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Tutte le voci e le recensioni del secondo concorso Racconti tra le Nuvole

Nel cielo di Cecenia

Con Andrej si erano incontrati in un campo di volo militare non distante da Mosca, lei appena sedicenne, selezionata con un numero limitato di ragazze per un corso di pilotaggio, lui pilota ed istruttore di volo, più avanti negli anni, ma non di molto. Era rimasta colpita dalla espressività del suo volto; gli occhi, scuri e profondi, non celavano la sua interiorità, consentendo a chi lo volesse, di leggervi determinazione, stupore, ilarità commozione a seconda delle circostanze. Le piacque la disinvoltura con cui portava la tuta di volo, una o due taglie più del necessario. Le stellette di tenente dell’aviazione militare russa, cucite sull’indumento, le ricordarono il padre elicotterista, abbattuto durante il conflitto in Afghanistan. L’occasione per ritrovare il suo ex istruttore di volo si verificò diversi anni dopo. Irina aveva appreso da un’amica, “stretta” collaboratrice del generale responsabile delle operazioni in territorio ceceno, che Andrej era tornato a combattere sul fronte caucasico nel nuovo conflitto contro i separatisti ceceni. Approfittò del rapporto dell’amica con il generale per ottenere l’autorizzazione a recarsi nella zona dei combattimenti. Quante volte aveva fantasticato su quell’incontro! Andrej l’avrebbe presa tra le braccia e si sarebbero amati. Andò diversamente. Lì per lì non lo riconobbe, neppure quando lo incontrò nei locali del Comando Strategico. Mio Dio, quanto era dimagrito, pensò Irina. Gli occhi di Andrei tradivano una stanchezza più interiore che fisica. Lui non l’aveva abbracciata, le era sembrato assente, l’aveva sorpresa per l’amarezza che traspariva dai suoi racconti. “Irina questa guerra non finirà mai”, le confessò appena rimasero soli, “sono stanco di uccidere e al tempo stesso di assistere ogni giorno alla morte dei miei compagni, per non parlare degli stupri e delle torture denunciate da entrambe le parti”. Lo lasciò parlare a lungo. Andrej le confidò aspetti della sua interiorità che solo ora lei era in grado di capire profondamente. Poi lui volle informarsi sulla sua carriera e le chiese la ragione della sua presenza in quel luogo insanguinato dalle ostilità in corso. Irina sentì che era venuto il momento di aprirsi ma doveva creare l’occasione per realizzare il suo sogno. Azzardò una proposta, perché le parole non dette quando si erano lasciati anni prima, erano tuttora nel suo cuore: “Andrej”, esordì con fermezza, “non esiste solo la guerra”, poi addolcendo il tono della voce aggiunse: “hai bisogno di allontanarti da queste terribili esperienze. Ho una piccola dacia sulle sponde del mare d’Azov … potremmo andarci insieme, ci faremo compagnia. Anche io desidero un po’ di riposo. Dimmi di sì!” Infine,certa che la sua amica se ne sarebbe occupata, senza dubbio con successo, concluse: “Troverò il modo di farti avere una licenza” . “Irina dici sul serio?!” “Ne dubiti capo?” disse Irina convinta. Andrej non accettò subito l’invito, la proposta lo attraeva e Irina era ormai una donna molto affascinante ma il senso del dovere gli creava problemi. A risolverli sopraggiunse la convocazione del suo comandante che lo sorprese comunicandogli che era venuto il momento di godersi qualche giorno di riposo. “Allora si va?! compagna Alessandrovna”, le disse la sera a cena dopo il colloquio con il superiore. “E’ un ordine capo?” chiese lei. “Ne dubiti?” fu la risposta di Andrej. Così erano partiti. La casa ad un piano con ampie vetrate, vicino al mare, piacque ad Andrej. Trascorsero le giornate nuotando, facendo lunghe passeggiate e leggendo romanzi la sera davanti al caminetto acceso. Nei primi giorni, la grande stanchezza accumulata da Andrej sottrasse Irina dall’imbarazzo di scegliere se dormire insieme o separati. Nessuno dei due ebbe voglia di forzare i tempi. Una volta si erano addormentati vicino alla fiamma del caminetto; un’altra, lei sull’ampio divano, lui sulla morbida pelle d’orso che copriva parte del pavimento di legno; un’altra ancora, interamente vestiti, sul letto matrimoniale, un tempo occupato dai genitori di Irina. La scoperta di provare un sentimento diverso e più intenso dell’amicizia non sorprese Andrej, più volte in passato era andato con il pensiero al suo incontro con la giovane allieva, ai voli fatti insieme e alla notte dell’addio quando lei si era stretta forte forte a lui. Una sera, dopo aver recuperato le reti che ogni tanto stendevano all’imboccatura del porticciolo nei pressi della dacia di Irina, si accorsero che un solo grosso pesce dagli occhi peduncolati era rimasto prigioniero, dovettero tagliare la rete per liberarlo, prima di metterlo in un secchio mentre si dimenava più vivo che mai. “Andrej che vuoi fare?” gli chiese. “Divorarlo Irina! è un pesce saporitissimo e raro” “Quanti anni avrà?” “Tanti Irina … ma è venuto il suo momento” “Mi sta guardando con gli occhi imploranti!” “Ma che dici?! Corri in casa e fai bollire la pentola, sarà una cena con i fiocchi!” “Sei senza cuore … lui mi ha guardata davvero …” e corse via. Dopo aver riordinato la barca, Andrej salì al loro nido. La porta della cucina era aperta, la lampada a petrolio illuminava il piccolo locale, nella stanza si diffondevano il calore e il borbottio dell’acqua che bolliva. Ed anche il profumo di Irina. “Andrej”, esordì lei a bruciapelo con aria accattivante, “saresti capace di fare l’amore con me, mentre la nostra preda agonizza nell’acqua bollente?”Non diede tempo al compagno di rispondere e prese a spogliarsi … maglione, reggiseno, i lunghi pantaloni che le aderivano al corpo come una seconda pelle, calze e mutandine caddero sul pavimento rivelando lo splendore della sua nudità. Era la prima volta che Andrej guardava il corpo di Irina senza alcun indumento, neppure quelli intimi: stupore, ammirazione ed eccitazione si succedettero in pochi istanti, depose delicatamente il secchio con il grosso pesce, sollevò Irina con entrambe le braccia, lei gli cinse il collo con le sue, un lampo le balenò negli occhi. Andrej capì che a provocarlo non era stata la soddisfazione di Irina per averla spuntata con il pesce, ma la consapevolezza di lei di averlo conquistato. “Pensi che il tuo orrido pesce occhiuto sia più impaziente di tornare nel suo elemento di quanto lo sia io di fare l’amore con te?” le chiese. “Credo che siate impazienti tutti e due, ma dei tre la più impaziente sono io”. Si amarono donandosi reciprocamente con naturalezza, senza inibizioni, senza esibizioni, né finzioni. Dopo aver fatto l’amore si addormentarono. Irina non subito e neppure Andrej; si guardarono a lungo lasciando che i loro sguardi più ancora che le parole parlassero della loro felicità. Nei giorni successivi risero tanto, ma spesso gli occhi di Irina si riempivano di lacrime e Andrej si commuoveva. Erano consapevoli che per i militari in guerra la vita poteva essere effimera, quanto non avrebbero voluto che lo fosse il loro amore. Il tempo trascorse in fretta. Il dovere li costrinse ad interrompere quel periodo magico sulle sponde del mare d’Azov. Al termine della terza settimana si presentò una pattuglia con un messaggio urgente per Andrej. “Irina non ce lo siamo mai detto in questi giorni, ma sapevamo bene che poteva accadere. Devo rientrare subito per un’importante missione in Cecenia, All’aeroporto di Rostov sul Don mi attende un aereo militare, ho appena il tempo di riempire lo zaino con i miei indumenti!” “Certo, Andrej capisco …” Irina fece uno sforzo enorme per trattenere le lacrime. Non voleva turbare ulteriormente l’uomo che ormai era parte della sua vita e aggiunse: “Ti do una mano a riporre le tue cose …”. Non avrebbe dovuto, perché ogni indumento le ricordava i momenti felici trascorsi nella dacia “Andrej non farti ammazzare, ti prego, ti prego …” gli sussurrò mentre si abbracciavano un’ultima volta sulla porta. Nell’attesa, fuori dalla dacia i militari non si erano astenuti dal fare qualche commento. “Si tratta bene il nostro bel Capitano!” “Bene è dir poco! Le fighe, più o meno, sono tutte uguali, ma questa ha davvero tanta roba dietro e davanti!” “Bravo stronzo, fatti sentire! Guarda che Lei è un ufficiale della nostra aviazione militare, e lui è stato promosso al grado superiore per meriti di guerra; parla un po’ più forte e finirai a lavare le latrine per il resto dei tuoi giorni” “Lo prendo come un augurio: meglio i cessi che finire accecato e castrato dai ceceni con i miei preziosi attributi cacciati in bocca!” All’uscita di Andrej dalla dacia i militari si precipitarono a prendere il suo bagaglio per caricarlo sulla UAZ. Irina con grande disappunto della pattuglia rimase in casa. Da dietro la finestra seguì sino a perderlo di vista il veicolo militare che a forte andatura si diresse verso l’aeroporto. In quell’istante le riaffiorò alla mente il ricordo del loro primo incontro, vivido e reale come mai le era capitato in quegli anni di attesa …

Alla presentazione del corso,il comandante dell’aeroporto si era dilungato sulle qualifiche degli istruttori ai quali lei e le altre allieve sarebbero state affidate. Si era distratta ma si riscosse quando sentì pronunciare il suo nome: “Alessandrovna, avrai come istruttore uno dei nostri più valorosi piloti militari il tenente Andrej Eltsin” Gli occhi del giovane ufficiale si erano fissati sui suoi provocandole un turbamento insospettato. Sperò ardentemente che non se ne fosse accorto … La notte precedente alla prima lezione pratica, le allieve rischiarono di trascorrere ore insonni, eccitate dalla prospettiva di volare l’indomani. Anche Irina aveva preso sonno con difficoltà, non per l’ansia di ciò che l’aspettava il giorno seguente, ma per la voglia di conservare l’immagine di Andrej nella sua mente il più a lungo possibile prima di addormentarsi. Si era svegliata che albeggiava ed era uscita dalla camerata. Si sedette sull’erba umida, al bordo di una delle piste di decollo e atterraggio, assaporando gli odori del mattino, incurante dell’umidità che dal terreno si trasferiva ai suoi indumenti; ma presto i primi raggi del sole le regalarono un piacevole tepore. Alcuni militari aprirono le grandi porte di uno degli hangars facendole scorrere rumorosamente sulle guide. Ne era uscito l’aliante su cui avrebbe volato tra breve. Era grande, tutto di metallo, sembrava impossibile che potesse mantenersi in volo in mancanza del motore. Subito dopo venne spinto all’esterno anche l’aereo destinato al traino, una macchina dalla forma molto più goffa e sproporzionata, con la cabina di pilotaggio che dava l’impressione di una gobba; sul davanti la prua tozza e rotondeggiante dell’aeromobile, contrastava con la fusoliera lunga e sottile. La voce dell’istruttore la fece sobbalzare. “Dormito bene Irina” “Mica tanto tenente” “Poco male, i piloti sono lucidi e pronti a reagire anche con qualche ora di sonno in meno, un po’ come i marinai” “Cos’altro avete in comune con i marinai?” “Gli spazi aperti, le stelle e …” “… donne in ogni porto, anzi in ogni aeroporto …” “Anche quelle, perché?!” “Le mie amiche, quasi tutte più grandi di me, mi hanno messo in guardia quando hanno saputo che il mio ragazzo era entrato nella nostra valorosa marina”. “Dunque Irina vuoi diventare pilota anche tu …” “Non sarei qui, tenente” “La mia più che una domanda era un’affermazione, Irina, se ti riesce chiamami Andrej, è il mio nome, nel caso lo avessi dimenticato dopo le presentazioni. Per cominciare voleremo su un aliante biposto. Il volo a vela è ideale per acquisire sensibilità e coordinazione sui comandi. Dopo circa sei o sette ore di pilotaggio, in doppio comando, dovresti essere pronta per il tuo decollo da sola, se hai la stoffa”. Si avvicinarono all’aliante, un modello di produzione cecoslovacca un po’ datato, tuttavia ideale per la scuola. Andrej si dilungò mostrando ad Irina le superfici di comando del velivolo, alettoni, flaps, impennaggi di coda e diruttori. Precisò che gli alettoni e gli impennaggi di coda orizzontali erano governati dalla cloche, mentre quello verticale era attivato dalla pedaliera; diruttori e flaps venivano messi in funzione tirando apposite leve. Nozioni che Irina conosceva per averle lette e studiate sul libro che si era procurata prima della partenza per la scuola di volo; ma evitò di confessarlo ad Andrej, perché le piaceva l’impegno che metteva in quei primi insegnamenti, diretti a lei e non ad altre compagne del gruppo, alle quali erano stati assegnati altri istruttori. “Toglimi una curiosità Andrej, come mai gli altri istruttori hanno tre allieve ciascuno e tu hai solo me?” “Se non ti va si può rimediare …” “Ma no, va benissimo! Figurati, se rinuncio ad avere l’istruttore personale. Piuttosto a cosa è dovuto questo trattamento privilegiato?” “Dimentichi che a tuo padre è stato riconosciuto il titolo di Eroe dell’Unione Sovietica, la più alta onorificenza militare. La propaganda dell’epoca dette molto risalto alle sue imprese durante la guerra afghana.” “Lo so Andrej nell’ultima missione salvò un elicottero stracarico di combattenti facendo da scudo con il proprio elicottero contro un missile terra aria, trasformandosi in una palla di fuoco” Irina si pentì di aver rivolto ad Andrej la domanda che l’aveva costretta a ricordare l’eroica morte del padre. Era ancora turbata a distanza di anni. Non avrebbe voluto che Andrej si accorgesse delle lacrime che le stavano colmando gli occhi ma non era riuscita a trattenerle. Le tamponò con il dorso della mano mentre scorrevano lungo le guance. Il desiderio di stringere a sé l’allieva fece irruzione prepotentemente nell’animo dell’istruttore, “Irina non sono certo che avrei fatto lo stesso” si limitò a dire. “Può darsi che mio padre avrebbe avuto le tue stesse incertezze se glielo avessero chiesto in anticipo” rispose Irina, riprendendosi dalla forte commozione in cui era sprofondata,“eppure, in quei millesimi di secondo, ha preso la decisione che più corrispondeva alla sua natura di uomo e di combattente. L’alternativa di salvarsi non deve essergli passata per la mente, benché potesse immaginare che molti dei militari da lui salvati non sarebbero sopravvissuti al termine della lunga guerra in Afganisthan.” Andrej la guardò restando a lungo in silenzio, Irina rimase impressionata, notando che gli occhi del giovane tenente rivelavano l’accettazione serena della fine, in qualunque momento si fosse verificata. Si era riscosso quasi subito: “Irina tu siedi al posto di pilotaggio anteriore, l’assistente di volo aggancerà il cavo di traino all’aliante e si porterà al terminale dell’ala sinistra, l’alzerà solo quando gli comunicherai che sei pronta per il decollo ritraendo i diruttori. Nel frattempo avrai regolato l’altimetro a quota zero, quella cioè del campo da cui stiamo per decollare, acceso la radio, controllata la tensione del cavo, abbassati i flaps e accertato che i tuoi piedi riescano a spingere a fine corsa la pedaliera. Pronta?!” “Andrej posso chiamarti capo?” “Certo!” “Allora sono pronta capo!” Irina chiuse i diruttori, sentì la sua schiena premere contro il sedile, quando il Wilga, iniziò la corsa di decollo, spinto dal potente motore. Vedendo il traino più alto rispetto a lei, Irina tirò a sé la cloche, non riuscì a portarsi alla sua stessa altezza ed iniziò a pendolare ora sopra ora sotto ed anche a sinistra e a destra, avvertendo ogni volta gli strattoni del cavo che la teneva avvinta all’aereo. “Capo, ce la sto mettendo tutta, non riesco a seguire il traino!” esclamò non senza apprensione. “Irina, non preoccuparti degli spostamenti laterali, perché se sono poco accentuati, sarà la stessa tensione del cavo ad allineare l’aliante con il traino. Se fossero eccessivi, interverrò io sulla pedaliera, tu continua con la cloche cercando di non trovarti più alta o più bassa del Wilga … è importante che quando cabri, tirando a te la cloche delicatamente, la devi subito dopo riportare al centro, altrimenti l’aliante continuerà ad alzarsi rispetto al traino; se sei più alta picchia spingendo avanti la cloche per poi richiamarla al centro, se no ti troverai più bassa rispetto all’aereo.” Il traino continuò a salire, le oscillazioni dell’aliante diminuirono, ed Irina iniziò a familiarizzarsi con le manovre. Raggiunta la quota di mille metri, Andrej comunicò al traino di proseguire in volo livellato. “Ora viene il bello Irina, tira la leva di sgancio e metti i flaps a zero” Eseguito l’ordine, Irina vide il potente aereo da traino scendere bruscamente in picchiata. Si sentì libera e a suo agio. Andrej le aveva spiegato che per virare a sinistra doveva spingere la pedaliera con il piede sinistro, accompagnando il movimento con una lieve pressione della mano sulla cloche verso sinistra. Lo stesso doveva fare virando a destra. “Ricordati di riportare sempre i comandi al centro, diversamente l’aliante si inclinerà sempre di più e noi ci troveremo capovolti in volo rovescio”. Effettuarono numerose virate sino a trovarsi alla quota di 250 metri per l’inizio della procedura di atterraggio. “In prossimità del suolo si devono evitare errori, perché a questa altezza non c’è molto tempo per rimediare. Guarda la pista! … è alla nostra sinistra, dovrai volare parallela al suo asse. Non devi essere troppo vicina lateralmente, né troppo distante; le prime volte per regolarti puoi guardare l’estremità dell’ala facendo in modo che scorra sul bordo esterno della pista; prosegui fin quando sarai scesa alla quota di centro metri, poi vira a sinistra, per allinearti con l’asse pista; a questo punto dovrai estrarre flaps e diruttori, mantieni la velocità di novanta chilometri orari, lascia che l’aliante scenda fino a lambire il terreno, effettua una leggera cabrata e il gioco è fatto!”. Nei giorni successivi i progressi dell’ allieva furono costanti e sorprendentemente rapidi. Eseguirono anche manovre acrobatiche, nel corso delle quali cielo e terra si alternavano in una avvincente mescolanza di colori;Irina prese confidenza con le sensazioni causate dalle variazioni della forza di gravità; senza peso a testa in giù nel volo rovescio, schiacciata al suo posto di pilotaggio nelle cabrate successive alle forti picchiate. Dopo cinque ore di doppio comando era pronta per il decollo. “Penso che tu ne abbia abbastanza di volare in doppio comando, perciò oggi, prima del tramonto, volerai da sola, ti traino io”, le disse Andrej. “Capo, portami sino a 1000 metri e, possibilmente, anche più in alto” gli rispose Irina. “Gli standards della scuola prevedono, per il primo decollo dell’allievo, lo sgancio a 600 metri, per te farò un’eccezione, tuttavia non fino al punto di superare la quota di 1000 metri” “Va bene, Capo” Irina si concentrò sui comandi. Era eccitata dall’idea che tra breve sarebbe stata la sola padrona dell’aliante, libera, dopo lo sgancio dal traino di manovrare come voleva, salire, scendere in picchiata, virare a destra o a sinistra. Eppure nell’effettuare i controlli pre-volo si stupì dalla propria freddezza. “Cavo teso, pronta al decollo!” comunicò ad Andrej. Il traino nella tranquilla aria serale si svolse senza problemi. “Siamo a 1000 metri sganciati!” Irina eseguì l’ordine a malincuore, avrebbe voluto salire ancora più in alto. Da quell’altezza poté osservare a perdita d’occhio i campi di grano e di erba medica alternati a vaste zone brulle. Si sentì tutt’uno con l’aliante, pilotandolo con dolcezza, quasi ad accarezzare l’aria con le lunghe ali metalliche che riflettevano i raggi rossi del sole al tramonto. Immedesimata nelle sensazioni che l’avevano completamente catturata si dimenticò dello scorrere del tempo. “Irina da Andrej!” “Ci sono, Capo” “Dove ti trovi? Ti ho persa di vista! Torna sul campo e atterra, a quest’ora il terreno restituisce il calore assorbito durante il giorno, l’aria sale, se non apri gli aerofreni per scendere finirai con l’effettuare un atterraggio notturno, cosa assolutamente da scongiurare. “ Già, il campo di volo? Irina guardò un po’ dappertutto, ma … il campo non lo vedeva più! Come era possibile? I capannoni e gli hangar della base non potevano essersi dissolti nel nulla! L’angoscia per essersi persa si impossessò di lei provocandole una morsa allo stomaco. Più ancora la tormentava l’idea di comunicare ad Andrej di essersi smarrita, dopo che lui si era assunto la responsabilità di consentirle lo sgancio a 1000 metri, oltre la quota di sicurezza stabilita per gli allievi al primo decollo. Vedeva in lontananza le luci della città dove era stata giorni prima con le compagne di corso. Gli strumenti di bordo assunsero una strana fosforescenza … non poteva aver sorvolato quel centro urbano senza accorgersene. Effettuò una virata fermando la prua dell’aliante verso le luci, la bussola segnava nord, dunque lei doveva trovarsi a sud della città. Riflettendo le alternative erano due. Se aveva superato l’area aeroportuale, la pista non poteva essere che alle sue spalle, verso sud; se non l’aveva oltrepassata, la pista era davanti a lei, verso nord. Persa per persa aveva scelto la seconda … Un attimo prima di chiedere aiuto ad Andrej riconobbe le costruzioni ai lati dell’aeroporto e individuò la lunga striscia asfaltata sulla quale avrebbe posato l’aliante. “Arrivo Capo!” Irina eseguì un atterraggio perfetto, quando ormai non le restava che il chiarore della luna ad indicarle la pista di atterraggio. L’euforia del volo, la soddisfazione di aver pilotato da sola l’aliante, furono attenuate dal timore di creare ad Andrej problemi. Non si era aspettata elogi dal suo istruttore, ma neppure la durezza con cui la trattò, appena scesa dall’aliante. “Dopo questa bravata, dubito che otterrai l’ammissione alla Scuola Superiore di Aviazione Militare! Nella sicurezza del volo la disciplina riveste un ruolo determinante, Irina”. “Hai ragione Capo. Ma, credimi, ora sono soprattutto preoccupata per te; e mi addolora l’averti deluso”. Il suo sincero stato d’animo fece presa sui sentimenti di Andrej e ne attenuò l’inflessibilità tipica dei militari. Nella relazione di fine corso, l’istruttore evidenziò l’abilità non comune dimostrata dall’allieva nel pilotaggio e ne caldeggiò l’avvio alla carriera nella aviazione militare. La sera successiva all’atterraggio notturno, durante la festa di fine corso, Irina si incamminò tutta sola verso la pista degli aerei. Non era stato facile allontanarsi perché molti giovani piloti militari si erano avvicendati per invitarla a ballare o per offrirle da bere. I più audaci non avevano esitato a proporle con frasi allusive una passeggiata notturna, ma i suoi occhi non avevano lasciato un solo istante Andrej. Vedendolo allontanarsi avvertì una morsa allo stomaco. Se ne andava senza neppure rivolgerle un saluto! Si accorse che una delle allieve si era assentata dalla festa quasi contemporaneamente. Si sentì gelosa e stupida allo stesso tempo. Non sarebbe rimasta un solo minuto di più! Invece Andrej la sorprese comparendo all’improvviso. Un attimo prima era nei suoi pensieri, ora le stava davanti con quel suo sguardo intenso. Il cuore prese a batterle come non le era mai accaduto. “Irina ti ho spaventata?” senza darle il tempo di risponderle proseguì “devo partire questa notte stessa. In Cecenia è scoppiato un conflitto. Domani la notizia sarà di dominio pubblico”. “Come farò senza il mio istruttore?!” mentre pronunciava la frase, Irina si sforzò di esprimere con parole appropriate ciò che sentiva realmente, ma non le trovò, prevalse in lei il timore di apparire come la solita studentessa infatuata del suo professore. Del resto non era neppure sicura che Andrej ricambiasse il suo sentimento. “Ormai non ne hai più bisogno … hai imparato a volare da sola” le rispose Andrej. Gli si avvicinò spinta da un impulso al quale non tentò neppure di resistere, sperando che lui la stringesse a sé. Non rimase delusa, Andrej la prese tra le braccia e le accarezzò i lunghi capelli. “Ciao pilota.” le sussurrò. In quegli istanti Irina si sentì donna, la sua donna, non la ragazzina di qualche mese prima. Poi Andrej si sciolse dall’abbraccio e scomparve nella notte …

La UAZ sollevò grandi nugoli di polvere che le nascosero, diluendola nelle lacrime, l’immagine dell’uomo. Ebbe un presentimento che la sconvolse: Andrej non l’avrebbe più tenuta tra le braccia. Un mese dopo, l’amica, collaboratrice del comandante delle forze anti sommossa, le comunicò, con la voce rotta dall’emozione, che Andrej era caduto nel corso di un’azione bellica. Irina seppe solo in seguito che, finite le munizioni, il pilota del caccia abbattuto, poi identificato in Andrej, aveva intenzionalmente intercettato un missile che stava per abbattere un aereo da trasporto truppe, pieno di militari. Come il padre di lei … ma nel cielo della Cecenia.


Narrativa / Medio-Breve Inedito; ha partecipato alla II edizione del premio letterario “Racconti tra le nuvole”, 2013-2014; in esclusiva per “Voci di hangar”

 

Tre ragazzini e un aereo

Negli ambienti aeronautici si dicono tante cose. Alcune sono cose serie, importanti, anche vitali. Altre sono spesso le solite chiacchiere, racconti dei propri voli, delle proprie o altrui prodezze, pettegolezzi, ma anche dei semplici luoghi comuni. E di questi ce ne sono moltissimi. Fanno parte della vita di tutti i giorni, dilagano per gli hangar, nei piazzali, negli uffici, fanno parte del brusio emesso da gruppetti di piloti riuniti qua e là per i campi di volo. Un luogo comune molto in voga suggerisce che la passione per il volo sia una sorta di “virus che si contrae negli aeroporti”. Molte persone che volano oggi (non solo piloti, ma anche specialisti, controllori, paracadutisti ecc), raccontano di quando erano piccoli e venivano accompagnati dal padre o da un altro membro della famiglia, ad osservare gli aerei nel vicino aeroporto. E lì restavano per ore, aggrappati alla rete di recinzione, a vedere decolli ed atterraggi, sognando di diventare, un giorno, un pilota. Altri ricordano di aver volato, da ragazzini, con qualcuno che aveva il brevetto e magari avevano potuto tenere i comandi per qualche minuto. Certo, per un ragazzino deve essere un’esperienza esaltante mettere le mani sul volantino di un aereo e vedere che questo obbedisce ai suoi comandi. Oppure muovere la manetta del gas e sentire il motore che cambia rumore. In verità non è detto che chi vola da piccolo o osserva le operazioni di volo di un aeroporto poi da grande diventi un pilota. Può succedere, ma non è una regola e neanche una garanzia. Diciamo che spesso è così, ma non sempre. Nel mio caso è stato un aereo tipo “cicogna”, monomotore ad ala alta, che è passato sopra la mia testa mentre giocavo sulla piazzetta davanti casa, a farmi scattare la molla. Quella visione mi ha segnato. Avevo forse quattro anni. Se chiedi a tanti piloti come sono arrivati alla passione per il volo ottieni tante risposte diverse, qualcuno ti dirà perfino che ci è arrivato per caso, senza neanche averlo desiderato. Ma tutti sembrano essere stati contagiati dal virus della passione per il volo, all’improvviso, in un momento della loro vita. Da piccoli, ma anche da grandi. Qualcuno si è “ammalato” in età ben avanzata. Nei miei decenni di attività aeronautica ho assistito parecchie volte, di persona, al contagio. Ecco qualche esempio emblematico.

Un mio amico aveva un bel Piper, un PA 24, potente e veloce, con quattro comodi posti. Abbiamo fatto dei bei voli insieme, tanti anni fa. Molte avventure che ogni tanto ricordiamo volentieri, quando ci incontriamo nei vari aeroporti, dalle nostre parti. Uno dei suoi figli veniva spesso con noi. Di solito non faceva una piega, restando tranquillamente seduto dietro, sprofondato sul sedile tanto grande per lui che aveva sei anni e a malapena riusciva a vedere fuori. Durante un volo, una volta, ma solo una, si sporse in avanti, toccò la spalla del padre e gli disse: “papà, ma quando atterriamo”? Si era annoiato, sotto di noi scorreva una campagna piatta, coperta di neve, bellissima per noi, ma per lui era forse un tantino monotona. Quel ragazzino è cresciuto, ha frequentato l’Accademia dell’Aeronautica, è diventato un ufficiale pilota, poi ha fatto l’istruttore e oggi pilota un Boeing in giro per il mondo. In quei voli deve essersi “contagiato” e non è ancora guarito.

Un altro caso riguarda il “contagio” di un signore che aveva da poco superato i sessant’anni, a dimostrazione che questo virus non risparmia proprio nessuno. Se deve colpire colpisce, senza riguardi per l’età anagrafica. Era un amico di mio padre, sapeva che volavo con gli aeroplanetti a elica e in aliante. Sapeva anche dove, così chiese a mio padre di organizzare un incontro perché voleva che lo invitassi a volare con me. Naturalmente lo accontentai, ben lieto di fargli fare questa splendida esperienza. Venne all’aviosuperficie, gli mostrai i nostri mezzi, gli spiegai tutto quello che doveva sapere sulle operazioni di volo alle quali avrebbe di lì a poco partecipato e poi andammo in volo in aliante. Ero un po’ preoccupato per lui, non volevo che si spaventasse, così durante la salita presi ad illustrargli ogni cosa, avvisandolo prima dello sgancio dall’aereo trainatore. Una volta in volo, dal momento che sembrava tranquillo, gli feci provare i comandi. Fece qualche virata, guardandosi intorno. Altro che spaventarsi, era letteralmente estasiato. Gli piaceva e dimostrava tutta la sua felicità di essere in aria con commenti di apprezzamento. Prima del rientro, mentre ci avvicinavamo al campo per entrare in circuito, mi disse che era stato un volo bellissimo, aggiungendo alla fine, varie volte, la parola “peccato!” come ad esprimere un triste rimpianto. “Peccato di cosa?” gli chiesi. Lui esitò a rispondere, poi disse, mestamente: “Peccato per i miei sessant’anni”. A terra parlammo e gli assicurai che anche a sessant’anni si può incominciare a volare, se davvero si è sostenuti da genuina passione. Passò del tempo, non so quanto. Ma un giorno mio padre mi disse che quel signore aveva sorvolato la nostra casa pilotando un deltaplano a motore e lo aveva salutato agitando il braccio nel vento. C’era un campo di volo ad una trentina di chilometri di distanza dove quel signore aveva fatto un corso di delta-motore. Poi si era comprato un mezzo suo e volava spesso anche sopra casa dei miei, mentre andava a fare un giro sopra il suo paese poco distante. Credo che avesse contratto il virus del volo durante la sua visita all’aviosuperficie, quel giorno.

Questi due episodi riguardano un bambino ed un adulto e sono rappresentativi del fatto che l’età non conta. I miei colleghi di lavoro, controllori del traffico aereo come me, sapevano della mia attività di istruttore. Uno venne a Guidonia con il figlio affinché lo facessi volare. Era un giorno di vento forte. A terra lasciai passare qualche ora e intanto spiegai diverse cose al ragazzo, sperando che il vento, nel frattempo, calasse. Non volevo correre il rischio che una volta in volo si spaventasse per la turbolenza dell’aria. Alla fine dissi che era meglio rinunciare e volare un altro giorno perché il vento era ancora troppo forte ma il ragazzo, e anche il padre, insistettero. Così andammo ugualmente. Fu un volo molto agitato. Il vento rinforzò e la turbolenza pure. Si saliva alla grande e feci un po’ di quota per allontanarmi dal suolo, nella speranza che il vento fosse più teso, meno influenzato dai rilievi sottostanti che provocavano l’agitazione dell’aria. Infatti fu così, ma quando scendemmo trovammo raffiche continue fino a pochi metri dalla pista. Pensavo di aver fatto un bel danno, già era stato un miracolo che il figlio del mio collega non si fosse sentito male. Lui sembrava godersela un mondo, ma si sa, all’inizio i passeggeri fanno così e poi ammutoliscono di colpo e … dopo un poco è fatta: stanno male. Al parcheggio il ragazzo era estasiato. Disse che gli era piaciuto un sacco. Peccato che non avessimo fatto anche un po’ di capriole. Oggi è pilota di linea e quando incontro il padre mi porta i suoi saluti e parliamo ancora di quel giorno. Giorno di “contagio”.

Anche un altro collega venne con suo figlio, a Rieti, per farlo volare con me, nella speranza che prendesse la passione per il volo. La prese. Negli anni successivi andò negli Stati Uniti a conseguire le licenze e oggi anche lui è pilota di linea. Alle riunioni dell’associazione Arma Aeronautica, dove ci incontriamo qualche volta all’anno, suo padre mi viene vicino, telefona al figlio e mi passa il telefono. Così lo saluto e spesso ricordiamo quel primo volo di Rieti.

Ma devo anche dire che alcuni sono, o sembrano, immuni dal “virus degli aeroporti”. Avevo portato un nipotino durante il traino di un aliante con un Robin sperando che un giorno diventasse un pilota. Gli piacque molto, ma oggi ha diciassette anni e tutto pensa tranne al volo. Lui vuole fare l’avvocato, come sua madre. E forse è anche una buona idea. Suo fratello più piccolo ha potuto volare con me su un aereo e provare i comandi. Entusiasta. Gli avevo scattato delle foto mentre teneva la cloche e la manetta del gas. Per il momento credo che abbia usato quelle immagini soltanto per impressionare i suoi amici e le sue compagne di scuola. Se il “virus degli aeroporti” lo ha contagiato, ancora non se ne vedono i segni. Ma ancora non è detta l’ultima parola. Potrebbe essere semplicemente un portatore sano, suscettibile di iscriversi a qualche aero-club tra breve, oppure di fare domanda per uno dei corpi militari che hanno un’aviazione, subito dopo aver conseguito il diploma.

Se la leggenda del “virus degli aeroporti” è vera, allora è probabile che il contagio debba necessariamente avvenire per caso. In altre parole, non può essere provocato. Infatti, mi viene alla mente che, tanti anni fa, avevo portato in volo una mia nipotina, nella speranza di averla come mia allieva alcuni anni più tardi. Ma non è andata così. Oggi mia nipote si occupa di cose che non hanno nulla a che fare con il mondo aeronautico. Lei preferisce occuparsi di arte, ma quella classica, non certo l’arte del volo.

Avrei tanti altri aneddoti da raccontare, e mentre scrivo di uno me ne vengono alla mente di nuovi. Potrei riempire pagine e pagine. Ma ne aggiungerò solo un altro, perché anche questo è emblematico e da quando è successo non me lo sono più dimenticato. Ancora oggi ci penso, ogni tanto. Un giorno all’aviosuperficie venne un signore con tre ragazzini. Due erano suoi nipoti e uno era un loro amichetto, tutti di età compresa tra i sette e i dieci anni. Il nonno si avvicinò e chiese informazioni, ma i tre ragazzini avevano già le idee ben chiare: volevano volare. Qualcuno mi chiamò per fare quel volo. Il nonno sarebbe rimasto a terra e avrei portato in aereo solo i tre piccoli. Uno dei nipotini salì davanti. Il fratellino e l’amichetto salirono dietro. Spiegai loro tutto, perché sapessero cosa stava succedendo e stessero più a loro agio. A quello davanti feci tenere la manina sulla cloche perché, come gli dissi, al momento opportuno l’avremmo tirata un po’ indietro per far staccare le ruote da terra. In volo, addirittura, feci fare qualche virata a lui, mettendo le mie mani ben lontane dalla cloche per fargli vedere che era proprio lui a far muovere l’aereo. E perché lo vedessero anche i due che stavano dietro. Dieci minuti, poi tornammo a terra. I ragazzi scesero felici e andarono dal nonno. Ma il fratellino che era stato dietro e aveva visto quello davanti pilotare l’aereo piantò subito una grana al nonno perché anche lui voleva stare davanti e provare i comandi. Il nonno fece resistenza. Forse non voleva pagare un altro volo, in fondo avevano già volato. Ma il nipotino cominciò a piangere disperato. Il nonno provò a portare via i ragazzi, ma non ce la fece. Dovette tornare indietro, pagò un altro volo e si ripeté la storia di prima. Stavolta con l’altro fratellino “ai comandi”. Tornammo a terra e scendemmo dall’aereo. I fratellini erano soddisfatti e si scambiavano animati commenti su come si era mosso l’aereo pilotato da loro. Il nonno ringraziò e si avviò verso la macchina. A questo punto, l’amichetto che aveva volato due volte, ma era stato sempre dietro, cominciò a protestare. Anche lui voleva stare davanti. Il nonno, che non era suo nonno, stavolta non cedette. Il ragazzino pianse e puntò i piedi. Voleva volare anche lui davanti a tutti i costi. Non voleva andare via. Ma dovette andare. Ho ancora l’immagine di lui che piange disperato mentre entra nell’automobile. Andarono via, ma il suo pianto si sentiva ancora attraverso i finestrini aperti mentre si allontanavano. Non so chi fosse quel nonno e non conoscevo i ragazzini. Nei giorni successivi non tornarono più all’aviosuperficie. Chissà cosa hanno fatto da allora in tutti questi anni. Ma ricordo che quel giorno, mentre se ne andavano, provavo pena per il piccolo che aveva volato sempre dietro. Lui non era stato protagonista. Aveva osservato gli altri due volare da protagonisti e forse, nei giorni successivi, a scuola, avrà dovuto sentirli raccontare le loro avventure senza poter fare altrettanto. Anzi, nella crudeltà tipica di quell’età, chissà che non lo abbiano addirittura preso in giro davanti ai compagni, rimarcando impietosi che lui non aveva mai toccato i comandi. Chissà. Certamente quel giorno si era consumata una brutale ingiustizia. Mentre sentivo senza poterci fare niente quel pianto accorato pensai: “Quello da grande farà il pilota”. Se qualcuno quel giorno doveva contrarre la malattia del volo, era lui. Non saprò mai se è andata così, ma forse oggi, in qualche aereo che sento passare nel cielo, ci potrebbe essere un adulto che tanti anni fa, da piccolo, rimase contagiato dal virus del volo, non per aver volato, ma per non aver potuto sedere nel posto anteriore di un aereo.


Narrativa / Breve Inedito; ha partecipato alla II edizione del premio letterario “Racconti tra le nuvole”, 2013-2014; in esclusiva per “Voci di hangar”


Evandro Detti

 

Il maestro e la ballerina

Dal mio piccolo aereo di stelle io ne vedo e seguo i loro segnali (..) la voglio fare tutta questa strada fino al punto esatto in cui si spegne Difficile non è partire contro il vento ma casomai senza un saluto.

(Ivano Fossati – “Lindberg”)

L’uomo si sedette su un sasso. Sollevò il piede destro appoggiando il tallone sul ginocchio sinistro. Con un gesto distratto tirò via il calzino e rimase a guardarsi il piede nudo arrossato e gonfio. Poi girò la testa sul collo e dette uno sguardo alla campagna intorno: risaie, pioppi impolverati, anche tanto mais e vacche che si cacciavano le mosche con la coda. Un orizzonte piatto e afoso. Non vedeva un villaggio da almeno tre giorni. Che avesse sbagliato strada?

Proprio quando pensava di essersi perso, sul fondo all’orizzonte vide una nuvola gialla che turbinava su se stessa. Guardò meglio e gli parve di scorgere una carrozza nera che veniva tirata da due, forse quattro cavalli che però si vedevano male, quasi fossero dello stesso colore della polvere … Doveva muoversi da quel sasso se non voleva diventare come una statua di sale e si accinse a rimettere velocemente il piede nella scarpa. Ma prima che avesse il tempo di infilare il calzino fu investito da un vortice di terra mista a sabbia che quasi lo soffocò. Come poteva una carrozza, per quanto tirata da cavalli galoppanti, correre così tanto? Cercò di vedere al di là della polvere e capì che in verità si trattava di una vettura a motore. Era la prima automobile che vedeva in vita sua. Ne aveva ammirate parecchie sulle pagine dei giornali, ma mai gli era capitato di incontrarne una vera, dal vivo. Accidenti che corsa! disse fra sé.

Ma non era finita. La polvere, che aveva appena finito di dissolversi, per la sgommata finale stava tornando ad avvolgerlo, penetrandogli con prepotenza negli occhi, nel naso. Il rumore del motore si era rifatto vicino e palpitante. Chiuse la bocca e serrò le palpebre per proteggersi. Quando le riaprì, vide i parafanghi di una macchina enorme, scoperta, lucida e nera che borbottava come una pentola che bolle. Affacciata al finestrino, con un braccio appoggiato ad angolo, vide una donna che sorrideva. Non sentì cosa gli chiedesse quella voce, ma il suo sguardo si fissò sul minuscolo orologio d’oro che riconobbe immediatamente come qualcosa di conosciuto. Ma dove l’aveva visto e quando? Non riusciva a ricordare. Rimase lì imbambolato mentre la donna, con voce un poco impaziente, gli ripeteva la domanda.

“Allora, andiamo?” – lo disse col suo accento strano, che poi avrebbe capito, compreso, e portato sotto pelle. Ma non in quell’istante. In quell’attimo gli parve una inflessione vagamente sconosciuta, non priva peraltro di magia. Ma poi: dove mai voleva mai andare? A dire il vero non sapeva chi lei fosse, o forse intimamente lo sapeva ma non lo ricordava in quel frangente. Colpa magari dei piedi gonfi o dell’attenzione che stava prestando al calzino per evitare si vedesse che era bucato: sarebbe stato un cattivo (secondo?) esordio verso la ragazza, e non lo avrebbe sopportato, lui per primo; figurarsi lei che era perfettamente in pandant su quel bolide con un giubbino di pelle nero e la sciarpa svolazzante. Se lo diceva sempre tra sé e sé ogni lunedi mattina: bisognerebbe fare pulizia sulla scrivania, almeno ogni tanto. Bisognerebbe mettere ordine. E’ un buon modo di cominciare la settimana. Anche se magari si prende in mano un foglio che avevamo messo da parte con tanta cura e, questo foglio, davvero, non ci ricordiamo più perché era importante. A volte invece si decide di passare oltre e di non mettere a posto la scrivania, pur sapendo che c’è qualcosa da cercare e che ti magari cambierebbe la vita. Quel foglio rimane sepolto e nulla di particolare accade. Non era mai stato un ordinato. Lui. Dunque tenne quel pezzo di carta per anni. Un foglietto sdrucito che lo riportava a lei. Che l’aveva portata lì. Per cui non si fece domande e salì sul bolide.

Era passata da non molto la fine della guerra. E di automobili in giro se ne vedevano veramente poche, ancora meno nelle campagne dove era vissuto. Come aveva fatto ad averla? E poi un modello così lussuoso … Chissà, forse suo padre era uno degli industriali che a cavallo del secolo si erano arricchiti con la nuova industria legata ai motori; una vera esplosione in meno di dieci anni: nel 1896 la fondazione della Ford e della Renault, nel 1899 la Fiat, nel 1900 la Daimler-Benz e nel 1906 la Alfa Romeo. Di sicuro, da come guidava con portentosa maestria quella carrozza mossa a propulsione liquida, garrivano nel suo cuore i geni di quel Cugnot che nel 1770 inventò il primo veicolo semovente a tre ruote con motrice a vapore, o di quel Marcus che più di sessant’anni prima aveva concepito il primo motore a scoppio.

A causa di tutta questa favola che si era costruito in pochi secondi – ma che già gli pareva assodata – Lei gli appariva qualcosa di illusorio, originario, mai guardato prima. Era diversa da come la ricordava, se i ricordi per caso lo avessero aiutato.

Se possibile ancora più bella vestita da pilota, secondo uno stile sensuale e androgino, dove i capi del guardaroba maschile erano resi iper-femminili attraverso piccoli dettagli. Camicia bianca da uomo, cintura in pelle sempre ben in vista su pantaloni attillati, perfetti se infilati un paio di stivali o anche se lasciati lunghi con un paio di stringate. I piedi non riusciva a vederli, ma un distintivo azzurro e nero da club esclusivo spiccava sul petto.

Arrivarono in mezzo ad un prato. Uno dei pochi non messi a coltura e senza fango. Davanti a loro c’era un aeroplano. Anzi l’aeroplano per eccellenza: un Caudron G3. Lei e la macchina apparivano un insieme del tutto indivisibile, neanche Lei fosse un accessorio magnifico nato nell’officina dell’azienda francese Société des avions Caudron per imbellettare oltre misura l’acciaio e gli interni in pelle avorio. Prese il volo … e io con lei. Il maestro di musica e la ballerina: che coppia surreale.

Dall’alto pareva l’America. Non che l’avessi mai vista ma me la aspettavo così. Invece era il Polesine, in verità l’ultima sua propaggine verso l’interno, dalla parte opposta del delta. Ancora da bonificare del tutto da parte del regime, e quindi ancora denso e grasso di miasmi da Missisippi di provincia. Peraltro l’unico posto, probabilmente, dove per giorni si poteva vagare a piedi senza incontrare traccia di una urbanizzazione qualunque. E anche lei sapeva di America, ma diversamente, come latitudine: profumava di Argentina, di Rio de la Plata. Era nata su una nave. Come da tradizione si potrebbe dire: i messicani discendono dagli Aztechi, i peruviani dagli Incas e gli argentini dalle navi. I suoi genitori erano stati emigranti di fine ottocento, nella ondata composta prevalentemente da genti del nord Italia, soprattutto veneti e liguri. Era dunque argentina per vincolo di sangue. E come tutti gli argentini di origine italiana era anche lei una tanos. E, come tutti i tanos, lei non era mai riuscita a imparare lo spagnolo, ma aveva in bocca il lunfardo, quel misto di italiano e spagnolo che si parlava nei sobborghi di Buenos Aires. Una lingua usata nelle liriche dei tangos. Un idioma pericoloso. Meticcio. Un codice dai contorni mutevoli e biechi, che riprendeva molti termini di derivazione italiana, deviandoli però – in alcuni casi pesantemente – di significato.

Ugualmente mutevoli, e sottoposte al gioco sadico di una lingua di confine, apparivano le prospettive del nostro viaggio. L’essere in volo per la prima volta, e l’impossibilità oramai di scendere a terra, mi costringevano ad una sensazione assolutamente nuova e che nulla aveva in comune con la realtà tradizionalmente costituita dalle prospettive terrestri. In definitiva: dovevo arrendermi a Lei e alle nuvole, senza nessun punto fermo se non la stessa mobilità perenne. Una bolla di vento in cui l’occhio non può che osservare e dipingere partecipando alla loro stessa velocità, e imponendosi dunque un disprezzo profondo per il dettaglio e una necessità di sintetizzare e trasfigurare tutto.

Tutte le parti del paesaggio apparivano in volo come appena cadute dal cielo, accentuando i loro caratteri di eleganza e grandiosità, come se l’aeroplano sostituisse la mano del pittore che muove il pennello, o la bacchetta del maestro che dirige la sinfonia. Il tutto perde un centro e assume una plasticità assurda, quasi spirituale. L’aeroplano creava un’ideale osservatorio ipersensibile appeso dovunque nell’infinito, dove è la coscienza stessa del moto che muta il valore e il ritmo dei minuti e dei secondi. Così, dopo l’iniziale titubanza, mi sembrava di essere in volo da una vita.

Dopo essere rimasta in silenzio per tutto il decollo, arrivata in quota attorno ai quattromila lei mi si girò contro e, puntandomi dentro le pupille nero pece, mi disse: “Guardami”. Anzi: Guarda Me. Voleva andare fino a Roma. Non aveva paura di avvicinarsi troppo al sole, né di bruciarsi le ali. D’un tratto mi fu nitidamente chiaro in che storia ero ed ero stato, e mi ricordai di tutto. Così non smisi per tutto il viaggio di guardarla parlando il minimo indispensabile per respirare, e non smisi nemmeno per un frammento di tempo di vedere attraverso lei tutto quello che passava intorno, e sotto. Vuotammo quasi tutto il serbatoio, con andatura da milonga. Un ritmo fortemente cadenzato, una melodia non uniforme. Più spinta e meno spinta. Accelerazione e decelerazione alternate. Titubanza reiterata. Struggente. Violenta. Da bandoneon. Coacervo di tutte la passioni possibili dell’animo umano.

Erano le mie strade, di me e della mia infanzia, ma giunti a questo punto le riconoscevo solo attraverso Lei: che le illuminava e le rivelava dall’alto. Ora, grazie al volo, potevo dire di conoscerle veramente. Davvero. Riconobbi così ad un tratto da lontano anche una strada sgombra. Quelle strade di campagna larghe, con muri lunghi che tornavano utili per i rimbalzi. Trenta, quaranta metri liberi che delimitavano il “campo”, all’interno dei quali da bambino marcavo le porte. Così si segnava il gol: occorreva mira e piede buono. Giocavo per ore e ore, sino allo sfinimento: spesso il pallone finiva lontano, e chi sbagliava a tirare doveva rincorrere la palla, difenderla dai cani, e recuperarla. Ogni caduta, figliastra perenne e implacabile dei contrasti più accesi a centrocampo, scorticava la pelle. Ma le sbucciature erano come trofei: il ginocchio era quasi sempre una crosta che non si rimarginava mai. Li ricordavo come meravigliosi anni senza pretese. Nonostante le cicatrici alle ginocchia. O forse proprio per quelle.

L’atterraggio avvenne a pochi metri dalla casa dove ero nato. Forse si può dire che il desiderio umano è cercare di recuperare il passato, e fare un futuro di ciò che ci manca. E la memoria dell’amore è la genesi di tutto. Lei lo capiva, da emigrante di ritorno quale era, e per questo aveva deciso di atterrare lì. E non a Roma. Roma era solo l’espediente per farmi paura, e per vedere se avessi il coraggio di seguirla ancora, dopo tanto tempo.

Mi accorsi finalmente che l’orologio che portava era quello che le avevo regalato: non poteva essere casuale. Come non poteva essere una coincidenza che mi avesse trovato sul ciglio di quella strada sperduta. Evidentemente mi aveva cercato. Appositamente. Per riallacciare il filo di quel tempo indietro che le lancette avevano aggredito senza però cancellare. Un amore che mi accorsi in volo sapevo cantare a memoria, come le partiture che eseguivo a occhi chiusi. Emozionante come il primo minuto che viene dopo una guerra, quando per quattro soldi la musica suona di nuovo. Una musica dolce e lontana. Come il primo addio.

Mi ricordai allora anche che avevo continuato a cercarla per tutti gli anni. Tutti i santi giorni. Per lettera ma anche col telefono, ove e quando ce n’era la possibilità; però al recapito non rispondeva mai nessuno. Forse quel numero scritto in fretta su un pezzo di carta da pane con una matita di poca punta era sbagliato. Ma non mi arresi, causa la testa dura dell’amore, così ogni giorno feci una telefonata: ogni volta un numero diverso combinando le cifre singole ormai sbiadite e alla fine la trovai. Si era sposata, con un ricco latifondista. Ecco il perché dell’auto roboante da moglie di villano arricchito, da parvenu. E pure l’aeroplano le aveva regalato …

Appena scesi, proprio davanti all’elica, mi chiese di ballare con lei. Era quasi sera, lei aveva gli stivali e io scarpe luride col pollice che batteva in punta. Seppur tragicamente inesatti rispetto ai manuali, e senza musica a guidarci, fu il più bel tango della mia vita. Anzi, lo fu forse proprio per quella imperfezione. Il segreto del tango sta in quell’istante di improvvisazione che si crea tra passo e passo, che rende possibile ballare il silenzio. Una complicità totale e maliziosa, intuitiva ed istintiva. Una intimità senza parole, molto più profonda del semplice contatto fisico. Avvitati insieme e divisi, con una sorprendente sincronia carica di tensione e languore. Di prepotenza e morbidezza.

Non c’è possibilità di errore nel tango, non è come la vita. Per questo il tango è così bello: commetti uno sbaglio, ma non è mai irreparabile, e seguiti a ballare. Così, mentre ballavamo, imparammo a ballare insieme, dipingendo in pochi minuti rapinosi una comune porzione di felicità: l’intesa fugace e irripetibile della coppia ideale, stretta in una ambigua e contraddittoria volontà di possesso temporaneo.

Anche lei aveva voluto ritrovarmi. Non per dirmi “ti amo”. Ma per dirmi bene “addio”, come non era riuscita a fare dieci anni prima. In Argentina.

Mentre se ne andava mi urlò: “Guarda me” in lunfardo significa “stai attento a me” e non: “guardami”!

Non l’avevo capito allora, in Argentina. E nemmeno oggi. Per questo il mio cuore abbandonato ai lati dell’incrocio al termine di quell’ultima notte aveva adesso la faccia del mio calzino. Bucato. E inutile.


§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§ # proprietà letteraria riservata #


Emanuele Finardi

Preghiera di un uomo che cade tra le nuvole

Dio mio, perdonami … Perdonami se ho osato più di quanto avrei potuto, più di quanto avrei voluto … Ho deciso di prendermi un secondo per parlarti, penso che sarà l’ultima volta, son quasi certo … Sto morendo, Dio mio, o meglio stavo già morendo prima di essere qui ora, a parlare con te … Qualcuno potrebbe dire che stavo morendo sin da quando son nato, morendo lentamente magari, ma non sono filosofo e non ho il tempo per diventarlo … Il cancro mi ha prosciugato, mi ha portato via tutta la forza che avevo. La prima volta che l’ho visto, il cancro, dico, era solo una macchiolina su una lastra luminosa. Pensai che non fosse nulla, che sarebbe passato in un colpo di tosse. Invece quello era un seme: nei miei polmoni è germogliato, e presto è diventato una piantina, e poi un fiore e alla fine mi aveva preso tutto, polmoni, sangue, carne e bile. Io e il cancro siamo diventati un’unica cosa, io e quel fiore, e ho capito che presto sarei appassito insieme a lui … Ho iniziato a vivere la vita che avevo, a non lasciarla scivolare via tra le dita, ma a prendere tutta la vita che c’è. Prenderla con forza, afferrarla con la rabbia di chi ha fame, con l’avidità di chi ha sete. Ho viaggiato, ho fatto surf, ho fatto sub, e poi trekking, campeggio, arrampicata … La gente mi guardava con occhi perplessi cercare di spremere sempre di più da quel tempo che avevo ormai quasi per caso … Sono andato oltre il tempo che mi avevano pronosticato i dottori, sono già fortunato, direbbe qualcuno, ma non sono così pazzo da pensarlo davvero … So solo che volevo di più, e se non potevo vivere come volevo, almeno volevo morire come volevo … Per questo mi trovo qui adesso, tra le nuvole, a parlare con te … Sono appena saltato da un aereo in quota, intorno a me sento le urla dei miei compagni. Qualcuno ha già aperto il paracadute, quelli più cauti. I più spavaldi aspetteranno ancora, per gustarsi meglio l’adrenalina. Non sanno che io non l’aprirò mai, quel paracadute. Io me lo gusterò fino in fondo quel brivido, me lo sentirò scorrere dentro prima di chiudere gli occhi per sempre. Ho deciso di morire qui, dove ho sempre voluto essere, nel cielo, non sulla terra. Tutti i morti stanno sottoterra, io immagino di essere sepolto qui, sotto banchi di nuvole chiare, un intero camposanto che piange per me. Il cielo mi ha sempre ispirato, fosse stato per me sarei diventato un pilota. Ma la verità è che non mi sarebbe bastato stare rinchiuso in un aeroplano: era questo che volevo, tuffarmi nel cielo come ci si tuffa nel mare, perdermi in questo orizzonte sempre nuovo e sempre uguale, sentire il sapore freddo delle nuvole sulle labbra e la pioggia confondersi con le lacrime. Non c’è bisogno che te lo dica io, Signore, che spettacolo è tutto questo visto da qui … Io e te non parliamo spesso, ma ho sempre invidiato la casa che ti sei scelto: panorama davvero eccellente .. Sto attraversando il banco più fitto ora, mi tuffo in un mare bianco, un vortice di panna, il freddo pungente entra nelle ossa, l’acqua mi inzuppa i vestiti. Chissà se sentirò freddo quando questo sarà tutto finito … Dio mio, ah, se ne è valsa la pena: guarda adesso che luce, il mondo che si schiude in un abbraccio leggero, e il mare che brilla sotto l’orizzonte. Così deve essere vivere come un uccello, ah Signore se mi avessi fatto uccello … Dio santo, se mi avessi fatto nuvola o vento o goccia di pioggia … Ora non avrei così paura, ora non vorrei che finisse … Una goccia di pioggia che cade da una nuvola non ha paura, si gode lo spettacolo del mondo, la sua vita dura meno di niente e non si lamenta … Signore dammi la forza, perché di fronte a tanta bellezza vorrei che tutto questo non finisse mai … Non so perché ti parlo Dio mio, quasi volessi chiederti di salvarmi quando io son venuto qui a morire … No, non è così: son venuto qui a volare! In fondo ti parlo per tenermi compagnia, per non essere solo proprio ora … Tra le nuvole di certo non trovi compagnia, non c’è con chi parlare, la pace qui fa quasi paura … Non è che mi aspetti una risposta, intendiamoci, né un segno o altro … La mia scelta l’ho fatta, è qui che finisce, tra meno di niente … Vedo la terra che si avvicina, mi accorgo solo ora di quanto sono in alto. Sembrava quasi un sogno visto da lassù, come se non dovessi mai smettere di cadere … Non so quanto sia passato da quando ho lasciato l’aereo, forse neanche un minuto, e mi sembra passata una vita, forse perché una vita sta per passare … I miei compagni devono aver capito che il mio paracadute non si aprirà, forse penseranno a un incidente, qualcuno penserà a un suicidio … Non sanno che il mio tempo era già finito prima di saltare, prima di volare. Loro possono ancora restare in cielo, possono ancora godersi quel panorama, quel cielo splendente, possono ancora riempirsi d’aria i polmoni e inspirare dentro tutto il mondo … Nei miei polmoni di spazio non ce n’è, e il mio volo ormai è finito. E’ stato bello, Signore, parlarti. Non che mi aspetti che tu fossi lì ad ascoltarmi, ascoltare me, un uomo qualsiasi che cade tra le nuvole, ma almeno ora … Ora che vorrei scappare, vorrei correre e gridare, vorrei uccidere, piangere e fare l’amore … E’ così che immaginavo che fosse volare, un po’ come morire, solo morire un po’ di meno … Amen.


§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§ # proprietà letteraria riservata #


Elio Errichiello

Lei … Lui in Aeroclub

Piazzale di un Aeroclub. Il sole del mattino scalda un uomo che sonnecchia in una sedia a sdraio. Da un portone dell’hangar parzialmente aperto egli scorge alcuni aeroplani a riposo anche loro. Se lo meritano. E’ giorno di chiusura: i meccanici stanno a casa. Oggi non si lavora; ma lui c’è andato ugualmente, come fa ogni lunedì, per controllare e sistemare i conti della settimana appena trascorsa; infatti, anche se fa il pilota istruttore, ha quest’altro compito, avendo il Presidente assunto a “mezzo servizio” una sola segretaria, Lucy, che non s’intende di numeri! Ha dormito poco, stanotte, pensando e ripensando a quell’allievo un po’ duro di testa che, pur desiderando di volare, apprende poco e trema quando si trova ai comandi dell’aeroplano. Deve decidere se tentare un altro metodo o dirgli di cambiare mestiere! Intanto, s’è preso una breve pausa volendo recuperare quel po’ di sonno perduto. Ma mentre sta per addormentarsi, avverte la presenza di qualcuno: perciò socchiude un occhio e scorge avvicinarsi un omone col naso camuso e mancante della mano sinistra; costui si ferma a gambe aperte e, con voce roca, l’apostrofa: “Mi sente, lui? Volessi parlare con chi comanda qua.” Un po’ scocciato da quell’intrusione e costretto ad alzarsi, a fatica gli porge la mano presentandosi: “Io sono Mike, il comandante. Lei chi è? E cosa desidera?” L’omone gira la testa a sinistra e a destra, ignora la mano tesa del comandante e parla al vento che, intanto, s’è levato leggero e comincia a frusciare fra le palme vicine. “Mi disse Lei? Con chi sta parlanno? Masculo sono, non sono ‘na femminuccia, e a chi mi disse LEI ci ho dato un cazzotto in bocca e non pò parlare chiù! LUI mi deve chiamare! Per nome e cognome, o meglio Coso Incazzoso, il pisseudonomo che mi davano i fans e il Mister quando facevo a cazzotti sul ringo! “Va bene, Coso, ho capito. Lei … Lui di professione era pugile. E ora, mi dica Coso, cosa fa?” E Coso, sforzandosi di parlare in corretto italiano, dopo qualche esitazione gli risponde: “Che ci posso dire, non faccio più niente, mi hanno imputato ’sta mano e dicono che devo cangiare mestiere. Per il Mister io sono sonato come ‘na campana. E perciò … ora volessi volare col coso ariaplano … e fare la patente.” Imbarazzato, Mike, ancora sonnacchioso stenta a frenare uno sbadiglio, realizza che qualcosa non va e con voce flebile gli risponde: “Già, Coso, mi dispiace; ma non vedo il nesso! Comunque, il “coso” che vola si chiama aeroplano; la patente, brevetto. Ma Lei … Lui non può pilotare con una mano sola!” E Coso, di rimando, alzando il braccio destro come se volesse dare un pugno all’istruttore che si scansa: “E io ci dico che posso. Il coso che dice lui vola nell’aria e perciò io lo chiamo ariaplano. Ora mi serve la patente! Ci l’ho lu brevetto … quello di cazzettatore brevettato!” Il povero istruttore, mentre arretra di un passo, si fa scuro in volto perché la giornata, che sembrava buona, di colpo si è annuvolata … pur essendo il cielo di un limpido azzurro. Si guarda intorno, non c’è nessuno cui chiedere aiuto, gira la testa di lato e mormora fra sé e sé: Attento Mike, costui è tanto pazzo quanto sciocco ed è molto forte! Coso, che ha sentito qualcosa, chiude a pugno la mano sinistra: “Che disse lui, ah? Non sentii bene, parlassi a voce alta!” Mike arretra di un altro passo e si scusa sostenendo di aver detto che: “Intanto c’è puzza di scirocco forte e perciò oggi non si può volare”! Perplesso, Coso, si pulisce il naso col dito indice, poi se lo ficca in bocca, lo tira fuori dopo averlo umettato ben bene, lo guarda e lo alza in alto: “Ooooo! Uuuuu! Ventu di scirocco? Ma lui chi sta dicenno, quali ventu… venticello è! Oggi la giornata è bbona!” Mike, nauseato, alza a sua volta l’indice della mano destra a indicare il cielo: “Guardi, Coso, lassù in alto, dove ci sono quelle nubi lenticolari … ce n’è tanto!” Poi, volendo allontanare quell’uomo massiccio e fastidioso, garbatamente gli dice: “Comunque, Lui non lo può fare il volo; UNO, deve prima pagare alla segretaria la quota di ammissione; DUE, deve sottoporsi a visita medica, quella psicofisica; TRE, se scrivono che Lei … Lui è idoneo, per volare deve pagare altri soldi alla segretaria; QUATTRO … A questo punto Coso lo interrompe: “Come sarebbe che ci devo dare soldi alla segretaria? Donna di malaffare è? Pissi fisica, idoneo … ma lui che mi sta dicenno?! Mi scrivono la cartolina che sto bene? Non c’è bisoooogno! Io bene sto, lo disse il dottore che m’aggiustò il naso!” Non c’è verso di liberarsene. Mike adesso è totalmente sveglio e, anche se stanco di quella manfrinata, alza un po’ il tono della voce, ma arretra ancora di qualche passo. “Senta, Coso, facciamo una cosa, non insista, oggi non si vola. Su, entriamo in hangar per vedere gli aeroplani! Vada, vada prima Lei … Lui! Ma insomma, si può sapere perché vuole volare?” “Deve sapere che ci voglio buttare ’na bomba sulla casa del Mister che non mi fece più combattere!” Coso, adesso, è rosso in faccia e nessuno, cioè Mike, si azzarda a dirgli qualcosa. Ma che cavolo gli si può dire?! “Quel brutto figlio di cana mi disse che sono monco-sonato! E perciò deve morire con tutti i figlistei!” Finalmente, entrando in hangar si guarda in giro e perplesso esclama: “Ma dove stanno gli ariaplani? Quelli, ariaplani sono? Piccolini, pesi piuma sono! E la bomba non ci sta. Neanche io ci sto! Lui ragione c’ha. E sai che faccio, ora che ci sto pensando? Ci vado a casa, con un cazzotto ci sfondo la porta e ce la metto deeentro … la cucina quando mangiano!” Parla, parla e fa un gesto apparentemente osceno con la mano destra sul braccio leso! Coso, stavolta davvero Incazzoso (ecco perché lo chiamavano così), aggiunge gridando: “Ce la metto, sì, ce la metto, ho il cazzotto duro io … glielo rompo, ci metto ‘sta bomba in cuuu…” “Ehilà, Coso, zitto … stia zitto! Non gliela metta in cucina … non gliela deve mettere proprio!” Bruscamente Mike, facendosi coraggio, l’ha interrotto perché in hangar c’è la segretaria, china in avanti per guardare dentro un aeroplano. “Ciao, Lucy.” Anzianotta e grassottella, Lucy è rimasta china, ma girando la testa aveva visto il gesto dell’omone e sentito le sue parole. Raddrizzandosi e stiracchiandosi, guarda fisso l’estraneo mentre parla al comandante: “Chi è ‘sto bel signore?” E continua a fissare l’omone: “C’è poca luce e non riesco a leggere nell’orametro i tempi dell’ultimo volo di ieri. La prego, può farlo lei?” Coso, convinto che stia parlando a lui, la fissa a sua volta negli occhi e (gong!) riattacca: “Mi disse lei a me? Io lui sono. Ci lo dica, comandante, ci lo dica che non sono ‘na femminuccia, io! Qua di femmina c’è solo lei, che mi pare pure bbona. Calata, era tonda dietro e sporgente davanti!” La donna non capisce la faccenda del lei … lui e per ringraziarlo dei complimenti gli dice a bassa voce: “Mai nessuno qua dentro mi aveva detto una cosa così carina!” Poi, alzando la voce, aggiunge: “M’inchino, m’inchino a Lei!” E si china di nuovo. Coso, che ha sentito solo il lei e la parola minchino, che nel suo dialetto vuol dire “minchione” (ops! al contrario!), ribatte violentemente: “Minchino e femminuccia a me? Bonazza, offeso mi hai! Tu sei femmina e ti devo rispettare. Però, se insistisci e mi fai incazzare ti do un cazzottone senza guanto che non te lo scordi proprio chiù! E l’ammissione non te la pago!” Che bella giornata, ma che bella giornata! Adesso Mike si fa coraggio volendo difendere la segretaria, afferra Coso Incazzoso per il braccio buono, rischiando di prenderselo lui il cazzotto, e gli dice gridando: “Ehi, Coso, non si dicono e non si fanno certe cose alle signore! E l’ammissione non la paga se non deve volare! Venga, andiamo fuori, discutiamone sul piazzale”. Lo strattona inutilmente, perché quello non si sposta d’un centimetro! Lucy, fingendo d’essere impaurita, interviene pregando Mike di calmarsi: “Che può farci, comandante, certe cose a volte si fanno alle signore! A me nessuno finora ha dato un cazzotto, lo sa? Intanto rimango china, così vediamo se s’incazza davvero e me lo dà!” Sconcertato, Mike, tenta ancora di trascinare fuori dall’hangar quel bestione, che però resta ben piantato sulle gambe … (break!), si sgancia in posizione di guardia e, arretrando verso l’uscita, alza il braccio come per parare l’eventuale colpo. “Ma siete impazziti tutt’e due? Lucy, t’avverto, se per te è la prima volta che ti prendi un cazzotto, t’assicuro che ti farà tanto, ma tanto male! Io me ne vado!” Vigliaccamente esce dall’hangar, socchiude la porta scorrevole e telefona col suo cellulare: “Pronto, 113? Venite subito in Aeroclub … qui c’è un pazzo furioso … un pugile sonato come una campana che dice di chiamarsi Coso Incazzoso e sta cazzottando la segretaria!” Nervosissimo, passeggia in tondo sul piazzale e ogni tanto va verso l’hangar per sbirciare da uno spiraglio: “Cose da pazzi … sono cose da pazzi! Stanno cazzottando sul serio!” Lui fa tiè, tiè, tiè … e Lucy prima grida, poi ride … dice “ahi” e grida … ma ride pure! Finalmente arrivano due poliziotti, con la volante a sirena spiegata, e due infermieri, con l’ambulanza a sirena spiegata. Si fermano sbandando sul piazzale e spengono quelle petulanti sirene. Scendono e, mentre un infermiere parla al comandante, l’altro lo prende sotto braccio: “Vieni con noi, sta tranquillo, non ti vogliamo fare del male!” Mike cerca di divincolarsi mentre urla: “MA CHE FATE, LASCIATEMI! IL PAZZO È IN HANGAR, SI CHIAMA COSO INCAZZOSO E CAZZOTTA LA SEGRETARIA … IO SONO QUELLO CHE VOOOLA, IL COMANDAAANTE! Intanto i due infermieri, che l’hanno afferrato entrambi tenendolo ben saldo, lo legano in una lettiga e uno dei due replica: “Sì, sì, io sono Napoleone … e quest’altro qui è Garibaldi! Vieni … andiamo a fare l’Italia! Mike urla e si dimena mentre l’infilano da dietro nell’ambulanza coi piedi in avanti; uno dei due gli tappa la bocca con una mano ed entra anche lui; poi parla al collega: “Se questo non sta bbono, il cazzotto glielo do io in bocca! … Giovà, questo dice di volare! Ma quanti pazzi che ci stanno in giro! Bah! Metti in moto e segui la volante … via terra, mi raccomando …” e con l’altra mano chiude gli sportelli. Anche i poliziotti, che sorridenti hanno osservato la scena, mentre stanno per rientrare nella volante sentono voci provenire dall’hangar: “Hai sentito? Andiamo a vedere se c’è davvero la segretaria col coso incazzato?” “E se poi è vero che quello fa a pugni avrà il cazzotto duro! E se ce l’ha duro, potremmo prendercelo noi da qualche parte!” “Ccà nisciuno è fesso, chi pò fotterci deve ancora nascere!” “Ma sì, annamo via! Se ci dovrebbero chiamare ancora, intervenissimo immantinente!” Mettono in moto e partono rombando a sirene spiegate. L’ambulanza segue a sirene spiegate. E di Mike non si è saputo più nulla!


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Michele Gagliani