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Recensione dei Libri aeronautici

An autobiography – Una vita in cielo

titolo: An autobiography – [Una vita in cielo]

autore: Chuck Yeager e  Leo Janos

editore USA: Bantam Books

edizione USA: luglio 1985

edizione ITA: 2014

ISBN USA: 0-553-25674-2

ISBN edizione ITA: 9788866970835




Alcuni anni fa, in qualche punto del cielo americano sfrecciava un aereo a reazione biposto. La forma era quella tipica del jet da caccia e addestramento. Il giovanissimo pilota ai comandi, con il volto celato dalla visiera scura, seguiva la rotta stabilita. Ogni tanto girava la testa per controllare un altro caccia che volava in coppia con lui, incollato a pochi metri dalla sua ala destra, un po’ più in alto e un po’ più indietro. Non si trattava di un altro jet. Era un aereo ad elica monoposto, scintillante nella sua colorazione grigio metallo, con la fusoliera affusolata e la cappottina a goccia, con disegni e coccarde che gli conferivano un aspetto insolito, classico, austero e vagamente antico.

Era un P-51 “Mustang”, un caccia della seconda guerra mondiale. Anzi, forse il migliore tra i caccia di quel periodo storico. Il pilota ai comandi manteneva la posizione in maniera perfetta. Il suo viso era celato dietro una visiera scura che spesso mandava riflessi.

Il jet volava ad una velocità piuttosto bassa, almeno per le prestazioni di cui sarebbe stato capace. Infatti, per volare a quella velocità, doveva mantenere un assetto visibilmente cabrato.

Questa è probabilmente la fotografia che più di ogni altra ha immortalato nelle storia dell’aviazione l’immagine sorridente di Chuck Yeager e del suo fido X-1. Non a caso è stata scelta anche dall’editore RES Gestae per la copertina del volume in lingua italiana del volume originale. A riguardarla bene, però, si nota come il buon Chuck voglia enfatizzare più che sè stesso o il suo velivolo … il nomignolo dipinto sul muso dell’aereorazzo. Lo avete notato anche voi? Ebbene, che nel corso della II Guerra Mondiale i piloti statunitensi fossero molto “pittoreschi” con le donnine procaci dipinte sui musetti dei loro aeroplani da caccia o da bombardamento, beh, oggi non stupisce nessuno … ma che nel 1947 un pilota potesse scrivere qualcosa su un aeroplano, segretissimo, punta di diamante di un progetto di ricerca altamente segreto, diciamocela tutta … un po’ stupisce ancora oggi. Così racconta la signora Yeager il coinvolgimento, suo malgrado, nell’impresa del marito: “Poco dopo il nostro trasferimento, Chuck ci portò alla base per vedere l’X-1. Non aveva voluto dirmi che l’aveva chiamato “Glamorous Glennis” ed ecco lì il mio nome, dipinto sul muso dell’aereo. […] Chuck non aveva chiesto il permesso a nessuno e la cosa non era piaciuta ai superiori […] ma nessuno di loro volle mettersi contro il suo portafortuna e rischiare di portar male alla missione”. La storia dell’aviazione riporta però che, oltre al P-51 Mustang e all’X-1, soltanto un altro velivolo si è fregiato del nomignolo “Glamorous Glennis”: l’F15 Eagle con il quale, presso la base di Edwards AFB, nell’ottobre 2002, Chuck Yeager compi l’ultimo volo a bordo di un jet.

L’altro, probabilmente prossimo, invece, alla sua velocità massima, teneva il muso più basso sulla linea dell’orizzonte, con l’enorme disco dell’elica che disegnava un impercettibile cerchio giallo.

Anche il pilota seduto dietro, nel jet, ogni tanto girava la testa verso destra ad osservare il caccia ad elica. La visiera scura celava il suo viso.

Descritta così, la scena sembra rappresentare un semplice volo di trasferimento di due aerei da un punto all’altro con tre piloti a bordo.

Ma sono proprio le visiere scure a nascondere una realtà ben diversa, a nascondere un mondo intero, un pezzo di storia dell’aviazione che arriva dal passato e si proietta nel futuro.

Alziamole, quelle visiere!

Ed ecco la sorpresa!

Presso il National Air and Space Museum dello Smithsonian Institution di Washington, tra il Ryan NYP “Spirit of St. Louis” e lo “SpaceShipOne”, appeso al soffitto del grande hangar dedicato alle pietre miliari della storia dell’aviazione (Milestones of Flight), è conservato il Bell XS-1 o X-1 (come fu poi ridenominato a seguito dell’aggiornamento delle designazioni interne all’USAF del 1948). L’X-1 fu il primo aeroplano statunitense costruito esclusivamente ad uso sperimentale per la ricerca nel campo delle alte velocità e, a tutti gli effetti, non ne fu mai organizzata una produzione di serie sebbene ne furono realizzati tre esemplari.  In realtà fu il capostite di altri quatttro velivoli che giunsero fino alla variane “E” (saltando la “C” che avrebbe dovuto sperimentare dei fantomatici sistemi d’arma volando ad alta velocità). L’X1 fu inizialmente dipinto di arancione con livrea ad alta visibilità, altrimenti detta “antimimetica”, ma più tardi si scoprì che la massima visibilità per gli osservatori era garantita da una banalissima livrea bianca; così gli X-1 successivi furono dapprima lasciati in alluminio naturale e poi dipinti di bianco ma a noi piace oltremodo l’arancione “squillante” (così definito da Yeager) del primo X-1. 

Solo il pilota del jet è giovanissimo. Gli altri due sono volti diversi, molto attempati, solcati da rughe e segnati da “zampe di gallina“agli angoli degli occhi, che rivelano anni e anni di esposizione al sole delle alte quote. Volti anziani, occhi infossati che guardano lontano nel bellissimo paesaggio sottostante, ma che guardano lontano anche nel profondo dei loro ricordi. Occhi che conoscono perfettamente ogni angolo del mondo che scorre sotto di loro. Lo hanno percorso migliaia di volte. Volti tranquilli, perché conoscono ogni minima vibrazione dei loro aerei. Hanno volato a lungo con ognuno di essi. Sono stati loro, infatti, ad averli sviluppati, collaudati, usati in pace e perfino in guerra.

Il pilota del P51 era stato un pilota collaudatore. Si trattava di Clarence  Emil Anderson, conosciuto meglio come “Andy” o “Bud”. Ci aveva fatto la guerra, con quel Mustang.

Il pilota seduto dietro nel jet era nientemeno che il più grande test pilot del mondo: Charles “Chuck”Yeager. Lui pure aveva fatto la guerra con il Mustang . Proprio insieme a Bud Anderson.

Entrambi erano stati dislocati in Inghilterra ed avevano partecipato alle operazioni belliche del periodo dello sbarco alleato in Normandia.

Dopo l’arrivo a destinazione i tre piloti vennero intervistati dalla stampa presente all’evento del volo di due aerei di epoche tanto diverse.

Il primo “Glamorous Glennis” della vita aviatoria di Chuck Yeager. Era un P-51 Mustang

Su una rivista di settore lessi, molti anni fa, l’intervista al giovane pilota del jet (che, se non ricordo male doveva essere un F20). In sostanza il ragazzo disse di essersi sentito vagamente in apprensione, in quel volo, perché sapeva bene che il pilota seduto dietro di lui era stato il collaudatore del mezzo nel quale stavano volando. Inoltre sapeva bene che entrambi gli anziani piloti sapevano pilotare sia il jet che il P51, mentre lui, con il P51 non avrebbe potuto nemmeno rullare brevemente per terra, almeno non senza averci fatto prima un bel corso di addestramento. E aveva perfettamente ragione, almeno per due motivi: il primo è che il carrello del Mustang è del tipo “biciclo”, con due ruote sotto le ali e una dietro, sotto la coda, molto difficile da gestire. Esattamente il contrario del jet che stava pilotando, che ha la terza ruota sotto il muso, non sotto la coda; il secondo riguarda l’enorme coppia dell’elica di un motore tanto potente come quello del P51, che sarebbe risultata difficilmente controllabile da un pilota abituato al motore a reazione. Senza contare il fatto che un giovane pilota vola ormai con cruscotti digitali e poco conosce dei vecchi strumenti analogici di cui erano infarciti i cruscotti dell’epoca passata.

Racconta Chuck Yeager nella sua autobiografia: “Infrangere il muro del suono era un’impresa molto complessa di cui io non sapevo quasi nulla. Due volte, durante rapidi viaggi a Muroc per ritirare gli aerei da portare a Wright, avevo visto l’X-1 che veniva agganciato sotto il bombardiere B-50 prima del decollo. Era un aereo piccolo dipinto di un squillante color arancio e aveva la forma di un proiettile da mitragliatrice calibro 12,7. Qualcuno mi disse che era dotato di un motore a razzo con una spinta di 2700 chilogrammi ed era progettato per raggiungere il doppio della velocità del suono. Era più di quello che potessi capire e mi bastava.” Quello ritratto appeso al soffitto del grande hangar dello Smithsonian è appunto il famoso proiettile da 12,7 mm.

Se oggi chiedessimo a chiunque chi è Chuck Yeager probabilmente sarebbero in pochissimi a rispondere in modo corretto. Ma forse basterebbe aggiungere che è il pilota che ha oltrepassato per primo il “muro del suono”. E allora sarebbero in molti a ricordare almeno l’episodio storico.

All’epoca si pensava che esistesse veramente un muro che si crea quando si raggiunge la velocità del suono. Tale velocità non è fissa, ma varia al variare di altri valori, come la quota, la temperatura dell’aria etc. Diciamo che, in condizioni standard, si tratta di una velocità che oscilla intorno ai milleduecento chilometri orari. Troppi aerei, nel tentativo di superarla, si sono disintegrati, sono andati letteralmente a pezzi, come se avessero davvero urtato contro un muro. Molte vite si sono infrante in quel punto, insieme agli aerei.

Yeager è stato il primo a dimostrare che non esisteva nessun muro. Era solo un problema di forma, di un’aerodinamica inadeguata. Risolti un bel po’ di questi problemi, il 14 ottobre del 1947, ai comandi di un aereo sperimentale Bell X-1, Yeager riuscì a superare quella velocità.

Benchè i moderni canoni di bellezza feminile non abbiano granchè in comune con quelli degli anni ’40, occorre ammettere che, vista con gli occhi di oggi, la signora Yeager all’epoca era davvero un gran bel pezzo di donna. O,come la definiva Chuck, “glamorous” (affascinante). In questo scatto la coppia è ritratta nel giorno del loro matrimonio. Era il 1945.

E questo fu un fatto epocale, che ha portato un impulso importante nella conoscenza dell’aerodinamica e di altre materie a questa complementari. Inoltre, ha aperto la strada alla conquista dello spazio.

Il libro di cui mi accingo a scrivere una recensione è un’autobiografia.

Il titolo è chiaro: Yeager, an autobiography.

Che Chuck e Glennis fossero una coppia splendida lo testimonia questa fotografia scattata in una serata di gala organizzata in occasione della promozione di Chuck a “captain” dell’USAF . Lei è davvero radiosa, non trovate? Scrive Glennis nel capitolo intitolato “Al posto giusto” a proposito del loro rapporto di coppia: “Chuck non mi chiese mai di sposarlo ma io continuavo egualmente a domandarmi come sarebbe stata la vita di una moglie di un aviatore” Poi, una volta che Yeager rientrò dall’Europa, racconta sempre Glennis, “venne a casa mia in California e mi disse: – Ti porto a casa mia a conoscere i miei genitori -” E nelle righe successive Glennis aggiunge : “Soltanto la sera prima delle nozze Chuck mi propose di sposarlo alla sua maniera […]. Ci sposammo nel salotto buono di casa, il locale di cui si tenevano sempre chiuse le porte [..] Sembrava che tutti in città avessero mandato fiori, e la sala ne era invasa”.

E’ stata scritta proprio da Yeager, ma in una forma piuttosto inusuale, quasi a sottolineare il tipo inusuale che è lui stesso. Quando narra i fatti della sua vita non si limita solamente a raccontarli. Li fa raccontare anche da altre persone che in quei fatti sono stati in qualche modo coinvolti. Può trattarsi di sua moglie Glennis o di un altro pilota che volava in coppia con lui. Oppure di qualche  ingegnere con il quale collaborava in maniera molto stretta durante i collaudi etc.

Si dice che dietro un grande uomo c’è sempre una grande donna … ma nel caso di Chuck Yeager – indubbiamente un bell’uomo – c’era un’altrettanto bellissima donna: Glennis. Queste foto provengono dall’edizione originale del libro di Yeager e, a detta della didascalia acclusa, erano le uniche foto che uno aveva dell’altra e viceversa durante il periodo in cui Chuck prestava servizio in Europa nel corso della II Guerra Mondiale.

I capitoli del libro sono scritti da lui, da sua moglie, da qualcuno dei suoi superiori, da un suo collega, da uno degli ingegneri e così via. Abbiamo così la stessa storia vista da occhi diversi. E questo risulta piuttosto sorprendente in diversi punti del libro.

La famiglia Yaeger al completo. Chuck e Glennis ebbero quattro figli: Susan, Michael, Donald (il primogenito) e Sharon. Raccconta Glennis in tema di famiglia: “Se tornassi indietro non farei bambini così presto. Ne ebbi quattro uno dopo l’altro e questo aggravava la situazione già difficile. Quando ero incinta stavo sempre male, ed ero sempre incinta. Una breve licenza di Chuck e zac! Restavo incinta. Non eravamo certo un buon esempio di controllo delle nascite.” L’adorabile Glennis ci ha lasciato nel 1990.

Insomma, il resoconto dello stesso evento, visto da due o tre persone diverse, almeno in alcuni particolari, si discosta abbastanza dal filo della narrazione. L’ego gioca un ruolo importante nell’interpretazione di un fatto. A volte si tende perfino a negare un risultato, oppure a magnificarlo. E anche il tempo che passa gioca un ruolo importante. La memoria è fallace, qualcuno ricorda meglio, qualcuno sposta il punto focale degli eventi a seconda della propria personalità. La conseguenza è che lo stesso episodio può essere narrato in modi molto diversi, le immagini giungono sfocate dal passato, come se fossero, in altri termini, leggermente fuori fuoco. E’ risaputo.

Un famoso fotografo di guerra, Robert Capa, che operava in giro per il mondo, ovunque ci fosse una guerra, armato delle sue inseparabili macchine fotografiche, ha scritto un libro dal titolo “Slightly out of focus“. “Leggermente fuori fuoco“. E nella prefazione ha dichiarato che, così come le sue foto possono non essere perfettamente nitide, visto che le ha scattate quasi sempre in uno stato emozionale esasperato  durante le battaglie e in costante pericolo di vita, anche i ricordi potrebbero essere leggermente diversi da come si sono realmente svolti, perché la memoria potrebbe averli sbiaditi e alterati nel corso del tempo.

Lo stesso principio vale anche per Yeager e per moltissimi episodi di cui parla.

Fatto sta che ogni tanto (spesso), qua e là per il libro, si riscontra una leggera diversità tra il racconto dell’autore e quello dei testimoni che scrivono, sullo stesso fatto, subito dopo di lui, nel capitolo successivo.

Ma la bellezza del libro sta anche in questo.

Come dicevo, Yeager è un soggetto particolare, fuori dal comune, in qualche modo eccezionale. E tutta la sua vita lo è. E’ colui che, per definizione ha “la stoffa giusta“, un’espressione tanto usata all’epoca. Ha compiuto imprese incredibili, nel vero senso della parola.

Lui dice che la sua straordinaria abilità deriva dal fatto che è nato in campagna.

Da piccolo ha giocato più sugli alberi che per terra. Sugli alberi non saliva soltanto, ma ci viveva, ci dormiva, perfino. E’ stato questo aspetto della sua infanzia a dargli una strabiliante coordinazione di tutti i movimenti del corpo, un tempismo assoluto, una capacità di percezione elevatissima e un’altrettanto elevata capacità di reazione. Qualità di enorme valore, che più avanti nel tempo avrebbero fatto di lui un pilota tanto abile.

Il padre lavorava in una società di trivellazione del gas dal sottosuolo. Spesso doveva riparare macchinari di diversa specie e Chuck andava ad aiutarlo, imparando un’altra arte di incommensurabile valore. Quella di sapere come sono fatti i materiali e i macchinari, come funzionano, fin nei minimi particolari. La capacità di imparare a conoscere le macchine in modo tanto approfondito lo avrebbe aiutato anche con gli aerei, con ogni tipo di aereo. Conoscere a fondo il proprio mezzo significa che, all’occorrenza, si possa riuscire a capire un problema un attimo prima, oppure a scovare una soluzione alla quale qualcun altro non avrebbe neanche pensato. In pratica, stiamo parlando della differenza tra vivere e morire.

Se c’è un’altra fotografia divenuta assolutamente iconica dell’X-1 e dell’impresa di Chuck Yeager è questa. Sebbene lo scatto in bianco e nero e sovraesposto mostri un aereorazzo di colore quasi bianco, in realtà si tratta proprio del primo X-1 arancione con il quale fu stabilito il record di velocità.Gli annali della storia dell’aviazione riportano 236 voli effettuati da questo velivolo prima che, nell’estate del 1950 fosse ritirato dal servizio. Chuck Yeager racconta così quell’episodio: “Consegnammo l’X-1 allo Smithsonian Institution di Washington. Durante la cerimonia, un funzionario dello Smithsonian definì perfettamente il ruolo dell’X-1 con queste parole: – l’X-1 segnò la fine del primo grande periodo dell’età del volo e l’inizio del secondo. Furono sufficienti pochi istanti: l’era subsonica passò alla storia e nacque l’era supersonica -“. Amen!

Il padre era cacciatore. Spesso andava a caccia nei boschi e stava fuori per giorni. Portava con sé il piccolo Chuck, che così imparava a sparare, a tendere trappole, a dormire all’aperto. Imparava, cioè, un’altra preziosissima arte: quella di cavarsela in ambienti ostili.

Nel libro ci sono tanti episodi di come queste qualità abbiano fatto per lui, davvero, la differenza tra vivere e morire.

Appena spedito in Inghilterra, subito dopo aver cominciato le missioni di guerra, Chuck era in volo con un P51 Mustang nel sud-ovest della Francia, quando subì un colpo della contraerea. Fu costretto a lanciarsi. Sapeva che i caccia tedeschi, spesso, sparavano ai piloti che scendevano con il paracadute. Perciò non pensò neanche ad aprire subito il suo. Aspettò fino ad una quota talmente bassa da poter sentire il profumo dei boschi sottostanti, prima di aprire. In un attimo arrivò a terra  e il paracadute si impigliò sugli alberi. In poco tempo riuscì a districarsi e a scendere al suolo. Fuggì subito, prima che i tedeschi riuscissero a localizzarlo. Nei boschi si sentiva perfettamente a suo agio. Per giorni camminò, dormendo in ripari di fortuna.

La storia della sua fuga, attraverso i Pirenei, per raggiungere la neutrale Spagna ed essere in seguito riportato in Inghilterra, aiutato dai Maquis francesi, è uno degli strabilianti racconti contenuti nel libro. Una storia intrisa di eventi drammatici, che qui posso solo accennare.

L’autobiografia di Chuck Yeager è a tutti gli effetti un best seller – per lo meno nel mercato statunitense – e dunque, nel corso degli anni, le case editrici ne hanno proposto diverse edizioni con diverse copertine. Qui una carrellata. A nostro modestissimo parere, per chi è appassionato di aviazione, non può mancare la lettura e la presenza nella propria libreria di questo volume che – in tutta onestà – si legge con sommo piacere. Non c’è un tono trionfalistico o enfatico nello scrivere di Yeager e soprattutto del giornalista Leo Janos, non c’è autocelebrazione ma solo la voglia di raccontare dei retroscena sconosciuti e talvolta impensabili rispetto a un programma – quello dell’X-1 – altamente segreto e che fu rivelato al mondo solo dopo che la rivista AVIATION WEEK fece trapelare indiscrezioni sull’evento memorabile che si era consumato a Muroc.Ricordiamo infatti che fino al giugno 1948 l’USAF smentì la notizia del volo record effettuato a ottobre. La segretezza prima di tutto, anche del record! 

Durante quella fuga fu ospitato da una famiglia francese. Fu nascosto ai rastrellamenti dei tedeschi e fu salvato, a rischio della stessa vita di quella famiglia.

Per Yeager è divenuta una consuetudine tornare a trovare quella gente ogni volta che può.

Esistono diversi video, in rete, relativi a queste sue visite.

Dopo essere stato riportato in Inghilterra Chuck continuò a volare e portò a termine il suo ciclo di missioni. Alla fine aveva totalizzato 13 abbattimenti e mezzo di caccia nemici. Ma cinque di questi li ottenne tutti nel corso della stessa missione.

E alla fine tornò negli Stati Uniti.

Appena arrivato sposò la sua ragazza, Glennis.

Chuck Yeager si spese molto a favore dell’azienda aeronautica statunitense Northrop e in particolare della sua ultima creazione: il velivolo F-20 Tigershark. Non a caso questa edizione dell’autobiografia – l’ennesima – mostra la copertina con il velivolo in questione in una posizione molto fotogenica. Ah, per inciso, il progetto F-20 non ebbe seguito. Con grande rammarico di Chuck, immaginiamo.

Per tutto il corso della guerra in Europa, sul suo aereo, un P51 Mustang, aveva fatto dipingere una figura di ragazza e sotto una scritta: Glamorous Glennis, Affascinante Glannis. Era il segno distintivo che ha portato in volo ogni volta. Era il nome con il quale aveva battezzato il suo caccia. Naturalmente avrà cambiato anche aereo, sicuramente ne ha usati più di uno, ma sempre ci faceva dipingere sopra quel logo.

Dopo il rientro in patria fu assegnato ad un reparto sperimentale di volo e poi cominciò i collaudi del famoso X-1 con il quale oltrepassò il muro del suono. Era un aereo-razzo.

Ma anche a quello diede il nome di Glamorous Glennis.

Il libro tratta molto del periodo passato a collaudare aerei. La base aerea di Muroc, come si chiamava all’inizio, è stata la sua casa per anni. Dopo che questa base si era allargata e aveva preso il nome di Edwards Air Base, anche il numero di piloti era aumentato e, tra questi, cominciarono a comparire nomi che poi sarebbero diventati noti come astronauti.

Uno di questi fu proprio Neil Armstrong. Quello che mise per primo piede sulla Luna.

Yeager racconta che una volta Armstrong voleva andare ad atterrare sulla superficie di un lago prosciugato. Ce ne erano diversi, nei dintorni. Erano superfici larghissime, anche decine di miglia. E’ ovvio che se si atterra in un sito tanto remoto e lontano da qualunque insediamento umano, se succede qualcosa, diventa un problema.

Yeager disse ad Armstrong che non era il caso di andare. Lui aveva sorvolato il posto di recente e c’era ancora una visibile superficie molle, non perfettamente asciutta. Atterrarci avrebbe significato rimanerci.

Armstrong non volle sentire ragioni. Disse che avrebbe fatto solo un tocca e vai, cioè un avvicinamento come per atterrare, ma seguito da una ripartenza, senza perdere velocità. Bastava toccare le ruote un attimo e andare subito via.

Per Yeager era una follia, perché appena toccate le ruote, l’enorme resistenza che queste avrebbero prodotto, avrebbe rallentato l’aereo oltre ogni possibilità per il motore di riaccelerarlo.

http://grin.hq.nasa.gov/ABSTRACTS/GPN-2000-000131.html
La fase di volo in cui un velivolo consuma la maggior parte di carburante è il decollo e quindi la salita alla quota di volo. In virtù di questa considerazione, i tecnici della NASA intuirono immediatamente che i velivoli destinati a raggiungere altissime velocità e quote (dunque dotati di motori a razzo) non potevano decollare in modo convenzionale, ossia propulsi dai loro stessi motori in quanto non avrebbero avuto l’autonomia sufficiente per raggiungere quote e velocità prefissate (leggasi: da record). C’era una sola soluzione: andavano aerotrasportati da un velivolo madre, quindi sganciati da esso e lasciati al loro volo autonomo. A quel punto, una volta attivato il motore a razzo, il piIota del velivolo “X” avrebbe avuto abbastanza spinta e tempo per svolgere la sua missione, quindi, una volta esaurito il propellente, avrebbe veleggiato verso terra e sarebbe atterrato nella sconfinata pista del lago asciutto. Geniale come strategia, non trovate? ll velivolo capace di trasportare carichi elevati a quote altrettanto elevate era il bombardiere strategico Boeing B-50 Superfortress (evoluzione tecnologica del famigerato B-29), allora in forza presso i reparti dell’USAF ma comunque destinato a breve ad essere sostituito da bombardieri strategici ben più poderosi (B-52 Strafortress, oggi ancora in servizio). La NASA modificò il B-50 per ospitare nel suo ventre l’X-1 anzichè un carico spaventoso di ordigni tuttavia, rimaneva il problema di come caricare l’aereorazzo sotto il bombardiere. Nulla di più facile: “solleviamo il bombardiere!” proclamarono i tecnici NASA. Questa foto testimonia come, a mezzo di potentissime piattaforme idraliche, il B29 fosse sollevato e l’X-1 gli fosse comodamente agganciato sotto. Dall’autobiografia di Chuck apprendiamo comunque che l’X-1 effettuò comunque un volo, un solo e unico volo, con decollo da terra. Sapete perchè? Semplicemente per dimostrare che l’X-1 non era da meno del velivolo della US Marine – la Marina degli Stati d’America – che avrebbe compiuto il volo inaugurale l’indomani.  Era il 5 gennaio 1949. Così sintetizza Chuck quel volo: “Negli ambienti aeronautici ero diventato un eroe più per aver battuto la Marina che per aver infranto il muro del suono”

Vista l’insistenza di Armstrong, Yeager si offrì di accompagnarlo.

Presero un T 33 biposto, un caccia a reazione e decollarono.

Arrivati sul lago essiccato, che dall’alto sembrava asciutto, scesero per il touch and go.

Come aveva detto Yeager, l’aereo si impantanò subito e rallentò fino a fermarsi.

Dovettero aspettare che un DC3, un bimotore da trasporto, venisse a cercarli. Per radio chiesero al pilota di dar loro tempo di spostarsi a piedi di qualche miglio verso un punto meno molle e di atterrare lì, senza fermarsi del tutto. Loro sarebbero saliti in corsa per ridecollare.

Poi toccò a Yeager tornare a recuperare il T 33, con una squadra di specialisti. Montarono un paio di razzi supplementari sulla fusoliera del caccia, per avere un supplemento di potenza, vincere la resistenza dello strato di terreno umido, accelerare e decollare.

Atterrare con l’X-1 su lago prosciugato non era affatto banale e schiantare il carrello era un’ipotesi assolutamente concreta. Così racconta Chuck l’esperienza vissuta dall’amico Jack Ridley: “Atterrò come un bambino che è riuscito per la prima volta a fare un giro in bicicletta. Mi disse: – Figlio di puttana, tu facevi sembrare tutto così facile, specie gli atterraggi. Quel lago prosciugato è traditore! -. Era vero. I piloti si lamentavano del sole che impediva loro di vedere la strumentazione sul cruscotto e un paio di loro picchiarono a terra con il muso cercando di atterrare. A un pilota capitò due volte. […] E anche se pochi lo ammetterebbero, penso che quanti pilotarono l’X-1 capirono che il bestione era molto più cattivo di quanto lo avessi fatto sembrare.” La foto risale al giugno 1956 e ai comandi c’era il pilota Joe Walker. Il velivolo X-1E rimase gravemente danneggiato e occorsero diversi giorni di lavoro per effettuarne le necessarie riparazioni.

Il libro contiene una marea di racconti come questi.

Yeager ha un modo molto militare di esporre i fatti. Senza  peli sulla lingua, dice quello che pensa e presenta la realtà per come veramente è.

Solo per fare un esempio, quante volte abbiamo letto che un è aereo caduto, il pilota è morto, ma i giornali e i media in generale, mettono in evidenza l’eroismo del pilota che ha evitato di poco una scuola, un camping, un assembramento di persone?

Yeager scrive: “you smile reading newspaper stories about a pilot in a disable plane that maneuvered to miss a schoolyard before he hit the ground. That’s a crap. In an emergency situation, a pilot thinks only one thing – survival. You battle to survive right down to the ground; you think about nothing else. Your concentration is riveted on what to try next. You don’t say anything on the radio, and you aren’t even aware that a schoolyard exists. That’s exactly how it is“.

Si ride leggendo storie sui giornali che riguardano un pilota in un aereo in avaria che ha manovrato per evitare una scuola prima di sbattere per terra. E’ una bufala. In una situazione di emergenza, un pilota pensa solo una cosa – sopravvivere. Ci si batte per sopravvivere fino a terra; Non si pensa a nient’altro. La concentrazione è inchiodata su cosa si può provare ancora. Non si dice niente alla radio, e nemmeno si è a conoscenza dell’esistenza di una scuola. E’ esattamente così“.

Crudo, ma vero.

C’è un altro racconto interessante che voglio riportare.

Quando il periodo di permanenza in Inghilterra finì, lui e Bud Anderson stavano per essere rimpatriati. Ma prima di partire, fecero un’altra missione.

Alcuni componenti della squadriglia con la quale erano partiti ebbero problemi meccanici e dovettero rientrare. Lui e Bud si trovarono a proseguire da soli.

Ormai la guerra era alla fine, i nemici erano pressoché annientati, i cieli erano liberi.

Yeager e Bud proseguirono con i loro Mustang, sorvolarono tutto il continente e dopo qualche ora si trovarono a sorvolare le Alpi. La benzina dei loro serbatoi ausiliari era finita. Sganciarono i serbatoi e Chuck Yeager li vide cadere su una montagna. Erano ben visibili, perciò propose di divertirsi a riempirli di proiettili e magari incendiarli, perché contenevano ancora alcuni litri di benzina residui.

Una delle tante foto che ritrae Chuck Yeager al lavoro nel 1953. Alle sue spalle l’X-3 Stiletto.

Fecero diversi passaggi e crivellarono di colpi i serbatoi, prima di proseguire.

Così la racconta Yeager.

Però Anderson dice che nessun proiettile arrivò mai a colpire il bersaglio. L’unico risultato certo dei loro mitragliamenti fu che finirono i colpi. Ecco un caso di realtà leggermente fuori fuoco.

Senza munizioni, quindi inermi, incapaci di reagire all’attacco di qualunque nemico, passarono il confine della Svizzera, invadendo lo spazio aereo di un paese neutrale.

Sorvolarono a poche centinaia di piedi di quota il lago di Ginevra e passarono in Francia.

Qui andarono verso il punto, nel sud del paese, dove Yeager si era lanciato. Mostrò a Bud Anderson tutto il percorso che aveva seguito per attraversare i Pirenei e andare in Spagna. 

Risalirono verso Nord fino a sorvolare Parigi.

Ho visto Parigi dall’alto molte volte. Place de l’étoile, con l’Arco di trionfo al centro, si vede perfettamente. I due chilometri di Avenue des Champs Elisées sono un richiamo troppo forte. Mi piacerebbe immensamente sorvolarlo a bassissima quota. Per me resterà sempre un sogno. Loro, invece, lo fecero.

E infine rientrarono alla base, a Leiston, in Inghilterra.

Ho parlato della capacità di Yeager di imparare a fondo il funzionamento di ogni meccanismo, fin nei minimi particolari. Le esperienze infantili fatte grazie all’attività del padre erano state determinanti, ma un ruolo altrettanto determinante è quello del carattere di una persona. Non tutti sono dotati di curiosità e sete di sapere. Yeager ha sempre avuto una naturale inclinazione al sapere, al provare, al conoscere.

Un ruolo importante, nella sua vita operativa, lo ha avuto un ingegnere, Jack Ridley, che lavorava al progetto X-1.

Questo personaggio era piuttosto incline a condividere le sue conoscenze.

Ancora un primo piano piano dell’X-1 conservato allo Smithsonian dal quale si apprezza la forma penetrante della fusoliera e l’ala a lametta di cui era dotato il velivolo della Bell. In effetti la sua forma a proiettile lo faceva somigliare più a una visione di Jules Verne che ad un aeroplano.

Non tutti lo sono. Esistono persone che, quando sanno fare qualcosa, tengono ben custodita in se stessi la loro conoscenza, come per timore di vedersela rubare. Si muovono stando bene attenti a non farsi vedere, come se temessero che qualcuno particolarmente attento potesse carpire i loro segreti. Usano la loro conoscenza per rendersi il più possibile indispensabili, in modo che gli altri debbano dipendere da loro per la risoluzione di qualche problema.

Credo che chiunque conosca più di un personaggio di questo tipo.

Ma Ridley era tutto l’opposto.

Jack Ridley, pilota collaudatore e ingegnere, assegnato all’X-1 come responsabile nel settore ingegneristico, collaborò con Yeager ai collaudi. Jack spiegò tutto quello che sapeva a Chuck. E questi non si limitava di certo ad ascoltare, ma chiedeva tutto ciò che serviva:

Jack, cosa faccio se“…

Jack, cosa succede se“…

Cosa se… cosa se…

E Ridley rispondeva.

Da qui nasce il concetto di “what if man“, l’uomo cosa (faccio) se, tradotto.

Questo modo di procedere ha dato evidentemente ottimi risultati, perché il muro del suono fu superato. E senza altri incidenti.

C’è nel libro il racconto di un episodio, uno degli innumerevoli, dove Chuck è arrivato ad un soffio dalla catastrofe, ma si è salvato, grazie al suo “what if man“.

I miti non hanno tempo e non invecchiano mai. Purtroppo anche Chuck Yeager era fatto di carne e ossa e il tempo – inesorabile – ha alterato il suo corpo terreno. Il 7 dicembre 2020, alla venerabile età di 97 anni, ci ha lasciato per il suo ultimo volo verso cieli azzurri e sereni … ma noi vogliamo ricordarcelo così … con i lineamenti aggraziati sebbene rugosi e gli occhi vispi di chi ne ha viste di cose che noi umani … 

Come noto, l’X-1 veniva agganciato sotto la pancia di un quadrimotore B 50, evoluzione del B-29, lo stesso tipo di aereo che aveva sganciato le bombe atomiche sul Giappone.

Esistono molti video su You Tube al riguardo.

Il B 50, con Yeager a bordo, decollava e saliva alla quota stabilita. Yeager, al momento giusto, scendeva una scaletta che lo portava davanti al portello dell’ X-1 ed entrava. Richiuso il portello, si sistemava ai comandi. Dopo aver fatto i controlli necessari, appena l’aereo raggiungeva la zona dello sgancio, ad un segnale convenuto, veniva azionato il congegno che liberava l’X-1.

L’aereo – razzo, ora libero, cadeva nel vuoto. Ma aveva già la velocità minima di sostentamento che gli consentiva di cadere in maniera stabile.

Poi Yeager doveva accendere il motore a razzo, anzi, uno dei motori, perché ne aveva a disposizione diversi, e venivano accesi in sequenza a seconda delle prestazioni richieste dalla prova.

Appena avuta la spinta del razzo, l’X-1 accelerava e superava l’aereo che lo aveva sganciato, iniziando anche a salire. Un caccia a reazione, incaricato di seguirlo, volava in zona e subito si gettava all’inseguimento, almeno finché il razzo superava anche la velocità del jet, o la sua quota di tangenza.

Un giorno Yeager si trovava a bordo dell’ X-1, sotto la pancia del B 29, pronto ad essere sganciato. Il jet, detto in gergo chase plane (aereo inseguitore), era pronto ad andare al suo inseguimento.

La retrocopertina del volume “Una vita in cielo” nell’edizione italiana pubblicata dalla casa editrice Res Gestae nel 2014, traduzione del volume originale dell’autobiografia di Chuck Yeager “An Autobyography”

Tutto a posto, fu dato il segnale, l’X-1 fu rilasciato, cadde giù.

Yeager comandò l’accensione del razzo, ma non accadde nulla. Per lunghi secondi la caduta continuò.

Bisognare capire il problema, fare qualcosa al più presto.

Yeager si accorse subito di non avere nessuna corrente a bordo. L’accensione era elettrica. Senza di essa il motore non si sarebbe acceso. Era un macigno che cade dal cielo.

Visto che il motore non si sarebbe acceso, doveva scaricare subito tutti i liquidi estremamente infiammabili che aveva nei serbatoi e che avrebbero dovuto alimentare il razzo. Altrimenti il loro peso avrebbe schiantato il carrello di atterraggio al primo contatto con la superficie del lago asciutto. La velocità dell’ X-1 all’atterraggio era di 190 miglia l’ora, molto vicina ai 400 Km/h.

Un attimo dopo il razzo sarebbe esploso e Yeager sarebbe svanito in una gran nuvola di gas incandescenti.

Azionò le elettrovalvole di scarico rapido, ma senza corrente neanche queste si potevano aprire.

Era una bomba che cadeva verso terra.

Ecco dove diventa subito di vitale importanza il “What if man”.

Jack Ridley aveva già risposto a quella domanda: “what if…”. Cosa faccio se... sono rimasto senza alimentazione elettrica e devo scaricare il carburante per poter atterrare?

Yeager si fidava di Jack. Era un ingegnere, ma era anche un pilota collaudatore. Parlava perfettamente il gergo dei piloti.

Diceva Yeager di lui: “When he explained something, I usually kept asking vhy until I understood it thoroughly. If I had my opinion, we’d discuss it and argue until we both agreed. Because he was also a good pilot and was so practical, we were always on the same wavelenght. Ridley knew me so well that when I described something that was happening with the X-1 he knew immediately what we were getting into. Without having him close at hand, I’d have been lost“.

Quando spiegava qualcosa, io di solito continuavo a chiedere perché finché avevo capito completamente. Se avevo un’opinione personale, discutevamo e litigavamo fino ad essere d’accordo. Dato che era anche un buon pilota ed era così pratico, eravamo sempre sulla stessa lunghezza d’onda. Ridley mi conosceva così bene che quando descrivevo qualcosa che succedeva con l’X-1 lui sapeva immediatamente dove saremmo andati a finire. Senza avere avuto lui a portata di mano, sarei stato perduto“.

Esatto. Questo è proprio quello che sarebbe accaduto.

Immaginate solo per un istante di essere Chuck Yeager e di sedervi al posto di pilotaggio del X-1 … beh, vedrete questo. Tranquilli: il motore a razzo non ha combustibile!

Ma Ridley aveva mostrato a Yeager un comando meccanico quasi nascosto nella cabina di pilotaggio. Apriva una valvola di scarico del carburante senza bisogno di nessuna alimentazione.

Yeager la azionò immediatamente.

Non poteva sapere se il comando aveva funzionato e se davvero il carburante stava uscendo dai serbatoi. Il pilota del chase plane vedeva tutto, ma non c’era modo di chiederglielo né di ottenere risposta. La radio, ovviamente, non funzionava.

Yeager sentiva che il peso si alleggeriva. Lo percepiva dai comandi e dalla reazione del velivolo, che diventava più leggero ad ogni secondo che passava. Ma quello che sembrava mancare erano proprio i secondi.

Arrivò a sfiorare la superficie del terreno e cercò di ritardare al massimo il contatto, senza sapere se ce l’avrebbe fatta oppure no.

Le ruote toccarono il suolo.

Anche questa volta era andata bene.

Il libro è tutto così. Ci sono storie di ogni tipo. Qui ho riportato solo alcune di esse, giusto per dare un’indicazione ai potenziali lettori. Chiunque sia appassionato di aviazione, di volo o di faccende aeronautiche in generale, troverà quello che cerca.

Yeager non ha mai perso la passione per il volo nonostante tutte le difficoltà e i rischi che hanno fatto parte del suo vivere quotidiano per l’intero l’arco della sua vita.

Nel momento in cui termino questa recensione Chuck Yeager è un “giovincello” di appena 97 anni.

E’ possibile che non voli ormai più, almeno da solo. Ma non ci giurerei.

A chi gli ha chiesto, un miliardo di volte, quale fosse il segreto del suo successo, lui ha sempre risposto:

The secret of my success is that I always managed to live to fly another day“.

Il segreto del mio successo è che ho sempre fatto di tutto per vivere e volare ancora un giorno“.




Recensione a cura di Evandro Aldo Detti (Brutus Flyer),

Didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR




An autobiography - Una vita in cielo

The right stuff – La stoffa giusta

titolo: The Right Stuff – [La stoffa giusta]

autore: Tom Wolfe

editore: Picador

anno di pubblicazione:  1979 (prima edizione)

edizione ebook: marzo 2011

eISBN: 9781429961325

NOTA:  Inizialmente pubblicato negli Stati Uniti da Farrar, Strauss e Giraux

Foto della NASA




 

 

The Right Stuff. Letteralmente significa: la Stoffa Giusta.

Stuff ha anche altri significati, come: roba, sostanza, materiale, soggetto, equipaggiamento, etc.

Come verbo, to stuff, significa farcire, riempire, imbottire, impagliare etc.

Dipende dal contesto.

Un’altra parola molto simile: staff, con la a al posto della u, significa: personale, equipaggio.

La pronuncia è altrettanto simile. Non proprio identica, ma talmente simile che si possono distinguere le due parole solo dal discorso nel quale si trovano. Perché spesso la pronuncia dipende molto da chi parla. E chi parla non è necessariamente una persona di madre lingua. Si fa fatica a riconoscere una singola parola in una serie di frasi veloci.

Anche questo, però, dipende dal contesto.

Tuttavia, nel libro di Tom Wolfe, “The Right Stuff”, queste due parole vanno bene entrambe, sono pertinenti e contribuiscono alla pari a definire la linea di sviluppo di tutto il contenuto del libro.

L’aereorazzo da ricerca Bell X-1 è qui ripreso in volo, uno dei tanti che compì per conto della NASA, allora ancora NACA. Era praticamente in proiettile con un’ala (sebbene costruito in leghe di alluminio) ma dotato di un motore a razzo che consumava  alcool etilico, acqua e ossigeno liquido più di una locomotiva a carbone. E’ entrato nella storia dell’aviazione mondiale il 14 ottobre 1947 come il primo aereo ad aver sfondato la barriera del suono in volo orizzontale. E a non essersi disintegrato in volo, aggiungiamo perfidamente. A bordo c’era un certo Charles Chuck Yeager mentre il velivolo era il “Glamorous Glennis”, o “Affascinante Glennis” che dir si voglia, con riferimento alla moglie del medesimo Yeager. Foto NASA

Infatti, il titolo suggerisce l’elemento dominante, l’ingrediente fondamentale e irrinunciabile affinché una struttura enorme come una forza armata, un ente spaziale, o qualunque altro tipo di organizzazione, possa raggiungere il proprio scopo. E questo ingrediente deve essere presente in ogni elemento umano dell’organizzazione. Ogni uomo deve essere quello giusto. Deve avere le migliori caratteristiche possibili per il compito che deve svolgere. In altre parole, deve avere la stoffa giusta.

Se uno solo degli uomini non ce la dovesse avere… sarebbe il fallimento di tutto un insieme di settori e i danni potrebbero essere notevoli.

Poi è necessario che questi uomini con la stoffa giusta siano inseriti in equipaggi, in team, in gruppi. Cioè, in staff giusti.

Ed eccoli in carne e ossa, tuta argentata e casco. Sono i magnifici sette astronauti del programma Mercury Seven. La scatto è del marzo 1960 ad opera di un fotografo della rivista LIFE che riprese i Magnifici 7 presso il Centro Ricerche Langley. La NASA li aveva presentati al mondo giusto qualche mese prima, nell’aprile ’59.

Alla fine degli anni Sessanta, quando entrai nell’Aeronautica Militare Italiana, una delle frasi che gli istruttori e gli insegnanti ci dicevano sempre riguardava esattamente questo aspetto. Ci veniva detto che noi eravamo il risultato di una selezione che aveva avuto come scopo di procurare alla forza armata elementi validi, da distribuire secondo il principio dell’uomo giusto al posto giusto. Il compito doveva essere specifico. Chi lo compiva doveva essere specializzato proprio in quello. E, a volte, ci facevano l’esempio dell’interruttore della luce. Quanto può essere banale un gesto come quello di accendere la luce?

Ebbene, chi ha il compito di accendere e spegnere la luce deve essere uno specialista di quel click. Deve farlo al tempo giusto, senza ritardi o anticipi, secondo come occorre alle operazioni in corso. Deve avere il tempismo giusto, perché a volte, un secondo prima o dopo può inficiare l’intera operazione.

All’avvio del programma Mercury nacque la necessità di addestrare i futuri astronauti a pilotare, in caso di estrema necessità, le navicelle spaziali a bordo delle quali avrebbero volato. In realtà, nello spazio, è tutto un altro volare rispetto a come si vola nell’atmosfera terrestre e dunque il problema iniziale fu di creare dei simulatori abbastanza verosimili per lo scopo. Il cosiddetto “gimbaling rig” era stato realizzato per abituare gli astronauti all’uso dei propulsori a idrogeno con i quali avrebbero controllato i movimenti della navetta. Il MUTIF, acronimo del Multiple Axis Space Test Inertia Facility somigliava così ad un grandissimo giroscopio con all’interno un povero astronauta legato come un salame. Era dislocato presso l’odierno John Glenn Research Center, presso la base di Lewis Field. Strano destino per chi, come John Glenn, aveva trascorso ore e ore a farsi frullare in quel luogo, proprio dentro al gimbaling rig. Foto NASA

Era solo un esempio, per dimostrare come, secondo la situazione, anche un gesto banalissimo deve essere compiuto con professionalità e competenza.

Forse questa filosofia era il “the right staff” all’italiana.

Nel corso dei decenni, secondo la mia personale percezione, questo concetto si è perso, sostituito da un altro concetto: quello che chiunque possa fare qualunque cosa. Mi sono ritrovato spesso a contatto con individui che sembravano proprio il risultato del principio opposto: l’uomo sbagliato al posto sbagliato. E spesso i risultati hanno confermato i sospetti…

Il libro di Tom Wolfe inizia da un argomento inquietante: il gran numero di incidenti che in quegli anni, dal Cinquanta al Settanta e oltre, funestavano le operazioni di volo. Non parliamo di episodi di guerra. Ma proprio delle operazioni di volo. La normale routine di normali reparti impegnati in normale attività volativa. E questo, meglio dirlo, non riguarda soltanto la realtà americana, ma quella di tutti i paesi del mondo, compreso il nostro. Perché dalla fine degli anni Sessanta e per gran parte del Settanta, da giovanissimo militare dell’Aeronautica, mi sono ritrovato decine di volte a dover compiere l’ingrato servizio di picchetto d’onore al funerale di qualche pilota. Allora era così, poi negli anni, per fortuna, la sicurezza del volo è aumentata. Ma non dimentichiamo una frase molto ricorrente che si diceva in tempo di guerra, nei reparti combattenti con gli aerei di allora: ne ammazza più l’aereo che il nemico

Uno degli astronauti Mercury Seven, spesso citato anche nel libro di Tom Wolfe, fu Gus Grissom, pseudonimo di Virgil Ivan Grissom, qui ritratto in primo piano. L’amministrazione NASA lo volle fortissimamente come uno dei sette astronauti del programma Mercury ed era già predestinato a diventare il primo uomo a camminare sulla Luna. Non a caso, egli volò in occasione della missione Mercury-Redstone 4 e nella Gemini 3. La NASA gli affidò allora la missione Apollo 1 ma il 27 gennaio 1967, presso il John F. Kennedy Space Center di Cape Canaveral in Florida, egli morì carbonizzato assieme ai suoi compagni durante una sessione addestrativa all’interno della navetta Apollo 1 già dislocata sulla rampa di lancio. Gli astronauti rimasero intrappolati dentro la navicella senza che i tecnici della NASA potessero salvarli. 

Il primo e il secondo capitolo del libro descrivono questi funerali, parecchi, uno alla volta, ma con la stessa sequenza di operazioni, tutte uguali. L’autore li descrive così, tutti identici nel loro cerimoniale, in maniera quasi maniacale, per passare il concetto che non sta parlando di episodi disconnessi, distanti, casuali. No, era una costante. Uno alla settimana, ma a volte anche due, perfino tre.

E descrive, contemporaneamente, il motivo per cui accadevano queste cose.

I piloti si trovavano, subito appena entrati, ma dovrei dire meglio, già dalle selezioni, a dover dimostrare qualcosa. A dispetto delle esortazioni ufficiali a rispettare le regole, a dispetto delle minacce di punizioni per chi non le dovesse rispettare e a dispetto, inoltre, del fatto che la perdita di un aereo e di un pilota significa un danno alla nazione e al contribuente americano, c’era in giro un’aspettativa, silenziosa e inconfessabile, di dimostrazione di valore. Nessuno era esente dal dover in qualche modo mettere in evidenza la mancanza di paura, la totale dedizione al servizio e al sacrificio, la capacità di spingersi fino al limite massimo e anche oltre.

Ecco, questo è il punto. Spingersi al limite e anche oltre.

I piloti erano i primi a doverlo fare.

Wolfe descrive alcuni di questi modi.

Un pilota decolla e sale subito in candela fino alla quota massima raggiungibile, dove l’aereo rallenta fino a fermarsi, poi cade, muso verso la terra, riguadagna la velocità per ricominciare e così via.

A volte va bene, il muso si abbatte, l’aereo accelera e torna a volare.

Ma a volte ad abbattersi è un’ala, perché, per qualche motivo, stalla prima dell’altra.

Il pilota lotta per recuperare il controllo prima che l’aereo entri in vite. A volte ci riesce. A volte no.

Dalla vite si può uscire, ma non sempre. Dipende dal tipo di aereo, dalla distribuzione dei carichi appesi sotto le ali, dalla quantità di carburante e dalla collocazione dei serbatoi, dal tipo di ala, dal tipo di coda, con particolare riferimento alla posizione del timone di profondità etc.

Anche in Italia il libro di Tom Wolfe ha avuto diverse edizioni con diverse copertine. Questa, la più orripilante, è la copertina dell’ultima edizione pubblicata in ordine di tempo da Mondadori.  Se è vero che la copertina di un libro è il primo contatto dell’autore con il potenziale lettore, se è lo specchietto per le allodole, se è definita l’anteprima visiva del contenuto del volume behallora riteniamo che questa copertina di “La stoffa giusta” sia un pessimo contatto, uno specchietto assai opaco e un’anteprima deprimente. Difficile immaginarsene una più brutta di questa. Non sappiamo dire chi ne fu il curatore o quale logica autolesionista animò l’editore, certo è che una copertina di questo genere è il chiaro esempio da additare come quella da non mandare mai in stampa. Il lettore se la ricorderà di sicuro … ma per la sua bruttezza! E dire che la NASA mette e metteva a disposizione una montagna di foto relative alle missioni Mercury … e che dire poi delle istantanee estrapolabili dalle splendide immagini del film omonimo?

Dipende anche da come si entra in vite. Ogni aereo ha le proprie caratteristiche. Qualcuno entra dolcemente, ruota lentamente e abbassa il muso. Basta un po’ di piede spinto sulla pedaliera dalla parte opposta alla rotazione che tutto si ferma. E in un attimo si può tornare al volo normale.

A volte, invece, l’aereo entra in maniera violenta. Si torce subito ferocemente e parte via incontrollabile. A nulla vale mettere in atto la procedura di recupero. Lui cade e continua a ruotare su se stesso, insensibile a tutto. Poi magari si ferma, dopo parecchi giri, ma ormai ha già raggiunto una quota così bassa da non poter essere richiamato e si infila per terra.

Non sempre la manovra standard che si insegna nelle scuole è efficace. Qualche tipo di aereo richiede una manovra diversa. E un pilota frastornato dalla centrifuga, dalla durezza dei comandi, dalla drammaticità e dalla rapidità degli sviluppi di una situazione, spesso commette errori fatali. Oppure, semplicemente, in certi casi non c’è nulla da fare.

Come da tradizione, la IV di copertina del volume pubblicato dall’editore Sperling & Kupfer del volume “La stoffa giusta” (edizione in italiano), riporta una breve anteprima del contenuto e una sorta di variante dell’iscrizione prospettica del titolo presente nella copertina. Grafica molto anni ’80, non c’è che dire, ma efficace e razionale. La copertina di questa edizione va ascritta a un certo: Kiyoshi Kanai

Uscire dalla vite richiede tempismo, perizia e perfino fortuna. Può richiedere anche molta quota.

Quando manca uno di questi elementi, il risultato è un impatto al suolo, un aereo perso e soprattutto una vita perduta.

Allora si forma il solito picchetto d’onore, la solita cerimonia, lacrime, pianti, la lenta esecuzione del cerimoniale, la piegatura della bandiera, che viene consegnata alla vedova o alla persona più vicina della famiglia. Un capitolo chiuso.

I risguardi interni dell’edizione tascabile pubblicata da Sperling & Kupfer nel 1981 nei quali è possibile godere di una corposa anteprima del contenuto del libro

E la storia riprende, come se nulla fosse successo.

Per la stessa ragione i piloti, anche quando si trovavano in serie difficoltà, erano restii a dichiarare emergenza. Percepivano come una mancanza di capacità e di coraggio il trovarsi a non saper gestire una situazione ed avere bisogno di aiuto.

I controllori di volo spesso si accorgevano, da tutta una serie di indizi, che un pilota era in qualche tipo di problema. Spesso tentavano di stimolare il pilota a dichiararlo, anche per disporre in tempo utile, ad esempio, i vigili del fuoco e l’ambulanza vicino alla pista, se hanno ragione di ritenere che un pilota in avvicinamento abbia una difficoltà a bordo. Ma in questo modo, spesso, ottenevano solo che il pilota si affrettasse a negare di avere problemi. Ce l’avrebbe fatta da solo.

“Whiskey Kilo Two Eight, do you want to declare emergency”? This would rouse him! – to say: “Negative, negative, Whiskey Kilo Two Eight is not declaring an emergency”! Kaboom. Belivers in the right stuff would rather crash and burn.

Whiskey Kilo Due Otto, volete dichiarare emergenza? Questo farebbe risvegliare nel pilota la reazione a dire: “Negativo, negativo, Whiskey Kilo Due Otto non sta dichiarando emergenza”. Kaboom (schianto al suolo). Quelli che credono nella stoffa giusta preferiscono piuttosto schiantarsi e bruciare.

Nessuno poteva mostrare di subire gli effetti di certe tragedie. Sarebbe una debolezza che subito verrebbe interpretata come mancanza della stoffa giusta.

A casa dei piloti, le mogli intente alla conduzione della famiglia, da sole e senza nessun contributo da parte dei mariti impegnati nelle operazioni militari, l’atmosfera era sempre la stessa. Ansia e incertezza la facevano da padrone. Nel deserto del Mojave, dove si trovavano le basi aeree, un filo di fumo si vede da decine di chilometri. Se alla vista di un fumo in lontananza si associa il rumore di un elicottero che decolla, allora le mogli cominciano una serie di telefonate, Chiamano la base, ma nessuno può rispondere alle domande. Le altre mogli non sanno nulla. Ore e ore di incertezza e timore, che nel corso degli anni, con l’aumentare della consapevolezza, diventano perfino terrore.

E Wolfe descrive ancora un altro cerimoniale. Quello ufficiale, sempre uguale a se stesso, che comincia con il rumore di uno o più veicoli lungo la strada che porta alle case dei piloti.

Allora il terrore raggiunge l’apice nell’abitazione davanti alla quale i veicoli si fermano. Uno o più uomini, vestiti secondo il cerimoniale prescritto, si fermano davanti alla porta e suonano il campanello.

Dopodiché la storia è sempre quella. Una moglie, ora vedova, che non ha più nessun motivo per restare in quella casa, da sola e con il proprio dolore, carica la macchina, imbarca i figli e se ne va.

Dove? Dipende. Sicuramente verso un’altra vita. Con quella ha ormai chiuso.

Chi volesse saperne di più su questo aspetto della realtà delle mogli degli astronauti (che è come dire le mogli dei piloti, dato che tra questi gli astronauti venivano selezionati) può leggere il libro “The astronaut wives club“, la cui recensione è presente in questa stessa sezione del sito Voci di hangar.

La vedova che se ne va lascia indietro un mondo del quale ha fatto parte, ma in maniera molto marginale. Un mondo con il quale l’unico legame era suo marito. Non sapeva quasi nulla di quel mondo. I piloti stessi non ne parlavano, nascondendo specialmente i rischi elevatissimi connessi con il loro lavoro. E quel marito non c’era più. Letteralmente.

Una delle frasi che venivano scritte nei rapporti sugli incidenti di volo era che il pilota risultava “burned beyond recognition“, bruciato oltre la possibilità di riconoscerlo. Terrificante.

La NASA sperimentò di tutto e di più. Anche velivoli improbabili. Anche partorendo veri e prori abomini aeronautici. Tutto in nome della ricerca. Questo F-8 Crusader – o quel che ne rimane – fu dotato di un ala supercritica al posto di quella originale e testimonia in modo inequivocabile la necessità dell’ente statunitense di verificare la bontà di intuizioni e tecnologie rivoluzionarie. In particolare, si riteneva che un ala con profilo supercritico potesse ridurre i problemi delle onde d’urto che si sviluppano sul dorso di un profilo alare convenzionale quando la velocità è prossima a Mach 1. La foto risale al marzo 1973. Fortunatamente questa specie di Frankenstain dell’aria non fu mai costruito in serie.

Eppure, nonostante la frequenza di questi incidenti, nessun pilota pensava di andarsene da quella realtà pazzesca. La condivisione del rischio portava allo sviluppo di uno spirito di corpo fortissimo.

Detto fuori dai denti, ogni pilota preferiva morire piuttosto che girare la schiena e andarsene verso una vita più sicura, lasciando indietro i propri “fratelli”.

La selezione implacabile subita per arrivare fino a far parte di un reparto, andava via via rafforzando quello spirito di sacrificio che serviva per poter affrontare il resto e andare più avanti, verso limiti più lontani e perfino oltre. Ognuno si sentiva di avere la stoffa giusta, ma doveva continuare a dimostrarlo, ogni giorno, ogni ora, ogni momento.

Il pilotaggio, per esempio, richiedeva livelli di abilità ed esperienza elevatissimi, specialmente per i piloti che andarono a far parte del reparto sperimentale, dove venivano testati tutti, proprio tutti, gli aerei che poi venivano assegnati ai reparti di volo. La più famosa scuola per test pilots era quella di Edwards. Ancora oggi esiste. Si trova nel deserto del Mojave (o della Sonora) a 150 miglia a Nord-Est di Los Angeles.

Ovviamente, l’attività che un reparto sperimentale svolge ogni giorno, comporta dei rischi, perché anche i test sugli aerei richiedono di spingere il limite sempre più avanti.

Se un aereo può raggiungere una velocità x in linea retta, comportandosi in un certo modo, come si può aumentare questa velocità e vedere come reagirà l’aereo?

Allora si spinge la cloche in avanti, picchiando verso terra. Dieci, cento chilometri orari in più. Tutto ok.

Perciò facciamo un altro volo. Aumentiamo di altri cento chilometro orari. Tutto ok? No? Si produce una lieve deviazione dalla traiettoria?

Allora si studia il perché. E poi si risolve il problema e si ricomincia a spingere oltre.

Sempre così

Il pilota collaudatore della NASA Bill Dana si concede un istante di riposo dopo essere atterrato felicemente con il suo abominevole velivolo a fusoliera portante HL-10 sull’immensa pista naturale costituita dal lago salato prosciugato della base Edward. Lo scatto coglie l’istante in cui avviene il passaggio (in realtà l’atterraggio) del colossale bombardiere strategico B-52 appositamente modificato per portare ad alta quota proprio il mostriciattolo HL-10 che non è dotato di propulsione. La NASA infatti stava sperimentando velivoli pilotati che veleggiassero fino a terra, di rientro dallo spazio, e potessero atterrare comodamente a Edward come un normale velivolo invece di dover procedere al disagevole splash-down. A torto o a ragione questo è uno di quei velivoli di ricerca che fu l’antesignano dello space Shuttle. Scatto del  maggio 1969. Foto NASA

Chuck Yeager, forse il più famoso test pilot di Edwards, ha oltrepassato il muro del suono per primo (almeno ufficialmente) operando in questo modo.

Ma facendo così, non sempre le cose vanno bene.

Tanti piloti sperimentali sono svaniti in una palla di fuoco, per aver oltrepassato i limiti, anche di un solo capello in più.

Oppure si sono trovati intrappolati in una macchina impazzita che in una manciata di secondi li ha trascinati a schiantarsi al suolo o a disintegrarsi in volo in una nuvola di detriti.

Solita storia, solito cerimoniale, pilota burned beyond recognition

La base aerea di Edwards, nel corso degli anni, si è andata allargando a dismisura. E ovviamente, all’interno di essa sono state costruite strade, piazze e viali. Ad ognuna di esse si è dovuto dare un nome. Ma non ci sono stati problemi, visto il gran numero di piloti che in quella base hanno operato e sono caduti. Ogni tanto, qualche pilota, appena risolta un’emergenza, ridendo con gli amici, diceva: “ho deciso di risolvere il problema. Sapete, non ci tengo a dare il nome a qualche via di questa base…“.

Ok. All’epoca esistevano già i seggiolini eiettabili. Ma anche quelli erano oggetto di test, erano imperfetti e costituivano proprio l’ultima possibilità.

Si sapeva di piloti che li avevano usati e si erano salvati. Ma parecchi avevano avuto problemi nell’uscita dalla cabina. Molti avevano urtato un braccio o una gamba contro i bordo. Avevano perso il braccio o la gamba, nel migliore dei casi avevano perso soltanto una mano o la rotula di un ginocchio.

Nell’uscire, poi, ad alta velocità, l’effetto del muro d’aria sul  corpo umano poteva comportare risultati devastanti. Chi riportava  solo  il distacco della pelle del viso era fortunato.

Per questo molti piloti preferivano lottare contro il velivolo impazzito per cercare di riprenderlo, fino ad infilarsi per terra, piuttosto che affrontare il terribile lancio con il sedile eiettabile.

Ora una verità più incredibile di tutte.

Ancora un velivolo di ricerca con fusoliera portante. Stendiamo un velo pietoso sull’aspetto della macchina

Si penserebbe che, alla morte di un pilota, un fratello in armi, un amico, uno con il quale si condividono giornalmente tanti rischi, uno che ha la stoffa giusta, altrimenti non sarebbe lì, tutti gli altri si dimostrino addolorati. Abbiamo visto, invece, che nessuno ne parla volentieri, tutti rifuggono l’argomento. E fin qui va anche bene. Non si debbono mostrare segni di debolezza.

Invece si andava oltre.

Proprio il fatto che quel pilota aveva avuto un incidente ed era morto, era la miglior dimostrazione che in qualche modo se l’era cercata. Si dicevano, a mezza bocca, frasi del tipo: “quell’idiota doveva saperlo che non poteva rallentare in quel modo senza prima abbassare i flaps. Doveva saperlo che avrebbe stallato“… “e’ stato uno stupido. Si è voluto infilare per terra in quel modo… doveva richiamare molto prima“… etc

Quasi come se fosse tutta colpa sua.

E poi, dulcis in fundo, da quel momento in poi, anche senza che fosse detto apertamente, nell’ambiente serpeggiava la convinzione che quel pilota, in fondo… non aveva la stoffa giusta

Avere la stoffa giusta era un’ossessione che portava a fare cose inaudite. Nel libro ce ne sono molti esempi. Qui ne riporterò uno per tutti, neanche il più emblematico.

Un pilota di nome Gus Grissom, che poi diverrà astronauta e morirà insieme ad altri due nel rogo divampato all’improvviso all’interno di una navicella, al suolo, durante un addestramento, fu mandato in Corea a combattere contro i cinesi.

Una sola sigla: X-15!

I piloti americani usavano gli F86 e combattevano contro i MiG cinesi. La sera, per uscire dalle basi e recarsi agli alloggi decentrati, prendevano un autobus. Grissom rimase esterrefatto quando vide che soltanto i piloti ai quali i MiG avevano sparato durante i combattimenti in volo potevano stare seduti durante il breve viaggio. Gli altri dovevano restare in piedi. Quelli seduti, se erano lì nonostante tutto, era segno che avevano superato una prova. Avevano la stoffa giusta. Gli altri, rimanendo in piedi, dimostravano di riconoscerlo e così doveva essere, almeno finché anche loro non si fossero presi qualche mitragliata e se la fossero cavata.

Grissom, il giorno dopo, a bordo di un F86 volò verso Nord, superò il fiume Yalu entrando nello spazio aereo nemico, combatté contro alcuni MiG, tornò alla base e, nel viaggio successivo, si sedette di santa ragione a bordo dell’autobus.

Alla ricerca spasmodica di conoscenza dei fenomeni aerodinamici tipici delle altre velocità, la NASA diede il via a una serie piuttosta numerosa di velivoli sperimentali da ricerca scientifica, banchi di prova per soluzioni ingegneristiche e tecnologiche. Erano i cosidetti velivoli “X”. Ebbene questa specie di missilone qui ritratto, si chiamava: “Stiletto” e, per la cronaca numerica, X-3. Fu ideato per sfondare la barriera dei Mach 2 ma, nonostante fosse costruito per lo più in titanio e avesse una forma affusolatissima, era ampiamente sottopotenziato e dunque non riuscì molto utile alla causa della NASA.

Ora ce l’aveva anche lui la stoffa giusta.

Il terzo capitolo è dedicato a Chuck Yeager. Forse uno dei piloti più grandi che l’America abbia avuto. Per lui non può bastare un capitolo. Infatti questo personaggio ricorre sempre in ogni storia, in ogni libro, anche in questo. Wolfe ne parla perché non si può neanche accennare alla base di Edwards senza menzionarlo, dal momento che Yeager è praticamente vissuto in questo luogo e ne è diventato una specie di Re.

Yeager è colui che ha la stoffa giusta per definizione.

La base si trovava nel luogo più sperduto della Terra, in mezzo al deserto, dove il vento la faceva da padrone, con escursioni termiche che arrostivano di giorno e gelavano di notte. C’erano poche baracche e parecchie tende. Una sola pista di macadam serviva tutto il traffico, sebbene in certe stagioni si potesse utilizzare anche il fondo di un lago che, a parte il periodo invernale, quando era coperto da pochi centimetri di acqua, costituiva una immensa pista naturale con il fondo livellato, liscio e duro.

La località si chiamava Muroc e prendeva il nome proprio dal lago.

Dopo la base si è estesa per diventare quella che è oggi Edwards Air Base, ma a quel tempo era un posto infernale. Per fortuna, a sud ovest della base c’era una specie di ritrovo gestito da una intraprendente signora di quaranta e passa anni, Pancho Barnes.

Pancho era un soprannome, ma il personaggio meriterebbe un libro intero soltanto per lei. Gestiva il ritrovo con maestria. Era lei stessa un’aviatrice, aveva partecipato a gare aeree, aveva fatto parte di un circo volante e aveva perfino fatto contrabbando di armi, con aerei e mezzi terrestri, per certe vicende che coinvolgevano il Messico in quegli anni.

Lo “splash-down” ha sempre costituito l’ultima fase del volo di rientro in atmosfera delle navette spaziali statunitensi. In altri termini, appese a giganteschi paracadute e rese gallegiabili dalla loro intrinseca leggerezza e forma o aiutate da palloni gonfiabili, esse ammaravano in acqua, nell’Oceano. Gli astronauti e il veicolo spaziale venivano poi recuperati da un elicottero decollato da una nave appoggio (solitamente una portaerei, che incrociava in zona). Fatto salvo lo Space Shuttle che planava a mo’ di aliante sulla pista di un aeroporto o di un lago salato prosciugato, tutte le navette del programma spaziale statunitense rientrarono sulla Terra a mezzo dello splash-down. Dalle primissime del programma Mercury alle ultime inviate nello spazio. Tuttavia questa soluzione fu ben architettata e meditata, soprattutto in virtù di una serie di considerazioni banali: il nostro pianeta è coperto per lo più di acque, il punto di rientro è abbastanza premeditabile, le navette sono a perfetta tenuta stagna (dovendo volare nello spazio!), un atterraggio – ossia sulla dura terra – potrebbe essere rovinoso se non catastrofico. In effetti questa soluzione non fu l’unica a essere valutata. I tecnici della NASA sperimentarono infatti anche un’altra opzione: l’ala di Rogallo. Gertrude Rogallo e suo marito Francis Rogallo, un ingegnere della NACA (poi diventata NASA), crearono un’ala autogonfiante che chiamarono “Parawing”, conosciuta più tardi come “Rogallo Wing” (ala di Rodgallo, appunto) alla quale, almeno nelle intenzioni, sarebbero state appese le navette del programma Gemini durante il loro volo di rientro. Naturalmente, prima di effettuare prove reali, furono effettuate molte simulazioni – e questo scatto testimonia proprio le prove effettuate presso la galleria del vento del Centro Ricerche Langley –. Il desiderio di far atterrare anziché ammarare le navette spaziali era grande ma, purtroppo, l‘ala di Rogallo manifestò diversi problemi che la NASA non si prese l’onere di risolvere e il progetto fu abbandonato definitivamente. In realtà la NASA non abbandonò mai del tutto l’idea del veicolo spaziale che atterra e, dopo la sperimentazione di numerosi velivoli a fusoliera portante, giunse appunto allo Space Shuttle. Molti anni dopo, certamente. L’ala di Rogallo costituisce invece l’antesignana dei moderni deltaplani e questo è il motivo per cui i vololiberisti, in particolare i deltaplanisti, dovrebbero nutrire imperitura riconoscenza alla NASA, al programma spaziale statunitense e, in ultima analisi, a Francis e Gertude Rogallo.

Bestemmiatrice e spesso vagamente volgare nei modi, anche peggio degli uomini e perfino dei militari, parlava uno slang strettissimo. Aveva anche alcune ragazze giovani e disponibili, che gestiva e proteggeva. Era un personaggio duro, ma anche simpatico. Davvero l’unica donna che potesse reggere il confronto con i piloti che andavano da lei quando erano fuori servizio. Si faceva rispettare e veniva rispettata. Tutti le attribuivano una qualità che in quell’ambiente era l’unica che contasse: aveva la stoffa giusta.

Di lei, e di Chuck Yeager, si parla di più e meglio in un altro libro autobiografico scritto proprio da Yeager, intitolato “Yeager, un autobiography“.

Ma con il terzo capitolo comincia la storia dell’astronautica. C’era un prototipo, ad Edwards, una specie di aereo con le ali corte e sottili, forgiato come una pallottola calibro 50. Era propulso da motori a razzo ed era pilotato da un collaudatore civile che sembrava più un attore di Hollywood che un pilota.

Il suo nome, Slick Goodlin resta legato al collaudo di questo mezzo, non per i successi raggiunti, piuttosto deludenti, ma per i 150.000 dollari di retribuzione annua. Una cifra enorme, se confrontata con i 3.396 di un pilota militare.

Goodlin si ritirò alle prime difficolta incontrate nell’avvicinarsi alla velocità del suono. Yeager subentrò al suo posto.

La storia che ne seguì è, manco a dirlo, una storia di “stoffa giusta“.

Da qui in poi il libro segue il percorso storico dello sviluppo delle conquiste spaziali, a cominciate proprio dai primi voli dell’X1, fino all’X20 e oltre. Dopo vengono le missioni Mercury, poi le Gemini e infine le missioni Apollo.

Il personaggio Yeager è sempre presente. Nel libro ci sono molti racconti, molti episodi dei quali è protagonista.

Tom Wolfe, al secolo Kennerly Wolfe Jr., classe 1930, è stato un giornalista statunitense per alcuni versi rivoluzionario, scrittore assai singolare dedito alla narrativa e principalmente alla saggistica, non ultimo critico d’arte. Ci ha lasciato nel 2018 alla venerabile età di 88 anni vivendo intensamente la professione di giornalista tanto da segnare in modo indelebile il mondo giornalistico ed editoriale statunitense e, probabilmente, anche mondiale. Si laureò presso la prestigiosa università di Yale e, dopo una breve gavetta in qualità di reporter presso lo Spriengfied Union (modesto quotidiano del Massachusetts), approdò al Washington Post e quindi al prestigioso Herald Tribune di New York. Scrisse una sequela notevole di articoli giornalistici e di saggi. Tra questi ultimi c’è proprio “The right stuff”. Infine diede alle stampe solo quattro romanzi di cui “Il falò delle vanità” del 1987 è considerato quello di maggior successo anche in virtù della sua trasposizione cinematografica (che non ebbe affatto successo nonostante un cast stellare). Insignito di numerosi premi e riconoscimenti, a lui si deve l’invenzione del neologismo “radical chic” e, ovviamente, “the right stuff” nonché la creazione una nuova corrente narrativa nell’ambito giornalistico che è stata da lui definita “new journalism”. Egli fu anche un fervente sostenitore del “realismo”, ossia la necessità dei romanzieri statunitensi di tornare al realismo e al bel linguaggio che furono dei grandi autori statunitensi come Faulkner, Hemingway, Fitzgerald. E’ qui immortalato già avanti con gli anni in uno dei suoi abituali abbigliamenti.

Yeager non fu selezionato come astronauta. I motivi sono molti, uno fra tutti è la mancanza di una laurea, ma forse ce n’è un altro di cui non si fa menzione. Yeager era un pilota stick and rudder, come dire tutto cloche e pedaliera, un praticone, uno che vola con il sedere.

In questo scatto Tom Wolfe è ritratto nel 1972 in età giovanile con, sullo sfondo, una rampa di lancio del Kennedy Space Center di Cape Canaveral. “The right Stuff” fu pubblicato diversi anni dopo, a conclusione di una meticolosa opera di ricerca e verifica documentale sul campo che impegnò l’autore per diversi anni, appunto. Invecchiando Tom divenne sempre più eccentrico, una vera e propria icona del dandy conservatore. Era abituato a vestire in completi bianchi o comunque di colore chiaro di ottima fattura (probabilmente italiana), indubbiamente elegantissimi e un po’ “old fashion”. Non disdegnava le cravatte a pois, il panciotto, il bastone, le ghette e il cappello, Era comunque un eclettico, un creativo e nel giornalismo era a maggior ragione un creativo singolare grazie alla sua prosa audace e anticonformista. Wolfe in fondo era davvero un dandy della Virginia (era nato a Richmond) che si divertiva ad osservare i suoi simili, non manifestava nei suoi scritti granché apprezzamento per il look sdrucito dei ragazzi dei college degli anni ’70 e ’80 o le abitudini sessuali e linguistiche delle nuove generazioni. Insomma un vero conservatore, irriverente, ma pur sempre un conservatore. Un signore a dir poco bizzarro. Attaccabrighe anche in età avanzata che non si privava certo del piacere di spettegolare come si fa normalmente nei salotti frequentati da signore benestanti, bigotte e poco inclini alle novità. Il tono sempre mordace dei suoi articoli, il suo linguaggio vivace e originale, hanno però incorniciato Tom Wolfe quale un personaggio famoso e apprezzato, forse uno tra i più grandi giornalisti statunitensi della storia del giornalismo a stelle e strisce.

Per la nuova figura di astronauta era necessario avere qualcosa di più. Oltre ad essere un pilota bisognava assomigliare piuttosto ad una sorta di scienziato, un geologo, soprattutto. Inoltre, i modi da padreterno di Yeager non andavano bene a molti dei nuovi.

Una situazione già vista anche da noi, nel nostro piccolo, quando gli aeroclub erano frequentati da istruttori che avevano fatto la guerra, che avevano combattuto e si trovavano ad istruire ragazzi giovani appena diplomati. Per i veterani i giovani erano solo delle pappe molli, per non usare termini peggiori. E per gli allievi, i modi duri di certi istruttori erano percepiti come arroganza, ignoranza e violenza gratuita.

Il successo del saggio di Tom Wolfe fu immediato ed enorme. Lo testimoniamo le numerose edizioni (e quindi copertine) che sono state pubblicate nel corso degli anni per il mercato di lingua inglese . Qui ve ne offriamo una breve carrellata.

Non è stata la norma. Io ho avuto solo ottimi istruttori, persone giuste, dure soltanto quando serviva. Ma lo stereotipo del top gun c’è sempre stato.

Nelle diverse copertine è ricorrente il tema del X15 … a dimostrazione che l’aereo razzo che fu precursore delle missioni fuori dell’atmosfera riveste un aspetto importante nel respiro generale del volume

Nei libri che ho letto, scritti da chi, con Yeager, ha avuto una stretta convivenza, nessuno dice apertamente nulla di male di lui. Però, dal modo come se ne parla, da ciò che si dice e da ciò che non si dice, ma si lascia intendere, si comprende il vero pensiero soggiacente. E questo dimostra come anche ad Edwards l’era post-seconda guerra mondiale sia terminata lasciando il posto a quella pre-spaziale e poi spaziale. E il passaggio non sempre è stato indolore.

Il libro affronta un altro aspetto, anche questo davvero interessante, della marcia verso la conquista dello Spazio: quello della medicina aeronautica che deve evolversi e diventare medicina spaziale. Non si sapeva quasi nulla della reazione del corpo umano in un ambiente tanto diverso.

I medici intrapresero strade sconosciute e cominciarono ad acquisire dati con i mezzi che avevano.

I piloti si trovarono ad essere utilizzati come cavie.

E’ interessante scoprire come, quella che oggi è diventata la medicina aerospaziale, si sia sviluppata, con il metodo dell’apprendimento per prove ed errori, in un campo tanto affascinante quanto nuovo e sconosciuto. Bisogna leggerlo, questo libro. Una buona parte di esso riguarda proprio lo sviluppo della medicina spaziale.

Tanto per fare un altro esempio, i medici si trovarono ad affrontare il problema della mancanza di intimità che due o più uomini, stretti in una capsula delle dimensioni di una Volkswagen Maggiolino, potevano avere nell’espletare i loro bisogni fisiologici. E’ chiaro che la vergogna poteva indurli a ritardare la risoluzione di questi bisogni con conseguenze facilmente immaginabili. Era necessario tenere conto anche di questo, nelle selezioni.

Perciò, almeno nei primi anni, i piloti si trovarono a subire tutta una serie di test, con tubi inseriti in ogni orifizio possibile e poi, in quelle condizioni, venivano fatti spostare in un altro reparto, passando, però, in mezzo alla gente che affollava i locali intermedi. Era un test come un altro.

La locandina del film in lingua inglese. Come spesso è accaduto nella storia della cinematografia, se un romanzo consegue ottimi, o semplicemente buoni risultati di pubblico (= vendite), una trasposizione sul grande schermo è pressoché automatica. Ossia qualunque produttore sarà disposto a investire somme consistenti per realizzare una pellicola con un pubblico potenziale già entusiasta e disposto ad accorrere nei cinema. Praticamente quello che è capitato anche al saggio di Thomas Wolfe, appunto. Così, a fronte del notevolissimo successo editoriale, nel 1983, anche “The Right Stuff” diventò un film dal titolo omonimo, diretto da Philip Kaufman e interpretato da Sam Shepard, Ed Harris e Dennis Quaid. L’adattamento cinematografico ebbe un enorme successo di pubblico e di critica tanto da conseguire ottimi risultati al botteghino e, soprattutto, a strappare una notevole sfilza di premi minori e ben 4 statuette dell’Oscar: miglior montaggio, miglior montaggio sonoro, miglior colonna sonora e miglior sonoro. Niente male, non trovate? D‘altra parte, anche il film aveva la “stoffa giusta” … per il successo, s’intende. In Italia il film assunse il titolo: “Uomini veri”. Ma non è questa la notizia. Quando poi l’industria cinematografica è a corto d’idee e i canali televisivi lo sono ancora meno (non sanno più come riempire i palinsesti h24), gli sceneggiatori e i produttori riciclano ciò che in passato ha avuto successo ed ecco che – notizia di queste settimane – il saggio di Tom Wolfe diventerà una serie televisiva che porterà lo stesso titolo del libro e del film. Staremo a vedere se, come si suol dire, anche la serie tv avra la “stoffa giusta”!

Evidentemente, anche per questo bisognava dimostrare di avere la stoffa giusta.

Oggi, con la tecnologia che si sviluppa in maniera esponenziale, mentre già si affaccia lo scenario dell’Intelligenza Artificiale, la stoffa giusta finirà per averla il computer. E allora, davvero, qualunque uomo potrà fare qualunque cosa. Perché la farà il suo computer. O magari, il suo smartphone, dal momento che l’Intelligenza Artificiale, ormai dilaga ovunque, specialmente sui telefonini.

Dal libro di Wolf è stato fatto un film che ha lo stesso titolo: The Right Stuff.

Consiglio a tutti di procurarselo e di vederlo. A mio giudizio è stato realizzato bene. Ma va considerato come un compendio. Un film è, in pratica, una sintesi.

Nel libro, invece, c’è di più.

Molto di più.




Recensione a cura di Evandro Aldo Detti (Brutus Flyer),

Didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR




Flying to the moon

Carrying the fire

titolo: Carrying the fire – [Portando il fuoco]

autore: Michael Collins

editore: Farrar, Strauss and Giroux, 120 Broadway, New York 10271

anno di pubblicazione:  1974 (prima edizione)

edizione ebook: 2019

eISBN: 9781466899261

Tutte le fotografie sono cortesia della NASA




Alla lettura di questo libro ho dedicato un tempo considerevolmente maggiore del solito. Non perché il libro fosse più lungo o più difficile da leggere ma perché, sin dalle prime pagine, si è rivelato straordinariamente interessante. L’autore, l’astronauta Michael Collins, è evidentemente dotato di una personalità insolita, accattivante, modesta, semplice, piacevole, sebbene si percepisca da subito la sua immensa preparazione, la sua profonda conoscenza tecnologica, unite, però, a un altrettanto immensa cultura umanistica.

La recensione di questo libro potrebbe essere scritta parlando solo dell’autore.

Il libro in sé stesso ricalca il classico percorso seguito da altri astronauti. Comincia dalla descrizione del periodo infantile, la vita familiare durante i primi anni di vita, le prime esperienze, non necessariamente relative al mondo aeronautico, ma che portano comunque a incontrare questo mondo, al primo volo etc.

A Roma, appesa alla facciata del civico numero 16 di via Tevere, c’è ancora oggi questa targa in marmo. Occorre aggiungere altro? Sì, c’è! In occasione del cinquantenario dell’evento che ha consegnato alla storia questo illustre romano – di nascita, s’intende – il Sindaco di Roma e la Giunta capitolina tutta hanno deciso di conferirgli la cittadinanza onoraria di Roma. Un po’ a scoppio ritardato – non c’è che dire – ma pur sempre un’onorificenza che Roma non concede così facilmente. Collins non l’ha ancora ritirata e temiamo  che, alla sua veneranda età, difficilmente la ritirerà di persona; diversamente da quanto fece in occasione dell’inaugurazione della sopracitata targa di via Tevere, numero 16. Le riprese conservate dall’Istituto Luce lo testimoniano ancora oggi al link: https://www.youtube.com/watch?v=dZ6YyLslLKM. La sindaca Raggi ha così commentato l’iniziativa: “Lo sbarco sulla Luna è uno di quei momenti in cui tutta l’umanità ha realizzato un grande salto in avanti. Un evento che tenne con il fiato sospeso il mondo e che si deve alla tenacia, alla preparazione tecnica, alla forza di volontà di tre leggendari astronauti. Nell’anno in cui si celebrano i 50 anni dallo sbarco sulla Luna, il conferimento della cittadinanza onoraria di Roma a Michael Collins, rappresenta il riconoscimento dovuto a quell’impresa e a uno dei suoi grandi protagonisti». Notizia ripresa dal Il Messaggero, edizione del 21 settembre 2019.

Collins è nato a Roma nel 1930. Il padre era un ufficiale dell’esercito degli Stati Uniti. In quell’anno si trovava a Roma in qualità di attaché militare presso l’ambasciata americana. Ma l’anno successivo tornò in patria, quindi il tempo vissuto da Michael in Italia è stato davvero minimo. Eppure, leggendo il suo libro si sarebbe tentati di dire che quel tempo minimo sia stato sufficiente a conferirgli una sorta di imprinting, un qualcosa di italiano che sembra venire spesso fuori nel suo modo di essere e nel modo di esprimere il suo pensiero. I concetti che esprime, in altre parole, sembrano  fin troppo riconoscibili come familiari, almeno per una mentalità italiana.

Non sempre, in verità, ma è quasi una costante in tutto il libro.

Per il resto la sua carriera ha avuto uno svolgimento tipicamente americano.

Una foto che ritrae Michael Collins di profilo, scafandrato e intutato, intento a svolgere l’intenso ciclo di addestramento propedeutico alla missione Apollo 11. A proposito dell’astronauta romano un giornalista italiano scrisse: «Non c’è, in fondo, qualcosa del carattere del vero romano, ironico e sprezzante, nell’arrivare fino a un passo dalla Luna, senza però metterci piede, come se non fosse importante?».

In estrema sintesi, il percorso della sua vita è caratterizzato da poche pietre miliari. L’accademia di West Point, dove ha incontrato altri personaggi divenuti poi protagonisti delle stesse vicende in ambito NASA; l’Air Force, appena divenuta una forza armata indipendente; il servizio come jet pilot, sia in patria che in Europa; l’entrata nella NASA; la prima missione spaziale con la Gemini 10 nel 1963 e la missione Apollo 11 del luglio 1969, nella quale rimase in orbita intorno alla Luna mentre i suoi due compagni, Neil Armstrong e Buzz Aldrin, effettuavano il primo allunaggio della Storia.

In mezzo a queste poche pietre miliari, però, c’è un’intera vita, intensa e piena di avvenimenti. Ed è questa vita che il libro racconta.

La sequenza delle vicende che copre decenni di servizio attivo dell’autore sembrerebbe la stessa di tutti gli altri suoi colleghi che hanno, a loro volta scritto libri. Quasi tutti quelli che ho letto e recensito cominciano dall’infanzia, raccontano di come sono entrati nei corpi militari dai quali sono poi transitati nella NASA, delle selezioni, dei personaggi che hanno incontrato, delle difficoltà e di come le hanno superate, dell’addestramento. Proseguono la narrazione descrivendo il loro o i loro voli spaziali e poi le missioni Apollo alle quali hanno partecipato e infine parlano del dopo, quando l’ultima missione Apollo 17 ha segnato la fine di un’era e l’inizio di un’altra, quella delle stazioni spaziali e dello Shuttle.

Il 19 luglio 2019, nella Sala Ovale della Casa Bianca, residenza del Presidente degli Stati Uniti – all’epoca Donald J. Trump – si è tenuta una cerimonia di commemorazione in occasione dell’anniversario del cinquantenario della missione Apollo 11. Alla cerimonia erano presenti, oltre al vice presidente Mike Pence e al presidente Donald J. Trump – ovviamente – i due astronauti sopravvissuti – all’incedere inesorabile del tempo, s’intende – Buzz Aldrin e Michael Collins nonché i familiari del terzo astronauta Neil Armstrong che, lo ricordiamo, fu il primo uomo che toccò fisicamente il suolo del nostro satellite. Per inciso Neil Armstrong ci ha lasciato nel 2012. Questo scatto, peraltro fornito dal fotografo ufficiale della Casa Bianca (certo Andrea Hanks), mostra un presidente Trump seduto nella sua poltrona dello Studio Ovale che stringe la mano, in piedi, a quel monumento dell’astronautica che risponde al nome di Michael Collins. Ora … il presidente è il presidente, per carità, ma ci domandiamo … di fronte a un uomo che ha segnato la storia dell’umanità non sarebbe stato il caso di alzarsi in piedi e salutarlo da pari a pari – sempre ammesso che Trump possa competere alla pari con la statura morale e culturale di Collins! –

Questo libro segue lo stesso schema ma c’è già una differenza: per quasi tutti il dopo ha portato difficoltà a riprendere la vita normale e questo ha causato divorzi, disordini nella vita familiare e affettiva e altri problemi.

Per Collins no.

Lui è addirittura rimasto sempre con sua moglie Patricia, che ha amato per tutta la vita, fin quando lei è scomparsa a causa di una malattia. Infatti il libro è dedicato proprio ed esclusivamente a lei.

Collins non ha  avuto problemi a riadattarsi alla vita normale.

 

Aver fatto parte del primo equipaggio che aveva portato due uomini, per la prima volta, sulla superficie di un altro pianeta, gli avrebbe permesso di ottenere qualunque posizione sociale ai massimi livelli, raggiungere guadagni altissimi anche solo facendo conferenze in tutto il mondo, pubblicità, incarichi politici etc.

Ma Collins avrebbe potuto continuare con la NASA e tornare nello spazio, o magari dirigere settori chiave nella stessa organizzazione. Oppure in qualunque società industriale che con la NASA aveva rapporti di collaborazione.

Poteva aspirare a tutto.

Ma lui, ancor prima di partire per la Luna, aveva detto che con questa missione avrebbe finito. Infatti, appena tornato ha prestato fede alle sue dichiarazioni e ha lasciato il servizio.

Non proprio subito, perché, come tutti gli equipaggi, negli anni successivi, anche il suo equipaggio ha dovuto fare il giro del mondo, visitando tantissimi stati e facendo conferenze in molte città. Pubbliche relazioni. Ma nel frattempo maturava la sua decisione e alla fine ha lasciato la NASA.

Il 13 agosto 1969 fu una giornata letteralmente memorabile per la città di New York. La grande metropoli statunitense rese omaggio ai tre membri della missione Apollo 11 con una parata che attraversò Broadway e Park Avenue. Negli annali cittadini è annoverata come una delle più grandi e memorabili parate della sua storia, forse eguagliata solo da quella con la quale salutò l’impresa di Charles Lindbergh, “l’aquila solitaria”, o l’altra che celebrò il nostro Italo Balbo con i suoi Atlantici. Questo scatto, di cui è depositaria la NASA, mostra nell’auto di testa il comandante della missione Neil A. Armstrong, Michael Collins (comandante del Modulo di Comando) e Edwin E. Aldrin Jr, pilota del Modulo Lunare “Eagle”. A giudicare dalle date, Armstrong aveva toccato il suolo lunare neanche un mese prima. Questa sarà solo una delle numerosissime parate, celebrazioni, manifestazioni propagandistiche/pubblicitarie che si tennero negli Stati Uniti e anche negli altri quattro angoli del pianeta cui vennero coinvolti i tre astronauti, loro malgrado. Si trattava del “Goodwill Tour” che li trascinò per 23 paesi del mondo in soli 37 giorni, osannati da circa 100 milioni di persone. La missione sulla Luna risulto loro meno faticosa.

Dopo una breve esperienza in politica si è ritirato in una piccola università del suo paese, Cincinnati, come professore.

Poi la dolorosa scomparsa della moglie. E nella assolata Florida, dove intanto aveva stabilito la sua residenza, ha continuato a vivere dipingendo quadri con la tecnica dell’acquarello e andando a pesca, che è un’altra delle sue passioni.

Alcuni anni fa mi trovavo a Washington. Tra le altre visite ho ritagliato un po’ di tempo per vedere lo Smithsonian National Air and Space Museum.

Appena si entra l’attenzione è catturata da un grande disco liscio e splendente, posto quasi in verticale in fondo alla prima stanza, grandissima e piena di mezzi aerei e spaziali. Ci si trova subito smarriti, appena si entra. L’ambiente è enorme e c’è tanta gente in giro. Ma dopo poco, appena ci si avvicina a quel disco, si scopre che quella è la parte più larga di una capsula a forma di tronco di cono, un modulo di comando che appartenne ad una delle missioni Apollo. Ed è proprio l’Apollo 11, nel quale Armstrong, Aldrin e Collins sono rimasti per giorni nel viaggio di andata e ritorno per la Luna. E nel quale Collins è rimasto da solo a girare in attesa del ritorno dei due che erano scesi sulla superficie con il Modulo Lunare.

Ecco il Modulo di Comando della missione Apollo 11 così come la descrive il nostro recensore all’interno dell’enorme salone del Museo dell’aria e dello spazio dello Smithsonian Institut

Nella realizzazione di questo museo Collins ha avuto un ruolo chiave e ne è stato il direttore per parecchio tempo.

Ho descritto solo la prima stanza alla quale si accede direttamente dall’ingresso principale. Ma il museo è immenso e dentro si trovano tantissime macchine, come il Flyer dei fratelli Wright e anche lo Spirit of Saint Louis di Charles A. Lindbergh, con il quale quest’ultimo ha attraversato l’Oceano Atlantico (ed è proprio di Lindbergh la prefazione alla prima edizione del 1974 del libro di Collins).

“Siamo cordiali estranei” ha dichiarato Michael Collins a proposito dei due colleghi della missione Apollo e, oggi, a distanza di cinquanta anni, sappiamo per certo che non rimasero amici dopo quella mirabile impresa che li vide condividere per giorni gli angusti spazi di quel budello – concedetecelo – che era il Modulo di Comando. E la foto che ritrae il cruscotto del Modulo e la il suo insieme esterno sono piuttosto eloquenti sulla questione.

Collins parla di tutto questo in “Carrying the fire

Allora dove sta la differenza tra questo libro e gli altri, scritti dai suoi colleghi astronauti?

Il Modulo di Comando della missione Apollo più famosa della storia dell’astronautica, in occasione di una radicale operazione di restauro, fu privata della copertura trasparente e rimossa da quella specie di ceppo su cui è collocata normalmente. Appoggiata viceversa su un apposito supporto in piano, il Modulo appare in tutta la sua bellezza

Sta nel modo di scrivere. Nella semplicità con la quale parla di cose complesse come se fossero facilissime. Sta nella modestia con la quale affronta ogni argomento. Parla come chiunque di noi parlerebbe con gli amici, di un volo in aliante (Collins è un volovelista, tra l’altro).

La sua voce non sembra provenire dall’alto, da uno che ha addirittura conquistato la Luna, ma proviene dal nostro stesso livello. Anzi, a volte sembra perfino provenire dal basso, come quando descrive la sensazione di inadeguatezza che lo coglieva in alcuni momenti particolari. Proprio come chiunque di noi.

Non dichiara mai di essere un valoroso, uno che ha straordinarie capacità, quasi al di fuori dell’umano.

Dice, invece, di essere fortunato. E cita tanti episodi che dimostrano quanto la fortuna lo abbia favorito nella vita. Alcuni di questi episodi sono anche molto divertenti.

Uno per tutti: quando era in Francia con il suo reparto di volo, un giorno si trovava nel sud del paese e volava in coppia con un altro pilota. Procedevano a bassa quota. L’aereo era un F86. Ad un tratto il suo gregario segnalò che l’aereo di Collins aveva preso fuoco e che vedeva le fiamme uscire dalla fusoliera. In quel caso l’unica cosa da fare era lanciarsi e pure alla svelta. Collins si servì del sedile eiettabile un attimo prima che l’aereo esplodesse.

L’F86 si schiantò al suolo.

Collins atterrò con il paracadute. Fu preso da alcuni contadini della zona e accompagnato all’ospedale.

Intervistato in occasione del cinquantenario dell’impresa lunare, Collins si è espresso con un riconoscente: “Noi tre eravamo solo la punta di un gigantesco iceberg tecnologico”. Certamente si riferiva alla enorme mole di investimenti, alla moltitudine di uomini e al loro sovrumano impegno. Tutto questo aveva reso possibile la missione. Inoltre Collins confidò ai giornalisti che, al decollo, oltre alla pressione causata dalla forza di gravità, l’equipaggio avvertì anche qualcos’altro: “Abbiamo sentito il peso del mondo sulle nostre spalle”. Poi l’astronauta aggiunse: “Tutti guardavano, eravamo preoccupati che avremmo rovinato qualcosa”. In effetti non aveva granché torto perché, a seguire il loro operato c’era infatti il mondo intero, collegato in diretta tv per seguire lo sbarco. Una sorta di Grande Fratello planetario.Questo scatto ritrae l’equipaggio dell’Apollo 11 in posa accanto al Modulo di Comando donato allo Smithsonian Institute

La violenza dell’espulsione, che all’epoca era ottenuta tramite una vera e propria carica esplosiva posta sotto il sedile, gli aveva provocato una piccola lesione alla colonna vertebrale, anche se sul momento questa sembrava poca cosa.

All’ospedale fu messo in anticamera e costretto ad aspettare per ore.

Quando la sua pazienza venne meno, Collins costrinse qualcuno a rendergli conto del perché di questa lunga attesa e gli fu risposto, con i problemi di comprensione di allora a causa delle diverse lingue, che non c’era nessuno che potesse visitarlo, perché c’era stato un incidente aereo nelle vicinanze e tutti erano andati nella zona a cercare il pilota che non si trovava.

Divertente.

Ma a parte questo, negli anni successivi, la lesione che aveva riportato in questo incidente produsse dei problemi quando Collins era in addestramento come astronauta alla NASA.

Confessiamo che, almeno all’inizio, non avevamo compreso il senso estetico di questa copertina . Per un istante l’avevamo scambiata per l’icona di un bagliore di luce dai toni mistici, il ritratto multicromatico di un bastone magico con alla sommità una sorgente di potere divino … poi, a guardarlo bene, abbiamo intravisto il razzo vettore Saturno V e la possente scia di fuoco e fumo che esso generava in fase di decollo. E abbiamo stabilito che questa è la copertina più infuocata tra quelle disponibili del libro di Michael Collins

Dovette essere operato e rischiò addirittura di essere messo a terra ed escluso dalle missioni. Non fu così, l’operazione andò bene. Ma produsse un ritardo e uno slittamento nell’assegnazione a un equipaggio.

La fortuna fu che in questo modo venne assegnato proprio all’Apollo 11.

Nel corso di questi ultimi 50 anni, il volume di Michael Collins ha avuto diverse edizioni e dunque diverse copertine. Eccone una carrellata

Benchè Michael Collins abbia dimostrato un’ottime capacità narrative e soprattutto divulgative, non è stato granchè prolifico nei suoi scritti. Onestamente ci avrebbe stupito il contrario.

La descrizione del lungo viaggio verso la Luna e il ritorno verso la Terra occupa una gran parte del libro. Prima ci sono altri capitoli, che parlano delle fasi precedenti, come la missione Gemini 10. In questo volo Collins rivela aspetti straordinari del lancio, delle sensazioni che ha provato, dell’assenza di gravità sperimentata per la prima volta. E lo fa con quel suo modo colloquiale, preciso e semplice allo stesso tempo. Come si descriverebbe una gita fuori porta di un pomeriggio qualsiasi.

A nostro parere questa è una delle copertine peggio riuscite tra quelle che ha  avuto “Carrying the fire” perchè mostra l’autore pensieroso, quasi annichilito dentro alla tuta spaziale con uno sfondo sbiadito (per non dire cinereo). Chi l’ha ideata possibile che non avesse a disposizione la miriade di fotografie che furono scattate dalla NASA o dai fotoreporter prima, durante e dopo l’impresa dell’Apollo 11? Bah … misteri dell’editoria

Allo stesso tempo, però rivela aspetti che altri hanno solo sfiorato. Spiega ogni cosa usando un insieme di modi che comportano una straordinaria vividezza di immagini, unica e personale. Il risultato è che i concetti riescono veramente a passare dalla sua mente a quella di chi legge.

Una grande efficacia di comunicazione.

Finalmente mi sono chiari aspetti che non avevo ben compreso leggendo altri libri.

Collins è un pilota, certo, anzi un test pilot, un pilota collaudatore, come si dice da noi. Ma è anche un ingegnere.

Ed ecco infine la retrocopertina dell’ultima edizione cartacea del libro “Carrying the fire”. Quella con la copertina inquietante

E deve essere sempre stato un ottimo insegnante, perché fa uso di molte tecniche della metodologia didattica. E il lettore capisce.

Sono passati più di 50 anni dalla missione Apollo 11. Ma il ritorno dell’interesse per lo spazio e la ripresa di progetti per nuove esplorazioni fa tornare attuali i fatti del passato.

La descrizione di Collins, riguardante l’intero viaggio, è talmente precisa che questi 50 anni svaniscono di colpo. E sembra di essere lì, ad osservare la Terra che diventa sempre più piccola nelle altrettanto piccole finestre del modulo di comando, intanto che questo si allontana ruotando lentamente su sé stesso. La lenta rotazione, proprio come quella di una fila di polli arrosto sopra un barbecue, si rende necessaria perché tra la Terra e la Luna c’è il giorno continuo. La notte non esiste e il Sole splende sempre. Perciò la parte di capsula esposta al Sole diventerebbe troppo arroventata, mentre la parte in ombra gelerebbe.

Per i tre giorni di viaggio i tre astronauti sono rimasti all’interno della capsula in lenta rotazione.

Collins descrive la vita a bordo, le operazioni, le lunghe check list da eseguire, l’allineamento della piattaforma inerziale, la posizione stabilita per mezzo di un sestante, i pranzi e le cene, le ore di riposo, le comunicazioni. Tutto.

Descrive le orbite da solo intorno alla Luna, il passaggio dietro la parte nascosta dove le comunicazioni con la Terra si interrompono, descrive il momento in cui la Luna è totalmente oscura perché non illuminata né dal Sole né dalla luce riflessa dalla Terra. Allora la Luna c’è, è lì, ma non si vede. Ed è totalmente solo.

Collins ha sempre detto di non aver mai avuto il minimo problema per questo, di non essersi mai sentito a disagio. Anzi.

“I like the feeling. Outside my window I can see stars – and that is all. Where I know the moon to be, there is simply a black void; the moon’s presence is defined solely by the absence of stars”.

“Mi piace la sensazione. Fuori dalla mia finestra posso vedere le stelle – e questo è tutto. Dove so che c’è la Luna, c’è semplicemente il nero vuoto; la presenza della Luna è definita soltanto dall’assenza delle stelle”.

Bellissima descrizione e bellissima immagine. Terrificante, però.

Collins descrive bene anche alcune cose meno belle, come gli odori. Tre uomini dentro una capsula chiusa per una settimana… ma questo è un aspetto che preferisco saltare, lasciandolo a chi leggerà “Carrying the fire“. Del resto, anche altri astronauti hanno scritto libri saltando, però, questa parte.

Il lettore troverà il piacere di leggere un libro bellissimo, dal quale non riuscirà a staccarsi neppure quando la fatica di leggere tante pagine in inglese arriverà a sopraffare la sua resistenza.

Nel quattordicesimo e ultimo capitolo troviamo una esauriente spiegazione dei motivi per i quali non ha avuto i problemi del dopo missione. O meglio, anche lui si è sentito disorientato, ma con pochi effetti.

Semmai, questi effetti, gli sono stati utili per migliorare. Non si innervosiva più per motivi futili. La soglia della misura di cosa è importante si era alzata di parecchio.

Il volo nello spazio ha cambiato tutti quelli che lo hanno compiuto, ognuno ha reagito in maniera personale. Tutti, però sono stati concordi su un aspetto: la Terra, vista da fuori della sua atmosfera, appare fragile. L’atmosfera stessa, un sottile velo di cipolla che la avvolge, appare fragile e vulnerabile. I politici dovrebbero essere tutti ben consci di ciò. Tutti i politici.

Collins dice:

“I really belive that if the political leaders of the world could see their planet from a distance of, let’s say, 100.000 miles, their outlook could be fundamentally changed”.

“Credo veramente che se i leaders politici del mondo potessero vedere il loro pianeta da una distanza, diciamo, di 100.000 miglia, la loro prospettiva cambierebbe in maniera fondamentale”.

I magnifici uomini della missione Apollo 11 posano per il fotografo ufficiale della NASA giusto ai piedi di quella scaletta del Modulo Lunare “Eagle” che il “nostro” Michael Collins non scenderà mai. Sempre a distanza di 50 anni, viene spontanea una considerazione a margine: Michael fu tra le poche persone del mondo occidentale a non assistere all’allunaggio. Egli ha confessato recentemente al New York Times: “Avevo questo piccolo spazio tutto per me. – intendendo quello del Modulo di Comando in cui orbitò in solitaria – Ero l’imperatore, il capitano. E avevo anche dell’ottimo caffè caldo”. Purtroppo l’inventiva giornalistica – a torto o a ragione – lo ha talvolta definito come: l’antieroe, l’uomo più solo di sempre, il tassista, l’astronauta dimenticato, il gregario, l’uomo ombra. Povero Collins … e pensare che se i suoi compagni avessero avuto dei problemi avrebbero potuto contare solo di lui.

La fragilità del nostro pianeta è apparsa talmente chiara ed evidente a tutti coloro che in qualche modo sono usciti dai limiti dell’atmosfera che tutti ne hanno parlato con enfasi, cercando di comunicare al resto del mondo la necessità di averne grande cura. Sono nati movimenti ovunque, organizzazioni ambientaliste, gruppi di scienziati e perfino partiti politici che hanno cercato di sostenere idee più conservative verso l’ambiente, ma, purtroppo con scarsi risultati. La società dei consumi e il mondo capitalista in generale, hanno inferto ferite profonde a questo fragile pianeta e le offese verso l’ambiente continuano.

Collins, con il suo linguaggio pacato e tranquillo, nel suo libro che risale al 1974, scrive:

“The Earth must become as it appears: blue and white, not Capitalist or Communist; blue and white, not rich or poor; blue and white, not envious or envied…”.

“La Terra dovrebbe divenire così come appare: blu e bianca, non Capitalista o Comunista; blu e bianca, non ricca o povera; blu e bianca, non invidiosa o invidiata…”

Sono perfettamente d’accordo con lui.

Dice anche, a proposito della sua fragilità:

“If I could use only one word to describe the Earth as seen from the moon, I would ignore both its size and color and search for a more elemental quality, that of fragility. The Earth appears “fragile”, above all else. I don’t know why, but it does. As we walk its surface, it seems solid and substanzial enaugh, almost infinite as it extends flatly in all directions. But from space there is not hint of ruggedness to it; smooth as a billiard ball, it seems delicately poised in its circolar journey around the sun, and above all it seems fragile”.

“Se potessi usare una sola parola per descrivere la Terra come si vede dalla Luna, ignorerei sia la grandezza che il colore e cercherei una qualità più elementare, quella di “fragilità”. La Terra appare “fragile”, sopra ogni altra cosa. Non so perché, ma così sembra. Quando camminiamo sulla sua superficie, sembra abbastanza solida e sostanziale, quasi infinita mentre si estende orizzontalmente in ogni direzione. Ma dallo spazio non c’è indizio di asprezza; liscia come una palla da biliardo, sembra delicatamente in bilico nel suo viaggio circolare intorno al sole, e soprattutto sembra fragile”.

Anche se questa immagine fu scattata nel corso della missione Apollo 15 – quindi ben dopo la 11 – , siamo certi che, agli occhi di Collins, la Terra apparve certamente così. Di fronte a una simile vista, come non essere attraversati dai pensieri e le riflessioni che Collins ci ha confidato nel suo libro?

Insomma, la Terra è fragile. E altrettanto lo sono i suoi abitanti. Tutti i suoi abitanti, animali e piante compresi.

E tanto fragili sono apparsi anche i pochi temerari che hanno avuto l’ardire di lasciare la fragilità del loro pianeta per dirigersi verso un altro, sorretti solo da una limitata conoscenza tecnologica e da una solida e incrollabile curiosità. E sete di esplorare.

Per un tempo interminabile sono rimasti all’interno di una fragile capsula che ha sfrecciato a velocità inimmaginabile attraverso il vuoto assoluto, circondati solo dal nero, altrettanto assoluto, ma punteggiato di stelle.

Il quattordicesimo capitolo di questo libro rappresenta la sintesi di tutto il libro. E’ come la conclusione di un racconto, quello della vita di un astronauta, un uomo che è stato tanto fortunato da vedere cose che tutto il resto dell’umanità, tranne pochissimi, neanche immagina.

Ma nonostante questo resta umile. Comprende la bellezza del mondo ed esorta ad averne cura.

L’umiltà, la mancanza di protagonismo, la semplicità, l’essere schivo e distaccato, qualità che lo hanno sempre fortemente caratterizzato, hanno prodotto l’effetto che, nei decenni successivi alla missione, il mondo lo dimenticasse. Soltanto oggi, con i social media, ha ritrovato un minimo di visibilità. Oggi Mike Collins è su Facebook. Se lo cercate, trovate il suo profilo, ed è anche piuttosto attivo. Chatta con tutti, apprezza i commenti con un like o risponde a chi gli chiede qualcosa. Ve lo garantisco per esperienza personale.

Ma solo oggi è così. Finora era stato per decenni “l’astronauta dimenticato”.

Il 16 settembre 1969, Collins parlò ad una riunione del Congresso, a Washington, la sua città.

“Mr President, members of Congress, and distinguished guests”…

così iniziò il discorso, che si snoda in diverse pagine.

“Signor Presidente, membri del Congresso e distinti ospiti”…

Ma poche righe prima, scriveva:

“For me, that date and these words marked the end of Apollo 11, and closed an extraordinary chapter in my life”.

“Per me quella data e quelle parole segnarono la fine dell’Apollo 11, e chiusero uno straordinario capitolo nella mia vita”.

Il discorso di cui parlo si trova facilmente su YouTube.

In questi anni, alcuni degli astronauti delle missioni Apollo ci hanno lasciato. John Young e Gene Cernan tra questi.

Si dice che, dichiarando erroneamente la morte di una persona, non si faccia altro che allungarle l’esistenza. Siamo certi che questo sia accaduto anche a Michael Collins. Realisticamente però,  prima o poi avverrà inevitabilmente la sua dipartita, ebbene è con questa immagine del 1969 che vorremmo ricordarlo. La foto ufficale NASA ce lo mostra alla vigilia dell’impresa lunare, avvolto nella sua divisa da lavoro. Non che la sua fisionomia sia completamente cambiata nel corso di questi ultimi 50 anni, certo che no, è che a noi piace ricordarlo come l’eroe senza tempo che non invecchia e rimane sempre uguale a sè stesso

Qualche giornalista deve aver fatto confusione con i nomi e riportato, per sbaglio, la morte di Collins (proprio in questi giorni, mentre mi accingo a chiudere questa recensione, ci ha lasciato per sempre anche Al Worden).

A questa notizia avevo creduto. Ma poi, per fortuna ho scoperto che Mike Collins è ancora vivo e vegeto. E continua a dipingere e pescare nel Sud della Florida. Sono sicuro che tante persone credono ancora che sia morto. Nessuno parla di lui, nessuna cronaca, nessun telegiornale. Armstrong non c’è più, ma se ne parla ad ogni occasione. Aldrin continua a spingere a tutta forza l’idea di andare alla conquista di Marte, senza nemmeno passare prima per il ritorno sulla Luna almeno per costruirci sopra una stazione intermedia. Tutti i media continuano a diffondere i suoi appelli, perché lui vende magliette e gadget online con la scritta;

get your ass to Mars“,

letteralmente; “porta il culo su Marte“….

Di Collins non si sente dire mai nulla.

Ma lui era anche chiamato “l’astronauta dimenticato”. Tutti conoscono Armstrong e Aldrin. Collins… se lo ricordano in pochi.

Se cercate Mike Collins su Google troverete molto probabilmente qualcun altro, che non è lui e che appare nei primi posti della lista.

Per trovare lui, dopo aver digitato il suo nome, dovete aggiungere un’altra parola: astronaut.




Recensione a cura di Evandro Aldo Detti (Brutus Flyer),

Didascalie della Redazione di VOCI DI HANGAR




Flying to the moon



Le oche delle nevi

titolo: Le oche delle nevi

autore: William Fiennes

editore: Bompiani

ISBN: 88-452-4968-9

anno di pubblicazione:  2003





Cosa ci fa la recensione di un libro sulla migrazione delle oche in un sito di carattere aeronautico?

Ci ho pensato un po’ sopra, prima di proporlo. Poi ho realizzato che le oche, in quanto uccelli, sono quanto di più aeronautico esista al mondo. Noi aviatori abbiamo copiato gli uccelli, non il contrario. E ancora non siamo riusciti a fare meglio di loro, anzi, neanche ad eguagliarli.

Le oche in particolare, volano a quote che vanno da pochi metri dal suolo fino a oltre novemila metri. Senza ossigeno, senza equipaggiamenti speciali, solo con il loro corpo, volano in formazioni spettacolari per migliaia di chilometri, navigando con mezzi propri, fino a raggiungere la meta, passando attraverso mille pericoli. Un certo numero non ce la farà, magari proprio mentre si preparano all’atterraggio, esauste, alla fine della tappa finale. La loro vita può finire proprio lì, nel tempo di un colpo di fucile che neanche sentiranno.

La copertina dell’edizione in lingua originale del libro di William Finnies. Il titolo è appunto “The snow geese” e fu pubblicato nel 2002. Sebbene si tratti indiscutibilmente di un volume affascinante, occorre ammettere che è anche molto settoriale – di nicchia, si direbbe in modo elegante – e dunque non ebbe un grandissimo successo di vendite tanto da poter essere considerato un best sellers. In compenso, come sempre accade in queste situazioni, il giornale “The Guardian” , recensì assai positivamente “Le oche delle nevi” definendolo quale: “il debutto di un talento sorprendente”. E in effetti esso costituisce il libro di esordio assoluto.di William Finnies cui è seguito solo alcuni anni più tardi il suo secondo libro “Music room”

Comunque questo libro non è un trattato scientifico sulla migrazione delle oche.

L’autore, William Fiennes, a venticinque anni si ammalò. Era il 1995. Fu operato, ma la sua situazione non migliorò e dovette subire altri interventi. Rimase a lungo in ospedale. Era impaziente di guarire e di andarsene, ma la ripresa fu molto lenta. Perciò si dovette rassegnare a rimanere in ospedale e ad evadere solo con la mente, l’unica parte di lui che poteva andare dove voleva.

Si mise a ricordare le cose che faceva quando era sano, nella vita normale di prima della malattia. Come quando si sedeva nel cortile di casa, una casa medievale costruita in pietra e situata nel mezzo dell’Inghilterra, a parecchie miglia di distanza dalla più vicina città, ad osservare i rondoni che volteggiavano intorno al tetto. Generazioni e generazioni di quegli uccelli andavano e venivano nelle loro migrazioni, anno dopo anno. Sparivano, ad un certo punto, ma tornavano sempre.

Aveva letto un libro, “The snow goose”, scritto nel 1941 da un certo William Paul Gallico, senza peraltro apprezzarlo troppo. Da questo libro fu tratto un film nel 1971.

L’autore di questo scatto, al secolo Kim Tashjian, ha così commentato il suo splendido scatto intitolato “Snow Goose Migration”: “Non c’è niente come la vista e il suono di migliaia di oche delle nevi che prendono il volo”. Aggiungiamo che questo è l’istante in cui l’occhio sintetico, per quanto dilatato, di un apparecchio fotografico dimostra tutta la sua congenita limitatezza nel cogliere una tale immensità di corpi animati volanti. Invero, questo scatto è davvero impeccabile e testimonia l’enormità – in termini di numeri – che comporta la migrazione delle oche delle nevi. Quanto alla rumorosità delle oche beh … come dimenticare le famosissime oche del Campidoglio che, secondo la leggenda, salvarono le sorti di Roma? Ebbene – a beneficio di coloro che non ricordano questo episodio della millenaria storia romana – si narra che le oche, unici animali superstiti in quanto ritenute sacre a Giunone, cominciarono a starnazzare rumorosamente avvertendo i romani asserragliatesi sul colle del Campidoglio della presenza di estranei. Questi estranei c’erano davvero ed erano nientemeno che i Galli giudati dal terrificante Brenno che  avevano già messo al sacco la città. L’assalto al Campidoglio, proprio grazie alle oche, fu respinto e Roma potè tornare grande. In effetti, tra le  nostrane europee e le nordamericane oche (delle nevi), esistono delle notevoli differenze dal punto di vista ornitologico sebbene il loro comportamento guardingo noché chiassoso le accomuni oggi come allora. 

Ma aveva anche l’abitudine , appunto, di osservare gli uccelli, molti dei quali erano stanziali. Altri, quelli migratori, poteva osservarli solo in certi periodi dell’anno quando erano presenti nei dintorni della casa.

Per superare la smania di lasciare l’ospedale e tornare a casa alla fine di una guarigione che sembrava non arrivare mai, rilesse  le osservazioni di Paul Gallico  sulla migrazione delle oche delle nevi e finì per rimanere affascinato da tutti quegli elementi di mistero riguardo a come sapevano quando fosse il momento di partire, come si orientavano, come interagivano tra loro.

Avrebbe voluto anche lui poter migrare attraverso un territorio sterminato, libero, invece di essere costretto a rimanere confinato tra le mura di un edificio per un tempo indefinibile, apparentemente interminabile, infinito.

Prima o poi sarebbe uscito, ma intanto aveva bisogno di aggrapparsi a qualcosa che lo aiutasse a superare la lunga permanenza, il peso dell’immobilità forzata, la noia del quotidiano.

Aveva bisogno di un progetto, di un’idea, di una via di fuga.

Si fece portare in ospedale tutti i libri possibili che riguardavano l’ornitologia e le migrazioni degli uccelli.

Quando finalmente guarì, decise di andare negli Stati Uniti d’America a seguire lo spostamento delle oche attraverso il continente, da Huston fino ai ghiacci della Terra di Foxe.

Appena lasciato l’ospedale Fiennes partì per l’America del Nord coma aveva sognato durante la lunga degenza, per seguire lo spostamento delle oche delle nevi attraverso il loro lunghissimo viaggio da Sud a Nord.

Il libro racconta questo viaggio.

Non è un libro comune. Non avevo mai letto niente di simile. Ma proprio per questo l’ho trovato altamente interessante, sorprendente, unico. Tanto da accarezzare l’idea di fare la stessa cosa, un giorno o l’altro in questa vita.

Né mancano aspetti tragici. Leggendo il racconto si finisce per amarle molto quelle oche. E non si può certo rimanere indifferenti alla loro sorte, quando si comprende che,  inevitabilmente, molte di esse lasceranno il loro posto nelle lunghissime formazioni, vittime di qualcuno dei tanti pericoli.

Solo per farci rendere conto della densità con cui le oche delle nevi svolgono la loro migrazione annuale, riportiamo la foto di Jeff Dyck che ci ha regalato questa vista in grandangolo intitolata: “Snow Goose Panorama” scattata sulle rive di un laghetto di Bosque del Apache, negli Stati Uniti. Sono ben lontani i territori del Canada del Nordest ove le oche andranno a riprodursi.

 

Verso la fine del libro, quando ormai l’autore e gli stormi di oche hanno raggiunto i ghiacci del Nord, ecco comparire i cacciatori. Fiennes si unisce a loro per raggiungere i luoghi dove finalmente la migrazione ha termine. Solo con le loro slitte, infatti, può raggiungere posti tanto impervi. E immancabilmente assiste all’uccisione di un gran numero di oche.

Una delle ragazze che fanno parte della spedizione dei cacciatori si incarica di far bollire alcune oche per mangiarle tutti insieme, la sera, intorno alle tende. Loro sono accampati sul ghiaccio coperto di neve, mentre nei dintorni stazionano anche migliaia e migliaia di oche accucciate a gruppi per passare la notte.

Contrariamente a quanto facciamo abitualmente, non abbiamo pubblicato la copertina del libro quale immagine in evidenza della recensione. Questo perchè la copertina del libro, nella versione italiana più che in quella originale in lingua inglese, ci è apparsa subito inadeguata rispetto all’enormità dell’argomento trattato dal volume e addirittura fin troppo approssimata se si considera l’enormità di materiale disponibile in rete a proposito delle oche delle nevi. Per questo motivo abbiamo preferito questo scatto di Sandy Paiement che ritrae una coppia di oche in volo formazione serratissima. Ricordiamo che le oche sono tendenzialemente monogame e rimangono assieme con il loro compagno/a nel corso di tuttta la loro esistenza

E’ una scena triste, ma è costretto ad uniformarsi alle necessità.

Descrive così la situazione:

“Mangiammo seduti sulla neve con la schiena contro il capanno. Non avrei voluto mangiare l’oca. Mi ero spesso immaginato nella Terra di Foxe, alla fine del mio viaggio, a guardare le oche delle nevi che tornavano nella regione in cui erano nate. Non mi era mai venuto in mente che avrei potuto mangiarne una. Ero affezionato a quegli uccelli. Non potevo fare a meno di considerarli miei amici. Ma non volevo distinguermi da Paula e Natsiq, così me ne stetti quieto a mangiare l’oca. Nel brodo galleggiava qualche piuma. Prendevo piccoli bocconi che masticavo con aria assorta. La carne era sostanziosa: potevo sentirci dentro i chilometri. I pezzetti mi rimanevano nello stomaco come sassi. Mangiammo in silenzio, accovacciati nei nostri parka; oche dentro e fuori di noi”.

Dopo questa ultima tappa Fiennes tornò a casa. Non ci volle molto perché nel lungo viaggio attraverso tanti stati americani si era spostato verso Nord-Est e ormai si trovava geograficamente molto più vicino alla sua nativa Inghilterra.

La penisola di Foxe è situata nell’estremità meridionale dell’isola di Baffin, nella regione di Qikiqtaaluk dello stato del Nunavut, in Canada. Da quella posizione, per tornare in Inghilterra, rimaneva “soltanto” il sorvolo della Groenlandia e dell’Islanda.

Il libro non finisce qui. Il viaggio di ritorno viene descritto molto dettagliatamente. Ma una volta tornato, Fiennes ritrova i luoghi a lui familiari, la casa, gli alberi, il paesaggio e gli animali.

Qui

Che le oche abbiano delle innate doti volative non occorre neanche sottolinearlo e, se ce fosse necessità, il racconto di William Finnies lo testimonia indiscutibilmente.In questo scatto si può notare l’imperiosa estensione dell’ala dell’oca delle nevi in fase di atterraggio. Diffcile immaginare di riprodurre le prestazioni aerodinamiche di un’oca delle nevi a mezzo di un congegno meccanico. Gli uccelli rimangono per noi umani terricoli un universo affascinante che possiamo solo emulare e imitare maldestramente. Oggi come ai tempi di Leonardo da Vinci. Chissà se in un prossimo futuro non si riesca a fare anche solo una frazione minima di quanto la natura ha concesso alle nostre oche …

Ritrova tutto. Ogni cosa era al suo posto, come l’aveva lasciata. Nulla di cambiato.

Lui, però, era cambiato.

Il lunghissimo viaggio insieme alle oche delle nevi, le vicende estremamente avvincenti che aveva vissuto insieme a loro, avevano lasciato una traccia indelebile nella sua anima, nel suo modo di pensare e di essere.

E adesso torniamo alla domanda iniziale: cosa ci fa la recensione di un libro sulla migrazione delle oche in un sito di carattere aeronautico?

Come dicevo, gli uccelli sono quelli che ispirano la nostra passione per il volo e le oche, ma direi tutti gli uccelli migratori, sono quelli che ammiriamo di più. Loro volano per migliaia di chilometri. Noi facciamo lo stesso (e quando non possiamo farne migliaia, ci rassegniamo a farne centinaia. Ma anche solo decine…).

Alcune oche non raggiungeranno la destinazione. Cadranno vittime di incidenti di varia natura, come purtroppo accade anche nel nostro ambiente.

Tra loro c’è una gerarchia e c’è anche nelle nostre aviazioni.

Tra loro c’è coesione e spirito di corpo. Come tra noi.

Loro come noi ragionano in termini di quota, velocità, orientamento, salita, discesa, veleggiamento, planata, decollo, atterraggio, mantenimento della posizione nella formazione e cambio di posizione quando occorre.

Una foto estremamente artistica che ritrae le oche delle nevi al tramonto in località: Bosque del Apache nello stato del New Mexico (Stati Uniiti), La foto è disponibile all’indirizzo: https://www.flickr.com/photos/manuelromaris/35891649870/ ma sappiate che le oche delle nevi sono state fotografate moltissimo nel corso degli anni in occasioni delle loro rituali migrazioni e dunque sono disponibili un’infinità di immagini che le ritraggono in tutte le posizioni, in tutti i loro assembramenti e a tutte le ore del giorno.

Loro come noi stanno attente ai pericoli e cercano di evitarli, quasi sempre con successo, ma a volte no.

Loro come noi provano la gioia di partire, di volare, di arrivare. Provano ansia e paura e, forse, anche indifferenza e noia.

Potrei continuare per molte righe ancora.

Ma soprattutto, vorrei mettere in evidenza un aspetto particolare. Come ho detto, un giorno vorrei anch’io seguire la migrazione di queste oche. O di altri uccelli migratori. Volando, però, insieme a loro.

Molti piloti lo hanno fatto. Angelo D’Arrigo è solo un esempio, ma anche Achille Cesarano. E altri ancora.

Per ora sono stati impiegati mezzi lenti, come deltamotore o parapendio motorizzati.

Al momento sono questi gli attrezzi migliori che ci offre la tecnologia.

Qual’è l’ambiente più congiale alle oche delle nevi? … ma il terreno innevato, che domande! Un grazie dello scatto “bianco” a Ted Sakshaug che ha colto le nostre oche a Romulus, stato di New York, dopo una bufera di neve

Ma il progresso tecnico è in continua evoluzione e presto o tardi fornirà qualcosa di molto più evoluto, più ecologico e più versatile. E allora davvero potremo unirci agli stormi di oche che migrano attraverso i continenti, di giorno e anche di notte. E potremo posarci con loro per una sosta qua e là e dormire in mezzo agli stormi per ripartire alle prime luci dell’alba.

Ma senza sparare a nessuno. Senza mangiare nessun esemplare.

Niente oche dentro e fuori di noi.

Solo oche intorno a noi.


Recensione a cura di Evandro Aldo Detti (Brutus Flyer)

 





The astronaut wives club

titolo: The astronaut wives club. A true story – [Il club delle mogli degliastronauti. Una storia vera]

autore: Lily Koppel

editore: Headline Publishing Group An Hachette UK Company

eISBN: 978 0 7553 6261 5

anno di pubblicazione:  2013





La dedica che troviamo subito nella prima pagina, dopo l’indice e una brevissima presentazione dell’autrice, è già di per sé illuminante. Nella sua essenzialità, otto parole in tutto, rivela l’intero contenuto del libro: –for the wives who have the “right stuff”- [Per le mogli che hanno la stoffa giusta].

Chi non ricorda il famoso film, a sua volta tratto dal famoso libro di Tom Wolfe, che aveva proprio il titolo di “The right stuff” – [La stoffa giusta]? In effetti in Italia la pellicola fu presentata con il titolo: “Uomini veri”.

Se qualcuno lo avesse dimenticato, o non lo avesse addirittura mai sentito nominare, consiglio di procurarselo con ogni mezzo. Non sarà certo difficile, dopo una rapida ricerca sul web. 

La copertina del libro di Lily Koppel nella sua versione cartacea. Purtroppo, ad oggi, non ne esiste una versione in lingua italiana, viceversa è  disponibile una versione digitale in un comodo e-book 

Sia il libro che il film riguardano, in estrema sintesi, le conquiste che nel ventesimo secolo si sono succedute a ritmo vertiginoso nel campo dell’aviazione, prima, e nel campo spaziale, poi.

E riguardano, soprattutto, i protagonisti che hanno fatto parte di questa straordinaria, lunga, ma per altri versi anche corta, storia umana. Un secolo o poco più di avvenimenti, scoperte, esperimenti, imprese, rischi, disastri e perdite di vite umane e di mezzi, ma anche di conquiste, come non si era mai visto nei millenni precedenti.

Gli uomini che questa storia hanno costruito un pezzo alla volta dovevano certamente avere la stoffa giusta per farlo.

E per uomini intendo proprio uomini, esseri umani di sesso maschile.

Il libro riguarda un periodo storico dove le donne, tranne qualche caso sporadico, restavano in disparte, dietro le quinte. Semmai se ne trovavano in maggior numero negli uffici, all’interno di strutture e servizi che quasi mai arrivavano agli onori della cronaca. In aviazione la maggioranza erano militari di sesso maschile. La struttura sociale era quella che era e la mentalità pure. Stiamo parlando degli Stati Uniti della fine degli anni ‘50

E’ fuori discussione che questi uomini, in pace come in guerra, dovessero avere la stoffa giusta per affrontare le prove alle quali erano chiamati ogni giorno, ogni ora, ogni minuto. Gli aviatori in special modo e gli astronauti ancor di più.

E allora, le mogli degli aviatori e degli astronauti potevano mai fare eccezione?

La dedica in questo ebook, infatti, attribuisce subito anche a loro la stoffa giusta. Ma per fare cosa?

Diciamo subito che, almeno all’inizio, nella selezione degli astronauti, oltre ai requisiti e alle tremende e a volte stravaganti prove che i candidati dovevano superare, c’era anche la clausola, forse non scritta, che la loro situazione familiare dovesse essere irreprensibile e serena. Per gli scapoli, beh, c’era poco da pretendere, ma per gli sposati…

Niente diverbi familiari, separazioni e, men che mai, divorzi.

Dopo una manciata di righe che descrivono le prove psico-fisiche previste dai medici della NASA per selezionare i piloti (inizialmente scelti solo tra i test-pilots, i piloti collaudatori), un altro paio di righe chiariscono i criteri di selezione del momento: “NASA looked into the backgrounds of not only the men but also their wives”. – [La NASA guardò dentro i trascorsi non solo degli uomini, ma anche delle loro mogli].

In questo scatto risalente al 1963 ecco le famose sette mogli del progetto Mercury. Le signore erano spesso coinvolte in celebrazioni, cerimonie e incontri dal chiaro scopo “vetrina” alla stregua delle ben più fotogeniche attrici di Hollywood.

Sembra incredibile, oggi, ma venivano poste domande come: quante volte alla settimana tua moglie cucina in casa? Beve troppo? Frequenta spesso persone di credo comunista?

E così via.

Inizialmente erano stati selezionati i primi sette neo-astronauti, che presero il nome di “the original seven”. Era l’Aprile del 1959.

A questi, nel settembre del 1962, seguirono altri nove.

E in ottobre 1963 fu annunciato il terzo gruppo di astronauti per coprire le esigenze delle missioni Gemini ed Apollo che sarebbero state sviluppate negli anni seguenti. Altri 14 elementi.

E, ovviamente, le loro mogli.

La NASA selezionò altri elementi anche nel 1966. I nuovi si auto-nominarono “the original nineteen”. E arrivarono le mogli anche di questi ultimi. Come è scritto sul libro, tutto ciò significò “another gang of gals” – un’altra banda di ragazze.

Se nella copertina del volume “The astronaut wives club” troviamo le moglie degli astronauti, nella retrocopertina non potevano mancare gli astronauti del progetto Mercury avvolti nella loro tuta argentata

La vita di queste famiglie, già molto prima che i piloti venissero scelti per le missioni spaziali, era quella tipica delle famiglie dei militari. Vivevano in alloggi di fortuna nei dintorni delle basi, o addirittura dentro le basi. Le comodità erano poche. I mariti erano fuori gran parte del giorno, rientravano dopo le cinque del pomeriggio, a volte stanchi, troppo affamati e sfiniti per giocare con i figli o prendersi cura delle faccende domestiche. Spesso partivano in aereo e stavano fuori giorni o settimane.

I piloti collaudatori convivevano con il rischio continuo. E le loro mogli lo sapevano. Si alzavano prima dell’alba per preparare le loro colazioni, salutavano il marito che andava in volo, coscienti che avrebbero anche potuto non vederlo rientrare. C’erano periodi in cui qualche squadriglia perdeva anche due uomini alla settimana. E le donne non potevano farci nulla se non andare al funerale, cantare l’inno della Navy e piangere quasi di nascosto, nascondendo gli occhi dietro il fazzoletto e il bianco dei loro guanti. Alla fine tutte si rassegnarono, continuando a condurre la loro vita fra innumerevoli difficoltà, occupandosi della casa, della logistica, dei figli e cercando di far quadrare il bilancio tra le spese e la modesta retribuzione dei loro mariti.

E conosciamole allora le famose “Mercury wives”! Da sinistra verso destra: Annie Glenn, Renè Carpenter, Louise Shepard, Betty Grissom, Trudy Cooper e infine Marjorie Slayton. Non è presente la la signora Josephine Schirra. Lo scatto le ritrae in gran spolvero in occasione del pranzo offerto in loro onore a Washington D.C. dal club delle donne giornalista statunitensi. Non stupitevi per gli abiti o il parrucco assolutamente desueto … era l’aprile 1962!

Facciamo un esempio per tutte. Marge Slayton, la moglie di Deke Slayton, ossia colui che sarebbe poi diventato il responsabile dei reclutamenti, delle assegnazioni dei piloti e della formazione degli equipaggi, ogni volta che sentiva il rumore delle pale di un elicottero in volo, aveva degli attacchi di paura e di nausea. Non perché temesse quel tipo di macchina, ma perché sapeva che se un elicottero si era levato in volo, probabilmente un jet era caduto e andavano a cercarlo. Lei usciva subito fuori a guardare l’orizzonte, alla ricerca di una eventuale colonna di fumo che salisse da un qualche punto del deserto del Mojave che circondava la base da un orizzonte all’altro. Ma anche se non c’era alcun fumo restava sempre in attesa nella più profonda preoccupazione. Si aspettava che il campanello della porta di casa suonasse e che il cappellano della base venisse ad annunciarle che ora era una vedova.

Queste mogli di aviatori conoscevano bene i disagi della vita militare. Venivano dislocate attraverso l’intera America, con le loro famiglie, sacrificando i migliori anni della loro vita facendo crescere i figli nei diversi angoli del mondo, supportando la carriera dei loro mariti. L’unica facilitazione loro concessa era il trasporto gratuito dei mobili e degli effetti personali ad ogni trasferimento.

Se nel numero in edicola il 12 settembre 1959 la prestigiosissima rivista statunitense Life aveva dedicato la copertina ai magnifici sette aspiranti astronauti del programma Mercury – quello che, dopo il volo del sovietico Yuri Gagarin, avrebbe riportato l’uomo nello spazio, ma stavolta un uomo di nazionalità statunitense – il numero successivo, pubblicato giusto una settimana dopo, rendeva onore alle rispettive magnifiche sette signore del progetto Mercury. Il primo caso editoriale di parità di genere? … macché! Un subdolo espediente per vendere copie? … probabile! … una maldestra risposta al alla curiosità morbosa dei lettori? … forse. Ad ogni modo questa copertina ha fatto la storia e noi siamo lieti di riproporvela a distanza di tanti anni, come se fosse stata appena stampata

L’era delle esplorazioni spaziali arrivò come un fulmine a ciel sereno con il lancio, da parte dell’ Unione Sovietica, del primo satellite artificiale, lo Sputnik. Gli americani si trovarono spiazzati e reagirono subito mettendo a punto la struttura che si sarebbe incaricata di fare di più e meglio di quanto avevano fatto i sovietici, quella che poi divenne la NASA.

E selezionarono i piloti che avrebbero dovuto diventare astronauti.

Perché ormai non si trattava più di lanciare in orbita un satellite che inviasse a terra un bip-bip.

Ora si pensava di mandare nello spazio degli esseri umani.

Improvvisamente le mogli degli aviatori si trovarono ad essere non più solo semplici mogli di aviatori, ma niente di meno che mogli di astronauti, sebbene inizialmente nessuno di loro avesse mai preso parte ad alcun volo spaziale. Per anni si dovevano addestrare e dovevano studiare una montagna di materie, prima di pensare soltanto ad entrare su una navicella posta in cima ad un razzo ed essere sparati fuori dall’atmosfera.

In quel periodo i razzi dei primi esperimenti avevano manifestato l’attitudine ad esplodere direttamente sulla rampa di lancio, prima di essersi alzati di più di qualche metro. Oppure subito dopo. Ormai di quei razzi si diceva che fossero i più grandi candelotti di dinamite del mondo …

Ma anche dopo, quando la tecnologia si era sviluppata al punto di fornire un buon grado di affidabilità, non mancarono gli incidenti. Alcuni di questi avvennero a bordo, non di razzi, ma di comuni aerei da caccia. E allora, di nuovo, funerali, cerimonie, mogli che da sole caricavano la loro macchina e si allontanavano dalla base, con i loro figli, verso un incerto e forse triste futuro.

C’è sempre, in ogni cosa, la cosiddetta altra faccia della medaglia. E arrivò anche per queste donne.

La nuova condizione di mogli di astronauti aveva portato una novità: la celebrità.

La televisione, dal 1945 in poi, si era andata sviluppando in maniera esponenziale. Aveva soppiantato la fotografia, perché la gente preferiva le immagini in movimento rispetto a quelle statiche, anche se in entrambi i casi erano in bianco e nero.

Non è certo il primo né sarà l’ultimo libro a essere oggetto di attenzioni da parte dell’industria cinematografica statunitense. In effetti anche “The astronaut wives club” ha ispirato una serie televisiva che porta lo stesso titolo e che ha come protagoniste, così come nel libro, le sette mogli dei Mercury Seven, ossia il primo gruppo di astronauti del progetto Mercury, antesignano del programma Apollo. Per intenderci, il famosissimo programma Apollo che, in occasione della sua undicesima missione, porterà l’uomo sulla Luna. La serie tv, prodotta dalla rete statunitense ABC, è stata messa in onda negli USA nel 2015 mentre è giunta in Italia nel 2019 con responsi appena tiepidi da parte della critica e addirittura pessimi da parte del pubblico televisivo. Così, se negli Stati Uniti le puntate sono state visionate da uno sparuto numero di spettatori (poco più di 5 milioni, per la prima puntata pilota e sempre peggio per le successive, praticamente una vera inezia per l’enorme platea televisiva statunitense), nel nostro paese è andata addirittura peggio. La rete televisiva La7, a fronte di una pubblico praticamente assente, ha rimodulato la messa in onda in prima serata spostandola al pomeriggio in quello che, in gergo, si dice un vero flop in termini di audiance. E dire che il 2019, complice il cinquantenario del primo allunaggio, una siffatta serie televisiva dedicata allo spazio, astronauti e relative moglie avrebbe potuto riscuotere l’attenzione del grande pubblico, invece … Ovviamente alla prima stagione non seguirà una seconda. Questa è la copertina dell’omonima serie tv, appunto, e questo il link al sito della serie statunitense

I reporters, sia fotografici che televisivi, di fronte a quella immensa novità che era la NASA e la corsa allo spazio, sciamavano a frotte lungo i viali che portavano alle case dove risiedevano le famiglie degli astronauti. Donne che prima se ne stavano in incognito nelle loro case, che uscivano per fare la spesa senza che quasi non si sapesse chi fossero, ora erano braccate ovunque, perfino all’interno delle loro stanze. In molti casi, infatti, si ritrovavano ad essere inquadrate nel mirino di un apparecchio da ripresa che qualche reporter più intraprendente era riuscito ad infilare tra le persiane della finestra. I giardini di cui ogni casa era dotata pullulavano di giornalisti e delle loro attrezzature, cavalletti e luci da ripresa.

La NASA non aveva fornito loro alcuna preparazione su come affrontare queste situazioni. All’inizio dovettero cavarsela da sole. E in breve tempo l’assedio dei media divenne estremamente fastidioso. Ci furono anche casi di crisi nervose e almeno un suicidio.

Ma era anche gratificante. Molte si lasciarono travolgere da quella improvvisa esplosione di popolarità. Indossavano i migliori capi di vestiario, si truccavano in modo da risultare al meglio nelle riprese, assumevano tutte le pose che i reporters richiedevano.

C’erano sempre party, feste di ogni tipo e per ogni occasione.

Negli anni, con il succedersi delle missioni, prima Mercury, poi Gemini e poi Apollo, gli astronauti cominciarono ad essere impegnati per moltissime ore. Lo studio delle materie specifiche, l’addestramento al simulatore, gli spostamenti per tutti gli Stati Uniti, ovunque ci fosse motivo di andare, li tenevano lontani da casa quasi sempre. Per raggiungere gli stabilimenti dove venivano costruiti i vari elementi che costituivano i razzi, le navicelle o i sistemi di ogni tipo, usavano un bel numero di jet militari, i T38, come se fossero aerotaxi privati. Ogni astronauta doveva seguire lo sviluppo di ogni tecnologia, non solo per sorvegliare la loro costruzione, ma soprattutto per fornire indicazioni, affinché tutto rispondesse alla massima adeguatezza possibile.

Erano tutti piloti sperimentali, abbiamo detto.

Ma la loro assenza non poteva lasciare la situazione della famiglia senza conseguenze.

Una volta rientrati felicemente sulla Terra, nell’incertezza che potessero recare un qualche virus non meglio definito o un agente patogeno sconosciuto contratto nello spazio o sulla superficie lunare – con effetti imprevedibili quanto devastanti per l’intero genere umano – , i tre astronauti della missione Apollo 11 furono posti dalla NASA in rigorosa quarantena all’interno del Mobile Quarantine Facility. Furono lì segregati per 21 giorni dopo il volo che, i primi nella storia dell’umanità, aveva permesso loro (in realtà a solo due dei tre) di toccare il suolo incontaminato della Luna. Gli astronauti Neil A. Armstrong, Edwin E. Aldrin Jr., and Michael Collins in questo famoso scatto del 27 luglio 1969, si mostrano attraverso la grande finestra del modulo di quarantena per salutare – le vediamo di spalle – le loro rispettive consorti che sono (partendo da sinistra verso destra): Mrs. Pat Collins, Mrs. Jan Armstrong, and Mrs. Joan Aldrin. Sono sicuramente le “astronaut wives” più celebri di questo singolare club per sole donne. Foto proveniente dall’archivio NASA presente all’indirizzo: https://www.flickr.com/photos/nasa2explore/9352707408/

Le mogli, lasciate da sole con il peso della conduzione della casa, dove l’elemento mancante non poteva apportare alcun aiuto, resistettero a lungo. Passarono parecchi anni, ma le prime avvisaglie di disagio cominciarono a manifestarsi nelle famiglie. Molte si sarebbero separate e divorziate già da tempo, ma resistettero per non provocare problemi tra i loro mariti e la NASA, visto che non sarebbero stati tollerati disordini familiari.

Poi, dapprima in sordina, in gran segreto, ma inesorabilmente, la disgregazione delle famiglie divenne un fatto frequente, quasi normale. Tanto che anche la NASA finì per accettare tacitamente l’andamento di certe dinamiche.

La serie delle separazioni e divorzi continuò per tutto il periodo delle missioni spaziali.

Ma bisogna comprendere che la pressione alla quale le mogli degli astronauti si trovarono esposte era davvero immensa.

Furono costrette per anni a mostrare in pubblico una vita di perfezione. Ma i loro uomini erano impegnati nel programma spaziale anche per 18 ore al giorno. O per periodi lunghissimi di giorni, anche di settimane.

Molte mogli aspettarono la fine del programma spaziale per chiedere finalmente il divorzio e nel frattempo sostennero la parte della moglie perfetta con stoica rassegnazione.

Gli astronauti erano molto famosi, all’epoca. Specialmente quelli che avevano volato nello spazio almeno una volta. Erano più richiesti dalle donne di quanto lo siano oggi le rock star. Venivano “assediati” da un gran numero di ragazze, impazienti di poter avere una storia con loro. Lontano dalle famiglie, molti di loro, forse tutti, approfittarono della situazione. Le mogli, a casa, sapevano anche questo. I tradimenti coniugali erano frequenti.

Dopo ogni missione Apollo, che aveva impegnato nel modo suddetto i membri degli equipaggi, fino al loro ritorno sulla Terra, quando ormai si sarebbe potuto pensare che gli uomini potessero finalmente riprendere la normale vita familiare, cominciarono invece gli interminabili viaggi per esigenze di pubbliche relazioni. Altri mesi e mesi lontani da casa, stavolta gli astronauti potevano portare con loro anche la famiglia. Ma neppure in viaggio c’era l’opportunità e il tempo per alcuna intimità.

Il ritratto dell’affascinante autrice del libro “The astronaut wives club”, al secolo Lily Kopp, ripresa dalla pagina che l’editore Hachette le dedica. In effetti nel web sono presenti numerose foto della giornalista statunitense che, in età matura, ha cambiato notevolmente il suo aspetto.

Molte mogli abbandonarono l’impresa e se ne tornarono a casa. Di nuovo sole, come erano sempre state.

Ecco di cosa parla questo libro. Della vita di donne semplici, travolte per anni dai danni collaterali che anche i loro mariti hanno subito durante lo stesso periodo storico. Del sacrificio degli uomini si era abbondantemente parlato. Di quello, immenso, delle mogli, invece no.

Per questo fondarono l’Astronaut Wives Club. Per avere una valvola di scarico alle loro frustrazioni e avere un’opportunità di evadere dalle occupazioni familiari.

L’Astronaut Wives Club le mostra come eroine. Un onore che si meritano.

Secondo Lily Koppel, l’autrice di questo libro, queste mogli sono state le pioniere del Movimento delle Mogli che cominciò nel 1960.

Lily Koppel ha dovuto viaggiare attraverso l’intera America per riuscire ad intervistare queste donne prima ancora di cominciare a scrivere The Astronaut Wives Club.

Una di loro, alla domanda di cosa provasse ad essere la moglie di un astronauta, rispose: “se credete che andare sulla Luna sia difficile, provate a rimanere a casa”. Dopo aver letto questo libro non stentiamo a crederle.



 


Recensione a cura di Evandro Aldo Detti (Brutus Flyer)