lo stato di allarme che si innesca quando viene dichiarato lo scramble, appunto, mentre l’aeromobile fantasma si chiama “bogey”. In una lingua – quella inglese – in cui mancano le molteplici sfumature tipiche della lingua italiana, lo scramble suona letteralmente come l’arrampicata che i velivoli intercettori devono compiere per raggiungere l’intercettato. Da qui la lotta contro il tempo, la salita vertiginosa a tutto motore verso il punto di randezvous con il presunto nemico, il contatto – prima radar e poi visivo – con l’intruso, l’accertamento della sua identità ed eventuale ostilità. Così impostato, lo scramble è divenuto l’attività di punta dei reparti caccia divenuti intercettori; in tempo di pace – grazie al cielo – lo scramble è l’unica attività adrenalinica cui è soggetto un pilota dei reparti caccia. In realtà – la storia ci insegna  – il termine fu introdotto durante la II Guerra Mondiale, proprio nel corso della Battaglia d’Inghilterra, ossia quando i piloti degli aerei da caccia britannici della Royal Air Force venivano allarmati da parte del Comando della difesa aerea, per contrastare in modo chirurgico i “bandits”, ossia gli aerei tedeschi diretti verso la Gran Bretagna. Nella foto è ritratto appunto uno dei primi intercettori della storia: il Supermarine Spitfire in assetto di salita ripida. Ovviamene la foto è recente: risale all’agosto 2020 ed è stata scattata durante l’Old Warden Drive in Airshow tenutosi presso lo Shuttleworth Aerodrome di Biggleswade nello Bedfordshire, in Gran Bretagna. In realtà questo esemplare di Spitfire Mk VC partecipò davvero alla difesa dell’isola in quanto prestò servizio tra le fila dei velivoli in forza del 310° Squadron della RAF basata a Exeter nel 1942 (foto proveniente da www.flickr,com)

Un evento che non si verificava mai nella Gran Bretagna di allora. I treni erano estremamente ligi agli orari stabiliti.

Sorpreso e stupito di come una cosa del genere potesse essere accaduta, chiese a un capostazione l’orario del treno successivo. Ma non ce ne sarebbe stato un altro prima del giorno dopo. Aveva tutta la notte da passare nell’atrio della stazione.

Perciò, dopo un attimo di costernazione, si decise a partire a piedi per raggiungere la stazione di scambio successiva. E avrebbe camminato lungo i binari della ferrovia. Erano poche miglia da percorrere. Lo aveva fatto molte altre volte.

Già camminare sulla ferrovia non è una buona idea, per il pericolo che comporta. Inoltre, con la guerra che incombeva, tutte le luci non indispensabili erano tenute spente. Sarebbe stato buio pesto lungo tutto il percorso e in certi punti c’erano delle guardie notturne armate, il cui scopo era quello di scoprire e catturare eventuali spie e sabotatori. Di solito si trattava di improbabili ex militari della Prima Guerra Mondiale, pensionati, ormai in là con gli anni.

Infatti è proprio in uno di essi che Neil si imbatte, appena partito e fuori dalla stazione.

“I had gone about 400 yards when, out in the blackness and from a distance of only a few yards, there came a shout. “Halt!” I nearly died. The voice again, almost a treble. “Halt! Don’t ye move, now!”.

“Avevo percorso circa 400 metri quando, nell’oscurità e a una distanza di pochi metri arrivò una incitazione: “Alt!” Quasi mi fece morire. La voce ripeté, quasi in un tremolio. “Alt! Non ti muovere, ora!”.

Non scrive “don’t you move”, ma proprio “don’t ye move”. In molti casi, Neil scrive le conversazioni in modo da sottolineare più il dialetto che la lingua inglese. E questo, per un lettore italiano, va oltre la completa comprensione.

La descrizione di questo incontro è tutta da leggere. La riporto solo come esempio. Ma il libro è tutto così.

“I called back uncertainly, “Friend!” There were shuffling steps in the dark and I sensed that whoever had called was a good deal more scared than I was. And I was not far wrong”.

“Risposi in maniera incerta “Amico!” Ci fu rumore di passi nel buio e intuii che chiunque fosse stato a parlare era un bel po’ più spaventato di quanto lo fossi io. E non mi sbagliavo”.

Per anni l’intercettore per antonomasia dell’Aeronautica Militare Italiana è stato il Lockeed F104 Starfighter o “Spillone”. Praticamente un missile dotato di ala, capace di arrampicarsi quasi in verticale verso i “bogey” di allora. Nacque in un epoca – quella della guerra fredda – in cui era uso sondare la reattività delle difese aeree avversarie e in cui la possibilità di un sorvolo nemico di bombardieri strategici ad alta quota non era solo finzione cinematografica. (foto proveniente da www.flickr.com)

Emerse un personaggio di piccola statura, con il mozzicone di una sigaretta in mano. Ma anche con un fucile nell’altra. Tremava di freddo e tremava anche la sua voce, mentre ripeteva a Neil di non muoversi. Una situazione delicata, un uomo impaurito, che sta di guardia nel buio e si imbatte in uno sconosciuto che cammina lungo i binari, potrebbe anche sparare prima di fare domande.

Neil era cosciente di questo, nonostante i suoi diciannove anni. Ma la guardia sembrava un brav’uomo. E’ qui che la descrizione del fatto, di per sè delicato e pericoloso, diventa divertente e si presta a quel sottile umorismo inglese di cui parlavo.

Scrive Neil:

“I assured him that I had no intention of moving and the small figure, holding a rifle and seeming uncertain as to what to do next, fumbled about in the dark, presumably hunting for a torch or light. For an instant, I thought of offering to hold his gun whilst he did so and found myself grinning then wanting to giggle”.

“Lo rassicurai che non avevo intenzione di muovermi e la piccola figura, tenendo un fucile e sembrando incerto su cosa fare, armeggiò nel buio, forse cercando una torcia o una qualche fonte di luce. Per un attimo pensai di offrirmi di tenergli il fucile mentre cercava e mi trovai a ghignare e mi veniva da ridere”.

Ecco. Una situazione tragicomica. Lo standard di questo libro.

In questa occasione fu praticamente arrestato. Ma dopo essere stato identificato, la sua situazione cambiò sensibilmente. Dovette passare la notte confinato in una stanza, insieme a un gruppo di operai della ferrovia, che gli offrirono del thè e un letto lercio.

Anche la descrizione di questa notte, trascorsa senza quasi dormire, ha risvolti tragicomici. Non poteva uscire e andarsene. Forse, in considerazione della sua giovanissima età, aveva circa diciannove anni, i suoi più attempati detentori volevano solo evitare che andasse a cacciarsi in guai più seri.

Neil descrive senza mezzi termini il russare dei suoi compagni di stanza, gli odori e i rumori, e le condizioni del suo giaciglio, dalle lenzuola nere e infestato di pulci.

Avevo letto con piacere, nei primi capitoli, il racconto del periodo della scuola di volo. Neil descrive l’ambiente, gli istruttori e gli aerei. Negli altri due libri non ne aveva parlato in maniera particolareggiata. Molto interessante per un pilota.

Ma l’argomento che speravo di trovare e che, anche questo, non era stato troppo sviscerato negli altri libri, era l’incontro – scontro con i piloti italiani.

Uno dei pochi Fiat CR-42 Falco ancora oggi esistenti al mondo – fatto salvo per quello conservato gelosamente all’interno del Museo Storico dell’AMI a Vigna di Valle – Roma, è un esemplare britannico che fa parte della The Fighter Collection, strabiliante raccolta di cimeli rigorosamente volanti della II Guerra Mondiale. Questo Falco faceva bella mostra di sè nel corso della Flying Legends Airshow a Duxford, in Gran Bretagna, in attesa del completamento del restauro che gli consentirà di tornare in volo. E’ una fedelissima ricostruzione di un Falco della Regia Aeronautica realizzato partendo da un Falco incidentato svedese.(foto proveniente da www.flickr.com)

I pochi aerei che avevano attraversato la Manica per bombardare l’Inghilterra erano stati decimati. I caccia CR42 che li scortavano erano stati abbattuti o respinti.

Neil non li aveva mai incontrati personalmente. Non nasconde di essere stato molto interessato ad incontrarli, ma per una serie di ragioni non era accaduto.

I suoi compagni di squadriglia che avevano combattuto contro i nostri biplani, sebbene ne avessero parlato in  maniera vagamente ironica, avevano, però, anche detto che non dovevano essere sottovalutati. Erano rimasti sorpresi dalla loro estrema maneggevolezza. E dall’abilità dei piloti, dal loro coraggio, dal loro valore. Avevano espresso un certo rispetto per quei poveri diavoli, seduti in cabine aperte, nel freddo tremendo e a contatto diretto con il vento gelido, senza capi di vestiario adeguati, senza ossigeno, penalizzati ancor più dalla lentissima velocità dei bombardieri bimotori che dovevano scortare e difendere.

Uno di quei caccia, proprio un CR42, si trova oggi a Hendon, vicino Londra, al Museo della RAF. L’ho visto alcuni anni fa, quando c’era solo quello da poter vedere. Poi ne è stato ricostruito anche un altro che ora si trova al Museo di Vigna di Valle, sul lago di Bracciano. Ma credo proprio che non ne esistano altri al mondo.

Tornando alla mia legittima curiosità di sapere cosa pensavano i britannici degli italiani, che allora erano ancora nemici e che solo più avanti non lo sarebbero stati più, arriviamo finalmente al diciannovesimo capitolo. Il titolo è: “Flight to Malta”.

Infatti Neil, con la sua squadriglia, fu trasferito a Malte nel 1941.

Malta è stata sempre un obiettivo strategico, durante la Seconda Guerra Mondiale. La sua posizione era strategica per natura. Le forze dell’Asse che combattevano in Africa dovevano attraversare un bel pezzo di mare per raggiungere il Nord Africa e rifornire i loro contingenti di ogni tipo di materiale e di truppe. Da Malta era facile intercettare i convogli di navi. E perfino le squadriglie di lenti trimotori che volavano dalla Sicilia alla Libia e viceversa. L’isola si trovava proprio a metà strada tra le coste della Sicilia e le coste africane.

Una rara immagine di un Macchi MC 202 Folgore al suolo, ripreso in rullaggio tra gli ulivi e con lo specialista appollaiato all’estremità dell’ala. Lo scatto proviene da qualche aeroporto del sud Italia durante la II Guerra Mondiale e testimonia la necessità – o meglio l’espediente – di decentrare i velivoli in mezzo agli uliveti, ossia in aree prossime alla pista dell’aeroporto per sottrarli all’attacchi al suolo avversari. Il Folgore fu un ottimo velivolo ma, la sua tardiva comparsa in combattimento e l’esito ormai irrimediabilmente segnato del conflitto, permise ai piloti della Regia Aeronautica solo di confrontarsi tecnologicamente alla pari con i piloti Alleati, non certo in termini numerici (foto proveniente da www.flickr.com)

Per questo Malta era stata messa sotto una sorta di assedio e veniva attaccata frequentemente dai nostri caccia, non solo dai soliti CR32 e CR42. C’erano anche i vecchi Macchi 200, a cabina aperta e soprattutto i Macchi 202. Dopo comparvero sulla scena anche altri tipi di caccia più moderni, che potevano davvero competere con gli obsoleti Hurricane britannici. Gli Spitfire furono mandati a Malta solo più tardi. Allora entrarono in gioco i nostri nuovi Macchi 205, che poco avevano da invidiare perfino agli Spitfire. Ma ormai la guerra aveva già preso tutta un’altra piega.

No, non avete le traveggole … questo scatto d’epoca testimonia l’audace operazione con la quale fu rimpinguata la difesa aerea di Malta: lanciare da una portaerei in navigazione nel bel mezzo del Mediterraneo un cospicuo numero di caccia terrestri. Ai comandi di uno di questi, un Hawker Hurricane, c’era proprio il nostro autore. Inutile precisare che si sarebbe trattato di una missione di sola andata: o atterravi a Malta aeroporto o ammaravi … Tom Neil atterrò a Malta! (foto proveneiente da www.flickr.com)

Tom Neil arrivò a Malta attraverso il Mediterraneo a bordo di una portaerei inglese.

Quando giunse vicino a Malta, ma non troppo vicino, la sua squadriglia decollò dal ponte della nave e raggiunse l’isola in volo.

La descrizione di questo viaggio è interessantissima e lascio il piacere di leggerla a chi lo vorrà fare.

Non si tratta di una storia semplice. E’ intrisa di avventure di ogni tipo, difficoltà di navigazione, pericoli, avarie (una delle peggiori toccata proprio a Neil) e di strategie militari tipiche di un teatro di guerra tra i più pericolosi e subdoli. Basta pensare al fatto che il Mediterraneo non è piccolo come sembra se lo guardiamo sulla superficie di un mappamondo. Ore e ore di navigazione senza riferimenti sul mare, con un ingombrante serbatoio supplementare sotto la fusoliera, senza armi, che erano state tolte per compensare il maggior peso costituito dalla benzina in più. E con un solo motore.

Ancora una splendida ripresa frontale del caccia più famoso della Battaglia d’Inghilterra: il Supermarine Spitfire. Nello specifico, si tratta di un Mk VC appartenente al 315° Czechoslovak Squadron di stanza a Yeovil (nel Somerset – Gran Bretagna) nel 1942. (foto proveneiente da www.flickr.com)

Ammarare, sapendo che l’Hurricane affonda immediatamente dopo aver toccato, lascia poco tempo tra la possibilità di vivere o morire.

I capitoli successivi raccontano della vita su Malta. E sono di estremo interesse, specialmente per chi conosce la Malta di oggi.

Neil operava da un aeroporto che oggi non esiste più, ma se si guarda l’isola in una delle fotografie di Google Earth si riesce facilmente a localizzarlo. L’impronta della pista e delle vaste aree aeroportuali è ancora ben stampata nel paesaggio, come la cicatrice di una ferita. Basta digitare il nome del vecchio aeroporto, Ta Kali, nel campo di ricerca di Google Earth per trovarlo.

Nei primi mesi del 1941, i pochi Hurricanes presenti a difesa dell’isola dovevano affrontare i caccia e i bombardieri tedeschi. Ma le incursioni, abbastanza frequenti, non sembravano fare molti danni. Oltretutto, appena i tedeschi entrarono in guerra con i loro ex alleati russi, aprendo sprovvedutamente un altro fronte, trasferirono ad Est le loro forze aeree e rimasero solo gli italiani ad attaccare l’isola.

Thomas Francis “Ginger” Neil ci ha lasciato alla veneranda età di 98 anni, tre giorni prima del compimento del suo compleanno e, al di là delle medaglie conseguite, delle onorificenze che gli furono attribuite per la sua breve quanto intensa attività di pilota da caccia, ci piace ricordarlo come il ragazzo appena ventenne che si trovò nel bel mezzo della Battaglia d’Inghilterra prima, e di Malta poi.

Leggendo queste vicende mi imbattevo spesso nella parola “Huns” che significa “Unni” e che si riferisce ai tedeschi. E questo termine mi era chiaro per averlo trovato in tutti i libri di Neil. Evidentemente era un termine molto usato all’epoca.

Ma ad un certo punto ho trovato la parola “Eyeties“. E questa non era mai stata usata prima, né spiegata in alcun modo.

Non sapendo come tradurla ho continuato a leggere per vedere se più avanti, almeno dal contesto, potessi venire a capo del dilemma.

Pian piano ho cominciato a capire che si riferiva agli attaccanti, ai nemici. E siccome ormai i nemici erano solo, o prevalentemente, gli italiani, doveva riferirsi a loro. Ma in che modo?

Una breve ricerca su Internet ha chiarito la faccenda.

Quando gli alleati prendevano prigionieri scrivevano la nazionalità accanto al loro nome. Nel caso degli italiani mettevano la sigla “IT” che sta per “Italian“.

E come si pronunciano, in inglese queste due lettere? Si pronunciano “Ai Ti”.

Al plurale si dice “Ai Tis”.

A forza di usare questa sigla, divenuta di uso comune, qualcuno ha preso a riferirsi agli italiani come agli “Eyties“.

Uno dei velivoli protagonisti della Battaglia di Malta fu il Macchi MC-200 Saetta che qui vediamo ritratto preso il Museo Storico dell’AMI a Vigna di Valle sul Lago di Bracciano. Il Saetta fu il primo velivolo moderno entrato in servizio nei reparti della Regia Aeronautica. Arrivò nel 1939, mentre imperversavano ancora i biplani; si presentò come il primo monoplano interamente metallico con carrello retrattile e struttura a guscio … peccato che avesse un motore troppo poco potente (solo 840 cv), un armamento assai limitato (solo de mitragliatrici calibro 12, 7 mm) e la cabina aperta. Certo era maneggevole (sebbene fu inizialmente afflitto da problemi di autoritazione poi risolti) e, in più occasioni, tenne testa agli Hawker Hurricane nel combattimento manovrato ma non aveva granchè possibilità di vittoria contro i ben più veloci Spitfire (foto proveniente da www.flickr.com)

Il primo vero riferimento agli Eyties che Neil fa, e che riguarda il modo in cui erano considerati i nostri connazionali si trova nel ventesimo capitolo.

“Soon, the Hun units, which had dealt so harshly with our ships and aircraft in and around Malta, would be departing for the borders of Russia, leaving us only the Italians with whom to wage war. Had we known of this at the time, we might have felt rather better; The Germans we could just about cope with, the Eyties we regarded as easier meat. After all, were they not the chaps whose tanks were said to have one forward gear and four reverse, and who boasted that nothing could catch their cruisers and destroyers?”.

“Improvvisamente, le unità tedesche, con le quali avevamo avuto a che fare così duramente con le nostre navi e aerei nell’isola di Malta e nei suoi dintorni, erano partiti per il fronte russo, lasciandoci solo gli Italiani con i quali fare la guerra. Lo avessimo saputo all’epoca, ci saremmo sentiti piuttosto meglio; con i Tedeschi potevamo appena competere, gli Italiani li consideravamo come carne più facile. Dopo tutto, non erano forse quelli, dei cui carri armati, si diceva che avessero una marcia avanti e quattro indietro, e che si vantavano che niente potesse raggiungere le loro navi da guerra?”.

E aggiunge, riferendosi ai nostri aerei che avevano attaccato, tempo prima, l’Inghilterra:

“…we had heard all about the Fiat BR 20 bombers and CR 42 fighters. Biplane fighters!”.

“…avevamo sentito dei bombardieri Fiat BR 20 e caccia CR 42. Caccia biplani!”.

Più avanti Neil parla di quattro aerei Savoia italiani intercettati vicino all’isola. Uno era stato abbattuto e solo un componente dell’equipaggio si era salvato. Ma anche un pilota inglese, un sergente di nome Rex, era stato abbattuto.

L’inglese, sostenuto dalla sua Mae West, aveva preso a nuotare, purtroppo nella direzione sbagliata.

L’italiano si era aggrappato ad un pezzo di ala che galleggiava e ci si era sistemato sopra.

Un coppia di Fiat BR-20 Cicogna in volo in alta quota. Il bombardiere bimotore, progettato dall’ing Celestino Rosatelli, partecipò alla Battaglia di Malta ma il suo carico bellico limitato e l’armamente difensivo non certo portentoso non furono determinanti nell’esito dello scontro. E pensare che, allo scoppio dello ostilità, le difese dell’isola sarebbero state sopraffatte assai facilmente in quanto male in arnese sia a livello numerico che tecnologico (foto proveniente da www.flickr.com)

Entrambi furono salvati da una lancia. Il viaggio di ritorno verso la costa durò due ore.

Dice Neil:

“Rex and the Eytie spent the next two hours sitting in the launch, commiserating with each other”.

“Rex e l’Italiano passarono le successive due ore seduti nella lancia, commiserandosi a vicenda”.

Alla fine, siamo proprio tutti esseri umani.

L’italiano era ferito e ustionato. Fu portato all’ospedale in una località di nome Imtarfa.

Un paio di giorni dopo, Neil e altri commilitoni andarono a far visita all’italiano ferito. Gli portarono alcune cose che pensavano potessero essergli utili e perfino un rasoio per potersi radere.

Lo trovarono in uno dei vani dell’ospedale e sembrava molto in apprensione per la propria sorte.

Con l’assistenza di un medico che parlava italiano cercarono di calmarlo e rassicurarlo. Passarono un certo tempo con lui.

Mi viene da pensare che forse andarono più per interrogarlo che per confortarlo. E forse lo fecero senza parere, sfruttando la naturale tendenza degli italiani alla socializzazione e al fatto che pochi, all’epoca, erano quelli che veramente volevano la guerra.

Quando andarono via il piccolo uomo li salutò con gratitudine e amicizia, felice come un bambino.

Ora sarebbe interessante fare una ricerca, vedere chi fu abbattuto in quella data nel mare di Malta e scoprire chi fosse quell’uomo. E che fine ha fatto dopo il ricovero in ospedale.

C’è anche un altro abbattimento, descritto nelle pagine successive. In questo caso, però, i superstiti erano di più. E rimasero a galleggiare in mare per parecchio tempo. In loro soccorso partì un idrovolante italiano della Croce Rossa. Giunto nei pressi dei superstiti l’aereo si apprestava ad ammarare.

Una squadriglia, di cui Neil non faceva parte, sorvolò la zona e riportò per radio, al controllo dell’epoca, il quadro della situazione.

A leggere le vicende narrate da Tom Neil nel suo libro, era probabilmente un idrovolante come questo – un Cant Z 501 Gabbiano – che, nonostante le insegne della Croce Rossa, fu abbattuto nello specchio di mare antistante l’isola di Malta. Da questa foto d’epoca s’intuisce che un velivolo del genere era praticamente inoffensivo, disarmato e utilizzato solo per la ricerca e il soccorso non certo per operazioi offensive (foto proveniente da www.flickr.com)

L’ordine fu perentorio: abbattere l’aereo soccorritore.

Il caposquadriglia rispose rabbiosamente che non si poteva fare una cosa del genere, aggiungendo che l’aereo aveva le croci rosse ben visibili su ali e fusoliera.

Ma stavolta non c’era nessun sergente Rex da salvare. L’ordine fu confermato in maniera perentoria.

L’aereo fu abbattuto. E, forse, altri uomini furono lasciati a morire in mare, in modo orribile.

Bene. Devo dire che Neil afferma di aver rilevato una notevole costernazione per quell’ordine e per quello che qualcuno aveva dovuto fare. Tutti erano rimasti sconcertati dal fatto che qualcuno potesse aver dato un ordine tanto estremo e che qualcun altro avesse dovuto trovare la forza per eseguirlo.

Ma anche così, la realtà non cambia.

La guerra è una cosa stupida e crudele. Ma mi permetto di aggiungere, poiché lo credo fermamente, che gli “Eyeties” non si sarebbero macchiati di un crimine del genere.

Nei mesi di permanenza di Neil a Malta si susseguono scontri con squadriglie italiane. I caccia Macchi 200 erano piuttosto ridicoli agli occhi degli inglesi. Il fatto che avessero la cabina aperta, con solo un deflettore, faceva pensare che gli italiani li preferissero così.

E vi sono racconti di incursioni sulla Sicilia, per attaccare le nostre basi.

In generale, però, se le nostre formazioni passavano in quota e non si mostravano aggressive, qualche volta gli inglesi non si degnavano neppure di partire per intercettarli.

La vita sull’isola era piuttosto miserabile. Neil scrive di stormi di zanzare, eserciti di pulci dalle quali non ci si poteva difendere neppure con quintali di DDT, che facevano più male alle persone che ai parassiti. Il caldo era atroce. Il cibo pessimo.

Tutti cercavano di sopravvivere al meglio possibile.

All’epoca si leggevano certi libri che andavano per la maggiore. Uno di questi era “Winged Victory“, di Victor Yeates.

Ho recensito già questo libro, con il titolo di “Vittoria tra le nuvole“, qui su Voci di Hangar.

Vittoria tra le nuvole - V.M. Yeates - Copertina
Il libro autobiografico “Winged Victory” o “Vittoria tra le nuvole di Victor Yeates citato da Tom Neil nelle pagine de suo volume

Si trova anche con altri titoli, come “Alta quota“.

Invito a cercare la mia recensione e leggerla. E’ davvero un libro interessante.

Nel raccontare la vita quotidiana su Malta, Neil riporta anche alcuni episodi che credo di aver identificato in certi fatti storici letti in altri libri. Si tratta di attacchi alle navi inglesi nel porto di Malta, che la nostra Decima MAS condusse con successo e che rappresentò il valore dei nostri militari, anche se la Storia ha finito per rendere evidente che combattevano dalla parte sbagliata.

Sbagliata, certamente, perché non si può pensare che combattere al fianco di un pazzo criminale come Hitler significasse stare dalla parte giusta.

Era un’altra epoca, si credeva in altri valori, non c’era modo di confrontarsi con altre idee, non c’era internet, la televisione era appena in embrione e la radio trasmetteva solo ciò che serviva al regime. Ma il valore è un’altra cosa.

Neil descrive i famosi barchini velocissimi che si presentarono vicino al porto maltese e attaccarono con decisione la flotta alla fonda. Alcuni furono distrutti e gli incursori uccisi o catturati.

Erano Eyeties, ma erano eroi. Qualunque cosa pensassero gli inglesi degli italiani.

Il caccia Macchi 202 faceva la sua comparsa in quel periodo.

“There was news, too, of the Eyeties getting something called a Macchi 202, which had the same in line engine as the 109 and was supposed to be about as fast. None of us had seen any, but we were not too concerned about the prospect of meeting them. Eyeties were Eyeties, when all was said and done”.

“C’erano notizie, pure, che gli Italiani avessero qualcosa chiamata Macchi 202, che aveva lo stesso motore del Me 109 e che avrebbe dovuto essere altrettanto veloce. Nessuno di noi ne aveva mai visto uno, ma non eravamo troppo preoccupati dalla prospettiva di incontrarli. Gli italiani erano italiani, dopo tutto”.

Una splendida immagine dal basso di uno Spitfire. Nell’attivazione dello scramble e durante lo scramble gioca un ruolo fondamentale il sistema di avvistamento radar e il sistema di controllo a terra chiamato sinteticamene “Guidacaccia”. In effetti l’intrusione viene dapprima rilevata dai radar di terra (o aviotrasportati ), quindi la Sala comando direziona e coordina i velivoli intercettori verso il “bogey”. Durante la Battaglia d’Inghilterra  assunse un ruolo determinante la rete dei radar costieri che, sebbene ad un livello tecnologico piuttosto grezzo, quasi sperimentale, erano in grado di rilevare l’avvicinarsi – e spesso lo stesso involarsi – degli aerei nemici in avvicinamento alla costa britannia. A quel punto, i piloti del sistema di difesa aerea dell’isola venivano allertati con l’ordine di scramble. Era sufficiente una semplice telefonata ricevuta dal comando del reparto ad attivarli. Dopodichè partiva una corsa contro il tempo: i piloti si precipitavano nei propri velivoli – se non erano già a bordo – e decollavano prima possibile nel tentativo di contrastare il nemico prima possibile. (foto proveniente da www.flickr.com)

Concetto piuttosto chiaro.

Che gli italiani combattessero malvolentieri e che si sentissero, almeno alcuni di loro, dalla parte sbagliata, corrisponde a tanti racconti che ho sentito da persone che la guerra l’avevano fatta. Si sapeva addirittura di possibili sabotaggi ai siluri che i nostri aerosiluranti andavano a sganciare a poche centinaia di metri da una nave avversaria. Nave che sparava su di loro con tutte le armi disponibili, per tutto il percorso di avvicinamento, anche quando l’aereo era costretto a sorvolare quella nave ad appena poche decine di metri di quota e poi per tutto il lento allontanamento successivo.

Spesso l’aereo veniva abbattuto.

Neil racconta uno di questi siluramenti, mentre andava in Egitto, al termine della sua permanenza sull’isola di Malta. Il convoglio, del quale faceva parte la nave sulla quale era imbarcato, fu attaccato da un aerosilurante italiano. Il siluro fu sganciato proprio sulla sua nave, ma non scoppiò.

L’aereo fu abbattuto.

Come ho detto, sarebbe interessante fare un raffronto tra questi racconti e i documenti ufficiali, per risalire ai nomi degli eroici Eyeties

E Neil dice anche che spesso riuscivano a sapere il destino degli equipaggi dei nostri abbattuti. La radio italiana ne parlava e a Malta molte persone erano di origini italiche e capivano la nostra lingua. Gli inglesi avevano ormai radicate relazioni con le donne maltesi. Qualcuno si è poi addirittura sposato con una di loro.

“If we had shot at a Macchi, a Cant or a Savoia, we simply asked the girlfriend the following day for news of its fate. And usually they were able to oblige”.

“Se avevamo sparato ad un Macchi, un Cant o un Savoia, chiedevamo semplicemente ad una delle ragazze, il giorno successivo, notizie del suo destino. E di solito erano in grado di dircelo”.

In questo libro tutto è molto interessante.

La mia curiosità riguardo all’interazione con i nostri connazionali che, in un certo senso, tenevano Malta sotto una sorta di assedio, è stata abbastanza soddisfatta. Neil parla di tutto ciò, molto più di quanto io abbia riportato in questa recensione.

Non posso dire che ci stimassero. Certamente no. Chi leggerà il libro si farà un’idea personale al riguardo. Gli episodi furono tanti, nei pochi mesi di permanenza di Neil.

Nel corso delle varie battaglie aeree che si consumarono durante la II Guerra Mondiale – prima fra tutte la Battaglia d’Inghilterra – c’erano spesso lunghe attese tra uno scramble e l’altro per i piloti della difesa aerea. La foto ritrae un pilota da caccia pronto al decollo, a bordo del suo Spitfire  che osserva con indulgenza il proprio specialista mentre egli aggiorna l’inventario dei velivoli nemici abbattuti. Giusto per allentare la tensione … giacchè sono entrambe in attesa di uno scramble. Siamo a Malta che fu lungamente bersagliata dagli attacchi aerei della Regia Aeronautica e della Luftwaffe in quello che viene considerato l’assedio o la Battaglia di Malta. Nella piccola perla del Mediterraneo, caposaldo e crocevia dei flussi navali diretti verso il Nord Africa, non fu allestita la mirabolante difesa aerea realizzata e fortemente voluta dall’Air Marshal, sir Hugh Dowding che protesse la madrepatria, tuttavia la vincente logica dello scramble fu praticata a Malta come in Gran Bretagna. E il successo dei difensori si compì a Malta come in Gran Bretagna a dimostrazione che, pert difendere il suolo e il cielo patrio, non occorreva tenere in volo grandi formazioni di velivoli da caccia in attesa di “ricevere” gli attaccanti. (foto proveniente da www.flickr.com)

La Storia generale è più ampia. Solo su Malta si potrebbero scrivere metri cubi di libri.

Questo libro prosegue con l’interessantissimo viaggio di ritorno dell’autore nella madre patria, la Gran Bretagna, sempre con un convoglio di navi. Il racconto, zeppo di episodi che fanno trattenere il respiro, parla della circumnavigazione dell’Africa, delle soste in porti adeguati per rifornirsi e di soste in mare aperto, in giorni di tempesta.

Ma per concludere, voglio riportare un episodio avvenuto su Malta. E’ un altro dei tanti.

Ero un po’ deluso dalla dilagante opinione negativa che riguardava gli italiani. Non nascondo che spesso aspettavo la conclusione dei racconti con il malcelato desiderio che qualche Eyetie, alla fine, gliele suonasse di santa ragione. Poi mi sono imbattuto in questo episodio, che spero possa ripagare il lettore del tedio di leggere una recensione così lunga:

“Later the same day, Butch Barton, with the other half of 249, chased a minor swarm of Macchi 200s toward the sicilian coast, at which point, to Butch’s considerable consternation, the Eyeties suddenly turned and fought like tigers”.

Oggi, in Italia, la difesa dello spazio aereo è affidata a quattro squadriglie, tutte equipaggiate con caccia multiruolo Eurofigher Typhoon: il 4° Stormo di base a Grosseto e il 51° Stormo di base a Istrana, il 36° di base a Gioia del Colle e il 37° di base a Trapani. Grosseto fornisce la copertura del centro-nord ovest,  Istrana copre per il nord est, Trapani e Gioia del Colle il sud del paese. Ogni squadriglia ha sempre una coppia di intercettori pronti al decollo in un manciata di minuti dal segnale di scramble mentre gli equipaggi sono pronti al volo 24 ore al giorno per 365 giorni l’anno. Quello ritratto è appunto un Typhoon appartenente al IV Stormo di stanza a Grosseto. (foto proveniente da ww.flickr.com)

“Più tardi lo stesso giorno, Butch Burton, con l’altra metà della squadriglia 249, inseguì un piccolo gruppo di Macchi 200 verso la costa siciliana, e a quel punto, con considerevole costernazione di Butch, gli italiani virarono improvvisamente e combatterono come tigri”.




Recensione a cura di Evandro Aldo Detti (Brutus Flyer),

Didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR




Gun button to fire: A Hurricane Pilot Story of the Battle of Britain

Silver spitfire

Scramble!

Un pilota a palazzo

titolo: Un pilota a palazzo

autore: Bruno Servadei

editore:  in selfpublishing (Amazon)

anno di pubblicazione: dic 2016

ISBN: 9781540636584




Dopo aver letto altri due libri di Bruno Servadei, “Vita da cacciabombardiere” e “Ali di travertino“, mi è capitato tra le mani questo di cui mi accingo a scrivere la recensione, dopo averlo letto con notevole gusto.

I primi due erano molto interessanti. “Vita da cacciabombardiere” era tutto focalizzato sull’attività dell’autore come pilota militare e quindi raccontava tanti episodi di volo. Per un pilota di Aeroclub come me rappresentava l’occasione di poter gettare uno sguardo all’interno di quel tipo di vita che avevo tanto desiderato fare, ma che mi era sfuggita per un soffio.

Avevo chiuso l’ultima pagina augurandomi che l’autore non si fermasse al primo libro e ne scrivesse altri. Ricordo vagamente di aver sentito dire che questa fosse la sua intenzione, così almeno sembra avesse detto a qualcuno.

Se sperate di ritrovarvi tra le mani un libro pieno di avventure di volo, di rocambolesche missioni in territorio nemico, di manovre acrobatiche al limite della resistenza fisica del pilota, beh … ritenetevi pure vittime di un piccolo equivoco: nelle pagine di “Un pilota a palazzo” il nostro pilota (e che pilota!) vola solo “con le scrivanie” e semmai in qualità di passeggero a bordo di velivoli rigorosamente disarmati. Quali? … questo, per esempio. Si tratta di uno splendido Gulfstream III immortalato in uno scatto risalente al 1992 a Edimburgo. Utilizzato dall’Aeronautica Militare Italiana in quelli che vengono chiamati “voli di stato, era in forza presso il 31 Stormo di stanza a Ciampino (Roma). Era, perché è stato radiato nel 2004 dopo anni di onorato servizio spesi per trasportare appunto il Presidente della Repubblica e i suoi assistenti, Bruno Servadei compreso. E chissà quanto avrà sofferto l’autore a non potersi sedere in cabina di pilotaggio … Di certo non soffrirà il lettore perché – ve lo anticipiamo – questo libro si legge che è un vero piacere e scorre via veloce nonostante i precedenti libri di Servadei descrivano situazioni ben più dinamiche. Dunque a maggior ragione va riconosciuta ed elogiata la capacità narrativa dell’autore che, seppure muovendo la narrazione all’interno del Palazzo (o poco più), riesce a catalizzare l’attenzione del lettore fino all’ultima pagina senza annoiarlo. (foto proveniente da www.flickr.com)

Poi, un giorno, mi capitò il suo secondo libro: “Ali di travertino“, focalizzato sul periodo di servizio che l’autore aveva svolto al Ministero dell’Aeronautica di via Castro Pretorio a Roma, presso lo Stato Maggiore Aeronautica.

Anche questo mi aveva interessato moltissimo, perché anch’io avevo passato nove anni di vita militare in quel palazzone, nel reparto telecomunicazioni.

Dopo aver letto il secondo libro contattai Bruno Servadei, ma non ricordo come. Lui aveva promesso che, se qualcuno glielo avesse chiesto, avrebbe inviato un paio di DVD contenenti foto e video della sua vita di pilota militare. Infatti li ricevetti e ancora li conservo con cura.

In quel periodo lavoravo come controllore sulla Torre dell’aeroporto dell’Urbe. Qualche anno dopo andai in pensione.

Francesco Maurizio Cossiga, sassarese di nascita, ci ha lasciato nell’agosto 2010 dopo aver segnato in modo indelebile la politica italiana nel corso di quella che viene abitualmente identificata come “Prima Repubblica”. Tra i tanti incarichi rivestiti, è stato anche l’ottavo presidente della Repubblica dal 1985 al 1992 quando, in anticipo di qualche mese dalla naturale scadenza del mandato, si dimise, giusto per dare l’ennesimo scossone al “sistema”. In effetti è ricordato dagli italiani per essersi definito un “picconatore del sistema” sebbene, più lontano del tempo, fu spesso considerato un “ministro di ferro” in virtù del polso fermo con cui svolse più volte il ruolo di Ministro degli Interni. Certamente fu un politico controverso, un presidente eccentrico per alcuni versi, e rimarrà nella memoria collettiva per le sue celebri “picconate” o “esternazioni”. (foto proveniente da www.flickr.com)

Questo libro, “Un pilota a palazzo” riguarda i tre anni di servizio che Bruno Servadei ha trascorso presso il Quirinale, quale consigliere aggiunto per l’Aeronautica Militare del Presidente della Repubblica, che allora era Francesco Cossiga.

Il bel libro di Bruno Servadei, contrariamente ai suoi precedenti, non si svolge in un aeroporto militare o in un poligono di tiro dell’Aeronautica Militare Italiana bensì nel Palazzo del Quirinale, a Roma. Si tratta di un palazzo storico, eretto sull’omonimo colle e affacciato sull’omonima piazza. Già residenza papale, divenne la residenza ufficiale del Re d’Italia e poi, con l’avvento della Repubblica, dal 1946 ospita il Presidente della Repubblica Italiana. Assieme a Palazzo Madama e a Palazzo Montecitorio, è dunque per antonomasia un simbolo dello Stato italiano. La prima “salita al colle” dell’autore è al limite del tragicomico: egli entra dall’ingresso di rappresentanza ma viene prontamente placcato da un sedicente funzionario che lo invita a ripetere l’operazione da una delle entrate di servizio del Quirinale. Il lettore non potrà fare a meno di ghignare giacché questo pilota, capace di raggiungere un obiettivo in territorio nemico a velocità folle, a bassissima quota e portandosi appresso un carico bellico (anche nucleare), beh … toppa l’ingresso al Quirinale! (foto proveniente da www.flickr.com)

Il primo capitolo comincia proprio con l’arrivo dell’autore al Quirinale, un luogo che per tutti noi rappresenta semplicemente uno dei punti caratteristici di Roma. Non solo per noi che viviamo in questa città, ma anche per ogni turista al quale capiti di passarci davanti.

Il Palazzo del Quirinale ha una dimensione davvero notevole: ben  110 mila e 500 m² di superficie al punto che è annoverato come uno dei palazzi del potere tra i più grandi al mondo. Tanto per fare un confronto, si consideri che il complesso della Casa Bianca (Stati Uniti) ha superficie di circa 1/20 di quella del Palazzo del Quirinale. Chissà quante volte il nostro Bruno Servadei avrà scorrazzato da una parte all’altra del grande cortile interno del Quirinale e chissà se avrà mai esplorato gli sconfinati giardini del Quirinale, naturalmente per motivi di servizio … (foto proveniente da www.flickr.com)

Ma una cosa è vedere da fuori l’ingresso del Quirinale, con i suoi corazzieri di guardia e una cosa ben diversa è presentarsi davanti a loro per entrare a prendere servizio nell’entourage del Presidente della Repubblica Italiana.

Già dalle prime righe del primo capitolo si entra in una realtà così coinvolgente che ci lascia incollati alle pagine. E queste scorrono via veloci da subito, perché lo stile di Bruno Servadei è davvero coinvolgente. Il suo modo chiaro, semplice, anche nelle descrizioni più complesse, fa sentire il lettore come se stesse al suo fianco. E si finisce per provare fisicamente le emozioni descritte dall’autore.

Nel secondo capitolo si parla di quali erano le sue funzioni, ma ci si arriva gradualmente, come passando attraverso una sorta di cortina di incertezza. Non appare subito chiaro ed evidente quali compiti deve assolvere una figura come la sua. Dovremo girare molte pagine prima di saperlo con certezza. Ma l’interesse aumenta a ogni pagina girata, perché non capita spesso di ritrovarci ad esplorare certi ambienti, generalmente troppo lontani dalla nostra realtà.

La figura del Presidente Cossiga resta quasi costantemente un po’ sfocata nelle descrizioni, tranne in poche occasioni, quando si fa più vicina e distinta. Ma Cossiga è stato un personaggio di un certo spessore nella Storia del nostro paese. E proprio il fatto che il Presidente di quel periodo fosse lui rende ancora più avvincente questo libro.

La copertina della versione digitale del libro di Bruno Servadei

Per quanto mi riguarda, ho trovato molto interessanti i riferimenti a certi avvenimenti di rilievo dei quali avevo una conoscenza più diretta. Per esempio, Servadei parla delle esercitazioni Wintex, che ogni due anni avevano luogo e coinvolgevano tutti i reparti dell’Aeronautica, compreso il Centro Comunicazioni dove prestavo servizio. Ero un Marconista, allora. Ma non un operatore, ero un tecnico. In quelle esercitazioni dovevo realizzare, a richiesta, sia di giorno che di notte e quasi immediatamente, nuovi collegamenti telefonici, telegrafici (telescriventi) o addirittura nuovi canali radio.

Interessantissimi sono i riferimenti anche alla cosiddetta “Strage di Ustica“. Pur senza rivelare nulla di inedito, come è ovvio che sia, dal momento che ancora oggi resta un caso irrisolto, è avvincente conoscere il suo parere.

Poi ci fu un altro episodio, in quegli anni. Quello di Abu Abbas, che coinvolse un reparto dei nostri carabinieri nell’aeroporto di Sigonella. La stampa diede molto rilievo al fatto che i nostri carabinieri si opposero alla consegna di Abu Abbas ai Marines americani.

Chi ricorda questi avvenimenti troverà interessante il parere di Servadei.

E il sequestro dell’Achille Lauro?

Servadei mette in evidenza che a quell’epoca non esisteva un centro dove si potesse far fronte ad avvenimenti complessi e sensibili, dove si potessero concentrare specialisti di ogni settore e strumenti idonei a valutare velocemente situazioni da gestire in tempi rapidi, magari dopo un efficace coordinamento con tutte le organizzazioni dello Stato.

L’idea prende corpo e si profila il progetto di un ufficio, una sala, dedicata allo scopo.

E non mancano neppure svariati commenti contrari all’idea e resistenze di vario genere. Ma il progetto, sostenuto dall’alacre lavoro di Servadei, va avanti.

Si arriva così alla creazione di una sala situazione, un centro che fosse in grado di coordinare molti altri servizi importanti, compresi i Servizi Segreti.

Con la sua proverbiale schiettezza, Servadei così liquida il palazzo in cui trascorse tre anni della sua esistenza: “Per descrivere il Quirinale occorrerebbe un libro dedicato, e non intendo nemmeno provarci.” Pratica risolta! Nello scatto si noterà il torrino ove fanno bella mostra tre bandiere: quella dello Stato Italiano, dell’Europa e lo stendardo del Presidente, se presente in sede.(foto proveniente da www.flickr.com)

Nel libro non si parla solo del Quirinale. C’è anche una parte relativa alla tenuta di Castel Porziano, sul litorale laziale, di proprietà della Presidenza della Repubblica. La descrizione di questa grande area, con la sua pineta e la sua spiaggia, inaccessibile e sconosciuta a tutti, anche se si sa bene che esiste, è di grande interesse. Servadei ci conduce all’interno della tenuta e così possiamo “vederla”.

“Al centro dell’ampio portale, un po’ arretrato rispetto alla soglia, troneggiava un corazziere in alta uniforme. Ero anch’io in divisa, da colonnello pilota dell’Aeronautica ma ero ben lungi dall’avere un aspetto così imponente.” Descrive così Servadei l’immagine della Guardia di rappresentanza del Presidente, altrimenti chiamata “Corazzieri”. Neanche a dire che l’autore soffra di nanismo … no, sono proprio i Corazzieri che sono statuari (foto proveniente da www.flickr.com)

Una parte del libro è dedicata ai corazzieri. Li conosciamo tutti, da fuori. Ci stupiscono con la loro statura e la loro divisa che somiglia vagamente ad un’armatura, qualche turista riesce perfino a farsi una foto con qualcuno di loro, ma poi ognuno se ne va, lasciando l’episodio a livello di un semplice incontro.

In questo libro, invece di andarcene, entriamo dentro la loro realtà, nei loro locali, nella loro mensa. E ci sembra di conoscerli come si conoscono dei colleghi di lavoro.

In questo libro si parla poco di aerei, se ne accenna appena, qua e là.

Si parla invece di moto.

Non solo di quelle dei corazzieri, che all’epoca erano delle Moto Guzzi. E servivano ad accompagnare il Presidente nei suoi spostamenti ufficiali.

La retrocopertina di “Un pilota a palazzo” che, secondo la migliore tradizione editoriale, contiene dei brevi cenni biografici dell’autore. E sottolineiamo brevi perché il buon Servadei, nel corso della sua lunga carriera di pilota militare, ne ha viste e ne ha fatte davvero molte. Fortuna nostra vuole che ce le abbia pure raccontate!

Servadei abitava ai Castelli Romani, ad una certa distanza dalla città di Roma. Il traffico della Capitale è micidiale. La mattina si formano code tremende verso Roma e lo stesso avviene nel pomeriggio, verso fuori città. Le ore di punta rendono difficoltosi gli spostamenti. Una moto risolverebbe il problema.

E cosa fa Servadei? Rinuncia alla macchina ministeriale con autista e si compra una moto. Così può arrivare in perfetto orario, se non addirittura in anticipo, alzandosi tre quarti d’ora più tardi.

Che dire, anni fa, sia quando ero militare, sia dopo, quando lavoravo per quella che oggi è l’ENAV, anch’io ho risolto così il problema del traffico romano. Ho sempre avuto una moto, una passione che per me è stata seconda solo a quella per gli aerei e gli alianti.

Con la moto andavo tranquillamente a Ciampino o a Pratica di Mare, alzandomi più tardi e arrivando sempre in tempo nonostante le indescrivibili code del mattino. E tornavo a casa in breve tempo, superando chilometri di automobili che procedevano a passo d’uomo.

Io avevo una Moto Guzzi. Servadei opta, invece, per una Ducati.

Questione di gusti personali.

Una parte del libro parla dei voli di stato. E coinvolge anche i voli del Papa, il quale, come è noto, utilizza un elicottero dell’Aeronautica Militare. Nei viaggi più lunghi utilizza un aereo, all’epoca era un DC 9 oppure un Gulfstream G3, come fanno le alte cariche dello Stato Italiano.

Ma il Papa, formalmente, è il capo di uno Stato estero.

Eh, questa parte del libro è decisamente molto gustosa. Almeno lo è stata per me, durante la lettura.

Il nostro servizio di intelligence ci ha fornito questa preziosissima immagine che ritrae l’autore a colloquio segreto con l’allora il Presidente della Repubblica. In realtà lo scatto è pubblico ed è riportato diligentemente in un archivio a testimonianza storica dell’udienza tenutasi presso il Quirinale esattamente alle ore 10 e 30 di mercoledì 27 settembre 1989 nel corso della quale Il Presidente della Repubblica Francesco Cossiga ricevette il Col. Pil. Bruno Servadei. Con questa stretta di mano congedò formalmente il suo Consigliere Militare Aggiunto per l’Aeronautica e si chiuse così la frequentazione a Palazzo del nostro autore (Foto proveniente dal Portale storico della Presidenza della Repubblica https://archivio.quirinale.it/aspr/fotografico/PHOTO-001-079284/presidente/francesco-cossiga/col-pil-bruno-servadei-consigliere-militare-aggiunto-l-aeronautica-visita-congedo#n)

E le visite di Stato? Altra parte interessantissima. Queste hanno dato all’autore l’occasione di girare mezzo mondo, con molti aneddoti tutti da leggere. Anche in questi viaggi, alcuni dei quali in vari stati africani, abbiamo l’impressione di far parte delle delegazioni diplomatiche. Al punto che, chiuso il libro, ci sembra di essere appena tornati dalle missioni.

E quando il libro finisce veramente, lasciamo Servadei in procinto di essere trasferito.

Ma il nuovo incarico è altrettanto promettente. Si occuperà di cooperazione internazionale nel settore dell’industria della difesa con tutti i paesi della NATO, più alcuni altri.

Nelle ultime pagine, poche parole descrivono la cerimonia di commiato.

Il giorno dopo Servadei è su un volo per Montreal con un gruppo di persone sconosciute.

E mentre il suo aereo rimpicciolisce nell’immensità del cielo, verso nuove avventure, a noi resta una vaga speranza che appena ne avrà il tempo, non mancherà di raccontarcele.






Recensione di Evandro A. Detti (Brutus Flyer),

didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR


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