Ho sempre avuto due punti deboli nella mia vita, da che ho memoria, anzi, tre, ma il terzo è diventato il mio lavoro e quindi non lo conto più. Aggiungo che, col tempo, ho accettato il concetto di debole riguardo ai punti perché lo associo all’impossibilità di resistere loro. Ma questa è un’altra storia. Una vecchia storia.
A ogni modo e a onor del vero sono sempre stati gli altri a definirli debolezze. I punti in questione, intendo.
Credo, e non sono lontano dalla verità, che sia stato del livore. Niente altro che umano livore per i miei progetti. Comunque non mi sono mai agguerrito per trasformare il tutto in un affare di orgoglio. Non seguo troppo i pareri altrui. In un modo o nell’altro faccio sempre di testa mia. Tiro dritto per la mia strada.
Ebbene, in questa vicenda i fatidici tre punti si sono beatamente incrociati. E aggiungo, coordinati fra loro per dare forma a una delle più indimenticabili esperienze della mia vita.
È questo che importa e che ha fatto la differenza.
Se tornassi indietro farei esattamente ciò che ho fatto, comportandomi proprio come mi sono comportato.
1.
Il pomeriggio quando tutto iniziò mi trovavo a Parigi. Piovigginava. Era la fine di aprile. Sarei ripartito solo l’indomani quindi ero libero di muovermi come meglio credevo.
Ho sempre prediletto camminare senza meta lungo il viale dei bouquinistes. Lungo la Senna. Curiosare fra i vecchi libri.
Procedevo lento perché ero in anticipo per l’appuntamento con una vecchia amica. Ripeto, non dovevo essere a Parigi, ma all’ultimo avevo sostituito un collega ed eccomi lì.
A proposito mi chiamo Marc. Marc Fabrien. Francese da indicibili generazioni. Pilota di linea della Air Corsica, ma per un bel po’ di tempo sono stato pilota privato grazie al Club aeronautico della Camargue. Periodo splendido quello.
Quando riaffiorano i ricordi mi vengono gli occhi lucidi.
È in Camargue che ho conosciuto due dei miei più cari amici. Tutti e tre noi, piloti.
È con loro che ho affinato la mia indole naturale di generosità genuina, quella che ancora oggi mi rende disponibile a sostituire un collega se ne ha bisogno. Siamo stati inseparabili per due anni. Noi tre a cavalcare i cieli su i Cessna 172. I piccoli monomotore a quattro posti placidi nella loro garbata velocità massima. Ci sentivamo intoccabili. Noi tre a stilare sfide con i numeri di ore di volo. Noi tre a ridere della nostra audacia. Ci sentivamo dei temerari. Più di tutto liberi. Era come se sapessimo sfruttare ogni momento della vita. Ci caricavamo facendo paragoni.
Anche se certe auto sportive regalano sensazioni da brividi – ci dicevamo – con le loro capacità meccaniche, con il gioco impercettibile dei cambi di marcia fra tornanti montani o lungo autostrade infinite, non c’era storia a nostro vedere.
No, non ci lasciavamo abbindolare dalla potenza dei cavalli di certe quattro ruote.
Eravamo così. Édouard, Claude e io. Uniti.
Poi in piena notte ci ritrovavamo per fumarci in pace una sigaretta e raccontarci a turno i sogni a venire. E guardavamo davvero il cielo scuro.
Per me volare significava respirare. Anche oggi.
E, scordavo, ero un fumatore quanto basta. Ancora adesso ma forse questo è un dettaglio marginale in tutta la vicenda.
Insomma stavo aspettando Aline e per un verso ero contento fosse lei in ritardo e io in largo anticipo.
Mi è sempre piaciuto crogiolarmi fra i libri e vecchie storie e questo è un’altra forma di libertà. A rigor di puzzle della vicenda, è il primo dei due punti entrato in scena. Mi spiego meglio.
Sono uno che ama leggere, sfiorare le pagine scritte, raccontare storie. I vecchi libri, quelli passati nelle mani di altre persone, mi procurano misteriosa adrenalina che mette in moto il mio senso dell’avventura.
Ebbene, curiosando qua e là, passavo in rassegna le varie copertine sperando di essere attratto da un’immagine magnetica che per me significava viaggi o esplorazioni. Capitai su un volumetto grigio e piuttosto sgualcito nell’insieme ma con, in bella mostra, un aereo d’epoca. L’avevo riconosciuto senza se e senza ma.
Un caccia North American P-51 Mustang in voga durante la Seconda Guerra Mondiale. Un gioiello che con la sua apertura alare inclinata e in scala copriva la grandezza della pagina. Mi ritrovai ad accarezzarne le forme con pura delicatezza. Volevo toccare.
“Posso?” Chiesi al tizio dietro il banco pensile.
“Certo signore , sbirci pure. ” Mi sorrise soddisfatto, credo perché intuii che l’avrei comprato.
“Lo prendo.”
“Cinque euro. Prego e buona lettura.”
Mi sentivo più tranquillo avendolo tra le mani. Quasi come una premonizione liberatoria. Ammiravo quella copertina dai bordi mangiucchiati. Avevano la forma ricamata tipico del lavorio sordido dei pappagallini. Lo so perché ne avevo uno da bambino che si divertiva a rovinarmi i quaderni.
Salutai il venditore con un cenno del libro sollevato a mezz’aria e con il desiderio di appartarmi per divorare quelle pagine. Nascondevano un mistero, ne ero sicuro poiché avevo adocchiato delle mezze frasi scritte a matita fine all’interno, aprendolo casualmente. Il mio animo antico di pilota solitario si era svegliato. E alla grande. In effetti non sono diventato pilota a caso. Ho sempre provato attrazione per gli aerei, per il volo, per la libertà.
Gran parte di questa passione la devo agli anni trascorsi nel sud della Francia. In estate. A Perpignan. Nella casa di famiglia dove a un certo punto non si capiva più chi era chi e chi arrivava o andava. Cugini mai visti. Amici di amici. Una gran confusione e a me le confusioni non sono mai andate giù, nemmeno in estate. Il caldo torrido, poi, non l’ho mai tollerato e un mio zio di Marsiglia a quanto pare se n’era accorto e aveva cominciato a salvarmi spesso dalle noie della spiaggia e dai rumori della casa o forse io salvavo lui. Non ho mai approfondito.
Mi portava all’hangar di Marsiglia. Quello nei pressi della Legione Straniera. Un luogo magico per lui. Sia l’hangar sia la Legione.
E magico anche per me.
Zio Xavier era un meccanico con la emme maiuscola. Ci capiva di motori come Monet di colori.
Lavorava in quell’hangar e non avvertiva il bisogno di staccare perché amava il suo lavoro. A dirla bene la vacanza era un dovere e così forse è più evidente captare il tipo di personalità.
Mi ripeteva spesso:
“Marc, pensaci bene! Pensa molto bene a quel che vuoi fare da grande. Se sbagli lavoro sarai fottuto. Rovinerai la tua vita.”
“Farò un lavoro fantastico.” Rispondevo tanto per rispondere ma non sapevo cosa dicevo. A me, al contrario suo, importava che le vacanze durassero il più a lungo possibile.
Avevo sette anni e mezzo la prima volta che toccai con le mani un aereo. Voglio dire, non ci capivo un bel niente. Li vedevo di solito passare in cielo. Tutto qui. E con l’espressione un po’ da ebete allungavo il collo e sgranavo gli occhi su, su fin dentro al cielo e non li staccavo se non dopo che l’aereo di passaggio svaniva dalla mia vista.
Quel giorno invece, con zio, la mia mente cominciò a lavorare a modo suo e non mi lasciò più in pace. Da quell’istante non mi sarei più accontentato di guardarli.
Vedere con gli occhi quelle meraviglie volanti, ascoltare i piloti che sembravano parlare in codice fra loro era rugiada; anche i meccanici apparivano speciali nelle loro tute, nei loro andirivieni, l’atmosfera mi faceva sentire fortunato.
Era un mondo nel mondo.
Altro che stare sulla sabbia, facendo buche, aspettando di fare un bagno.
Nell’immenso capannone, dove mi sentivo una piccola vite, toccavo aerei veri. Veri.
Sarei diventato un pilota. Lo comunicai allo zio nell’istante stesso in cui lo decisi e lui, per suggellare il momento, mi alzò di peso e mi collocò seduto all’interno dell’abitacolo dell’aereo che stava controllando, davanti a un riquadro di pulsanti che per un istante mi fece sobbalzare.
Ecco, tutto quel pomeriggio contribuì a formare il terzo punto di debolezza che con gli anni ho onorato in pieno.
E non finì là. Eh no.
Divenni la mascotte dell’hangar. Conobbi un po’ tutti.
In estate andavo più spesso all’hangar che dal gelataio.
In inverno vivevo come un orso in letargo per accumulare energie da liberare a Marsiglia.
Ognuno di loro – quelli dell’ hangar ovvio – mi raccontava avventure incommensurabili che facevano brillare gli occhi e uno in particolare. Un pilota che lavorava a tempo pieno per un ricchissimo uomo d’affari e pilotava per lui un jet privato con le ali di uno sfavillante color rosso, mi prese in simpatia. Luc, si era semplicemente presentato così. La seconda volta che mi vide, mi prese per mano e mi portò vicino a due bidoni di un colore blu acceso. Vicino alla grande apertura che si immetteva sulla pista. Su quella traiettoria arrivava il vento che movimentava l’aria calda.
“Conosci Il piccolo Principe?” Mi chiese a bruciapelo.
“Il libro?”
“Sì proprio il libro.”
Lì per lì rimasi deluso perché all’epoca i libri non mi interessavano anzi li scartavo come regola prioritaria. Non avevo mai passato cinque minuti di mia volontà con un libro aperto fra le mani. Quel libro poi me lo avevano regalato ben due volte in due compleanni diversi. Uno strazio ricevere quel che non si vuole.
Il mio rammarico si vedeva lontano un miglio e Luc riprese la situazione a vantaggio di quel libro.
“Non dico di leggerlo. Se vuoi ti racconto la storia e dopo, sono sicuro che vorrai sbranarlo personalmente.”
“Non credo. Non credo proprio.”
Non avevo nemmeno colto il concetto di sbranare delle pagine.
Ricordo la risata immensa di Luc. Mi strizzò l’occhio e cominciò a parlare.
In capo a dieci minuti lo seguivo con la bocca aperta e rigoletti di saliva pendenti ai lati per quanto rapito dalla storia.
Venni così a conoscenza di uno strepitoso, misterioso Antoine de Saint-Exupéry. Saint-Ex per gli amici, a detta di Luc, quell’Antoine sapeva più di quel che voleva far intendere, e il libro del piccolo principe era un concentrato di simboli e codici da decriptare. Decisamente non era un semplice e bravo pilota.
Soprattutto mi colpì il mistero della sua scomparsa e del suo aereo sprofondato in mare. Luc disse testualmente le seguenti parole, parole che imparai a memoria:
“Antoine de Saint-Exupéry sparì da qualche parte nelle profondità marine a largo delle coste della Provenza. Stava pilotando un P-38 Lightning.”
Risposi. E pensai che lui era un pilota nell’anima. Era l’anima del pilota. Tutto ciò che stavo ascoltando con le mie orecchie faceva galoppare il mio cervello e non avevo nemmeno nove anni. Traguardo per me lontanissimo ai tempi.
Ovviamente decisi in silenzio che avrei letto parola per parola quel libricino e non lo avrei più considerato una fiaba per bambinetti. Eh no! Le cose erano radicalmente cambiate. Io ero cambiato e quando si cambia è molto difficile tornare indietro. Si vuol solo andare avanti.
È quel che feci da quel giorno grazie a Luc, a zio Xavier ma anche alla brutta casa caotica di Perpignan perché se non fosse stato per lei molto probabilmente non sarei mai diventato pilota e tantomeno l’uomo che sono.
2.
L’universo di Saint-Exupéry non mi ha mai più abbandonato. Con gli anni mi affaccendai nel tempo libero per scoprire sempre più nuove informazioni sulla vita di quel pilota scrittore. In realtà non mi andò mai via dalla testa ciò che mi svelò Luc quel caldo giorno d’estate, ovvero, Saint-Exupéry era sparito. Disperso. Il suo corpo non era stato trovato. Ovviamente lo si considerava morto, ma non c’erano dati inconfutabili né ragionevolmente probatori a dimostrarlo. Dove era finito ?
Insinuazioni, ricostruzioni non avevano fatto altro che gettare mistero sul mistero.
E c’era dell’altro. Ne erano tutti certi.
Le mie giornate sfuggivano per quanto facevo. Fra il lavoro e le mie ricerche e i libri ero stanco sì eppure profondamente gioioso. Le persone che gravitavano intorno a me non si davano pace. Era fastidiosa la mia esuberanza. Avrebbero preferito un Marc lagnoso. Pessimista. Normale. Controllabile.
Mai stato e mai lo sarò.
Lessi tutti i libri del pilota scrittore. Del mio pioniere preferito. Quelli che in pochi apprezzano perché sembrano diari tecnici. Molto specializzati. Io invece ci scovavo sempre nuovi dettagli geniali. Non che io sia dotato di intelligenza superiore ma, con gli anni, ho compreso che ognuno ha un talento ed è un peccato non alimentarlo. Ho anche sorvolato il Nord Africa seguendo i suoi tragitti. Ho riletto e riletto Il Piccolo Principe senza mai averne abbastanza.
Uno spettacolo. Più procedevo e migliore e forte mi ritrovavo.
È lampante che il secondo mio punto di fantomatica debolezza è Antoine de Saint- Exupéry. Lui e chiunque l’abbia conosciuto.
È gioia pura in me quando rileggo un suo passaggio scritto e non voglio spiegare di più perché guasterei la magia . Ecco l’ho detto. Con i suoi scritti mi ero avvicinato al senso della magia quale mistero insondabile della vita. La stessa magia che provo quando sono in decollo e trasporto sotto mia piena responsabilità un bel numero di persone.
Mi aveva affascinato anche il suo rapporto con la madre.
Madame Marie de Boyer de Fonscolombe. Una contessa. Una donna acuta. Una madre che dopo la presunta morte del figlio ricevette – a quanto si vocifera – una sua lettera nella quale la confortava spiegando che stava bene.
Quale fitto mistero nella vita di quest’uomo! Come faceva a stare bene se era scomparso, se il suo Lightning si era inabissato, se il cadavere non era mai rinvenuto? Quale orizzonte sconfinato mi aspettava da sondare ? Lui che decollato la mattina per una ricognizione non aveva più dato segnali via radio e il suo aereo, abbattuto da uno nemico, era stato inghiottito dal Mediterraneo?
Senza aprire poi lo squarcio del marinaio che alla fine degli anni novanta scovò un oggetto che rimescolò la già fitta e intricata leggenda della scomparsa di Saint-Exupéry. Strati di misteri.
Decisi che non potevo tenermi tutto dentro. Troppa carne al fuoco. Troppa energia da gestire. Tanta esuberanza. Morivo dalla voglia di confidarmi. Confrontarmi o semplicemente raccontare quel che ribolliva dentro il mio animo. Ricontattai i miei due amici Claude e Édouard per metterli a conoscenza.
In men che non si dica ricostituimmo il nostro club dei piloti fumatori. E gli anni sembravano non essere trascorsi quando ci vedemmo. Non avrei sperato meglio.
3.
L’aperitivo con Aline non sortì l’effetto sperato. Nel senso di trascorrere un paio d’ore in allegria. Quando arrivò si sprigionò disagio fra noi. Forse io non ero più dell’umore dopo aver comprato il libricino che mi rubava tutta l’attenzione. O forse ero più brutto di quel che lei ricordava. Non so che dire su di noi. La stonatura era reciproca.
Aline non era mai stata una bellezza ma aveva un certo fascino, un bel sorriso, la ricordavo buona conversatrice. Non so, non l’avevo, però, mai pensata fuori dai paletti dell’amicizia e probabilmente neppure lei. Francamente non saprei nemmeno dire perché l’avevo chiamata. L’aggravante stava, comunque, nel libro appena trovato.
Non avevo dubbi. Non c’ero con la testa. Una donna lo capisce al volo ma per fortuna non me lo fece pesare. Non avevo intenzione di svelarle che un libro aveva appena rapito tutta la mia esuberanza e non ne restava per altro.
Chiacchierammo del più e del meno. Bevemmo il nostro aperitivo e ci salutammo sfiorandoci con tre bacetti sicuri che non ci saremmo mai più cercati.
Del resto certe conoscenze non sanno sprofondare dell’anima e non c’è niente di male in questo.
Mi precipitai in albergo inseguito da una pioggia che si era fatta più prepotente.
Niente di meglio che vedere l’acqua disintegrarsi sui vetri lisci e io dentro al riparo.
Lessi tutta la notte. Non riuscivo a chiudere occhio. Non tanto per la storia che non era eccezionale quanto per le note scritte dal misterioso proprietario del libro.
La grafia era pessima. Stretta, inclinata. Le lettere erano mangiate. Questi fatti non facevano che esaltare la mia vivacità.
Avevo deciso di trascrivere tutto quanto su un foglio separato. Intendevo dare un ordine e infine una logica.
Il dettaglio sconvolgente fu un nome.
Circa verso la fine, precisamente alla quintultima pagina scritta sul margine esterno, decifrai: “deBoyer”.
Ora, se uno più uno non può mai fare tre, io mi trovavo nel bel mezzo di una straordinaria rivelazione;
“de Boyer” era la porzione di cognome della madre di Saint-Exupéry. Se non era riferito a lei, era comunque qualcuno della famiglia. Il cerchio era ben ristretto.
Non era tutto. Accanto al nome c’era scritto: “…domandare a …”ˋ
Cosa? E perché ?
E ancora. Seminati fra le pagine erano annotate tante cifre doppie.
A cosa si riferivano quei numeri? E perché così tanti? E perché simili e in successione ? Del tipo: se c’era il trentasette, trovavo anche il trentaquattro e il trentotto e così via.
Sudavo per l’energia ridondante.
Ricordando cosa Luc, il pilota di Marsiglia, mi raccontò circa i numeri sparsi fra le pagine de Il Piccolo Principe non potei concludere altro che quelle annotazioni erano preziosissime e che l’intuito mi suggeriva essere collegate al mistero di Saint-Ex. Me lo sentivo. Non mi sbagliavo.
Presi il libro fra le mani e cercai la data di pubblicazione,
Millenovecentosessanta.
Annotai dei dati della casa editrice. Non era una di quelle famose.
Dovevo iniziare da qualche parte.
Presi il telefono chiamai il servizio in camera e mi feci preparare, nel bel mezzo della notte, una bottiglia di champagne e due spumose omelettes.
Mi andava così. Ero su di giri. Avevo fra le mani una bomba. Forse sarei divenuto colui scelto dal destino per aggiungere un tassello nuovo al mistero della scomparsa di Antoine de Saint-Exupéry.
L’indomani avrei chiamato Claude che avrebbe rintracciato Édouard. Non stavo più nella pelle.
Era evidente. Qualcuno aveva usato un libro qualsiasi e poco attraente per il grande pubblico ma legato al mondo dell’aviazione. Un libro la cui copertina poteva interessare principalmente un certo tipo di persona. Un appassionato di aviazione. Un pilota. Qualcuno poco conforme al qualunquismo. Il libro non era destinato ad andar perso. Sembrava che il tutto facesse parte di un grande piano. E chi l’aveva trovato?
Io. Me medesimo. Marc. Pilota. Strambo. Appassionato di libertà. Non poteva essere un caso ma non volevo fissarmi su quel dettaglio. Era capitato. Dovevo proseguire a ogni costo.
Esultavo. Non vedevo l’ora di dare un assetto a quel materiale tanto vago quanto intrigante. In seguito sarei andato alla ricerca di qualche “de Boyer”. Di qualche discendente. E poi via, sempre oltre.
Mi addormentai dopo aver svuotato la bottiglia e dopo aver scritto in modo indecente: “Svelare i misteri ma non troppo …”
4.
Quando mi svegliai era tardi. Troppo tardi. La realtà era in trepidazione ma la mia sbornia pesava come cento mattoni sulla testa e non ero in grado di mettere a fuoco un bel niente.
Avevo il volo Parigi-Nizza a breve e le mie condizioni somigliavano a una tenda travolta da una tormenta di sabbia.
Quando si elargiscono piaceri è facile riceverne. Tentai. Andò bene. Trovai il mio sostituto causa forza maggiore. Intendiamoci non accadono spesso gli scambi ma è altrettanto vero che quando il destino ci si mette non ce n’è per nessuno. O lo si segue o gli ostacoli si moltiplicano.
Più rilassato ma sempre alticcio mi preparai per uscire. Avevo in mente di fare un salto dal tizio che mi aveva venduto il libro. Forse ricordava qualche dettaglio, tipo la provenienza. O addirittura il proprietario.
Per esperienza so che le coincidenze esistono quali movimenti di disegni più grandi. Mi gironzolavano un sacco di idee in testa.
Non ero ancora capace di comprendere la ragione di tutto questo ma se proprio volevo trovare un aggancio di qualità non potevo che riferirmi a Luc e a quel lontano pomeriggio estivo. Camminavo e mentalmente mi sforzavo di ricordare al meglio.
Anche Luc doveva essere implicato in qualche modo nel grande disegno di questa faccenda vertiginosa poiché non è ordinario né frequente trovare qualcuno che getta l’amo di un importante mistero in una conversazione normale. Tra l’altro con un bambino. Luc aveva proprio fatto così. Mi aveva visto e senza mezzi termini mi aveva catapultato in un mistero.
Dovevo contattare anche lui. Per forza. Pur vecchio, ero certo che avrebbe saputo districarsi.
Aggiunsi il suo nome alla mia lista intitolata “il codice” e mi venne il desiderio di rivederlo al più presto.
Mi fermai in un bistrot qualsiasi per mangiare un boccone e per chiamare Claude. Rispose ancor prima che mi arrivasse il menù.
Ci accordammo. Ci saremmo visti di lì a due giorni a Marsiglia. Gli effetti dello champagne stavano dignitosamente svanendo.
La vita ha un aroma davvero speciale quando la si onora.
Pensavo ai numeri trovati nel libro. Masticavo e ripetevo mentalmente. Più ripetevo più si faceva largo l’idea che quelle cifre fossero dati di longitudini e latitudini. Mi rimaneva il compito di collegarli alle lettere stampate del libro accanto alle quali erano state scritte. Quel collegamento lo trovavo un buon punto di partenza.
Quanto lavoro mi aspettava. Quante notti insonni.
A un tratto per riposare la mente strizzai e sgranai gli occhi a intermittenza per mettere a fuoco la vista. Gli scorci di Parigi erano proprio inimitabili.
Mi sembrava di essere il protagonista di un romanzo.
Accesi una sigaretta e mi lasciai andare all’immaginazione.
Mi aspettava un bel carico di avventura.
5.
A Marsiglia respirai a pieni polmoni il profumo salato della baia del porto.
Arrivare a Marsiglia era come tuffarsi a ritroso nel tempo. Avrei cenato a casa di Luc. La serata si prospettava al meglio. Sul tardi ci avrebbero raggiunto i miei due vecchi amici.
Non stavo nella pelle. Le mani tremavano ma mi piaceva tremare per motivi positivi.
Ero impaziente e rovesciai anche la birra a un certo punto, bagnando tutto il tavolino al quale ero seduto.
Infine camminai un po’. A zonzo. Con la testa fra le nuvole. Avevo inserito il pilota automatico per dirla col nostro gergo.
Trovarci insieme dopo tanti anni fu emozionante. Luc mi diede almeno tre pacche potenti sulla spalla. Era il suo modo per dirmi quanto felice fosse di vedermi. Mangiammo senza affrontare il grande argomento. Per quello avevamo deciso di aspettare Édouard e Claude.
Quella notte fondammo il nostro club esclusivo. Il club MELC.
Ovviamente le nostre iniziali accordate per essere pronunciate facilmente.
Pura genialità. Un club in onore di un pilota leggendario fondato da quattro piloti onorati d’esserlo e legati da un profondo rispetto della libertà. Cosa mai potevo chiedere di meglio?
Gettammo le basi del nostro lavoro. Euforici. Decidemmo come sede la casa di Luc.
Abitavamo tutti nel Sud e sarebbe stato semplice incontrarci. Ci dividemmo i compiti della ricerca. Io mi sarei concentrato sulla madre di Saint-Exupéry.
Avevamo una montagna di lavoro ma eravamo certi di arrivare, presto o tardi, a una notevole conclusione. Per suggellare il club, Luc propose di farci un giro col suo Cessna. Tirammo a sorte per pilotare. Toccò a Claude.
Sorvolammo i cieli della Provenza, sopra l’Estérel. In silenzio. Uniti dall’intento di onorare un grande pilota. Saint-Ex.
Il Mediterraneo sotto di noi era scuro come il velluto nero. Dentro lo stesso cielo aveva effettuato il suo ultimo ufficiale volo Saint-Exupéry quel trentun luglio millenovecentoquarantaquattro. Doveva raggiungere Grenoble. Raggiunse qualche altra destinazione dopo che il suo aereo precipitò? Pensavo a questo quando subimmo un leggero scossone. Una semplice turbolenza. Mi risvegliai dal pensiero. Guardai Luc e accennai un mezzo sorriso. Quello tipico degli uomini abituati alle fatiche.
Il Club MELC avrebbe realizzato grandi progetti.
Ne ero certo. Più che mai.
§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§
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