Archivi categoria: Le Voci

Racconti degli autori

Un decollo risicato

Me ne stavo nel piazzale antistante l’hangar dell’Aeroclub di Palermo, crogiolandomi al sole mattutino in una comoda sdraio. Anzi, sonnecchiavo nell’attesa del primo allievo della giornata.

Arrivò, invece, un visitatore che non conoscevo, il quale mi fece aprire gli occhi; mi alzai a fatica, per usuale educazione, non senza averlo prima squadrato dalla testa ai piedi: era un uomo di mezz’età, con una folta barba nera, ben vestito e, per quello che si poteva vedere, abbronzatissimo.

Gli porsi la mano ed egli si presentò spiegandomi che era un commerciante di vini, che spesso si era recato in nave a Pantelleria, la bella isola a sud della Sicilia, dove aveva acquistato grosse partite di vino zibibbo (ecco perché mancava nei negozi di Palermo!) e, questa volta, se possibile, avrebbe preferito andarci in volo.

Gli spiegai che l’Aeroclub non poteva svolgere attività commerciale né trasportare fusti di vino a bordo dei propri piccoli apparecchi.

Mi rispose che lui li avrebbe solo contrattati mentre l’azienda vinicola, che anch’io conoscevo, glieli avrebbe spediti come sempre aveva fatto.

Trascurai, a questo punto, la faccenda “voli commerciali” e che, sì, potevamo andarci, purché pagasse, mio tramite, la tariffa oraria che avrei dovuto pagare io.

Non ebbe alcun problema ad anticipare quella stimata per le due ore previste, relativa al Cessna 206, quello con cui di solito lanciavo i paracadutisti. Speravo, peraltro, di comprare, a prezzo di commerciante, una cassa di bottiglie speciali che avrei potuto stivare a bordo.

Il giorno prima c’era stato scirocco violento; quel giorno calma piatta anche a Pantelleria: strano, lì è sempre ventoso. Rassicurato, comunque, dall’Ufficio Meteorologico Aeronautico, fatto il pieno al Cessna e tornato sul piazzale, un collega pilota mi chiese se poteva venire con noi. “Certo”, gli risposi, “ti siedi a destra e quello lo facciamo accomodare dietro”.

Allineato per pista 35 che punta più o meno a nord, verso le case a due o tre piani della Palermo periferica, osservai che la manica a vento era penzoloni, non un filo di vento perciò, e iniziai la corsa di decollo.

Appena staccato alla giusta velocità di 80 nodi (circa 150 Km/h, ndA) di colpo l’indice dell’anemometro scese a 40: stallo!

Giù il muso e un istante dopo tornò a 80!

Non potevo atterrare perché la pista è corta e per giunta in discesa.

– La cosa si ripeté un paio di volte; passai a pelo delle case e, qui, l’apparecchio iniziò una ripidissima salita. A quel punto, l’amico seduto accanto (che in seguito divenne pilota professionista), rimasto silenzioso avendomi visto lavorare con calma e decisione, mi disse: “Non ti voltare, a quello la barba è diventata bianca!”

Gli risposi di rassicurarlo perché saremmo subito rientrati per pista opposta.

Nessun problema, infatti, con le eventuali raffiche in prua: avevo subito capito che eravamo stati investiti in coda da forti raffiche di scirocco, con effetto wind shear che toglie velocità all’aeroplano!

Seppi poi che mentre staccavo le ruote dalla pista, in quell’istante era arrivata in Aeroclub (troppo tardi) una telefonata dall’operatore meteo che diceva pressappoco così: “ Non fatelo decollare, ci sono 70 nodi a Pantelleria!”

Giuro, meglio volare fra le nuvole che con un ventaccio così!



§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§

# proprietà letteraria riservata #


Michele Gagliani

Cielo senza confini

Tutti i lunedì, martedì, eccetera (che monotonia!) me ne vado al Club Albatros, dove faccio l’istruttore VDS (Volo da Diporto Sportivo) con un apparecchio tubi-e-tela capace di decollare e atterrare in metà della pista in terra battuta lunga non più di quattrocento metri. Per arrivarci mi faccio ogni giorno centoventi chilometri, fra andata e ritorno, con la nuova utilitaria che nel giro di un anno ne ha superato cinquantamila … e ancora devo finire di pagarla!

Quel memorabile sabato, 1° Giugno 2002, ero ancora solo e, guardando il cielo parzialmente nuvoloso, cominciai a sognare ad occhi aperti ripensando ad un volo speciale fatto qualche tempo prima.

Un volo fantastico, fuori dal tempo e dallo spazio: ero sopra e fra le nubi, in una bianca e sinuosa valle incassata fra picchi illuminati dal sole e dall’arcobaleno! Una strada infinita, con tunnel di bambagia in cui si entrava, per uscirne in curve iridescenti, poi giù a capofitto in burroni senza fondo che sfociavano in canyon risalenti verso la luce, vivida, abbagliante, in anfratti misteriosi con stalattiti e stalagmiti trasparenti! Quell’aereo ultraleggero, con motorino da ottanta cavalli, saliva e volteggiava come un angelo, magnifico, elegante, superbo.

Mi svegliò dal torpore in cui ero caduto un amico pilota, per chiedermi se poteva usare anche i miei bidoni per rifornire di benzina alcuni ultraleggeri diretti a Trapani: l’indomani avrebbero fatto scalo tecnico sul nostro campo.

– Verrò ad aiutarti: ma dove vanno? A Trapani? Non mi pare che ci siano campi di volo o aviosuperfici da quelle parti … evidentemente non sono aggiornato.

– Ma no, gli amici di Siracusa andranno a Trapani Birgi!

– L’aeroporto militare di Trapani? Stai scherzando? Su Trapani atterrano gli aerei di linea, ma è vietato a quelli da turismo … figuriamoci agli ultraleggeri! –

Pensavo, intanto, alle difficoltà incontrate in passato per farci qualche trasferimento da Boccadifalco, l’aeroporto minore di Palermo, sede di Aero Club: occorrevano speciali autorizzazioni rilasciate dal competente Ministero, da citare nei piani volo, e con gli aeroplani ci si poteva andare soltanto nei giorni prefestivi e festivi (ma non sempre) quando gli F.104 di stanza a Birgi, pur sempre in stato d’allarme, riposavano un tantino! Già allora era obbligatorio il trasponder, affinché gli operatori radar potessero facilmente individuarli; mentre ora una formazione di apparecchietti, neanche forse muniti di radio, poteva impunemente andarci?

– Impossibile, tu mi prendi per i fondelli …

– Non sto scherzando, te lo giuro! Anzi, sono stato invitato ad aggregarmi: vuoi venire con me? –

L’amico, che è sempre stato persona seria, possiede un ultraleggero migliore del mio, più veloce, sempre lucidato a specchio, e mai mi ha imbrogliato: devo credergli e, naturalmente, accetto con cauto entusiasmo. Mi toglierò lo sfizio di scendere su quello scalo proibito? Chissà! Sarà vero che questi altri amici sono autorizzati?

– Certo è – m’informa – che si tratta di volatili in gamba. Alcuni di loro hanno fatto un incredibile Raid fino a Capo Nord, altre volte sono andati a Malta … Ma sì, sono anche atterrati a Sigonella, l’aeroporto militare di Catania e base NATO!!! –

Ricordo d’essermi battuto come un pazzo, in quegli anni, per scendere con l’ultraleggero sul vecchio scalo di Boccadifalco e non ci sono riuscito, pur essendo allora pilota d’aeroplano e presidente del locale Aero Club.

Quest’aeroporto era proibito (ora non so) anche ai piloti di Aviazione Generale provenienti da altre sedi: aperto per loro soltanto in occasione del Giro Aereo Internazionale di Sicilia che si svolge ogni anno, fin da quando era prova valevole per il campionato mondiale di velocità.

Non c’era una logica in tale proibizione, considerato che in tempi non lontani chiunque poteva arrivarci in volo, anche in presenza di un reparto dell’Aeronautica Militare trasferitosi poi a Trapani.

A onor del vero, alcuni di noi avrebbero potuto volarci con gli ultraleggeri, in occasione di manifestazioni sportive o di protezione civile, a condizione di portarceli smontati: pura follia! E questi se ne vanno impunemente a Trapani Birgi? Cose da pazzi, non c’è più mondo!

Domenica 2 Giugno, alle sette, percorsi i soliti sessanta chilometri, sono già al campo, piazzo la manica a vento, controllo che non vi siano ostacoli in pista e sistemo i bidoni vicino alla porta dell’hangar.

Il nostro apparecchio, già pronto, morde il freno dell’attesa. Finalmente arrivano, uno dopo l’altro, e sono in DIECI! Ordinatamente atterrano per pista 24, essendoci un venticello da ovest, ed ho il mio daffare per aiutarli a parcheggiare nei modesti spazi del nostro campo.

Hanno tutti fretta di rifornire perché: “Abbiamo una finestra che occorre rispettare”.

Rapide spole, dunque, con le nostre auto stracariche di bidoni, fra campo e distributore più vicino, dove ci serviamo abitualmente.

Apprenderò che ai siracusani si sono aggiunti i catanesi; le due formazioni, riunitesi in volo e lasciato l’Etna alla loro sinistra, hanno tagliato nell’entroterra puntando su Capo D’orlando per proseguire lungo la costa tirrenica fino al nostro campo, dieci chilometri a ovest di Cefalù. A loro si uniranno adesso un palermitano ed un oriundo messinese (io): il volo affratella, non c’è dubbio!

Eseguiti i rifornimenti, ancora incredulo, decolliamo in coda al Gruppo.

Dopo cinquanta minuti di volo siamo a Birgi e posiamo dolcemente le ruote su quella pista liscia come un tavolo da bigliardo. Quindi rulliamo per alcuni chilometri raggiungendo, con i motori surriscaldati, il piazzale dell’aerostazione civile; entriamo e siamo accolti con entusiasmo dai gestori del bar (che raramente vedono tanta gente insieme) e con estrema cortesia dalla Società di Gestione, cui tuttavia, prima di ripartire, dovremo pagare l’handling normalmente richiesto ai piloti degli aeroplani: ma è da dire che, oltre a disbrigare le formalità di “rito” (modulistica, documenti, eccetera) hanno messo a nostra disposizione un pullman che, attraverso lo spettacolo delle saline, ci ha condotto in un ristorante prospiciente l’incantevole isola di Mozia e, più tardi, è tornato a riprenderci.

Rivedere gli undici apparecchi ordinatamente allineati sul grande parcheggio altrimenti vuoto, col monte Erice sullo sfondo di quell’abbacinante scenario azzurro, è stata per me (e giurerei per tutti) un’emozione fortissima.

Il decollo, poi, dell’intera formazione condotta dal leader di turno, mi rese soddisfatto e felice come un bambino impunito che aveva appena rubato la marmellata!

Grazie agli organizzatori di quel volo eccezionale, ho ritrovato la speranza di un cielo senza confini e recinzioni!

Mi resta, intanto, il bellissimo papiro regalatomi dal Presidente dell’Avioclub di Siracusa raffigurante un giallo biplano che sorvola il teatro greco di quell’antica Città: mitico dono d’ali per raid ritenuti impossibili!



§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§

# proprietà letteraria riservata #


Michele Gagliani

Sono io la regina del cielo

aquila zaira con ali spiegate

Volare sopra le cime di quei monti, in un cielo sempre azzurro e dove le nuvole sembravano appena uscite da un lindo bucato, a Tomas piaceva da matti. Nella città, ai piedi di enormi montagne, dove prima viveva, c’era troppa confusione e lo smog, che ormai era diventato una nebbia perenne che avvolgeva tutte le stagioni, non gli piaceva affatto e così decise di trasferirsi su quella lunga catena di monti per consegnare missive urgenti da una cima all’altra.

Con il suo piccolo aereo gli bastavano pochi metri per atterrare e decollare e poteva consegnare la posta anche a Melania, una strana e bisbetica cicogna che aveva scelto di vivere su quelle vette in attesa della pensione ormai vicina.

L’acrobazia era la sua passione e nel tempo libero non faceva altro che allenarsi. Looping, chandelle, tonneau, vite, fiesler, insomma, non c’era figura che lui non conoscesse ed era diventato talmente bravo che tutti dicevano che volava ancor meglio delle aquile, da sempre considerate le “regine del cielo”. Le sue giravolte erano veramente straordinarie, sembravano dei quadri d’autore dipinti nel cielo e la sua fama aveva fatto il dipinti giro del mondo.

Le aquile, però, erano piuttosto scocciate di quella diceria, perché dicevano che non poteva esistere nessuno al mondo che volasse meglio di loro e aspettavano l’occasione buona per potersi sfidare con lui.

Tomas aveva comperato uno strano marchingegno, di ultima generazione, che mise al posto della vecchia strumentazione, così poteva finalmente navigare tranquillo senza più guardare la bussola e tutte quelle mappe che richiedevano sempre continuo studio e impegno. L’aveva pagato caro quel “cervelletto”, come si divertiva a chiamarlo, però funzionava meglio di mille cervelli e occhi messi assieme.

Quella mattina, Tomas, doveva consegnare una lettera molto importante, a un signore che abitava sulla cima più alta di quei monti e che distava parecchie miglia. Non gli era mai capitato di volare così lontano, ma con il suo “cervelletto” non era un problema, ci avrebbe pensato lui a portarlo a destinazione e così poteva tranquillamente leggere un libro o sonnecchiare se la stanchezza lo avesse sopraffatto.

Tomas incontra Melania

Stava appunto sfogliando una rivista quando incontrò lungo la rotta Melania, la strana cicogna con la quale aveva avuto un battibecco per via dei suoi pettegolezzi. Raccontava a tutti che si era montato la testa con quel marchingegno e che non era più lo stesso, ma nonostante ciò provò un senso di compassione nel vederla conciata in quel modo.

La poverina era ormai esausta e a stento riusciva a tenere il fagottino che portava appeso al suo lungo becco. – Melania, ma dove stai andando? -, le gridò – Non lo sai che da quella parte non c’è niente e che il posto più vicino dista un sacco di miglia? Sali sul mio aereo che ti porterò dove devi andare, ma devi sapere che lo faccio solo per quel povero fagottino, perché tu, cattiva come sei, non meriteresti un bel niente. –

Con grande fatica riuscì a sistemarsi dentro l’aereo e dovettero lasciare pure la capotta aperta perché il suo becco era più lungo del piccolo abitacolo.

– Hai ragione, – disse confusa Melania,  – però sono solo pettegola e non cattiva. Comunque sei stato veramente la manna piovuta dal cielo e ti ringrazio. Alla mia età non avrei mai dovuto accettare questo incarico, ma la mia cliente è da tanto che aspetta il mio arrivo e non posso deluderla. Ti faccio una confidenza, però devi giurarmi che non lo dirai a nessuno. E’ la seconda volta che il senso d’orientamento mi tradisce e mi sento molto avvilita. Pensare che, pur di rispettare gli impegni, ho volato anche in mezzo alle bufere più terribili e me la sono sempre cavata. Sono convinta che anche questa volta è colpa della stanchezza. Se mi fossi riposata un po’ non sarebbe successo e ti dirò che ho fatto bene ad anticipare la partenza, così avrò tutto il tempo per riprendermi. Mia madre diceva sempre: “C’è un tempo per ogni cosa e ogni cosa a suo tempo” e devo dire che aveva proprio ragione!  –

– E’ vero – rispose Tomas, – quello che diceva tua madre è giusto, però ti capisco perché anch’ io avrei fatto la stessa cosa. Gl’impegni sono impegni e bisogna rispettarli. Stai tranquilla che arriveremo dalla tua cliente in tempo. –

Consegnata la lettera partirono subito alla volta della nuova destinazione, ma all’improvviso il marchingegno smise di funzionare. Tomas non sapeva cosa fare, non aveva la più pallida idea di dove si trovasse e la rotta giusta, per arrivare a destinazione o tornare in dietro, senza nemmeno l’aiuto di una bussola non l’avrebbe mai trovata.

Tomas vola con Melania a bordo

Sgomento guardò Melania e la pregò d’indicargli quale rotta seguire e lei, che non si era nemmeno accorta di quello ch’era successo, gli disse: – Scusami Tomas, ma sei scemo o lo fai apposta ? Ti ho appena confessato cosa mi è successo e tu mi chiedi che strada dobbiamo fare. Chiedilo al tuo “cervelletto” che hai sempre detto che funziona meglio di cento cervelli e cento occhi messi assieme.  –

– Melania, – rispose confuso Tomas,  – non so cosa sia successo … e va bene, se proprio lo vuoi sapere ti dico che il “cervelletto” non funziona più, la mia vecchia bussola è finita nel bidone della spazzatura e ora non so più dove andare. L’unica soluzione é fermarci su quel prato d’avanti a noi, con la speranza che passi qualcuno a cui chiedere aiuto, altrimenti saremo costretti a dormire qui.  –

– Senti Tomas,  – ribadì innervosita Melania, – accidenti a te e a quel maledetto marchingegno. Adesso dimmi come faccio ad arrivare dalla mia cliente e poi scordati che dormirò all’agghiaccio perché per i miei reumatismi non va assolutamente bene. Devo dire che sei stato proprio uno sciocco a fidarti di quel marchingegno e avevo ragione a dire che per colpa sua avevi perso la testa, o meglio, la bussola. Non avresti mai dovuto abbandonarla, lei non ti avrebbe mai tradito. Adesso, caro mio, datti da fare perché se il fagottino non arriverà a destinazione ce l’avrai sulla coscienza. –

– Melania – rispose Tomas, – hai ragione, ma non mi sembra proprio il caso di metterci a litigare adesso. Cerchiamo invece di trovare una soluzione per toglierci da questo pasticcio prima che faccia notte. Il sole sta calando a ovest e so che da quella parte non c’é niente, però se andiamo verso est sono sicuro che troveremo qualche paesino dove poter dormire e magari chiedere a qualcuno se ci presta una bussola per proseguire il viaggio. Arriveremo dalla tua cliente domani e non credo che sia un problema visto che sei partita in anticipo.  –

Tomas Melania e Zaira

Stavano risalendo sull’aereo quando sentirono una voce provenire da poco lontano. Era un’aquila che, con tono melenso, disse loro: – Scusatemi amici, mi chiamo Zaira e non ho potuto fare a meno di ascoltare le vostre lamentele. Non lo dico per vantarmi, ma conosco questi monti come le mie tasche e solo io posso aiutarvi. Se seguirete le mie istruzioni, arriverete a destinazione in poco tempo. –

– Grazie bell’aquila, – rispose contenta Melania, – sei proprio un miracolo piovuto dal cielo, non ci poteva capitar di meglio e lo so bene che non c’è nessuno che ci possa indicare la strada giusta meglio di te. –

Tomas, però, era molto titubante e non sapeva se accettare o meno il suo aiuto. Da tempo girava voce che le aquile, prima o poi, glie l’avrebbero fatta pagare per avergli usurpato il titolo di “regine del cielo” e così le disse :  – Ti ringraziamo molto Zaira per la tua disponibilità ad aiutarci, ma abbiamo deciso di fermarci qui perché ormai è tardi. Ripartiremo all’alba, Melania ha solo bisogno di riposare un po’ per riattivare il suo senso d’orientamento.  –

– Ma Tomas, cosa dici! – intervenne concitata Melania, – ma sei impazzito? Non possiamo assolutamente perdere questa occasione. Non sono certa che il mio orientamento tornerà a funzionare e anche se tornasse mi sento troppo stanca per volare. Ti prego, accetta il suo aiuto altrimenti non arriveremo mai da nessuna parte. –

– Allora, – urlò scocciata Zaira, – volete decidervi o no! Sto andando di fretta e non posso aspettare la vostra decisione. –

– Va bene, va bene, – rispose Tomas, – però sappi che, se accetto il tuo aiuto, lo faccio solo per Melania. Avanti, indicaci pure la rotta che partiamo subito.  –

– Andate dritti – cominciò a dire Zaira, – verso la cima di quel monte e appena l’avrete superata girate a destra di novanta gradi. Andate ancora dritti finché non vedrete un’altra montagna, superatela e girate di nuovo a destra, sempre di novanta gradi. Andate avanti per qualche miglio e quando vedrete di fronte a voi un’altra cima, prima di superarla, girate di nuovo a destra e la vostra meta la troverete proprio sotto di voi. Buon viaggio amici e buona fortuna! –

Partirono subito e ci misero tutta l’attenzione possibile per seguire bene la rotta indicata, ma per Tomas non era quella giusta e farfugliando disse a Melania :  – Ho l’impressione che stiamo tornando indietro perché quando siamo partiti Il sole era sulla nostra sinistra e adesso l’abbiamo sulla destra. Secondo me c’è qualcosa che non va. –

– Senti Tomas, – rispose innervosita Melania, – non vorrai mica saperne più di Zaira? E’ proprio vero che oltre la bussola hai perso anche il cervello. Se lei ha detto di seguire questa strada vuol dire ch’è quella giusta e vedrai che arriveremo ancora prima del previsto.  –

 E fu così. Arrivarono prima del previsto, ma si ritrovarono nello stesso punto dal quale erano partiti.

Melania non riusciva a contenere la sua disperazione e con le ali cominciò a schiaffeggiarsi il muso per cercare di riattivare il senso d’orientamento, che invece si faceva ancora più confuso.

– Te lo dicevo Melania – disse innervosito Tomas, – ch’era meglio non fidarsi. Saranno pure degli uccelli straordinari, ma sono anche terribilmente gelosi. Sono convinto che, con questo scherzetto, hanno voluto farmi pagare quello che dicono su di me. –

Infatti, quella furfante di aquila, che si stava sconquassando dalle risate, era ancora lì che li stava aspettando.

– Zaira, – le urlò Tomas, – Sai cosa ti dico? Non sei stata affatto corretta, hai messo in difficoltà Melania che non ha nessuna colpa. Guarda com’ è disperata poverina! Ricordati che se il fagottino non arriverà a destinazione, ce l’avrai tu sulla coscienza.  –

– Hai ragione, – rispose sempre con tono melenso Zaira, – riconosco che non mi sono comportata molto bene, ma se vuoi sapere la rotta giusta dovrai prima batterti con me. Voglio proprio vedere chi è più bravo! – e, rivolgendosi a Melania, continuò  – E tu smettila di piagnucolare. Convinci piuttosto questo sciocco a battersi con me se vuoi arrivare in tempo dalla tua cliente.  –

Melania scongiurò Tomas di accettare subito la sfida e gli sussurrò in un orecchio di far di tutto per farla vincere, anche se in cuor suo era convinta che Zaira ne sarebbe uscita vincitrice.

A Tomas, perdere la sua fama gli scocciava parecchio perché la sua bravura non c’entrava niente, come molti credevano, con quel piccolo strumento che a lui usava solo per navigare. Aveva impiegato anni di allenamento per arrivare a quella perfezione che richiedeva ordine ed estrema precisione nel pilotaggio. Le sue acrobazie non erano spavalde improvvisazioni o sprezzo del pericolo, ma solo un grande amore per quel tipo di volo. Tomas aveva imparato ad ascoltare il suo aereo, con il quale era ormai entrato in simbiosi; l’aria era il suo elemento naturale e le ali un prolungamento del suo corpo, che nessun “cervelletto” avrebbe mai potuto sostituire.

Era quasi sul punto di declinare l’invito, ma il pensiero che, a causa sua, Melania non avrebbe più potuto rispettare l’impegno e che la mancata consegna sarebbe poi pesata sulla sua coscienza, gli fece accettare la sfida.

In un attimo quel prato pullulò di spettatori, come non era mai successo. Volatili di tutte le specie, scoiattoli, lepri, daini, topolini, farfalle, martore, puzzole, insomma, tutta la fauna di quel luogo era lì, pronta a testimoniare chi sarebbe stato il migliore.

Tomas e la sfida di Zaira

La sfida consisteva nell’individuare per primo un piccolo topolino, che si era prestato a nascondersi tra i fili d’erba di quel pendio.

Imponente e maestosa Zaira spiccò il volo e raggiunse in un attimo un’altezza strepitosa per poi picchiare con una velocità pazzesca, fino quasi a toccare il terreno e risalire in alto, picchiare di nuovo e ancora risalire in alto, sempre più in alto per fermarsi all’improvviso e vibrare per qualche istante nell’aria con le sue maestose ali allungate fino all’impossibile.

Tomas invece continuava a zigzagare in lungo, in largo, in alto e in basso, cercando con tutti i suoi stratagemmi acrobatici,  di evitare che il lungo e adunco becco di Zaira gli perforasse le ali. Per cambiare direzione e perdere quota in poco spazio, ricorreva spesso alla vite. Uno, due, tre, quattro giri, poi ancora giù, per poi tornare di nuovo in alto, sempre più in alto, con una velocità che rasentava il limite dello stallo e che fosse avvenuto avrebbe voluto dire perdere la sfida.

Quell’affascinante spettacolo sembrava più un duello che una caccia al tesoro e infatti era proprio così, ormai non c’erano dubbi.

Zaira e Tomas non potevano non aver visto quel piccolo topolino che, uscito allo scoperto per ammirare meglio quelle straordinarie evoluzioni, stava saltellando divertito in mezzo all’erba.

La loro adrenalina era ormai arrivata alle stelle e una sconfitta significava perdere per sempre la propria reputazione, che nessuno dei due avrebbe mai accettato.

Melania era disperata, il solo pensiero che, se Zaira avesse perso, non sarebbe più arrivata dalla sua cliente, gli stava lacerando il cuore e si mise a singhiozzare a più non posso. Tomas sembrava aver la vittoria in pugno, ma quando l’eco di quei singhiozzi arrivò fino alle sue orecchie, in quell’ ultimo looping, fece stallare il suo aereo e abbandonò la competizione.

Un’esplosione d’applausi, che rimbalzò da una vetta all’altra di quei monti, proclamò Zaira vincitrice.

La lezione di Zaira

– Devo ammettere che sei stato veramente bravo , – disse l’aquila a Tomas,  – ma ricordati che, anche se non abbandonavi la sfida non avresti mai potuto vincere con me. Se avessi voluto ti avrei perforato le ali mille volte e se non l’ho fatto è stato per la stessa ragione per cui tu hai stallato. Comunque dirò a tutti che, tra gli uomini, ce né solo uno che sa veramente volare quasi come le aquile e questo sei tu. E ora amici seguitemi che vi porterò io a destinazione.  –


NOTA:  illustrazioni di Maddalena Schiavi Medas

Per puro caso

Tutto ebbe inizio per puro caso, dovevo scrivere un racconto che trattasse del volo ed avendo io conoscenza pressoché nulla di aerei e quant’altro li coinvolgesse, me ne stavo parecchio pensierosa sul da farsi.

Ad un certo punto mi tornò in mente che, da qualche parte per casa, vi era ancora il libricino che trattava delle vicende di mio nonno pilota, che io non ho mai avuto la fortuna di conoscere, essendo morto anni prima che io nascessi.

C’è da dire che sono una persona disordinata, ma in questo caso sapevo che l’oggetto in questione era nella libreria, si trattava soltanto di capire dove precisamente: la osservavo e lì, in quel mare di libri vidi subito sbucare il libricino blu che cercavo; nell’aprirlo l’emozione mi colse e mi chiedevo se fosse una semplice coincidenza che esso sbucasse tra gli altri libri, o tutto rientrasse nel dictat di Padre Pio: “Nulla accade per caso”.

Io amo scrivere, e questa mia caratteristica mi accomuna al nonno: come me, egli teneva con rigore quasi militare il proprio diario, e questo mi ha permesso di conoscerlo almeno un poco.

Mio nonno era figlio unico di panettieri bergamaschi, così come anch’io non ho fratelli; classe 1911, fu un pilota italiano dalle indubbie qualità militari, unite ad un rigido e misurato senso del dovere.

Io sono l’orgogliosa nipote del tenente pilota Umberto Facoetti che esercitò l’alta funzione umana con la giusta armonia tra l’esplicazione dei propri doveri di soldato e la vita familiare: purtroppo, queste ultime gioie furono per lui piuttosto brevi, dato che il nonno restò sposato soltanto pochi mesi, cinque per l’esattezza.

Mio nonno viveva la sua professione come una missione delle più sublimi, diceva che volare gli consentiva di avvicinarsi a Dio; lassù in cielo, lui viveva come assorto in un sentimento che occupava tutto il suo spirito.

Il nonno era fortemente cristiano, con una fede immensa, la stessa grande religiosità che è dentro di me: Dio ci ha dato la vita ed un libero arbitrio che ci permette di scegliere ogni momento da che parte stare; io oggi sono fortemente credente ma non sempre lo sono stata come ora; nella vita a volte succedono cose che la scienza non è in grado di spiegare e allora ecco che ci si ritrova dentro una religiosità forte e intensa; io sono fortemente convinta che questo aspetto della mia vita sia eredità di mamma e anche del mio nonno, che rischiava la vita e ringraziava la Madonna per averlo conservato vivo.

Posso dire di conoscere mio nonno attraverso il diario che compilava, e mi piace immaginarmelo alla sera di fronte alla scrivania dopo una delle tante missioni di pace o di guerra in cui era impegnato nella giornata; sono certa che ha affrontato quella vita difficile con tutto l’impegno, consapevole di lavorare per la pace.

Mio nonno dopo alcuni anni di professione da pilota militare, si propose volontario in Spagna. Affrontò questa scelta con impegno costante, si prodigava in ogni circostanza con slancio ed esemplare entusiasmo; partecipò a numerose azioni sui fronti di Teruel e d’Aragona, in qualità di pilota e di capo-equipaggio di apparecchio da bombardamento, dimostrando ottime doti di valoroso soldato.

Se in una giornata di sole alziamo i nostri occhi al cielo, vediamo un azzurro intenso e limpido, talmente bello da darci sensazioni meravigliose, con nuvole dalle mille forme che rendono tutto davvero bellissimo, anche quando i temporali oscurano tutto; il cielo ci fa pensare agli Angeli, non è forse lì che abitano i nostri morti?

Alle volte qualcuno ha desiderato d’attraversare quel mare infinito che è sopra di noi, l’unico modo per farlo è volare: nei secoli più gente ha provato la strana sensazione di librarsi nel cielo infinito, già quando si sciolsero le ali di Icaro per aver egli preteso d’avvicinarsi troppo al sole; fu un volo fatale, guidato dallo stesso amore che i piloti provano per quello spazio infinito. Uno di questi fu mio nonno.

Mentre mi preparo ad uscire io penso a lui; accantono il libricino per andare a messa; dopo la funzione religiosa è prevista una festa, saluto la mia amica che mi presenta suo fratello: quasi sbianco nel guardare quel ragazzone alto con un bambino in braccio; mi ricorda nonno Umberto, ha un portamento elegante e militare, ben diverso da quello che dovrebbe avere un operaio.

Mi raccontano tutti che il nonno era un gran bell’uomo, alto e di bella presenza, aveva fascino da vendere; e ora mentre osservo quel giovane uomo stringere a sé il figlio mi pare, chissà perché, di vedere mio nonno felice con il proprio bimbo che non ha fatto in tempo a vedere.

Quell’immagine di dolcezza entra dentro di me e mi commuove, cerco di contenermi mentre tengo in mano il mio tramezzino e dico all’amica che devo proprio mostrarle la foto di mio nonno.

Rimango scombussolata e mi ripeto che non è accaduto nulla, in fondo quello è un ragazzo come tanti, ma l’affetto che ho dentro mi invade mentre non posso fare a meno di pensare: “Mio nonno era proprio così, sono certa che con suo figlio sarebbe stato così.”

Il nonno era sposato da poco ed attendeva la nascita di mio padre. Non deve essere stato facile per lui restare sul campo di battaglia per compiere il proprio dovere; amava la nonna ma era innanzitutto un soldato e non poteva lasciare il tutto perché questo avrebbe significato morire dentro; se avesse rinunciato alla propria essenza di pilota, mio nonno sarebbe ancora vivo, ma non sarebbe stato felice; non si sarebbe sentito degno di stare accanto a una donna, e chiederle amore e conforto.

Il nonno non pensava alla ricchezza, sentiva dentro il grande dovere di essere un aviatore; non gli interessava una vita tranquilla né invecchiare, egli voleva fare ciò che più amava: e questo era soltanto volare; il tenente pilota Umberto Facoetti era contento di essere al posto suo di rischio, di ardimento, di sacrificio, e non desiderava altro, perché amava la sua patria. E il Re.

Mentre scrivo questo racconto, è forte la tentazione di riportare le parole scritte direttamente da lui, non vorrei esimermi dal dare voce a una persona che adoro ogni momento di più: è come se scrivere di mio nonno mi portasse su strade non ancora percorse eppur strane, che mi indicano la strada da percorrere; e allora mi confronto con alcuni amici e ne traspaiono consigli di scrittura, che è come se intanto al mio fianco ci fosse proprio mio nonno, e ora che parlo di lui egli mi guida e mi dà segni della sua presenza al mio fianco.

Inserisco il suo nome su Google, così per curiosità, mi si apre una schermata con la pagina dei caduti della città di Bergamo, quartiere di Borgo Santa Caterina, è proprio dove viveva il nonno!

C’è la foto della targa con sopra i nomi dei caduti in guerra. Quando la apro faccio una scoperta shoccante: lì in bella mostra c’è il suo nome accanto alle parole “Capitano Pilota”. Buffo: in quel suo diario lui scriveva che lo volevano promuovere di grado, e poi lo scritto si interrompe … comprendo che mio nonno è diventato capitano per aver dato la sua vita per servire la patria.

Sono orgogliosa di lui e dei suoi gradi, ma per avere il suo nome su quella pietra che io vedo dal computer di casa, mio nonno e gli altri con lui hanno scambiato la loro vita per la libertà mia e di quelli come me.

E mentre mi sale dentro il disprezzo per ogni atto di guerra, mi cresce forte l’amore per mio nonno: è diventato capitano per meriti di guerra, poiché sulla sua tomba nel cimitero di Bergamo, lui è ancora il Tenente Pilota Facoetti

L’attività gli valse più volte decori al valore militare, e quel “capitano” accanto al suo nome tra un elenco di caduti, l’ha pagato col sangue.

Mi raccontava mia nonna che il marito superò mille peripezie, come quella volta in cui, solo al comando, il giorno dopo Natale del 1937, nel cielo di Teruel fu colpito da una granata e continuava con mirabile calma nella regolare condotta del velivolo, permettendo in tal modo il completo svolgimento dell’azione; ciò gli portò la medaglia d’argento.

Egli fu un tenente pilota modesto perché, avendo volato a sufficienza in una zona di volo, decise di cambiarla per lasciare il posto ad altri che ne avevano più bisogno: aveva un grande cuore.

Capo equipaggio audace ed instancabile, esempio di spiccate virtù militari, egli compì numerosi voli di guerra (in numero nettamente superiore a quelli di pace), portando a compimento svariate missioni e sempre distinguendosi per ardimento, slancio e dedizione al dovere.

Fu un ufficiale pilota abile, sempre pronto ad offrirsi volontario nelle missioni: la nonna mi raccontava che in una spedizione organizzata per il recupero di importanti documenti del Comando Aeronautica, egli si trovava a bordo di un apparecchio incidentatosi in regione impervia: effettuò una marcia faticosa e difficile, contribuendo efficacemente a sventare l’agguato di indigeni armati e raggiungendo la meta col faticoso trasporto del materiale felicemente recuperato.

Nelle azioni di bombardamento e di mitragliamento, egli affrontava sempre serenamente e a bassa quota la reazione avversaria, confermando il suo valore e contribuendo efficacemente al successo: fu sempre un valoroso combattente che si meritò due ricompense al valor Militare.

Mio nonno aveva una forte tempra fisica, resistente alle fatiche ed ai disagi; i superiori descrivevano l’ottima educazione civile e militare e come in ogni suo atto egli dimostrasse un comportamento signorile: pare che anche una volta rimpatriato chiedesse insistentemente di essere inviato in missione speciale all’estero comportante alti ideali patriottici; conosceva bene i regolamenti che applicava con sano discernimento.

La grande fede era in mio nonno accompagnata ad un carattere franco, leale e sincero; aveva un contegno rispettoso ed educato.

Mi sembra di percepirne la presenza al mio fianco mentre scrivo.

La scrittura, nostra comune passione, è la via che lo conduce a me, come se sentissi una carezza sulla mia testa: mi pare di averlo qui con me, a osservare le parole scritte sul mio computer e guardarmi teneramente, con una tenerezza di nonno che non ho mai conosciuto.

Il giovane pilota era animato da altissimo spirito combattivo (lo stesso carattere forte che è in me); egli era audace ed insieme ponderato (caratteristica che a me purtroppo manca); in sé stesso conservava l’ottima preparazione morale che tanto ci accomuna; egli dava sempre il massimo rendimento, così come mia mamma mi ha insegnato a chinare la testa in attesa di un obiettivo, impegnandomi a fondo per raccogliere un giorno i frutti di tale fatica.

Egli era una persona decisa e riflessiva, così come anch’io sono, rifletto sempre molto sulle decisioni che coinvolgono la mia vita, pondero anche gli amici al mio fianco, evitando coloro i quali non tengono in giusta considerazione la religiosità dell’uomo, od anzi chi predilige scelte di ricchezza raggiunta ad ogni mezzo, o chi invece vive la propria vita seguendo l’indole del più forte.

La calma insita nel nonno, è forse la dote che a me più manca; il suo pieno attaccamento all’arma cui apparteneva non è certo il mio.

Non posso fare a meno di pensare a quella professione difficile che me l’ha portato via: sono sicurissima che egli amasse più di ogni cosa al mondo fare il pilota, e il sapere che è morto facendo ciò che più amava, è per me una consolazione.

Sono certa dell’alto grado di addestramento che gli ha permesso di dare sempre il massimo rendimento: le sue ottime qualità tecnico-professionali di ufficiale combattente gli hanno permesso di raggiungere con onestà livelli elevati dell’Arma Aeronautica.

La vita del soldato tenente pilota Umberto Facoetti fu davvero densa di avvenimenti, a cominciare dal periodo di prima nomina e richiamo in Eritrea, al passaggio all’arma aerea, l’assegnazione alla Scuola di bombardamento in Napoli, al ritorno in A.O. per le operazioni di guerra, poi il ritorno in patria e successiva assegnazione alla missione in Spagna.

Egli era molto devoto a colei che chiamava la “Madonnina” di Pompei, e mi ritrovo a sorridere mentre io stessa chiamo con identico affettuoso termine la Madonna, per un sentimento che mi nasce dal cuore; il nonno riteneva di essere stato molto a lungo protetto da lei nelle tante avversità che la sua vita comportava, così come anch’io ho superato qualche avversità grazie al supporto della fede.

Mancando mio nonno, la sua religiosità forte non venne mai recepita appieno dal figlio che crebbe con una madre e vedova sofferente di un pilota. Mio padre racconta che a mia nonna, a diciannove anni, vennero in un istante tutti i capelli bianchi quando seppe della morte del suo amato consorte.

Il nonno era solito specificare che egli era un credente convinto e non certo un bigotto, così come io mi rendo conto che nelle avversità “qualcuno” ci è sempre a fianco, e forse anche quel nonno che mi sembra di conoscere ogni istante di più.

Questa religiosità che mi accomuna a lui, non è insita in mio padre Umberto che, cresciuto più coi nonni che con la madre, non visse mai quel senso di stabilità che solo i genitori possono dare.

Mio nonno aveva parole affettuose di figlio nei confronti dei propri genitori, così come il mio affetto per mia madre (scomparsa prematuramente) è la cosa più importante della mia vita: vivere per lei e secondo i valori che lei mi ha ben trasmesso, è il mio compito.

Non è stato facile vivere a fianco di un padre orfano di guerra, che ha vissuto la vita con questa sofferenza nel cuore come un fallimento: rigido nell’educazione e praticamente anaffettivo, con una religiosità tutta sua che interpreta a piacimento. Mio padre è sempre stato agli antipodi di me, mentre mamma era il mio rifugio nelle difficoltà.

Ho ancora dentro i dettami dell’educazione militare che mi fu inculcata, a cominciare da quell’ossessivo: “Stai dritta”, “A tavola parlano i grandi”, e le sculacciate prese se mi cadeva una forchetta, e a letto senza cena.

Sono cresciuta con il timore di mio padre, che soltanto la presenza di mia mamma è riuscita a mitigare nei nostri due caratteri praticamente opposti: morta lei, abbiamo preso due strade diverse, io restando nella Bergamo dove il nonno ha vissuto ed è sepolto, lui da anni vive ormai in Sardegna.

Sono diventata adulta senza mai provare l’amore per il volo, che fu la causa della morte del nonno e la più grande disgrazia della mia famiglia; e chissà se in questo ha la sua parte il fatto che per il mio secondo compleanno ricevetti in regalo un volo su un aereo: non ricordo le emozioni del giorno, ma negli anni mi venne riproposto quel primo volo come un avvenimento.

Ricordo invece benissimo il volo che feci a vent’anni su un quattro posti pilotato da un amico di papà, che lui mi aveva regalato; e non posso scordare la turbolenza e le manovre acrobatiche che compiva colui che mio padre, intanto, definiva un pazzo; scesi dall’aereo con le gambe tremolanti e la testa che girava, ma quel giorno conobbi il mio ex fidanzato, pilota per hobby: stare con lui fu la più bella esperienza di quel volo.

Mio padre non riuscirà a diventare pilota: pare che all’epoca la professione fosse preclusa a chi aveva una grossa miopia; in alternativa egli svilupperà l’hobby del paracadutismo, trascorrendo ogni momento libero ai raduni sparsi per l’Italia, talvolta portandosi dietro la figlia; la sua passione continuerà anche dopo essersi fratturato la gamba per un lancio, limitandosi però ad osservare gli altri.

Passerò la vita a sentirlo sognare di spendere tutti i suoi risparmi nell’acquisto di quel biplano che poi fortunatamente non comprerà mai; vivrò le sue indimenticabili sorprese, come quel giorno di Pasqua in cui saltammo la messa per andare a Cremona a pranzare in un ristorantino ordinario ma che di fronte aveva l’enorme pista di atterraggio, l’unica cosa che io vidi di tutta la città.

Anche quando andai a trovarlo in Sardegna, l’unica cosa che mi mostrò furono le piste di atterraggio di piccoli aerei; ricordo solo quella di Alghero con un ristorante davvero eccezionale.

Non sono mai totalmente tranquilla quando sono su un aereo, anche quando è un volo di linea che mi sta portando in vacanza in Inghilterra: mentre volo prego tanto e sono contenta che anche mio nonno mentre volava lassù nel cielo pensasse a Dio; io mi rilasso un poco soltanto quando sono ad alta quota e l’aereo non fa più balzi; da lassù penso fortemente a mio nonno che è morto proprio in quel cielo infinito, e credo che lui non permetterà che possa accadermi qualcosa.

Sono contenta che scrivere tutto questo mi abbia consentito di conoscere di più mio nonno, vedere i punti affini con lui, praticamente tutti tranne quello per lui più importante; scrivere di lui me lo fa sentire vivo come mai è accaduto prima, una sorta di presenza paterna … e mi viene da dire a mio nonno che se lui non ha potuto provare la gioia di crescere suo figlio, io sono ben felice di sentire quella carezza sulla testa, e avere lui pilota che mi protegge dal cielo.

Non posso non pensare che mentre trascorrevo anni a non capire mio padre ed i suoi atteggiamenti burberi, forse la risposta era tutta qui, in quel nonno con tutti gli aspetti che mi accomunano a lui: e mi sembra di conoscere lui più ancora di quanto io abbia mai potuto comprendere mio padre.

Mi ritrovo nella fede del nonno e di mia mamma: ritrovo un nonno affettuoso come non è stato il mio genitore che forse ha cercato di comunicare con me soltanto attraverso aerei e paracadutismo praticamente in ogni salsa, a cominciare dalle grandi ali che si è tatuato sul braccio in gioventù: non ho ricordi di lui se non associati a queste ali, anche con le volte che, sprezzante del freddo, indossava camicie corte per mostrarle orgoglioso.

Oggi mi sento nipote orgogliosa di quel nonno che combatteva animosamente nei cieli di Spagna sentendo odor di vittoria; sono la nipote di un uomo speciale che era anche pilota, era mio nonno che non ho mai conosciuto ma oggi sento vicino a me, in queste cose strane ed impossibili, senza spiegazioni: un uomo che è morto settantasei anni fa ed io lo sento presente nel mio cuore, con quelle caratteristiche che sono le stesse mie nonostante i tanti anni che ci separano.

Ed era lì la mia religiosità, i miei valori e la forte moralità che mi impedisce di fare scelte sbagliate e mi indica la strada anche quando non vorrei: la mia indole interviene a decidere al mio posto.

E questo mio carattere a volte strano, che non comprendo appieno quando guardo chi vive più tranquillamente la propria vita, mi pare di comprenderlo soltanto ora che penso a mio nonno e leggo di lui.

Ho davanti a me la sua foto di giovane tenente pilota, con i gradi che brillano orgogliosi sul suo petto, lì dove vi è anche il suo cuore.

E succede l’ultima cosa strana di questa vicenda: vado a vedere il marmo posto fuori dalla chiesa parrocchiale di Borgo Santa Caterina in Bergamo, il quartiere in cui mio nonno viveva, dove è nato e cresciuto con i suoi amati genitori; sono titubante all’idea di trovare il suo nome scolpito, e la prima cosa che vedo è un enorme cuore rosso che qualcuno ha dipinto su un muro: il cuore mi accoglie, mi invade d’amore e gioia tutta l’anima.

Lì, proprio di fronte vi è il nome “Capitano Pilota Facoetti Umberto”, appena sopra ad un grosso fiore di colore rosso; scendono lacrime sul mio volto, tristezza per la guerra ingiusta e tutte le gioventù rubate alla vita; piango appena in silenzio mentre guardo quel nome piena di dolore e di affetto, lì di fronte a me vi è quel cuore che mi ha accolto e mi invade l’anima di pace: mi pare un regalo del nonno che ha voluto rendermi leggero quel momento.

E ora sono sicura: il nonno sta cercando di comunicare con me e mandarmi quell’amore che ho sempre ignorato, ma era al mio fianco.

E mentre cammino verso casa, vedo una culla di bimbo di un inconfondibile colore verde militare, e mi pare di risentire quella carezza sulla testa: la dolcezza di un pilota che era mio nonno.



§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§

# proprietà letteraria riservata #


Francesca Facoetti

Sulle ali dell’entusiasmo

Spiccai il volo alle 08:37 del mattino.

Partii dal campanile della chiesa sul colle di San Tommaso, la vetta più alta della prima periferia. Da lassù vedevo tutta la città, dai cortili del duca fino alla piccola capanna dello zio Samuele, dalla caserma dei pompieri fino all’orticello dell’Antonella. I palazzi brillavano sotto la luce del primo sole del giorno; e con calma facevano capolino i primi fiori, invitati da un caldo piuttosto insolito per il mese corrente dell’anno.

Ero estasiato, ubriacato dalla bellezza dei tetti rossastri che si alternavano alle chiome verdi delle querce, sparse qua e là a ombreggiare i passanti; e il mio sguardo sornione venne ridestato soltanto dal frastuono di un grande aereo, che volava in cielo con me solcando le nuvole bianche.

La città viveva due risvegli, nei giorni feriali: il primo, il mattino presto, dovuto a fabbriche e scuole, che muovevano una buona fetta di paesani entro le otto; il secondo, invece, iniziava una mezz’ora dopo, con molta più calma e dispersività; e vedeva protagonisti tutti coloro che, per un motivo o per l’altro, non avevano, in precedenza, nulla da fare.

Era il caso dell’ormai non più piccolo Filippo, che marinava per l’ennesima volta la scuola per vedersi con la bella Teresa, che in compenso poteva svegliarsi tardi essendo di professione mantenuta, vivendo alle spalle del povero Michele, che era invece in piedi da ore, per portare a casa qualche tozzo di pane.

Oppure era il caso di Luciano che, dopo l’ennesimo comportamento irriverente al lavoro, si era ritrovato disoccupato e viveva di piccoli furti; oppure di Maria che avrebbe, dopo una vita di sacrifici, meritato un po’ di riposo e che invece doveva svegliarsi per cucinare per tutti i suoi nipotini, rimasti orfani dopo l’incidente di maggio scorso; ma anche del duca che, vivendo di rendita e prepotenze, metteva con pigrizia gli stivaletti per andare a caccia in una delle sue varie tenute di campagna.

Ecco, in questo preciso momento della giornata scelsi di librarmi in aria.

Poi accadde una cosa che non mi sarei mai aspettato.

Come avviene nei musei e nelle gallerie d’arte, dove, in contemplazione di un quadro, inizialmente si ha una visione d’insieme e poi l’occhio cade sui vari particolari, allo stesso modo mi trovai, dopo un primo istante di meraviglia visiva in cui potei ammirare tutta la città, a mettere a fuoco alcuni piccoli, ma significanti, dettagli.

Solo certe cose attirarono, involontariamente, le attenzioni delle mie pupille. E non furono le ormai ultime foglie gialle e rosse in terra che venivano raccolte dal vento, non furono le grazie della signorina Rosaria che usciva a stendere la biancheria in terrazza, non furono nemmeno le code di biciclette che si stavano creando attorno a Porta Garibaldi in vista della corsa cittadina del pomeriggio. Furono altri i dettagli, quelli che non avresti creduto di vedere, ma che invece non puoi più fare a meno di osservare.

Subito, l’occhio mi cadde su casa mia, su quel tetto un po’ rovinato ricoperto da frisbee e palloni che mio figlio Filippo non andava mai a recuperare. Ma più che sul tetto, notai la finestra di camera sua, quella al pian terreno, ancora aperta, lasciata spalancata dopo la sua fuga per incontrare la sua focosa amante. Dall’alto dove mi trovavo io – ma anche dalla strada – si intravedevano tutti i suoi aggeggini tecnologici, dal tablet al laptop fino all’impianto stereo e alla Reflex; doveva averli visti anche Luciano che, passando di lì, stava, senza difficoltà alcuna, entrando nel vuoto edificio sapendo di poterci trovare un così ricco bottino, non solo fra le cose di mio figlio, ma anche fra le mie.

Volli distogliere lo sguardo e non pensare a quello che avevo appena visto, non potendo del resto fare nulla per evitarlo. E come si cambia punto del quadro quando di questo ormai si conosce tutto, cambiai anch’io, senza pensarci, spostando rapidamente gli occhi da destra a sinistra.

E un’altra finestra attirò subito la mia attenzione.

Era un edificio bianco, il piano era il quarto, e la struttura occupava un intero isolato; attaccata sopra al tetto, dove qualche camice bianco era andato a fumare, una grande croce rossa.

Attraverso il vetro pulito svogliatamente il giorno prima, intravedevo due occhi di donna, stanchi, pesanti. Vedevo un sorriso spento e una lacrima che solcava una guancia ormai rugosa, con le ancora delicate mani che scostavano i capelli bianchi che le cadevano sulla fronte.

Era il viso di mia madre, ormai giunta al capolinea di una lunga ma straziante malattia; guardava fuori, sulla strada dove era cresciuta, per dire addio un’ultima volta al mondo.

Feci anch’io come lei, e osservai meglio la via dietro l’ospedale, quella strada a senso unico. Poco più avanti, sempre su quella strada, due persone si abbracciavano qualche metro fuori l’uscio di casa; lui, vestito in camicia, evidentemente pronto ad andare a lavorare poco più tardi; e lei, che gli accarezzava i capelli brizzolati, in un comodo paio di jeans completati da una felpa di tuta. La donna dai capelli biondi legati sopra la testa era mia moglie, e la valigia appoggiata di fianco all’ingresso gliel’avevo regalata io, per il nostro viaggio di nozze. Evidentemente, per lei, più che a senso unico, quella strada era senza ritorno.

A volte capita che uno spettatore, davanti a un bel quadro, trovi un particolare e inorridisca; allo stesso modo feci io, di fronte a quella scena. Così cercai di cambiare completamente panorama, spostando il mio sguardo dall’altra parte della città.

Notai un’automobile che usciva da un garage condominiale; era un’auto elegante, una BMW nera, di quelle che solo a vederne il prezzo ti viene un attacco di cuore. Seguii per un po’ il percorso di quella macchina, finché non capii di chi era, e dov’era diretta: era dell’avvocato Bianchini, e veniva verso casa mia. Passava a prendermi per andare in tribunale; quel giorno era il giorno della sentenza. Sapevo già come sarebbe andata: colpevole. Quando investi i genitori di ben cinque bambini mentre attraversano la strada sulle strisce, sai già come va a finire.

Pensando a questo, mi resi conto che il mio brevissimo tempo in volo era ormai scaduto; e il mio corpo, dopo essersi lanciato dal campanile, stava per toccare, per un’ultima volta, la terra della mia città.

Sulle ali dell’entusiasmo di dire addio a quella vita.



§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§

# proprietà letteraria riservata #