Archivi categoria: Racconti tra le Nuvole – IIª Edizione

Tutte le voci e le recensioni del secondo concorso Racconti tra le Nuvole

I have control


Tutto cominciò una ventina di anni fa.

Ancora infante, da poco in grado di camminare e di parlare, per la prima volta vidi un mezzo volante da vicino.

Un Agusta A-109A2 della Guardia di Finanza, in esposizione statica per una manifestazione, nel porto dove mio padre prestava servizio.

Finanziere, imbarcato su una motovedetta, amante del mare come io lo sarei stato del cielo.

Ricordo la mia curiosità insaziabile di bambino, precoce e sveglio a giudizio di molti che mi conobbero allora. Iniziai a tempestare lui e mia madre di domande sulla strana macchina, su come funzionasse, su come era fatta dentro.

La memoria di questi primi tempi della mia vita, per quanto vivida, ha qualche falla.

C’è una foto di me sul bordo del vano passeggeri, aggrappato al portellone aperto, e ho un vago ricordo dei miei genitori che non sanno come rispondere in maniera comprensibile ai mille interrogativi che gli pongo.

Ricordo una promessa fatta a me stesso, straordinariamente chiara, per quell’età. Se mia madre e mio padre non sapevano rispondermi, avrei trovato io le risposte. Nella soffitta della casa dove sono cresciuto è conservata un enorme quantità di riviste, libri, raccolte a fascicoli, e fogli strappati a quaderni di scuola per prendere appunti e disegnare.

Aerei ed Elicotteri, veri o partoriti dalla mia mente. Una carrellata di modellini assemblati in maniera via via meno rozza e più ricercata con gli anni.

Più o meno da quando sono stato in grado di leggere qualcosa di più complicato dell’abecedario, leggo di aviazione.

Ammetto di sapere comunque poco rispetto agli esperti del settore, ma ai tempi, senza nessuna conoscente addentrato in quel mondo, vivendo in un paesino relativamente isolato, in un epoca in cui la grande internet che ha tutte le risposte, spesso anche quelle sbagliate, ancora non era accessibile ai più, soprattutto in Italia, è sorprendente la mia volontà di raccogliere informazioni in materia di volo. Se mi avessero chiesto cosa volevo fare da grande, già alla fine delle elementari la risposta era netta e decisa.

Volevo fare il pilota.

La voglia di solcare il cielo la incanalai negli anni delle scuole medie e superiori nei simulatori di volo, complice l’ingresso in casa di PC via via più performanti col passare degli anni. Alcuni spiacevoli eventi mi turbarono l’adolescenza in maniera troppo subdola per essere percepita dall’esterno, iniziai a isolarmi, alienandomi al mondo.

La forza d’inseguire il sogno stava spegnendosi. Nemmeno i primi viaggi su aerei di linea erano serviti a molto.

Mi aveva dato la stessa, scomoda, arida sensazione di viaggiare su un autobus.

Solo molto veloce.

Guardando fuori dal finestrino vedevo il luogo a cui da sempre anelavo, l’infinito spazio del cielo, ma qualcosa non tornava, non lo stavo vivendo come volevo.

Arrivato al quarto anno del liceo scientifico mi stavo ormai convincendo che quello di pilotare davvero sarebbe rimasto un bel sogno, ma che dovevo accontentarmi delle nottate davanti al monitor, collegato in rete con altra gente, a discutere di simulatori, a costruire scenari di guerra tanto virtuali quanto i velivoli con cui ne avremmo poi solcati i cieli.

Ero stato a qualche airshow, ma sempre in madrepatria, e non mi avevano entusiasmato più di tanto.

Guardare da terra era solo un modo per stuzzicarmi l’appetito, e lasciarmi poi a bocca asciutta.

Come guardare dolci in vetrina sapendo che non entrerai a comprare né un vassoio ne un singolo pasticcino. Ma fortunate coincidenze riaccesero prepotentemente la fiamma della passione.

In un paese non lontano costruirono un aviosuperficie.

Ci andai una volta per conto mio, trovando solo un hangar chiuso e nemmeno l’anima di una persona. Ma qualche tempo dopo la gestione di quella stessa aviosuperficie iniziò a tenere corsi di divulgazione sul mondo aeronautico, in un bar a meno di dieci minuti a piedi da dove abitavo.

Una sera andai a curiosare, e da allora, ogni giovedì ero là.

Frequentai più assiduamente di chiunque altro i corsi, presi appunti, studiai anche per conto mio. Molti altri “allievi”, perso l’effetto della novità, abbandonarono.

Fatto tipico e non sorprendente nella vita di paese.

Eravamo sempre di meno, e io ero l’irriducibile. Arrivai a farmi rimproverare da mia madre per il dedicare più tempo a questo corso settimanale, che al liceo, e devo ammettere, mio malgrado, che i voti davvero ne stavano risentendo. Ma strinsi i denti, cercando di dividermi equamente tra le due “scuole”.

E alla fine, premio insperato, ai tre che rimasero fino a fine corso, fu offerto un volo gratis sull’ultraleggero della scuola di volo. Di quei tre ero il primo. Ricordo ogni dettaglio di quel giorno. Ricordo la mia ansia, mentre divoravo il pranzo, dopo aver perso tempo prezioso nella ressa all’uscita da scuola, per uno stupido contrattempo. L’avrei saltato, ma già ero senza colazione, sarei crollato se non mangiavo qualcosa.

Finalmente col mio zainaccio di tela militare, consumato ma tenuto affettuosamente in uso per anni e anni, salii a bordo dell’automobile con cui mio padre mi avrebbe accompagnato al campo. Ero nel panico. Mi sembrava di avere l’occasione di una vita davanti, e di essere prossimo a perderla.

Aveva un bel da fare, papà, a cercare di rincuorarmi, a bruciare semafori e rischiare multe per eccesso di velocità.

Ero terrorizzato, tremavo. Ma arrivammo alla pista, e c’erano ancora solo due tecnici che spostavano materiale nell’hangar. Accertato che non sarei rimasto a terra, ritrovai la pace, come se nulla fosse successo.

Incominciai a tempestare di domande, con la stessa furia innocente del bambino che ero stato, tutti i presenti. I due tecnici, l’istruttore, il gestore … chiunque mi sembrava potesse insegnarmi anche solo una virgola più di quel che sapevo, fu tartassato dalle mie domande, frenate solo e unicamente dal terrore di irritare qualcuno e restare a terra.

Nell’aula di teoria della scuola ci spiegarono in pratica quello che avremmo fatto. In realtà pochi minuti, ma per me era l’universo intero.

Decollo, giro di un paio di punti caratteristici dei dintorni, con un qualche attimo di controllo sui comandi, ritorno verso il campo, circuito e atterraggio.

Spiegato per sommi capi il volo, arrivò il momento di toccare con mano.

Ci avvicinammo all’ultraleggero parcheggiato sul piazzale in cemento.

Fusoliera bianca in vetroresina, ala alta, motore spingente, carrello triciclo, coda a T, sedili in tandem e un tettuccio in plexiglass incernierato sul lato che gli dava un aria stranamente aggressiva per un “giocattolino da poco”.

Negli anni avrei sentito dire peste e corna di quel modello, e di tante piccole magagne che si portava dietro … ma per me era e resta bellissimo. Come si suol dire, il primo amore non si scorda mai.

Ci mostrarono tutti i controlli che andavano fatti prima di ogni volo, ci fecero osservare mentre venivano eseguiti, toccammo tutti con mano, previa spiegazione e sotto supervisione. Mi venne dato incarico di rimuovere la copertura e il “tappo” dal tubo di pitot.

A ripensarci oggi è stato il momento fondamentale della realizzazione che stavo davvero per volare. Che non era un sogno folle ed effimero, ma una concreta realtà.

Avevo la copertura, con il contrassegno “REMOVE BEFORE FLIGHT” stretta nella mia mano sinistra, rosso su bianco.

Finora quella scritta l’avevo vista solo su un portachiavi recuperato a una manifestazione, anni prima, e usato fino a distruggerlo. E l’odore, l’odore quando spillammo dal serbatoio un con l’apposito strumento un piccolo campione di carburante, per verificare l’eventuale emulsione di acqua all’interno.

L’odore pungente della benzina automobilistica usata da quel motore Rotax, tuttora mi ricorda quel giorno, ogni volta che passo da un benzinaio. Un attimo ancora d’incredulità nacque quando mi dissero di sedere davanti, che l’istruttore da dietro poteva benissimo controllare tutto. E montammo in cabina.

Il cielo, che la nel corso della mattina mostrava ancora le cicatrici di un violento fronte temporalesco passato in settimana – altro fattore dell’ansia che avevo sofferto mezz’ora prima – era pulito, con poche nubi alte, ben oltre le minime condizioni per il volo a vista. E un vento relativamente tranquillo, per la media di quel febbraio.

Iniziai a seguire le istruzioni che mi vennero dettate man mano e preparandoci alla messa in moto. Cinture, chiusura del tettuccio, segnalazione dell’avviamento, batteria, magnete 1 On, Magnete 2 On,

Un ultimo urlo di “VIA DALL’ELICA!”, Controllo visivo, per ulteriore sicurezza … e lo scatto dell’avviamento, la macchina che prende vita, il fragore del motore che si avvia …

Un rumore che rimbombava nell’abitacolo e nella mia testa, complici le cuffie in prestito, troppo logore e ormai non totalmente capaci di attenuare i rumori esterni.

Poi l’accensione della radio, l’impostazione della frequenza, il sentire l’istruttore parlare. Frasi che avevo immaginato mille volte leggendole, che finalmente mi arrivavano filtrate dalla statica dell’interfono, mentre l’istruttore comunicava man mano le sue intenzioni …

Rullammo in attesa, con un primo momento di mani sui comandi, sempre dirette e corrette dall’istruttore, che di fatto non mi avrebbe mai ceduto, per questo volo, la completa autorità sul velivolo.

Rimasi molto spiazzato la necessità di dover manovrare usando separatamente i freni delle ruote, destro e sinistro, a distanza di anni il rullaggio a terra è una cosa che non ho mai davvero padroneggiato fino in fondo.

La prova motore, che lo spartano freno di parcheggio dell’ULM non gradì molto, costringendoci a coadiuvarne l’azione agendo con forza anche sui freni “di manovra”.

Tenendo il motore ai 4300 giri, togliemmo un magnete, osservando entrambi la lieve diminuzione di giri. Lo reinserimmo, ripetemmo col secondo. Risultato analogo.

Nessun traffico, nonostante la pista di un migliaio abbondante di metri, in asfalto. Un lusso, per un campo di volo del genere, davvero un lusso raro, soprattutto in Italia. Quasi nessuno volava mai da quelle parti, e solo anni dopo avrei capito perché. Ma in tutto questo non importa, allora non sapevo né sospettavo e anche averlo saputo non avrebbe cambiato nulla dell’esperienza in sé.

Rullammo dal raccordo alla testata pista. Direzione 27, comunicando all’improvvisata “biga” a terra la nostra intenzione di decollo. La mia mano che su richiesta dell’istruttore porta la levetta dei flap alla prima tacca …

Un ultimo momento di fermo appena allineati … poi lasciammo i freni e portammo la manetta a fondo corsa.

I 100 cavalli del motore, non tantissimi, ma più che sufficienti per quella massa, iniziarono a spingerci, il mondo fuori dal cockpit accelerava.

L’anemometro segnalò in breve la velocità di rotazione, e quasi immediatamente dopo fu il distacco dal suolo. Una sensazione più leggera del volo di linea, ma allo stesso tempo molto più tangibile.

Sentivo i comandi sotto le mani e i piedi, mossi dall’istruttore, ma comunque percepiti da me. Inconsciamente lasciavo che il mio corpo seguisse l’input percepito dal pilota in comando alle mie spalle, in modo da assimilare con la memoria di movimento le azioni. Insegnamento ricavato da chissà che libro letto anni prima, ma che in quel momento d’istinto non potevo fare a meno di eseguire.

A differenza delle precedenti esperienze, ogni pezzo era al suo posto. Avevo trovato ciò che cercavo. La bellezza del volo, la bellezza del mondo visto dall’alto, con la consapevolezza di controllare il proprio spostamento. Immobili eppure oltre i limiti del proprio corpo. Il moto perfetto, il volo della mente che in barba alla legge di gravità si porta dietro anche il corpo.

Esattamente quello che cercavo nei libri dei filosofi, e nei manuali tecnici. Ma ciò che avevo letto, e con scarsi risultati anche scritto, impallidiva di fronte alla realtà.

Livellati e impostato un assetto di crociera a 1000 piedi, virammo verso un isoletta non lontana, forse un paio di minuti per raggiungerla, a 75 nodi, velocità già sostenuta, per quel mezzo. Per un po’ l’istruttore mi lasciò i comandi, facendomi provare alcune blande virate, lievi cambi di quota e di regime di volo.

Vedendo la tranquillità con cui seguivo le sue istruzioni, mi lasciò arrivare all’ingresso del sottovento per il circuito d’atterraggio, riprendendo solo allora il controllo completo, e non solo il non dichiarato controllo passivo, che ero istintivamente certo non avesse mai lasciato.

Non avevo un modo per vedere davvero cosa stesse facendo, ma tutto ciò che avevo studiato, unito al comune buon senso, mi lasciava intuire la sua mano a guidare e controllare la mia, i suoi piedi a correggere la mia azione sul timone, per tener centrato l’aereo.

Il contatto col suolo fu più duro, per certi versi, di quello su un jet da 300 posti. Ma ironicamente, in 300 metri scarsi eravamo abbastanza lenti da invertire la direzione e liberare la pista, trotterellando allegri sulle poche irregolarità del piazzale, seguendo passo passo le indicazioni dell’istruttore.

Una volta arrivati allo spazio marcato a terra, motore al minimo, freno di parcheggio inserito, l’istruttore mi fece togliere la cuffia, scendere dal mezzo, e come da istruzioni mi allontanai stando lontano dal motore, mentre un altro allievo veniva a darmi il cambio.

Mentre rullava nuovamente verso la pista, rimasi a guardare. Aspettai che rientrasse, aspettai anche tutto il volo del terzo allievo. Volevo sentire cosa aveva da dire, volevo sapere, capire.

Andammo via solo quando ci cacciarono.

Fu l’inizio del cambiamento.

I simulatori non bastavano più, avevano il sapore di un palliativo, e anche molto inefficace.

Anche solo un ultraleggero nella realtà superava di gran lunga qualsiasi caccia pilotato di fronte a un computer.

Avevo 17 anni. Molta gente aveva iniziato a età inferiori, molta gente, in luoghi e tempi antecedenti, poteva avere già una licenza, alla mia età.

I miei, che temevano il mio concentrarmi troppo sul volo e troppo poco sullo studio, vollero farmi attendere fino al compimento della maggiore età, e solo allora riprese quello che chiamavo “l’apprendistato”.

Visite mediche, viaggi in questura per avere il nulla-osta che mi avrebbe autorizzato a iniziare i corsi, l’iscrizione in palestra per migliorare la mia forma fisica e combattere l’annoso problema di peso che da sempre mi trascinavo dietro. Era il mio ultimo anno di liceo, era l’anno del corso di volo. I rapporti coi miei compagni di classe andavano deteriorandosi ogni giorno di più, ma questo non era importante.

Esclusi un paio, con cui ancora ho piacere di sentirmi, erano persone migliori da perdere che da trovare.

Per certi versi, era una cosa dura da affrontare.

La preparazione per l’esame di stato, i corsi per la patente B iniziati appena possibile, e affrontati con una certa noia perché sì, apprezzavo guidare, ma non reggeva il confronto. Un crescere di impegni in famiglia e fuori, a cui non potevo esimermi. Ma ogni weekend a cui il mondo arrivasse senza esplodere, ero al campo. Anche se per qualche motivo legato al meteo o a fattori tecnici non si poteva volare. Era irrilevante.

Ero in mezzo al mondo del volo, ero in un hangar, ero negli uffici. Gli aeroplani non erano più un insieme di poligoni disegnati e ricoperti di texture da un sistema di calcolo infinitamente più semplice e stupido di un cervello umano, erano ruote sul cemento del piazzale, erano giunture meccaniche, scocche in metallo o in resine, erano motori a cui all’inizio della giornata si faceva un controllo ben più approfondito del pre-volo, a cui si controllava sempre il livello dell’olio.

Era divertente il fatto che per rendere veritiero il controllo, eliminando le bolle d’aria, bisognasse far ruotare, a magneti scollegati e fermi, l’elica un paio di volte, fino a un rumore caratteristico, che divenne in breve famoso tra noi allievi come “il ruttino”.

Imparai a conoscere anche altri aerei, che là erano fermi, tutti bellissimi, anche se alcuni, abbandonati a loro stessi, erano tutt’altro che in condizioni di volare.

L’istruttore che mi seguiva era diverso. Il suo predecessore era partito per una migliore offerta di lavoro, all’estero. Il nuovo, sulle prime, parve un filo più burbero, ma la sua esperienza, e il modo in cui ci addestrava, li trovavo eccezionali. Trovava la giusta misura.

Abbastanza severo da farmi ricordare e correggere i miei errori, concettuali e pratici, ma non tanto da scoraggiarmi. Ricordo di aver preso sulle prime la cosa come una sfida. E ci misi impegno, pian piano iniziai a limare i miei errori.

Molti parlano del loro primo volo solista, come momento di culmine della propria formazione. Per me fu il primo atterraggio davvero riuscito. Era la sesta lezione pratica del corso. Nelle precedenti avevo avuto dei problemi a concentrarmi, mi emozionavo tanto da fare errori piccoli, ma fondamentali, cose che continuavano a condannarmi a ramanzine e ripassi di teoria.

Quel giorno ero arrivato, dopo una settimana abbastanza difficile a scuola, a fare la checklist, come sempre felice di staccare un po’ la spina da un contesto causa per me di molto stress, e davvero avevo bisogno di godermi il volo.

La missione era la stessa della settimana prima: volo lento, qualche stallo da quota di sicurezza con recupero, e circuiti di atterraggio, per pista 27, come prontamente risposi all’istruttore guardando la manica a vento.

Pre-volo e decollo furono senza imprevisti, e andammo a fare un volo che si preannunciava identico alla settimana prima.

Ma qualcosa era diverso.

Forse nel modo in cui mi ero posto quel giorno. Ormai sapevo che sbagliare avrebbe causato l’ennesima ramanzina, che l’istruttore avrebbe ripreso i comandi, togliendomi parte del piacere. Ma non avevo nulla contro di lui. Solo, quel giorno volevo godermi il volo, e non avrei permesso a nulla e a nessuno di mettersi in mezzo tra me e quella che sapevo sarebbe stata la migliore ora di tutta la settimana, quella che mi serviva davvero per stare bene.

Dopo gli stalli, l’istruttore mi fece percorrere dei quadrati intorno alla nostra “area lavori”, in assetto di volo lento, con una tacca di flap, poi due, poi tre, alternando le configurazioni e assetti dell’aeromobile.

Stavolta non gli sentii dire nulla. Anzi, accadde ciò che davvero non mi sarei mai aspettato.

Non ci avrei creduto, se non l’avessi visto. Avevo preso l’abitudine, per vedere in faccia l’istruttore, cosa preclusami dai sedili in tandem, di portare con me un piccolo specchietto, e incastrarlo in un anfratto del cockpit che quasi pareva fatto a misura.

Guardando dietro con questo ausilio improvvisato, vidi le pagine di un quotidiano. Forse in un altra occasione l’avrei visto come un gesto di poca professionalità. Ma in quel momento il significato era tutt’altro.

M’ero guadagnato la sua fiducia. Riteneva che potevo affrontare il volo senza il suo intervento. Non sentii rimproveri dall’interfono. Solo la richiesta, qualche minuto dopo, di entrare in sottovento per la pista e atterrare, che la nostra ora di volo stava per finire.

La fiducia che il gesto dell’uomo seduto alle mie spalle aveva instillato in me, produsse un circuito volato con una precisione totalmente aliena al mio volo della settimana precedente, e si concluse in un atterraggio che a tutt’oggi ritengo tra i miei migliori, tanto da stamparsi a fuoco nella memoria.

La definizione di “pennellato”, se mi è concesso per un attimo abbandonare la modestia. Preciso sul pettine, con un contatto morbido, tenendo il musetto sollevato il giusto dopo la toccata per lasciare che l’aereo decelerasse per l’attrito con l’aria, senza toccare i freni finché, esaurita la velocità e con essa la forza dei comandi aerodinamici, la forza di gravità richiamò a se il ruotino anteriore.

Invertimmo la direzione, rientrammo al parcheggio, spegnemmo come da procedura.

A motore spento, tolsi la cuffia, e mentre recuperavo e mettevo in tasca il mio specchietto, sentii una pacca sulla spalla. In quel momento toccai un nuovo massimo di autostima. Non ero solo io a credere, e nemmeno tanto, in me. C’era almeno una persona con cui non ero imparentato, al mondo, che era stata in grado di affidarmi un mezzo del valore di svariate migliaia di euro, e la sua stessa vita, e a giudicare dal fatto che ora eravamo fermi sul piazzale, col tettuccio aperto e i piedi ben saldi sul cemento, la sua fiducia era ben riposta.

Era ottobre.

Non avevo ancora la patente B, che sarebbe arrivata solo a metà novembre. Per la legge non potevo guidare da solo un automobile. Che importava. Potevo pilotare un aeroplano, per quanto coi limiti e le problematiche di un ultraleggero. Era quello il punto fondamentale.

Sulla mia agenda dell’epoca, usata per tenere traccia degli impegni studenteschi e mille altre cose, figura una frase scritta con molta forza, quasi incisa, in quella data:

I Have Control

Scritto esattamente così, con la prima lettera di ogni parola in maiuscolo, che mi dava esteticamente l’impressione di un affermazione più forte e definitiva.

Era quello che volevo, era quello che nel volo avevo sempre ricercato.

La libertà, l’autorità di prendere in mano i comandi e decidere la mia linea di azione, con le conoscenze e gli strumenti per farlo. Certo, con la lucidità di non essere ancora pronto a tutto, di avere davanti ancora un lungo percorso. Ma mi era stato accordato il poter atterrare autonomamente. Era un inizio.

Il resto del corso ebbe comunque i suoi ostacoli. L’emergenza da cielo campo con discesa in virata. Ci misi mesi a impararla ragionevolmente bene. Le prime esperienze di navigazione cartografica, e alcuni voli, chiusi prematuramente per un peggioramento imprevedibile del meteo, totalmente inatteso anche dalle previsioni e dai bollettini a cui avevamo accesso.

Ricordo in un occasione un atterraggio rocambolesco. Nell’esatto istante della toccata, dal nulla partì una raffica di vento ai limiti di quanto il mezzo potesse sopportare, e un tratto di pista percorso sulla sola ruota sinistra, prima di riuscire a metterci vincere la forza del vento e raddrizzarci. Nondimeno, siam sempre andati via con le nostre gambe, e senza danneggiare nulla. Ma a quel periodo appartengono anche la gioia di vedere dall’alto la mia scuola e la mia casa, il primo trasferimento su un altro campo, nell’entroterra, la sfida di affrontare un ambiente di volo totalmente diverso.

Ormai avevo anche la patente, andavo al campo con la macchina dei miei genitori, e iniziavo ad apprezzare anche quel tipo di spostamento. Anche lì avevo il controllo. A scuola andava bene, per i voti. Male per i rapporti con buona parte della classe. Cosa assolutamente voluta.

Il 3 luglio di quell’anno conseguii il mio attestato VDS, con un esame pratico discreto, e una teoria migliorabile, a sentire l’esaminatore. Mi dispiaceva non aver fatto di meglio, ma già riuscire a integrare questo risultato con tutto quello che c’era da affrontare fuori dal campo di volo.

Tre giorni dopo firmavo di fronte alla commissione esaminatrice dopo aver sostenuto la prova orale dell’esame di maturità, promosso con una valutazione di novanta su cento.

Era il momento di andarmene. Per varie divergenze con il gestore del campo di volo, decisi di non proseguire con loro l’attività, pur mantenendo il massimo rispetto per i suoi dipendenti, per chi mi aveva istruito, e per chi faceva l’impossibile pur di mantenere insieme una flotta in condizioni di volo, purtroppo sempre più esigua.

Tra i miei coetanei avevo praticamente fatto terra bruciata, quindi decisi di andare lontano per gli studi. La mia nuova casa è a 13 ore di autobus, o altrettante di treno, da dove sono nato e cresciuto. Non mi pesa più di tanto. La lontananza della famiglia si fa sentire, ma alla fine la tecnologia sa accorciare le distanze.

Il vero sacrificio è stato smettere, per ora, con il volo. I soldi servivano per l’affitto, per i libri, per mangiare, per la retta dell’università, anche mi fossi iscritto a un ateneo più vicino, non avrei potuto permettermi il volo.

Mi ero ripromesso un ritiro solo temporaneo. Volevo riprendere appena possibile. Ma la vita, di nuovo, si metteva in mezzo. L’orientamento, il riorientamento e il disorientamento della mia carriera universitaria, varie vicissitudini familiari e non, spese impreviste, tutto contribuiva a rimandare la ripresa del volo.

Accantonai l’ipotesi dell’arruolamento nelle forze armate, per varie ragioni, principalmente caratteriali. In una gerarchia di tipo militare non sarei finito molto bene, allora come oggi.

La speranza tornava a spegnersi, come un fuoco a cui si smetta di aggiungere legna. Mi lasciavo andare ogni giorno di più, di nuovo prigioniero di me stesso. Convinto di non farcela, sempre meno preoccupato del mio fisico e della mia mente, a rivangare con nostalgia un passato, sempre più lontano.

E proprio la persona che meno mi aspettavo stava per mettermi in mano un ceppo, e la benzina da buttare sulla brace.

Un’amica, forse la migliore amica che potessi aspettarmi di avere, nonostante il poco tempo speso assieme, che mi guarda negli occhi e mi chiede cosa voglio fare nella mia vita.

La risposta è quella: voglio volare. Ma nemmeno io sembro crederci più, lo dico fiaccamente, meccanicamente. Ma lei continua a fissarmi, non rompe il contatto visivo.

“Vuoi? Puoi!”

La legna, la benzina e la fiammata. Allora tutto cambia.

L’ultima volta che sono stato a trovare i miei genitori ho ripescato dall’armadio la mia cuffia, comprata a una manifestazione di settore per partecipare alla quale avevo allegramente disertato la gita del quinto superiore.

Ho ricomprato il cosciale, ho tirato fuori dall’archivio le vecchie carte di navigazione a bassa quota, i libri, gli strumenti per la navigazione, ho ricominciato a curare il mio fisico, e ormai l’interrogativo non è se, è quando.

Sono passati quattro anni, c’è una visita medica da superare, ci sono dei soldi da trovare, dovrò fare di nuovo carte in questura, e stavolta punto più in alto. Aviazione generale. Per cominciare.

In questi anni sono cambiato, e molto. Del bambino che ero conservo la curiosità, il desiderio di apprendere, ma ho acquisito esperienza del mondo fuori dal paesino. Ho imparato a vivere e controllare la mia vita, anche fuori dal cockpit, a equilibrare intransigenza e compromesso, a liberarmi dei pesi morti, a scegliere bene di chi fidarmi, a cambiare strada quando necessario, senza vergognarmi del correggere i miei errori.

Quello che ho appreso volando, mi è stato utile a terra, il saper prendere decisioni, il saper pensare in prospettiva, il mantenere la consapevolezza della mia situazione, il pianificare nel modo più completo possibile. Ma la cosa più importante resta quella. Il sapere che sono io, solo io, artefice del mio destino, con le mie azioni. Sapere che ho il comando.

I. Have. Control.



§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§

# proprietà letteraria riservata #


Mario Antonio Corrado Auditore

Luciano Serra, pilota

1. Tutto incominciò con una goccia sul pavimento, scura e densa come l’olio minerale che trasuda dai motori tra un volo e l’altro. Ma quando il bambino, o era forse un fotografo o un modellista o un vecchio reduce, sfiorò l’aereo antico protendendosi oltre la catenella, le dita tornarono indietro più bagnate che unte. Chiunque fosse, si lasciò alle spalle il biplano in esposizione da pochi giorni dopo quasi quindici anni di lavoro e proseguì la visita senza segnalare nulla al personale.

2. Quei milleseicento chili di acciaio, alluminio, tela, gomma e vernice erano la nuova gloria del museo, che partendo da un relitto recuperato in Libia aveva pazientemente ricostruito un esemplare completo restaurando il poco che c’era, procurando molto di quel che mancava e ricreando il resto. “La caccia al tesoro più lunga del mondo”, l’aveva definita il direttore durante la cerimonia ufficiale d’inaugurazione. E come dargli torto? I disegni costruttivi venivano da archivi in Olanda, Svezia, Svizzera e Ungheria, riletti alla luce dei manuali italiani e completati da rilievi al vero nei musei di Lelystad, Malmslatt e Dübendorf. La fusoliera era stata sapientemente riportata in vita da un autentico artista della saldatura, che aveva unito i diversi tubi strutturali e creato in opera maniglie, mensole, appoggi di una miriade di tubetti di ogni diametro e spessore immaginabile. Con fresa e tornio un altro grande artigiano dell’acciaio aveva creato piastre e attacchi per reggere ali, carrello, motore e altri elementi pesanti. Un terzo aveva impiegato un’intera batteria di martelli e mazzuoli in legno per trasformare grandi fogli d’alluminio in serbatoi, cofanature e rivestimenti di ogni genere: un colpo qui per una curva lì, senza un grammo di stucco. Il motore era stato assemblato montando sul carter recuperato sotto la sabbia una serie di cilindri, pistoni e bielle copiati dall’unico originale conservato. L’elica in legno era stata rifatta a mano. La grande ala superiore, un monoblocco in legno di oltre quindici metri di apertura, rastremata in pianta e in sezione, con alcune parti rivestite in tela per facilitarne l’ispezione, era stata costruita da un’officina specializzata in Austria; le due semiali inferiori, di dimensioni assai minori, erano opera dei volontari, che lavorandoci una mattina a settimana avevano impiegato tre anni per realizzarle. L’intelaggio era stato compiuto nelle officine del museo, non senza qualche problema sindacale legato all’uso di acetone quale diluente del tenditela. Di fronte alla minaccia di affidare il compito a un istituto tecnico che da tempo si era offerto di collaborare, la soluzione alla fine si era raggiunta. Per completare l’opera erano state necessarie oltre 15.000 ore di lavoro, sparse su un arco di tempo tanto lungo che alcuni dei tecnici che avevano iniziato il restauro non erano riusciti a vederlo completato. Tutto questo, aveva detto il direttore, per “colmare un vuoto a lungo avvertito nelle testimonianze materiali della storia della nostra aviazione”, ma anche per “dimostrare quel che è ancora possibile fare nonostante il momento così difficile per il settore dei beni e delle attività culturali, pubbliche o private.” Il tocco finale era stata la verniciatura: appena un centinaio di ore, ma sufficienti a dare ai visitatori l’impressione complessiva per giudicare tutto quello che a loro era invisibile o sconosciuto. Scegliere i colori non era stato facile, perché dell’originale non restava nulla. In più, gli oltre 600 esemplari costruiti avevano prestato servizio per oltre 15 anni con una cinquantina di squadriglie, scuole ed enti vari, con una varietà infinita di colori e stemmi. Così il museo aveva formato una speciale commissione per decidere quale livrea applicare al redivivo biplano, chiamando esperti delle estrazioni più varie: ufficiali e storici, rappresentanti delle associazioni d’arma e professionisti del restauro, modellisti e (anche se qualcuno aveva storto il naso) internauti. Dopo un lungo dibattito, con toni talvolta aspri, la scelta del direttore era caduta sulla proposta meno ortodossa: rappresentare non l’esemplare reale, del quale quasi tutto era conosciuto, ma uno ideale, proprio per sottolinearne a un tempo la dimensione mitologica e l’essere più vicino alla ricostruzione composita che all’originale restaurato. Così il biplano era diventato quello che compariva nella scena madre di un celebre film, il primo girato nella nuova città del cinema di Roma, acclamato alla mostra del cinema di Venezia del 1938. La livrea, in verità, era sin troppo semplice avorio su tutte le superfici, tricolore in coda, fasci alle estremità alari, nessun codice o insegna. Un’eresia, per alcuni, ma un colpo di genio per il direttore, al quale barattare la storia con la pubblicità sembrava un’ottima idea. “In fondo la difficoltà tecnica di riprodurre fedelmente una livrea di fantasia è la stessa che per una reale, no? E allora lo faccia e basta,” aveva tagliato corto di fronte alle obiezioni del curatore.

3. Il primo ad accorgersi ufficialmente delle perdite fu un addetto alle pulizie. Dopo aver passato lo straccio per tre giorni di seguito senza risultati conclusivi, si risolse a chiedere che sotto il biplano venisse messa una delle bacinelle con la segatura – o la sabbia, o gli inerti, o qualsiasi altro materiale adatto – che si usano in hangar. Le gocce si formavano sotto l’abitacolo, lentamente, fino al momento in cui la forza di gravità prendeva il sopravvento sulla viscosità per farle precipitare nella vaschetta con un breve suono soffice, per trasformarsi subito dopo in una macchiolina scura. A fine giornata sembrava di guardare la lettiera del gatto, bianchissima salvo la palla nell’angolo. Quando questa diventava troppo grande, l’addetto gettava la segatura in un bidone e la sostituiva senza chiedersi troppi perché. Il primo a capire che qualcosa non andava fu il curatore, un laureato in conservazione dei beni culturali con idee piuttosto vaghe in storia dell’aviazione ma molto scrupoloso. Fu proprio durante il suo giro settimanale in hangar che l’occhio gli cadde su una vaschetta che non aveva mai notato prima. Nessuno ricordava con esattezza da quanto fosse lì – una settimana? un mese? due? Motivo in più per chiarire cosa stesse accadendo al gioiello della corona, al quale era particolarmente affezionato avendovi dedicato gran parte della propria attività professionale degli ultimi sette anni. Il lunedì, approfittando della chiusura settimanale, gli uomini della sezione manutenzione rimossero la bacinella, stesero in terra dei grandi teli e avvicinarono le borse degli attrezzi. Poi, indossati dei sottili guanti di plastica che li facevano somigliare a infermieri o polizia scientifica, iniziarono a rimuovere le viti dei pannelli di rivestimento. Trattandosi di un aereo fresco di restauro, le operazioni procedettero speditamente. Nel giro di mezz’ora il lato anteriore destro era completamente libero, così come il ventre di fusoliera. Uno specialista armato di macchina fotografica si sdraiò su un carrellino da meccanico e si trascinò sotto il biplano; un secondo, rischiarandosi la strada con la torcia elettrica, infilò la testa tra il motore e la paratia parafiamma. Non c’era molto da controllare, in verità. Come tutti gli aerei della propria epoca, il biplano era tanto grande quanto vuoto. L’impianto idraulico non c’era e quello elettrico consisteva di pochi fili, che comunque non potevano perdere alcunché; altrettanto valeva per i comandi di volo attuati con cavi e pulegge, il cui pur abbondante grasso protettivo era troppo pastoso per potersi sciogliere e colare. Nei tubi che correvano tra i serbatoi e il motore non c’era altro che aria, perché non era mai stato fatto alcun pieno di benzina o d’olio. La faccia interna dei rivestimenti, non importa se in tela o lamiera, era immacolata, come su tutti gli aerei freschi di restauro ai quali solo il lento scorrere del tempo avrebbe conferito una patina di autenticità. Come gli aveva detto una volta uno dei restauratori, “I miei aerei non perdono olio!”.

4. “Il biplano non perde olio, Direttore.” “E allora cosa sarebbe questa sostanza che cola?” “Sangue.” “Mi faccia il piacere. Ho studiato abbastanza medicina per ricordarmi che il sangue è un tessuto connettivo allo stato liquido che nei vertebrati, molluschi e crostacei porta alle cellule ossigeno e nutrienti e porta via da loro i prodotti catabolici.” Aspettò qualche secondo, il tempo necessario affinché la frase passasse dalle orecchie ai loro cervellini ristretti, e lasciò partire l’affondo. “Con buona pace di piloti, ingegneri e letterati, gli aerei storici non rientrano in alcuno di tali taxa.” “Non potrei essere più d’accordo con lei, Direttore. In mezzo a questi tesori è facile farsi prendere la mano dal romanticismo,” disse il curatore. “Si figuri che c’è persino qualcuno convinto che questi muti e alati testimoni ci parlino.” “È per questo che confido nella vostra professionalità per mettere a tacere le sciocchezze”, rispose il direttore con l’affabile magnanimità che amava esibire quando i suoi collaboratori facevano autocritica. “Basterà un emocromo per confermare che le macchie rosse sono di vernice, come nel Fantasma di Canterville.” “Il problema è proprio questo, Direttore. Ho qui i risultati dell’emocromo dell’ospedale, della nostra infermeria e di un laboratorio di analisi esterno. Per eliminare qualsiasi dubbio li ho fatti fare in modo anonimo, con tre campioni portati da persone diverse. Il risultato è identico.” Gestire le pause in modo melodrammatico è un gioco che si può fare in due, pensò prima di scandire le sillabe successive con l’abilità di un attore consumato. “Sangue. Per la precisione AB negativo.” “Cosa intende fare?”, disse il direttore, subito in agitazione di fronte al rischio di una marcia indietro comunque imbarazzante.

5. Il curatore digitò il numero del capotecnico con lentezza, preparandosi a un buco nell’acqua. “So che la domanda ti sembrerà strana, ma devo fartela lo stesso. Si è fatto male qualcuno durante il restauro?” “Male?”, ribatté la voce dall’altra parte dell’Italia. “In che senso?” “Tagliato … ferito …”, disse il curatore con un imbarazzo che andava tramutandosi in fretta di chiudere una conversazione surreale. “Magari durante l’installazione del motore, o comunque mentre lavoravate sulla parte anteriore.” La risposta giunse dopo una lunga pausa, durante la quale il capotecnico tirò una lunga boccata dal mezzo toscano che teneva in bocca. “Veramente no.” “Sei proprio sicuro? Nessuno ha … versato sangue a bordo?” “Nessuno, certo. Ma perché me lo chiedi?” “Perché sono tre giorni che dal biplano cola sangue, e non riusciamo a spiegarcelo.” “Forse non dovreste chiederlo a un vecchio metalmeccanico come me, ma a un esorcista”, grugnì il capotecnico chiudendo bruscamente una conversazione che non stava andando da nessuna parte.

6. Alla stessa conclusione giunse poche ore dopo il direttore, annunciando la propria resa di fronte a un evento che sembrava sfuggire a ogni esame razionale. Di fronte alla possibilità di dover togliere dall’esposizione il suo nuovo tesoro, l’aereo che dopo il battage pubblicitario tutti chiedevano subito di vedere, la battuta del capotecnico si trasformava in una diagnosi di necessario pragmatismo. “Mi chiami Padre Siluro”, disse al capo segreteria con un’indifferenza troppo affettata per essere vera.

7. Padre Siluro non aveva mai visto un siluro in vita sua, neppure al museo. A dirla tutta non era neppure il cappellano della base, ma solo il parroco del paese accanto che per la mancanza di sacerdoti si era ritrovato con un doppio incarico. “Un po’ come fare l’assistente ecclesiastico ai lupetti”, aveva detto quando aveva appreso la notizia. I militari avevano risposto affibbiandogli il soprannome dello storico cappellano degli aerosiluranti durante la guerra. L’infelice battuta era stata presto dimenticata ma il soprannome era rimasto e aveva rimpiazzato del tutto il nome, che i più giovani non avevano mai sentito pronunciare. Per Padre Siluro il guaio era che gli esorcismi rientravano solo in via teorica tra le competenze di un moderno curato di campagna. Se si escludevano vaghi ricordi dei tempi del seminario e pochi brani evangelici ormai considerati poco più che aneddoti legati alla mentalità dell’epoca di Gesù, la sua preparazione specifica non era molto maggiore di quella del metalmeccanico. Senza dimenticare che secondo il diritto canonico la nomina degli esorcisti spetta al vescovo e che ciò, nella sua diocesi, significava arrivare al sommo pontefice o, quanto meno, al suo vicario. La sola idea lo terrorizzava. Chiedere la nomina a esorcista avrebbe scatenato chissà quale indagine per accertarne le prescritte caratteristiche di pietà, scienza, prudenza e integrità di vita, con annesso rischio – in caso di mancato possesso – di trasferimento in chissà quale parrocchia a centinaia di chilometri di distanza, in un quartiere di frontiera o in una terra di camorra. Ma anche non rispondere a una richiesta dei parrocchiani presentava dei rischi, rifletté Padre Siluro, che era quanto di più lontano si potesse immaginare da un prete combattivo. Qualcuno avrebbe potuto lamentarsi e accusarlo di trascurare i propri doveri pastorali, scatenando un’indagine non dissimile da quella le cui conclusioni paventava. Né si poteva trascurare un certo desiderio di rivincita. L’unica cosa sulla quale da parroco non aveva ancora invocato la protezione divina era un aeroplano. Aveva benedetto un numero infinito di cani, gatti e mucche, ettari di campi da seminare e tante case da costruire, tre nuove officine e due campi sportivi, una scuola pubblica e un asilo privato. Ma niente che volasse. La causa era la scaramanzia dei piloti, alcuni dei quali non volevano essere fotografati prima del volo, rifiutavano di volare sugli aerei il cui numero di codice era o assommava a 17 e cambiavano strada se incrociavano un prete mentre andavano in aeroporto. Come rifiutare il proprio ministero quando erano loro a invocarlo, di fatto riconoscendo al magistero della Chiesa quel ruolo che spesso nella vita trascuravano? Per fortuna la soluzione era a portata di mano. Nella sua infinita saggezza, Santa Romana Chiesa prevedeva il ricorso all’esorcismo solo dopo aver esperito inutilmente ogni altro tentativo, a partire da quelli alla portata di qualunque sacerdote, senza necessità di richiedere particolari autorizzazioni. “Una benedizione solenne e una preghiera di liberazione non si negano a nessuno,” pensò Padre Siluro, parafrasando papa Leone XIII. “O era Vittorio Emanuele II? Bisogna che controlli prima del rito, se non voglio fare la figura di un don Abbondio qualunque. ” Congratulandosi per la brillante idea, prese il ricevitore e chiamò il Direttore per fissare data e orario. “Per me andrebbe bene giovedì alle 11”, annunciò, millantando un’agenda fitta di impegni. “Se proprio è impossibile farlo prima, andrà bene anche per noi”, sospirò una voce venata di agitazione. Nella piccola comunità museale le voci dell’aereo che sanguinava correvano già. Tra non molto sarebbero girate in tutto l’ambiente. Magari persino all’estero. Il disastro incombeva.

8. Ufficialmente non ebbe mai luogo alcun rito. In molti però ricordano di essere stati convocati improvvisamente dal direttore – che, in verità, avrebbe preferito fare tutto di nascosto, ma non aveva saputo opporsi validamente alle richieste di Padre Siluro – per la benedizione del biplano. “Una cosa del tutto ordinaria, come ne abbiamo fatte tante”, aveva aggiunto, anche se i vecchi del museo non ricordavano alcun invito analogo. Come Padre Siluro ebbe pronunciato l’amen finale, il gocciolamento cessò. Il sospiro collettivo di sollievo sembrò risucchiare il profumo che aleggiava nell’aria. A rigore i riti officiati non prevedevano l’uso dell’incenso, ma il parroco l’aveva aggiunto per dare loro maggior solennità e distogliere l’attenzione dal fatto che non si trattava di un esorcismo vero e proprio. La notizia del grande risultato ottenuto con apparente facilità si diffuse velocemente, aumentando a dismisura la reputazione del parroco, che ebbe subito a constatare non solo l’aumento delle presenze domenicali ma anche quello delle offerte. Incominciò a farsi vedere persino il direttore, che per anni aveva giustificato le proprie assenze con la frequentazione della parrocchia del paese accanto. Purtroppo il successo fu di breve durata. Dopo qualche settimana il problema si ripresentò con più forza di prima. Oltre che sotto l’abitacolo, le gocce comparivano ora anche davanti al ruotino di coda. Fu necessario ripristinare la bacinella e aggiungerne una seconda, con il risultato di richiamare sull’anomalia l’attenzione anche dei meno esperti. Nei giorni successivi le gocce divennero prima più grandi, poi più frequenti e infine più rosse. A quel punto il direttore decise che il problema era troppo grave per essere ignorato, nel senso che rischiava di esplodergli in faccia e danneggiare – se non addirittura distruggere – l’immagine di brillante innovatore che si era costruito dribblando critiche e attacchi solo in parte ingiustificati. Formò quindi una commissione ristretta per studiare il problema e, in alternativa, condividerne la colpa. Perché, era chiaro, nell’aria volteggiavano avvoltoi pronti a cibarsi della sua carcassa. “Bisognerà togliere il biplano dall’esposizione e portarlo in officina per un controllo completo”, si espose il curatore, sempre a disagio quando si trattava di esprimere opinioni personali davanti ai superiori. “Forse addirittura smontarlo per un secondo restauro.” “Ho sottovalutato l’intensità della possessione demoniaca”, disse con gravità Padre Siluro. “L’infestazione è assai più forte dei poteri di un parroco. Temo che non ci sia alternativa che rivolgersi al Vicariato affinché invii un esorcista professionista.”

9. “È ’ncazzatissimo. Mica ce vole tanto pe’ capirlo.”. Sorpresi dalla voce romanesca che li strappava ai ragionamenti sullo stato del biplano che avevano davanti agli occhi, il direttore, il curatore e Padre Siluro sobbalzarono. Lo guardarono come fosse un marziano. Tutti lo conoscevano come lo Zio, ma pochi sapevano come si chiamasse. Aveva baffoni bianchi rigorosamente asimmetrici accompagnati a capelli scompigliati altrettanto bianchi. L’età era imprecisabile, ma i suoi racconti di un’epoca a cavallo tra i grandi motori a pistoni e i primi jet e l’aspetto canuto gli conferivano una reputazione di enorme saggezza. Sembrava conoscere tutti e tutto, civile o militare che fosse, e quando c’era qualcosa da dire non tentava neppure di trattenere la lingua. “È incazzato per come l’avete conciato, senza nessun rispetto per la sua storia. Quante volte ci avete raccontato la favoletta secondo cui ‘A un aereo glorioso si deve lo stesso rispetto che a una persona’? Ecco, lui vi sta ricordando cosa succede a non farlo”, proseguì. “Mi faccia il piacere”, lo interruppe paonazzo il direttore, reagendo all’attacco di qualcuno che non poteva licenziare o punire. “Se devo credere al curatore, tre quarti degli aerei qua dentro fingono di essere quello che non sono.” “Mettiamola così. Lui la storia l’ha fatta combattendo per davvero: bombe, gas e tutto il resto. Fino a restarci, insieme al suo equipaggio”, sottolineò con un rispetto tanto profondo da suonare di preparazione per il successivo rimprovero. “Poi arrivate voi, resuscitate i suoi resti mortali e lo tirate a lucido per recitare in un melodrammatico polpettone di regime conciato come un damerino. E secondo voi non avrebbe dovuto incazzarsi?”. La domanda rimase in sospeso, senza trovare risposta. A togliere tutti dall’imbarazzo fu di nuovo lo zio, che girò sui tacchi e scrollò le spalle. “E consideratevi pure fortunati”, lo sentirono bofonchiare mentre si allontanava. “Ve la cavate con quattro mascherine, due pennelli, un barattolo di nero e uno di rosso. Niente spese aggiuntive, niente secondo restauro, niente esorcista.”

10. “Pochi giorni dopo il biplano ricevette le insegne che porta ancor oggi e smise di sanguinare,” spiegò la guida volontaria agli studenti di chissà quale istituto, trascinati al museo da un insegnante annoiato almeno quanto loro. “O almeno così mi raccontò il maresciallo la prima volta che venni qui in visita. Ma io a queste cose ci credo meno che ai grifoni, agli hobbit e ai sarchiaponi …”, disse, lisciandosi i baffi bianchi da vecchio zio. C’è chi dice di avergli visto anche strizzare l’occhio, come per dire capisc’amme …


Narrativa / Medio-Lungo Inedito; ha partecipato alla II edizione del premio letterario “Racconti tra le nuvole”, 2013-2014; in esclusiva per “Voci di hangar”

 

Incontro tra piloti

“Sono in anticipo … mi posso fermare a prendere un caffè …”

Era un giovedì mattina ed ero sul raccordo anulare di Roma. Normalmente arrivo agli appuntamenti sempre in orario o in leggero ritardo e il fatto di essere in anticipo mi dava finalmente un po’ di tranquillità.

L’autogrill era là davanti a me, per cui misi la freccia ed entrai nella corsia che immetteva al piazzale davanti al bar. Parcheggiai vicino a una station wagon scura con una targa inglese. Notai un signore distinto, non molto alto, con pochi capelli bianchi, vestito di un completo marrone con una cravatta sul rosso che mi osservava stranamente.

Scesi dall’auto e la chiusi, avviandomi in direzione del bar.

Mentre camminavo ebbi una strana impressione … cosa faceva quella persona ferma e perché mi guardava con interesse?

Da più 20 anni frequentavo quasi quotidianamente l’autostrada e gli autogrill e avevo avuto la sensazione che non avesse il solito comportamento di chi si ferma per una sosta. Fu però una riflessione di mezzo secondo, perché salii le scale ed entrai nel bar. Avevo tutto il tempo per un buon caffè da gustare in pace. Anzi dovevo cercare di fare trascorrere il tempo.

Dopo il caffè mi attardai a guardare i libri ammucchiati su un tavolo, poi uscii. Mentre mi avvicinavo all’auto, vidi il signore notato precedentemente che stava telefonando. Notai nuovamente qualcosa di strano nel suo modo di telefonare, perché mentre parlava seguiva i miei movimenti.

Salii in auto e vidi che mi veniva incontro con il telefonino in mano. Avevo aperto il finestrino per arieggiare l’auto in quanto quella mattina di aprile faceva caldo.

“Mi scusi, mi vergogno … ma non so come fare … avrei bisogno di una cortesia …”, mi disse avvicinandosi e riponendo il telefonino nella tasca interna della giacca.

Rimasi un attimo stupito e, osservandolo meglio, mi dette veramente l’impressione di una persona in difficoltà. Collegai le mie riflessioni precedenti trovando la spiegazione ai miei dubbi. In quel momento venne fuori quel po’ di generosità che ho dentro, unito anche alla necessità di fare trascorrere più di mezz’ora … Sempre seduto in auto, affacciandomi al finestrino aperto gli dissi: “Mi dica, se posso …”.

Mi rispose: “Sono un pilota dell’Alitalia, e ho un volo cargo tra 40 minuti per Amsterdam. Mi vergogno a dirlo ma, questa mattina, uscendo da casa, ho chiuso la porta lasciando dentro le chiavi di casa e il portafoglio. A casa non c’è nessuno e mia moglie è all’ospedale a fare una visita, per cui ha il telefonino spento. Ho finito la benzina e non so come fare …”.

Sapevo, per esperienza, che non bisognava fidarsi degli incontri fatti sui piazzali dell’autogrill, per cui pensai di entrare in argomento e vedere se effettivamente era del settore. “Sono anch’io un pilota e istruttore di volo”.

“Ma tu dove voli?”, mi chiese passando al tu come si usa fare tra piloti.

Rimasi stupito da questa pronta richiesta. Aveva superato l’esame, e ora potevo anche dare notizie in più. “A Rieti”.

“Ho un carissimo collega a Rieti, si chiama Carlo Alberto. Lo conosci?”. Io cercai nei meandri della mia memoria, ma non trovai nessun pilota che rispondesse a quel nome. “No, purtroppo non lo conosco”, risposi.

A questo punto era lui in vantaggio per cui visto che avevo tempo e inoltre voleva fare bella figura, gli domandai: “Conosci Manlio Lello?”

“Certo, è passato da poco sui cargo e lo incontro spesso”.

Effettivamente era vero. Rincarai la dose: “E Rossi?”.

“Di Rossi ce ne sono tanti. Conoscevo bene Walter che è stato uno dei primi a volare sul Caravelle, però purtroppo è morto alcuni anni fa, e poi Piero, che è appena andato in pensione. Lo incontro ancora al simulatore, però sempre più di rado …”.

Effettivamente era tutto esatto, e solo uno dell’ambiente poteva sapere queste cose.

“ … se mi puoi prestare dieci euro metto la benzina che è sufficiente per tornare a casa. Lunedì sera vengo a Rieti, ti invito a cena e ti restituisco i dieci euro”.

Mi aveva convinto. Salì sulla station wagon con targa inglese che aveva sicuramente le sospensioni posteriori scariche perché era tutta accucciata, mise in moto, fece retromarcia per uscire dal parcheggio, e si avviò in direzione del distributore che distava una cinquantina di metri. Io lo seguii, e vidi che a pochi metri dalla pompa si fermò.

Mi accostai e lui mi disse: “Guarda che fortuna, è finita la benzina proprio qui” e, mentre mi parlava con lo sportello aperto, vidi che girava la chiavetta di avviamento con la marcia innestata per percorrere i pochi metri che lo separavano dalla pompa.

Rimasi fermo ad aspettare con dentro la soddisfazione di stare compiendo un’opera buona.

Scese dall’auto, prese la pistola della pompa, si avvicinò alla parte posteriore dell’auto, aprì il tappo del serbatoio e iniziò a mettere benzina. Notai che si era fermato alla pompa “servito”, però non gli diedi importanza.

“Mi sono distratto e ho superato i 10 Euro. Ti dispiace se faccio 20, così domenica sera sono più tranquillo? Comunque lunedì sera ti restituisco tutti i soldi e ti offro la cena!”

Cosa potevo rispondere? Oramai ero in ballo e … aveva già messo 20 euro. Pagai l’addetto del distributore che mi guardò con aria compassionevole, per cui mi sentii in dovere di dirgli: “Ogni tanto bisogna fare anche delle buone azioni”.

Mise i soldi nella borsa che aveva alla tracolla e guardandomi mi rispose: “Aho, ma che bona azione. Dije che andasse a lavorà come faccio io!”, e girandomi le spalle si allontanò.

Mi sentii chiamare, per cui mi avvicinai all’auto del mio “nuovo amico”. Aveva la portiera aperta e stava scrivendo su un bigliettino da visita. “Questo è il mio biglietto da visita e questo che ti ho scritto è il mio telefonino, se mi puoi dare il tuo così lunedì ti chiamo e ci mettiamo d’accordo per la cena”.

Presi dal portafoglio il mio bigliettino e con la sua biro scrissi il numero del mio portatile e glielo diedi. Mentre io leggevo il suo bigliettino mi ringraziò moltissimo. Vidi solo allora che era del pilota Carlo Alberto. Rimasi perplesso e gli chiesi: “Scusa ma Carlo Alberto non è il tuo collega che abita a Rieti?”

“No, come vedi sono io. Ciao ci vediamo lunedì”, chiuse lo sportello, avviò il motore e partì.

Mi rigiravo il bigliettino in mano, ma i conti non mi tornavano. E scuotendo la testa salii sulla mia auto e mi avviai.

Mentre guidavo mi sorse il dubbio di essere rimasto fregato. Ma ero ormai vicino al luogo dell’appuntamento per cui, poco dopo, uscii dal raccordo e percorsi la strada che mi portava al parcheggio degli uffici. Entrai nella sala delle riunioni. Arrivarono anche gli altri invitati e iniziai a esporre gli argomenti della riunione. Mentre gli altri presenti presero la parola, io purtroppo tornavo con la mente all’autogrill e ripercorrevo, come fosse un film rivisto alla moviola, tutti gli attimi appena vissuti e che mi avevano lasciato perplesso. Più il tempo passava più i tasselli che non coincidevano si ammucchiavano in un lato della mia mente e mi distraevano dagli argomenti della riunione.

Terminata la riunione salutai tutti e mi avviai giù per le scale per non attendere l’ascensore, perché mi era venuta l’idea di telefonare urgentemente al mio amico Marcello, comandante dell’Alitalia. Arrivato in prossimità dell’auto, composi il numero e lo chiamai con la segreta speranza che non fosse in volo. Mi rispose subito e dopo i saluti gli chiesi: “Conosci Carlo Alberto comandante che vive a Rieti?”

“Certo che lo conosco!”, mi rispose.

“Che aspetto ha, è piccolo e con pochi capelli?”.

“No, hai presente Bud Spencer? … è identico: grande grosso e un buono”, mi rispose.

A questo punto non c’erano più dubbi. Ci salutammo e, dopo avere chiuso la comunicazione, rimasi pensieroso. Dentro di me iniziò a crescere l’entusiasmo della possibilità di iniziare quella che noi emiliani chiamiamo “la gara”. C’erano tutti i presupposti per impostare un rapporto tipo gatto-topo, partendo ora da una posizione di favore. Al diavolo i 20 euro! Li consideravo come il costo del biglietto per giocare la partita. L’entusiasmo mi cresceva dentro, assieme al calore che prende il corpo quando si sta iniziando un’avventura. Salii in auto e mentre guidavo riflettevo sulle varie opportunità in gioco …

Questo signore, non era certamente un dilettante, e neanche un poveraccio, quindi vi erano serie probabilità che fosse un professionista astuto.

“Bene, il gioco si fa duro e non devo farmi fregare un’altra volta … esaminiamo bene la situazione e cerchiamo di scoprire i suoi lati deboli …. ha usato il trucco delle chiavi rimaste in casa … bastava che ci riflettessi un attimo per capire che uno può dimenticare le chiavi, ma se è un pilota che gira il mondo non può dimenticare il portafoglio con i documenti … poi mi parla di un pilota di Rieti suo amico e mi da il suo biglietto da visita dicendomi che è lui… e qui ha commesso un errore grave perché doveva prevedere che in due minuti avrei scoperto tutto telefonando a un amico dell’Alitalia. Forse poi non è così scaltro . Bene, io qui ho un numero di cellulare che il truffatore ha scritto sul bigliettino di Carlo. Strano che mi abbia lasciato il suo numero. In quel modo sarebbe facilmente rintracciabile. Vuoi scommettere che è il numero di Carlo e lui ha fatto finta di scriverlo … basta fare il numero e vedere chi risponde … no, ferma tutto: devo lasciare a lui la prossima mossa stando al suo gioco.

La mia mente continuava a girare pregustando “la gara” e sorridevo tra me e me … Arrivai così in azienda e proprio mentre stavo parcheggiando, il telefono squilla. Era un numero di un cellulare che mi risultava nuovo. “Pronto!”, risposi.

“Sono il comandante Alitalia di questa mattina. Desideravo ringraziarti per il tuo gesto. Sono arrivato in tempo a Fiumicino e ora sono ad Amsterdam. Lunedì rientro e vorrei averti a cena con me, così ti restituisco i soldi che mi hai prestato. Ho visto dal tuo bigliettino che sei il dirigente di una società. Complimenti! Sarà un onore averti mio ospite…”.

A quel punto giocai duro e dissi: “Sei un simpaticone che si diverte a fare le candid camera. Però il comandante Carlo di Rieti è un mio carissimo amico e io ti ho lasciato credere di non conoscerlo perché volevo vedere fin dove saresti arrivato …”, risposi bluffando in modo da metterlo in difficoltà.

“No, io non sono Carlo, ma il comandante Serafini!”, mi rispose.

“Bene, e il biglietto da visita che mi hai dato?”.

“Perché non è il mio biglietto col nome Serafini?”.

“Allora insisti a mentire sapendo di mentire. Quando te l’ho fatto notare tu mi hai risposto dicendo che Carlo eri tu! Quindi il gioco è finito troppo presto e mi sono divertito poco …”, risposi.

“Ti chiedo scusa, ma questa mattina ero molto confuso perché temevo di non fare in tempo ad arrivare a Fiumicino, per cui è facile che mi sia sbagliato. Lunedì ti dimostrerò che sono veramente Serafini, e che sono una persona che mantiene gli impegni. Ti devo lasciare perché sto decollando. Grazie ancora. Ciao a lunedì!”, e chiuse la comunicazione.

Ottimo, ora avevo il suo numero di cellulare, per cui potevo impostare qualche azione. Lo registrai in rubrica sotto il nome di “Simpaticone” ed entrai in ufficio.

La sera, mentre cenavo a casa, raccontai la storia accaduta. Quando parlai del comandante Carlo, mia moglie mi interruppe: “Il mondo è piccolo. Pensa che l’ho visto questa mattina in banca …era vestito da pilota ed era andato a protestare dal cassiere perché al bancomat, all’esterno, aveva avuto 250 Euro tutti in banconote da 10 e non da 50 come normalmente accadeva. Ho chiesto all’impiegato che mi stava servendo chi fosse, ed egli mi ha risposto che era il comandante Carlo Alberto, persona molto simpatica, e loro cliente da anni”.

“Ferma tutto! Lo chiamiamo subito e ridiamo un po’!”, dissi avendo una piccolo lampo … Presi dal portafoglio il suo bigliettino, chiesi a mia moglie l’ora precisa che ebbe modo di riscontrare sulla ricevuta della banca, e feci il numero di cellulare di Carlo Alberto, sperando che fosse il suo. Infatti mi rispose pronunciando il suo nome.

“Lei questa mattina con l’inganno mi ha derubato di 20 Euro! Ora me li restituisce subito o la denuncio …” Avevo messo il telefonino in viva-voce per fare sentire a mia moglie e ai miei figli.

“Chi? … io … derubato lei? … è uno scherzo …”, mi rispose sorpreso.

“Confermo, stamani all’autogrill, sul raccordo. Ho qui il suo biglietto da visita che mi ha dato personalmente. In più, da indagini fatte, risulta chiaramente che lei questa mattina era rimasto senza soldi … per cui li ha estorti a me con l’inganno …”.

“Come fa a sapere che ero senza soldi?”, mi chiese preoccupato.

“Confermo! Lei questa mattina ha prelevato 250 Euro in banca perché aveva già dopo che lei mi aveva estorto i 20 euro di benzina alle nove e trenta sul raccordo anulare. Ha prelevato alle ore undici e zero sette 250 Euro in banconote da 10 euro! Mi conferma tutto questo o vuole mentire?”.

“Come fa a sapere tutto questo? Chi è lei?”.

“Sono un agente dei servizi segreti per cui non posso darle il mio nome. Giovanotto. hai finito di giocare al pilota che ha lasciato le chiavi in casa e di appostarti negli autogrill per derubare la gente … per mettere la benzina nell’auto e girare a sbafo con i soldi degli altri. Io ti rovino!”

Silenzio assoluto. I miei figli ridevano a crepapelle e mi imploravano di finirla.

“… e poi perché quando prima ti ho chiamato mi hai detto di essere il comandante Serafini, dandomi delle false generalità?”

“Ascolti … forse ho capito di chi si tratta … io non c’entro. C’è in giro nel nostro ambiente un truffatore che si spaccia per pilota. Purtroppo ha fregato anche me e anche Serafini. Senta io ora sto per decollare. Se vuole ci possiamo vedere domani a Roma …”.

A questo punto era il caso di interrompere lo scherzo, soprattutto pensando ai passeggeri che aveva dietro.

“Tranquillo! Sono un amico di Marcello e non sono un agente segreto. Scusa se ho scherzato. Penso sia il caso che ci vediamo, perché la situazione è seria … chiamami pure a questo numero quando rientri, visto che anche io abito a Rieti”.

Chiusa la comunicazione, rimasi a parlare con i miei famigliari dell’accaduto, cercando di capire meglio la situazione. Il giorno successivo, avendo dormito sopra “l’argomento”, iniziai a fare delle considerazioni meno goliardiche: e se quel signore utilizzasse il mio biglietto da visita spacciandosi per me mettendomi in una situazione critica di fronte alla giustizia? … poi hai voglia a spiegare che io non c’entro e che sono vittima di una truffa … niente, bisogna che vada a denunciare l’accaduto alla Polizia. Intanto metto un punto fermo … Mentre ero assorto in queste riflessioni mi arrivò la telefonata di Carlo.

“Scusa se non ci possiamo vedere direttamente perché ho un impegno qui a Roma, però ti posso spiegare la situazione anche per telefono … ho incontrato quel signore una sera tardi mentre rientravo a casa all’autogrill di Settebagni. Ero in divisa Alitalia e stavo prendendo un caffè quando questo si avvicinò spacciandosi per un collega. Parlammo un po’ del nostro lavoro poi mi disse che aveva ricevuto l’incarico da una compagnia inglese che stava nascendo, di selezionare dei piloti. La compagnia era seria e disponeva di mezzi sia tecnici che finanziari, per cui gli stipendi erano sicuri e più alti di circa un 50% rispetto all’Alitalia. Gli risposi che io stavo bene dove ero per cui non ero interessato. Ci scambiammo i biglietti da visita e io scrissi sul mio, dietro sua richiesta, il numero del cellulare. Dopo circa un mese mi arrivò una telefonata. Era lui che mi confermava che la compagnia aveva iniziato l’attività e che aveva assolutamente bisogno di vedermi. Fissammo un appuntamento in un albergo non distante da Fiumicino. Accettai solo per una curiosità personale in quanto non avevo nessuna intenzione di cambiare “bandiera”. Quando arrivai era nella hall, seduto in una poltrona, davanti ad un tavolo di cristallo pieno di fogli di carta. Aveva in mano una cartellina che stava leggendo con gli occhiali sulla punta del naso. Vicino ai piedi, una borsa da pilota di cuoio nero, aperta. Fece finta di vedermi solo quando fui vicino e con la cartella in mano si alzò per salutarmi. Aveva l’aria di chi è molto indaffarato e che non può perdere un secondo del suo tempo prezioso … io lo guardavo incuriosito cercando di capire dove volesse arrivare. – Come puoi vedere quello che ti avevo detto si sta concretizzando – mi disse.- La compagnia ha iniziato la sua attività e io sono il responsabile della selezione dei piloti. Mi hanno dato un mese per completare l’organico e mi mancano ancora solo due piloti. Tutti quelli che ho contattato hanno accettato con entusiasmo sia per la serietà della compagnia che per i soldi in più che ho offerto loro. Conto molto su di te perché le informazioni che ho avuto sul tuo conto sono ottime e, dopo il necessario addestramento, potresti diventare capo pilota della compagnia. Ho già preparato una lettera di assunzione e se tu firmi sei già dei nostri -. Mi mise in mano una lettera con tanto di intestazione di una compagnia aerea e stipendio da sogno … e, dato che era più piccolo di me, mi guardava da sopra gli occhiali che teneva sulla punta del naso. Nella mia vita non avevo mai creduto ai colpi di fortuna, per cui ero molto perplesso sull’operazione, anche se mi incuriosiva. Inoltre ero nato in Alitalia e mi sembrava di commettere un tradimento, solo a leggere quella proposta. Mentre mi rigiravo fra le mani quei fogli, lui si allontanò di circa un metro, prese il cellulare dalla tasca interna della giacca, compose un numero e iniziò a parlare avvicinandosi a me. – … come vogliono degli altri soldi per l’operazione? Come faccio se al momento non ne ho più sul conto! … li vogliono subito?”, in quel momento il telefonino squillò.

– Strano! – Pensai io. Sta telefonando e sullo stesso telefonino arriva una telefonata? Devo dire che la cosa mi lasciava molto perplesso.

Rispose a questa nuova telefonata allontanandosi in modo che io non lo potessi udire. Avevo capito che dall’altra parte c’era uno che doveva subire un’operazione e che occorrevano dei soldi.

Finita la telefonata, si riavvicinò e, chiedendomi scusa, mi disse che era in una situazione terribile, perché sua figlia, ammalata di tumore, doveva subire una delicata operazione in una clinica inglese per la quale lui aveva già pagato 5000 sterline. Ora, all’ultimo minuto, volevano altri soldi e lui non sapeva come fare … e mi guardava implorandomi.

Era una situazione imbarazzante, per cui, preso da un momento di compassione, aprii il portafoglio. Avevo solo due pezzi da 50 euro, ne presi uno e glielo diedi, contento di fare una buona azione. Li prese immediatamente facendoli sparire nella tasca interna della giacca e ringraziandomi in un modo esagerato. A quel punto mi venne un dubbio: con 50 euro poteva fare ben poco, allora perché era così contento … poi il telefonino che squillava mentre lui telefonava …

– Scusa, come mai mentre telefonavi ti è arrivata una telefonata? -, gli chiesi.

– Questo è un telefono ultima generazione che ha due schede. Ce ne sono pochi in giro perché sono appena usciti -, mi rispose mentre riponeva i fogli di carta dentro la borsa.

– Mi devi scusare, ma devo scappare per mandare i soldi alla clinica per l’operazione di mia figlia … ti richiamo io appena potrò … -, mi disse scuotendo la testa e dandomi la mano. Sparì in un attimo e io rimasi pensieroso. La faccenda non mi tornava.

Dopo circa due settimane mi richiamò per dirmi che sua figlia, grazie anche a me, stava meglio e che potevamo incontrarci per definire la mia assunzione. Gli dissi di no, pur sapendo che in questo modo non avrei più visto i miei 50 euro. Pazienza … non mi interessava la sua offerta e non mi piaceva la persona. Percepivo un’aria poco “pulita”, anche senza andare a indagare troppo … alla larga da certe persone!!!”.

“Hai certamente fatto bene”, gli risposi, dopo aver ascoltato la sua storia. “Ora però è opportuno che mettiamo un fermo a questo individuo, perché va in giro a spacciarsi per uno di noi. In questo momento ha in mano un mio biglietto da visita. Non vorrei che mi mettesse nei pasticci facendo una truffa a mio nome … penso sia il caso di tutelarci con una denuncia. Anzi se sei d’accordo potremmo andare al più presto in Questura …”.

“Va bene”

“Ok, vedrò di prendere un appuntamento, ho qualche amico lì”.

Trovai il capo della Squadra Mobile disponibile ad ascoltarci. Così, dopo due giorni, incontrai davanti alla Questura il pilota “alla Bud Spencer” … alto, grande e simpatico. Camminava proprio come il grande attore. Salimmo insieme le scale e arrivammo in una saletta, in attesa di essere ricevuti.

Sapevo che il capo della Squadra Mobile era una persona dinamica e valida, con dei notevoli risultati alle spalle. Le pagine dei quotidiani erano sempre occupate a riportare le sue imprese, non solo a livello locale ma anche nazionale. Passava per uno che non perdonava nulla e che portava sempre a termine le sue indagini con l’arresto di chi commetteva reati nella speranza di farla franca.

Entrammo poco dopo nel suo ufficio. Lui si alzò e ci venne incontro, dandoci la mano con un largo sorriso sincero. Ci fece accomodare e ci chiese di raccontare la nostra avventura. Iniziai io, poi proseguì Carlo Alberto. Ci ascoltava in silenzio e con la massima attenzione. La storia gli piaceva tanto che alla fine disse: “Gli possiamo fare un bel trappolone! … avete idea dove possa abitare o, meglio ancora, quale sia il suo nome?”

Carlo Alberto si prodigò in un grande sforzo di memoria e a poco a poco iniziò a pronunciare delle lettere che non avevano senso, poi man mano, tra un aggrottamento di ciglia e un sorriso di compiacimento, spuntò dalla sua bocca un nome: “Franceschini, sì, proprio Fanceschini! Ma il nome non lo ricordo. Mi sembra però che abitasse nella zona di Passo Corese”.

Il poliziotto sorrise soddisfatto e iniziò una ricerca sul computer dei “Franceschini” con precedenti penali. “Questo … guida in stato di ebbrezza … quest’altro abita a Milano … questo è troppo giovane … no così non arriviamo da nessuna parte … proviamo a chiamare la stazione dei Carabinieri di Passo Corese!”.

Mise il telefono in viva-voce chiedendoci di intervenire per fornire eventuali chiarimenti. Dopo 4 squilli: “Stazione dei Carabinieri di Passo Corese …”.

“Sono il capo della Squadra Mobile di Rieti e avevo bisogno di sapere se conoscete un certo “Franceschini” che si presenta in giro con falsi nomi …”.

Dopo un istante di silenzio, la risposta arrivò in perfetto accento romanesco sottoforma di urlo: “Miiitticooo!!! … è il migliore che c’è sulla piazza!!! Le sue imprese sono memorabili!”

“Lo conoscete bene?”, domandò stupito il capo della Squadra Mobile.

“Certo che lo conosciamo bene! Gline potrei raccontare diverse … ma la più bella è la cena di Capodanno. Essendo un impiegato Alitalia, aveva affisso nelle varie bacheche della compagnia l’avviso che era stata organizzato una cena per il Capodanno, riservata solo ai dipendenti Alitalia … in un castello della Sabina al prezzo di 40 mila lire, di cui 20 da pagare subito e il resto in sede, prima della cena. Seguiva naturalmente la descrizione dettagliata del menù e del programma della serata. L’incontro era fissato a Fiumicino, dove un pullman avrebbe prelevato i partecipanti, alle 20 in punto. Le adesioni furono tante e tutti anticiparono volentieri le 20 mila lire, considerato il prezzo esiguo rispetto a quanto veniva offerto. La sera di Capodanno … tutti puntuali a Fiumicino in completo scuro, come richiesto, ad aspettare il pullman. Dopo circa due di ritardo e il telefono da chiamare in caso di bisogno che segnalava un numero sbagliato, i convenuti si resero conto di essere incappati in una truffa”.

Ci guardammo l’un l’altro e ci rendemmo conto che a noi, in fondo, era andata anche bene.

Il poliziotto, ritenendo di avere acquisito sufficienti notizie, ringraziò e chiuse la telefonata.

A quel punto Carlo Alberto disse: “Ora mi ricordo di Serafini, e posso spiegare perché abbia fatto quel nome. Serafini è un comandante della nostra compagnia che ha avuto la disavventura di incontrarlo e di dargli il suo biglietto da visita. Infatti, il gioco è sempre lo stesso. Questo Franceschini incontrò una giornalista e, con i suoi modi gentili, le racconta chissà quale storia e riesce a farsi “prestare” 3 milioni di lire con la promessa di restituirli dopo qualche giorno. Come garanzia, le lascia il biglietto da visita del comandante Serafini. Poi, naturalmente, sparisce, per cui alla malcapitata giornalista non resta che telefonare ai numeri riportati sul biglietto di Serafini. Dall’altra parte risponde la moglie di Serafini, il numero era proprio quello di casa, che dice che il marito non è in casa. Il giorno dopo la malcapitata richiama e trova ancora la moglie che inizia a insospettirsi per cui, al ritorno del marito, lo interroga su chi è questa Francesca che è la seconda volta che lo cerca a casa. Naturalmente Serafini non ne sa niente ed è vero. La giornalista richiama e la moglie un po’ alterata chiede spiegazioni. Questa racconta la storia del prestito, pregando la moglie di dire al comandante che lei esige la restituzione dei 3 milioni di lire. Potete immaginarvi la reazione della moglie che immaginava chissà quale relazione esistesse tra il marito, che continuava a negare tutto, e questa signora che continuava a chiamare … Alla fine Serafini incontra la giornalista che, sorpresa, si trovò di fronte ad un’altra persona, capì la situazione e, purtroppo, la malcapitata, come da copione, rimase con un pugno di mosche in mano.”

“Bene, bene … gli facciamo un trappolone noi, questa volta”, disse il capo della squadra Mobile, poi rivolgendosi a Carlo Alberto: “Ha possibilità di contattarlo al cellulare in modo che possiamo fissare un appuntamento e …”.

Carlo Alberto rimase interdetto.

Mi ricordai che io l’avevo. Era registrato sotto il nome di “Simpaticone”. Infatti lo trovai subito. “Eccolo qui il suo numero di telefono!”.

Entrambe lo registrarono.

“Ottimo, la richiamo io per dirle quando e dove fissare l’appuntamento, sperando che questo ci caschi. Però ora serve che facciate una denuncia ufficiale scritta, in modo che io possa muovermi. Se passate nell’altro ufficio c’è un Ispettore che può raccogliere la vostra denuncia.”

Lo ringraziammo, ci salutammo e passammo a fare la nostra deposizione scritta e firmata.

Uscimmo dalla Questura con uno spirito più sollevato in quanto ora era ufficiale che, se quel signore avesse utilizzato i nostri biglietti da visita per commettere dei reati, noi saremmo stati coperti legalmente.

Dopo circa un mese Carlo Alberto mi chiamò per dirmi che il trappolone era stato preparato al bar dell’aeroporto di Fiumicino e che Franceschini si era presentato puntuale all’appuntamento.

Due agenti, prontamente intervenuti, lo identificarono e lo condussero via.

E questa fu la fine dell’Arsenio Lupin della Sabina, il sedicente pilota dalle mille identità.






Narrativa / Medio-Breve Inedito; ha partecipato alla II edizione del premio letterario “Racconti tra le nuvole”, 2013-2014; in esclusiva per “Voci di hangar”

 

Emergenza in volo

E’ una splendida giornata di primavera, i faggi cominciano a rivestirsi di foglie e l’aria è piena dei profumi della natura incontaminata della “Foresta Umbra” sita nel parco nazionale del Gargano.

E’ un luogo fuori dal comune dove puoi ritrovare la serenità dello spirito e vivere in stretto contatto con la natura durante tutto l’anno, fatta eccezione solo nei mesi di luglio e agosto, quando i turisti in cerca di frescura invadono le aree da picnic della Foresta, creando intasamento di traffico e sporcando senza preoccuparsi più di tanto del male che fanno alla natura e ai residenti. Per fortuna il periodo di tale invasione è breve.

Giovanni lavora presso il Gruppo Radar dell’Aeronautica Militare in qualità di “Capo Sezione Addestramento” ed è ben contento di lavorare in tale luogo, anche se il Gruppo è posto lontano dai centri urbani che possono offrire maggiori comodità ed una vita più intensa. A lui interessa la serenità dell’anima, una vita regolare nell’ambito della sua famiglia che lo sostiene e lo aiuta a mitigare lo stress del suo impegnativo lavoro.

Mentre l’autobus lo conduce presso l’area operativa del Gruppo Radar, il suo pensiero torna indietro ad un mese prima quando fu inviato in missione presso l’aeroporto di Pisa per partecipare ad una riunione relativa ad un’esercitazione nuova e molto impegnativa per le attività del suo reparto.

L’ordine gli fu comunicato una mattina di marzo mentre stava svolgendo la sua normale attività. Doveva recarsi con un velivolo di una squadriglia collegamenti – MB 326 – condotto da un collega pilota – Walter- che doveva partecipare per il suo Comando a detta riunione. L’incontro con Walter doveva avere luogo presso la base aerea di Amendola e da lì si sarebbero recati direttamente a Pisa.

Tutto si svolse come previsto. La giornata era splendida, nell’aria si avvertivano i primi segni del risveglio della natura dal torpore invernale e già si intravedevano nel cielo le prime rondini volteggiare felici.

Walter, in qualità di responsabile del volo, spiegò a Giovanni come doveva comportarsi durante il volo stesso e cosa fare in caso di emergenza, chiarendo che, in caso di necessità di paracadutarsi, il primo a lasciare l’aereo doveva essere Giovanni che stava seduto nel sedile posteriore e subito dopo sarebbe stata il suo turno. Aggiunse, inoltre, che non doveva preoccuparsi più di tanto in quanto il velivolo era in perfette condizioni e che le condizioni meteo, almeno per quel giorno, garantivano un volo tranquillo.

Ciò detto si sistemarono nel velivolo posizionando in posizione idonea il piccolo bagaglio che erano autorizzati a portare in volo.

Da lassù, vista la bella giornata di sole, tutto era meraviglioso e per Giovanni che volava per la prima volta con un piccolo jet, tutto era doppiamente eccitante. Aver visto, poi, la Foresta Umbra dall’alto con un passaggio mozzafiato sul suo amato reparto, gli diede un enorme piacere e, tra sé e sé, provò un senso di orgoglio per il fatto di appartenere all’Aeronautica Militare.

Walter, mentre erano in volo, fece da Cicerone a Giovanni che provava sempre più piacere per quel volo non programmato. Il viaggio proseguì senza problemi e atterrarono a Pisa in tempo per sbrigare le pratiche burocratiche e fare una puntatina in città per vedere la piazza dei Miracoli.

L’emozione provata nel trovarsi in quella piazza piena di arte e fare un giro sulla famosa torre pendente che vedeva per la prima volta, quasi, lo annichilì e i suoi occhi giravano in continuazione come un radar allo scopo di non perdere alcun angolo di tale beltà.

La riunione, svoltasi il giorno dopo, fu molto interessante e i particolari discussi ben evidenziarono l’importante impegno che attendeva il suo reparto durante quell’esercitazione. Era contento anche per questo in quanto partecipare a simili importanti riunioni operative lo inorgogliva e lo faceva sentire parte viva dell’Aeronautica Militare.

Durante la sera non vi fu alcunché di importante da segnalare, tranne il fatto che Walter manifestò un senso di preoccupazione per le condizioni meteorologiche del giorno dopo. Con una battuta delle sue, però, rasserenò Giovanni e così chiacchierando, chiacchierando giunse l’ora del riposo notturno.

Il programma per il giorno dopo era: decollo da Pisa per Ciampino, riunione allo SMA e, infine, partenza da Ciampino per Amendola, dove Giovanni avrebbe terminata la sua avventura sul piccolo jet. Questo il programma, ma come si sa non sempre le cose vanno come si pianifica.

Il dubbio, manifestato da Walter la sera prima circa le avverse condizioni meteo, ora era una realtà: nubi dappertutto e di sole neanche un piccolo raggio. I piloti, comunque, sono abituati a volare in sicurezza in tutte le situazioni e così a Walter toccò l’onere di rasserenare Giovanni che non era così esperto di volo con condimeteo avverse. A dire il vero Giovanni, in qualità di Controllore d’intercettazione, più di una volta aveva assistito aerei in difficoltà perché in condizioni di volo avverse, però si rese conto, come d’altronde sapeva per sentito dire, che trovarsi coinvolto direttamente era tutta un’altra storia.

Effettuati tutti i controlli pre-volo il velivolo iniziò il rullaggio e decollò regolarmente.

Il controllore del traffico aereo assegnò al velivolo “Flight Level” (FL) 260. Nonostante la completa immersione nelle nuvole, tutto sembrava procedere per il meglio, ma attraversando FL 140 un forte e improvviso rumore scosse il velivolo in assetto di salita. Non era una tipica scossa da turbolenza era qualcosa di più anche perché il velivolo cominciò a perdere quota e per pochi istanti diede l’impressione che il motore non girasse più bene.

Giovanni si guardò nello specchietto che aveva di fronte e si ricordò dell’avventura capitata a un suo collega che al primo volo su un jet fu costretto a lanciarsi col paracadute. Sicuramente non fu un bel ricordo per lui in quel momento.

Mentre era assorto in tali pensieri fu di colpo riportato alla realtà da Walter che disse: “Giovanni, cosa hai toccato?”. Giovanni pallido in volto e con il casco di traverso sulla testa dal quale fuoriusciva un ciuffo di capelli rispose:”Niente, ti giuro non ho toccato niente”. Non ci furono altre comunicazioni da parte di Walter.

Giovanni continuava a guardarsi nello specchietto e cominciava a sudare freddo, mentre i suoi pensieri, per quanto confusi e impreparati all’evento, vedevano un’imminente necessità di eiettarsi, così come per precauzione gli era stato detto all’imbarco ad Amendola.

Non voleva crederci, però, e sperava, sperava in cuor suo che la cosa si sarebbe risolta nel migliore dei modi.

Walter, intanto, parlava concitatamente con la torre della base aerea di Grosseto, spiegando di avere dei problemi con il motore del velivolo e chiedeva priorità per l’atterraggio in emergenza.

Quella fu la parola che fece capire a Giovanni la gravità della situazione, laddove ce ne fosse ancora bisogno.

Volavano ancora completamente immersi nelle nuvole, quando la voce di Walter ruppe il silenzio e disse: “Giovanni abbiamo avuto uno stallo al motore. Non ti preoccupare, però, perché ho intravisto un foro nelle nubi e mi sto dirigendo in quella direzione per raggiungere condizioni buone di visibilità. Anche se il motore ci dovesse lasciare in questo momento, metteremo, comunque , le ruote sulla pista di Grosseto”.

Queste parole, rincuorarono non poco Giovanni che in cuor suo aveva pregato tutti i Santi per la loro salvezza.

Il motore, intanto, aveva ripreso a girare quasi regolarmente e l’atterraggio si svolse senza ulteriori problemi.

Appena atterrati, il velivolo fu condotto nell’hangar per un primo controllo allo scopo di verificare, di massima, la causa dell’evento. La sentenza fu: velivolo fermo a causa di stallo meccanico del motore.

Il viaggio di Giovanni finì in quel momento e, mentre Walter fu costretto a rimanere a Grosseto per le azioni di competenza, Giovanni si fece condurre alla stazione FS di Grosseto da dove proseguì il suo viaggio per far ritorno in Foresta Umbra.

Ovviamente era frastornato e pieno di pensieri in testa che sembravano una tempesta senza soluzione di continuità che l’accompagnò per tutto il viaggio.

L’autista dell’autobus con una battuta di spirito lo risveglia dal ricordo di quei momenti concitati e pieni di paura e lo riporta scherzosamente nel mondo reale quando gli dice “Comandante siamo arrivati in zona operativa. Che fa’ scende o fa’ un altro giro?”

Accenna un sorriso all’autista e si alza dal suo posto lentamente ancora in preda ai ricordi per raggiungere, dal corpo di Guardia, il suo ufficio.

Lungo la discesa, che lo conduce verso il bunker della sala operativa, alza lo sguardo al cielo e, seguendo il volo acrobatico delle rondini, viene catturato dalle scie di condensazione dei velivoli di linea che passavano in quel momento nell’aerovia Blue 23 che passa sul VOR di Vieste. Giunge, infine, nel suo ufficio e la routine del lavoro lo assorbe immediatamente chiudendo alla mente il suo ricordo avventuroso.


Narrativa / Medio-Breve Inedito; ha partecipato alla II edizione del premio letterario “Racconti tra le nuvole”, 2013-2014; in esclusiva per “Voci di hangar”

Dirigibile
Raffaele Carlino

 

Spionaggio nei cieli

E’ incredibile come la mia mente ricordi perfettamente quanto avvenuto 40 anni fa e non rammenti cosa ho assunto per colazione. Il mio pensiero si perde tra i fulgidi ricordi di quando imberbe e novello pilota vivevo con emozione il sopraggiungere della primavera che rendeva l’aria pulsante, profumata ed elettrica in un piccolo aeroporto prossimo alle Prealpi del nord.

Una mattina, indossando con orgoglio la mia tuta di volo, superavo la recinzione dell’aeroporto avviandomi con passo fiero verso gli hangar che custodivano gelosamente i nostri candidi gioielli di vetroresina. Pilotavo già i moderni alianti di plastica. Varcavo spavaldamente quel confine che separava i “terricoli” dai “volatili”. Mi sentivo sulla schiena lo stupore e l’invidia di chi restava relegato dietro a quel cancello, mentre io appartenevo a quell’affascinante mondo di chi ha il privilegio di staccare l’ombra da terra. Ricordavo i timori della mamma: “Mi hanno detto che ci sono i vuoti d’aria … se ti succede cosa fai?” E rispondevo scherzosamente: “Beh, mamma … morirò soffocato!!!” D’altra parte la mamma ripone le sue ansie dietro a parametri terreni, con raccomandazioni tipo : “Vai piano e stai basso!” che sono in netto contrasto con la sicurezza del volo.

Ma quella volta, dico … quella volta! Era una giornata perfetta, temperatura, sole, vento, nubi, tutto sembrava promettere un lungo volo con quote considerevoli, una cosa da raccontare poi alla sera al circolo. La giornata era proprio perfetta, il cielo quasi terso manifestava i primi cumuli, con rotondità giuste al posto giusto, l’angolo del sole, la temperatura di rugiada da manuale, la brezza da nord che solleticava la manica a vento, quella che ci vuole. Tutto mi chiamava a salire a bordo del mio monoposto e ad impugnare la cloche. Sbrigate le solite formalità d’ufficio, mi recai sulla pista erbosa, con l’aliante che avevo prenotato, il migliore, I-CARE, che in inglese è proprio l’opposto di “menefrego”. Sarei partito per secondo, in quanto davanti all’ I-CARE c’era un altro aliante, il I-DEAR, un vecchio modello in legno e tela, quasi pronto per il museo. Eccezionalmente c’erano due traini in pista. I-DEAR sarebbe decollato con lo Stinson L-5 del club, mentre io sarei partito pochi minuti dopo trainato da un Cessna di un privato che voleva accumulare ore di volo. D’un tratto, rimasi sorpreso, le donne pilota non sono frequenti nel nostro campo, e quella che ora si avvicinava rapidamente al I-DEAR era proprio una donna che diffondeva un certo fascino, alta, un po’ massiccia, non proprio una ragazza, forse un po’ matura, capelli biondi e ondulati, fare sicuro e disinvolto. Non l’avevo mai vista prima. In un pochi di minuti l’ I-DEAR decollò. Sentivo alla radio le comunicazioni tramite il traino e la torre. Si dirigevano a nord-ovest, rotta 290 ed avevano previsto lo sgancio a quota 500 metri. Poi toccò a me, io avevo pianificato una rotta un po’ più a nord, con prua 310, per uno sgancio a 500 metri verso le pendici del monte Ubione. Però ero troppo curioso, la possibilità di un volo stupendo grazie alle eccezionali condizioni meteo, era offuscata dalla curiosità di capire chi fosse quella donna, e forse anche l’orgoglio di maschio prese il sopravvento: la volevo raggiungere e vedere come pilotava, forse anche farmi vedere. Passato il periodo che chiamo “limbo” ovvero il tempo passato dietro la turbolenza dell’elica del traino, avvenne lo sgancio e finalmente il mio guscio di vetroresina si trasformò in aliante. Basta, finiti i rumori molesti, ero affidato al vento, alle termiche, al sole, e a tutto quanto conoscevo e mi apparteneva. Avevo la presuntuosa sensazione della sconfinata potenza del controllo degli elementi. Il mio aliante sfrecciava veloce frusciando nel fluido e trasparente elemento che trasforma l’energia del sole in forza di sostentamento della mia volontà. Nell’Olimpo che mi sono inventato, c’è posto per una divinità sconosciuta a tutti, si chiama “Ventolino” ed è l’idolo degli alianti. Non si vede, ma deve essere un ragazzino impertinente, che se non lo rispetti ti fa atterrare malamente e magari fuori campo, ma se ti vuole bene, ti fa fare quota e ti porta al cospetto degli dei dell’Olimpo. Però a modo suo. Ovvero a calci. L’aliante infatti prese a salire vigorosamente, sospinto dalle termiche del pendio erboso e risucchiato da una piccola lenticolare sulla mia verticale. Il mio aeromobile saltava e sgroppava ad ogni calcio di Ventolino. Il variometro elettrico trillava allegramente segnalando la salita. In poco tempo con piccoli interventi sulla cloche arrivai a quota 750 metri. Dalla radio sentivo la voce della pilota del I-DEAR: una bella voce femminile dai toni bassi, sicuri, con un leggero accento straniero ed una fonia imperfetta, intercalando termini in inglese. Comunicò che era un paio di chilometri davanti a me, sulla sinistra, a quota 600 metri. Diamine, decisi di raggiungerla, grazie alla mia quota superiore, avevo più velocità, e con un planatone di pochi minuti le sarei stato di fianco. Infatti già la vedevo oltre la capottina, più in basso. Stabilii il contatto radio e le dissi che le sarei passato ad un centinaio di metri sulla destra. Sotto di noi avevamo l’ampia valle Imagna. Lei non rispose altro che un impersonale ”over”. Dopo pochi minuti eravamo affiancati, a dire il vero a meno di 100 metri, a quota 570. Estrassi un corto binocolo per vederla meglio, e devo dire che la donna faceva un bel vedere. La riconobbi: era una signora che conoscevo solo di vista, era una badante russa che evidentemente prestava la sua opera dalle parti di casa mia. Lei non girò lo sguardo verso di me, continuò a fissare davanti. Decisi quindi di lasciarla sola nella sua termica con una lenta spirale a sinistra; tirai leggermente la cloche verso di me, I-CARE rallentò, passai a 590 metri di quota e la vidi filare via. Volli seguirla per un po’ con lo sguardo, poi avrei virato a destra per fare quota alle pendici del monte Albenza. Con il vento da nord sarebbe stato tutto portante. Quello che vidi però mi lasciò perplesso, e non ho altre parole per descrivere il mio stato d’animo. Evidentemente la pilotessa-badante aveva aperto lo sportellino della capottina, e teneva fuori la mano che stringeva un oggetto strano che non riuscivo ad identificare neppure con il binocolo. Eravamo sopra la campagna bagnata dal torrente Imagna, a poche centinaia di metri dall’abitato di S.Omobono. Arrivammo sulla verticale della Belleri, un’azienda che produceva tra l’altro componenti per l’industria aerospaziale. La mano della pilotessa-badante si aprì, cadde un oggetto di forma cilindrica luccicante, e, dopo poco, si aprì un minuscolo paracadute. Contemporaneamente sentii la sua voce alla radio che mi diceva: “Senti I-CARE, spostati a destra, che comincio a fare un po’ di spirali per riprendere quota. Over”. Non mi rimase altro che rispondere: “Ochei – over”. Piegai a destra verso il pendio e ripresi a fare quota. Ma la mia spensierata allegria era tutta finita, il mio desiderio di conquistare quote ambiziose e magari agganciare l’onda che mi avrebbe consentito di compiere magari un volo transalpino, si era offuscato. Avevo la testa piena di interrogativi ed ero distratto. Non riuscivo a comprendere la situazione, una donna pilota era già una rarità, una donna pilota badante russa o ukraina, era quantomeno unica, e l’azione di paracadutare un oggetto sopra una ditta di interesse strategico, mi faceva pensare a scenari da guerra fredda. La pilotessa-badante annunciò alla torre di aver raggiunto la quota di 750 metri, di voler virare e rientrare alla base. Anch’io feci alcune spirali positive, ma mi era venuto a mancare il gusto del volo. Per la prima volta in vita mia abbandonai una giornata forse unica nell’arco dell’anno ed iniziai a fare scelte sbagliate. Ero deconcentrato e pilotavo male, la ricerca ed il centraggio delle termiche era empirica ed imprecisa. Dopo venti minuti di pilotaggio da dilettante mi ero giocato 350 metri di quota e guarda caso mi ero ritrovato proprio nei pressi della “famigerata” ditta Belleri! Se avessi fatto ancora qualche errore Ventolino si sarebbe materializzato in “castigo” e mi sarei trovato costretto ad atterrare in emergenza proprio nel piazzale antistante l’Azienda che si presentava abbastanza ampio e completamente deserto. Non fu così, per fortuna, anche perché la Valle Imagna è notoriamente inatterrabile e dopo non pochi tentativi di aggancio di piccole termiche di bassa quota riuscii a racimolare i 200 metri necessari a poter “scollinare pelando gli alberi” tra le antenne della Roncola e impostare un “planè-tirato” per poter raggiungere l’aeroporto con un atterraggio regolare ma col “fiato corto”. Qualche minuto dopo a mia volta, annunciai per radio l’intenzione di entrare in procedura “diretta” per l’atterraggio. Dopo una ventina di minuti, lasciato l’aliante nel prato fiorito, entrai pensoso e di malumore nel bar dell’aeroclub. Anche lì fui testimone di un fatto strano.

In piedi, in mezzo alla sala, c’era il colonnello Viglietti, un colonnello dell’aeronautica che frequentava il club. Viglietti era famoso per essere stato visto raramente in divisa, ed in più sembrava che fosse l’unico pilota occidentale ad aver pilotato un Mig 23. Era una figura enigmatica che incuteva soggezione e rispetto. Girava voce che avesse rapporti con i “Servizi” del Est. Ci facemmo un cenno di saluto con la testa. La pilotessa-badante entrò dalla porta a vetri che dava sulla pista. Lei fece a Viglietti solo un cenno con il capo … gli andò incontro, lo abbracciò, lo baciò e rimase con lui qualche minuto a parlare fitto fitto seduti ad un tavolino appartato. Poi la pilotessa-badante uscì dalla porta che dava sul parcheggio. Io non sapevo che fare … far finta di niente? Chiedere spiegazioni? E a che titolo? L’imbarazzo era grande … e se il destino della nazione fosse stato nelle mie mani? Ci pensò il colonnello a risolvere la situazione: ”Claudio” mi chiamò e mi fece cenno di sedermi al tavolino, ordinò da bere, una coca per lui ed una birra per me. Mi guardò fisso negli occhi, ci fu un lungo attimo di silenzio, poi prese a parlare. Parlò solo lui, con quel tono che non ammette repliche: “Claudio, hai visto? E cosa credi di aver visto? Dì, lo sai che sono in pensione? Sì, mi hanno promosso generale e mi hanno mandato in pensione per via di un disturbo agli occhi che mi impedisce di pilotare, anche uno straccio di ULM. E lei? Tatiana? Ma tu chi credi che sia? E’ la mia colf. E’ pilota lei … sì, certo, quando c’era l’Unione Sovietica era tenente nell’esercito e pilotava aerei da ricognizione. Poi è arrivata la democrazia, l’hanno spedita al suo paese natale, in Ukraina, ed è rimasta senza lavoro. Lo sai Claudio quanti laureati abbiamo qui che lavano i pavimenti?”

Volli intervenire io: “Sì, ma l’oggetto paracadutato sulla Belleri?” Il generale, si mise a ridere, prima pian piano, poi non riuscì a trattenersi e rise di gusto. “L’oggetto paracadutato”, disse, e parlò con difficoltà a causa della risata che continuamente lo interrompeva, “l’oggetto paracadutato, è un cilindretto di cartone contenente le ceneri del mio cane … sai quel cagnetto che mi portavo sempre in volo tra le gambe? … il cane mi è morto, e Tatiana, alla quale ho fatto convertire il brevetto, si è premurata di spargerne le ceri in aria, per conto mio … la Belleri dici? Ma scusa, se è chiusa! … è chiusa da due anni!?” Alla fine il generale si alzò, dritto ed imponente come solo sanno fare i generali. “Beh Claudio, ti saluto … Tatiana mi aspetta in macchina. Comunque sei bravo … ti segnalerò al Sisde, caso mai gli serva un pilota dagli occhi lunghi …”

Ora tornavo mogio mogio tra i “terricoli” che ancora mi guardavano incuriositi. Varcavo quel cancello di confine con meno spavalderia ma con la consapevolezza che le mie ali necessitavano di acquisire la capacità di affrontare anche altri imprevisti che non si limitavano alla sola meteorologia.

*** PS: Il riferimento a persone o luoghi e marche dei velivoli è puramente casuale e sono asserviti al racconto e comunque al prossimo aliante metterò le marche: I-HOPE


Narrativa / Medio-Breve Inedito; ha partecipato alla II edizione del premio letterario “Racconti tra le nuvole”, 2013-2014; in esclusiva per “Voci di hangar”