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Racconti degli autori

Una notte da dimenticare

Settembre è un mese gradevole sotto vari punti di vista. Non è caldo come in luglio e agosto, le giornate sono ancora lunghe e si possono fare ancora delle belle passeggiate per godere il tiepido vento di scirocco, che spira quasi costantemente nella Sicilia occidentale. Quando si è giovani, poi, tutto è bello e anche gli episodi negativi, che entrano nella memoria con violenza e cinica realtà, pur lasciando un solco profondo nella vita di chi li subisce, col passare degli anni leniscono la loro crudezza e lasciano solo un forte dolore nello spirito di un giovane.

Un mio amico qualche tempo fa mi ha parlato di una sua terribile avventura di quando era giovane ufficiale con l’incarico di Controllore d’intercettazione in un Centro Radar. Il suo lavoro gli piaceva molto e vi si dedicava con zelo e professionalità.

A volte, però, queste caratteristiche non sono sufficienti per evitare situazioni di pericolo, specialmente quando c’è un concorso di cause nell’evento.

Dicevo settembre perché il racconto inizia proprio in quel mese in una bella città della Sicilia occidentale.

Raf, così lo chiamavano e lo chiamano gli amici, era tutto eccitato perché in quei giorni si stava preparando per una importante esercitazione/valutazione che era un punto d’arrivo nel suo lavoro e, contemporaneamente, una nuova partenza verso altri ambiti traguardi.

Nei giorni che precedettero l’evento da dimenticare, a volte, guardava verso ovest il sole tramontare e, con una certa tristezza premonitrice, sentiva una stretta al cuore. Pensava dentro di sé che tale stato di tensione era forse dovuto all’impegno che stava per affrontare per la prima volta e così, cercando di farsene una ragione, continuava nel suo addestramento con maggior impegno e continuità.

Spesso cercava di distrarsi con gli amici, trascorrendo delle serate in attività di diporto nella ridente città. Anche la sua ragazza, una splendida bionda con occhi azzurri e un fisico mozzafiato, si accorse di questa sua particolare tensione e cercò di distrarre la sua attenzione dal prossimo evento, almeno, quando era fuori servizio. Raf era molto innamorato e accondiscendeva sempre a tutte le sue richieste.

In fin dei conti, per lui era un toccasana liberare un po’ la mente e Sara, anche lei molto innamorata, per distrarlo un giorno gli diceva: “Raf mi accompagni all’atelier di Trapani, devo comperare un nuovo vestito per il matrimonio della mia cara amica Rosalba”. Un altro giorno gli chiedeva di accompagnarla dal meccanico perché la sua auto aveva bisogno di urgente manutenzione e poi dall’orefice per comperare una nuova parure da abbinare al vestito e così via giorno dopo giorno. Raf la guardava, sorrideva e le diceva: “Va bene Sara”. Erano gli unici momenti in cui il suo pensiero smetteva di pensare al lavoro.

Intanto, erano arrivate le disposizioni per l’attività da svolgere e Raf le studiò con attenzione cercando di memorizzare anche le eventuali azioni alternate da porre in essere. Si sentiva sereno ed eccitato nello stesso tempo.

L’attività di volo si doveva svolgere durante un solo giorno in tutta Italia e, perciò, era necessario uno stretto coordinamento anche con gli altri Centri Radar limitrofi e con le basi aeree a loro collegate: era la simulazione di attacchi da varie posizioni verso il territorio nazionale.

Era una Valutazione Tattica Nato dei reparti della Difesa Aerea Nazionale.

E’ opportuno ricordare che a quei tempi i coordinamenti e le trasmissioni dati erano tutti via telefono/cuffia; non esisteva ancora la trasmissione automatica dati via computer.

Arrivò il grande giorno e tutto era pronto. La sala operativa era a pieno organico, compreso il Comandante, il Capo Ufficio operazioni e il Capo Servizio tecnico. Inoltre c’era il team di valutazione composta da personale Nato e personale nazionale per i necessari coordinamenti relativi all’esercitazione.

Il Capo Controllore della Sala Operativa coordinava l’attività di volo attraverso i suoi assistenti ed assegnava gli intercettori ai Controllori d’intercettazione che ricoprivano due postazioni. In una di queste postazioni sedeva Raf con il suo assistente che provvedeva a fornirgli i dati necessari per l’attività.

Il tutto cominciò intorno alle ore 19:00 quasi in contemporanea in tutta Italia. I Capi Controllori potevano impiegare dei velivoli intercettori (F104S) in volo (Combat Air Patrol – CAP, ndA) per avere un margine di vantaggio sui target che potevano giungere in qualsiasi momento, da ogni direzione e a qualsiasi quota.

La prima CAP toccò a Raf che la mantenne, come ordinatogli, 10 miglia nautiche (NM, nautical miles, ndA) a nord dell’aeroporto di Trapani Birgi, in attesa di un target da intercettare.

Non aspettò molto. Il Capo Controllore gli assegnò un bersaglio proveniente da est, a circa 80 NM. Immediatamente Raf ordinò agli intercettori sotto il suo controllo di dirigere nella direzione del target.

Mentre gli intercettori si stavano avvicinando (circa 40 NM), il Capo Controllore diede l’ordine di interrompere la missione in quanto il velivolo indicato era stato identificato come traffico aereo civile.

Raf ordinò l’interruzione dell’intercettazione e il ritorno nella posizione di CAP. Nel frattempo il numero due, poiché aveva perso il contatto con il leader, chiese a Raf delle indicazioni di azimuth e distanza per riportarsi sul suo numero uno. Il numero due si trovava dietro il leader a circa 15 NM.

Raf iniziò a fornire le necessarie informazioni fino a quando il gregario non informò il Controllore d’Intercettazione di avere il contatto radar sul numero uno. Proprio in tale momento il Capo Controllore ordinò a Raf di dirigere verso un nuovo target a circa 50 NM proveniente da Nord con direzione 180°.

Gli intercettori sotto il controllo di Raf si trovavano quasi su Palermo e subito eseguirono l’ordine.

Il momento era abbastanza concitato perché sarebbe stata la prima missione effettiva della valutazione.

I piloti eseguirono l’ordine e giunsero in breve tempo in posizione idonea per intercettare il target ed effettuare l’abbattimento simulato come da procedura.

Appena completata tale procedura, il leader della formazione chiese: “Potete darmi delle informazioni sul numero due in quanto non lo vedo?”.

Raf, che non aveva avuto altre richieste dal numero due per ricongiungersi con il leader, era convinto che i due fossero in formazione; di rimando chiese: “Perché non siete in formazione?” In quel preciso momento, Raf ebbe la sensazione che qualcosa di grave era successo.

Cominciò a chiamare il numero due sulla frequenza operativa per varie volte senza ricevere alcuna risposta. Intanto, con i suoi giovani occhi, cercava sullo schermo radar dell’UPA-35 possibili tracce da ricollegare al velivolo. Erano quasi le 22:00.

Cominciò a chiamarlo anche sulle frequenze di guardia e, anche, tramite il leader: nessuna risposta.

Raf non voleva credere a un possibile incidente e continuò a chiamare il velivolo in tutti i modi possibili. Venne definita l’area di perdita di contatto radio/radar e il leader, fino al raggiungimento del bingo fuel (esaurimento del carburante, ndA), continuò a scandagliare la stessa.

Purtroppo, l’esito fu negativo e il leader, suo malgrado, fu costretto a rientrare sull’aeroporto di Birgi.

Nel frattempo, serata nefasta, furono riportati altre due incidenti di volo: uno a Brindisi ed uno a Grazzanise.

Messi davanti a tale situazione, il Control Team della valutazione decise con effetto immediato di sospendere l’attività di volo.

Si rafforzava, laddove fosse stato necessario, in Raf la percezione che il velivolo sotto il suo controllo radio/radar era precipitato. Non ci poteva credere. Non era possibile che un tale evento fosse capitato proprio a lui.

Intanto, era stato allertato il Soccorso Aereo (SAR, ndA) che dopo circa un’ora raggiunse l’area per osservare a bassa quota eventuali rottami nell’area indicata.

Raf rimase in contatto con tale elicottero per fornire possibili indicazioni. Intanto il Capo Controllore e i suoi assistenti facevano delle ipotesi sulle aree da esplorare.

La mente di Raf era in tilt. Guardava il monitor ma i suoi pensieri andavano al pilota di cui ormai da più di tre ore non si sapeva più niente.

Contemporaneamente, come dei “flash”, il suo pensiero gli poneva davanti il volto di Sara, triste per l’accaduto, alla quale stava raccontando la triste storia. Si sentiva in colpa, pensava che forse avrebbe dovuto fare qualcosa di più e nel profondo dell’anima provava un senso di rimorso e piangeva, piangeva con singhiozzi sentendo tutto il peso dell’accaduto sulle sue spalle.

Rimase, in uno stato semi-confusionale, attaccato all’UPA 35 fino all’alba, sperando in un ritrovamento in vita del giovane pilota. Niente da fare. Non fu trovato neanche un minimo indizio in merito all’accaduto e alla possibile posizione del velivolo e del pilota. Tutti erano andati via e, ormai, la sala operativa era in normale assetto notturno.

Arrivò un altro collega a sostituirlo verso le sette del mattino. Raf non voleva andar via ma fu convinto che era meglio che andasse a riposare un po’.

Dopo circa due ore, senza dormire ma solo pensare e pensare, sentì il bisogno di incontrare Sara per avere un po’ di conforto e ritornare mentalmente alla realtà; Raf, infatti, si trovava con la sua testa ancora davanti al monitor.

Sara non sapeva cosa dire: era completamente a digiuno del lavoro svolto da Raf. Cercò di distrarlo in qualche modo e, quando sembrava di esserci riuscita, ecco arrivare la camionetta dei Carabinieri: “Signor tenente, deve venire con noi presso la base operativa per delle dichiarazioni in merito all’incidente”.

Raf senza parlare lasciò la mano di Sara guardandola con profonda tristezza come se fosse l’ultima volta. Si sentiva come un condannato a morte.

Era il tardo pomeriggio e, anche se il cielo era sgombro di nuvole, a lui sembrava di un grigio cupo come quando in sospensione nell’aria, portata dal vento di scirocco, c’è tanta sabbia mischiata alle goccioline di pioggia pronte a precipitare e sporcare tutto.

Ovviamente, era stata avviata un’inchiesta interna all’Aeronautica Militare tesa ad accertare l’accaduto. Insieme ad altri colleghi ascoltò e riportò per iscritto le registrazioni audio dalle quali emerse che Raf aveva svolto correttamente il suo lavoro e che la possibile causa dell’incidente era dovuta ad un guasto tecnico del velivolo.

I piloti degli altri due velivoli incidentati si salvarono. Del pilota controllato da Raf, purtroppo, non se ne seppe più niente.

Questo evento sconvolse profondamene Raf che per alcuni giorni provò un senso di paura inconscia nell’avvicinarsi al monitor di controllo. Aiutato psicologicamente dal suo Capo Ufficio Operazioni e dai colleghi, però, riuscì a vincere il timore che si portava dentro da quella sera e ricominciò a lavorare con maggior zelo e continuità. Non smise, però, mai più di pensare a quella notte e a quel ragazzo, che aveva la sua stessa età, di cui non seppe più niente.

Ancora oggi, dopo più di quarant’anni, mentre mi raccontava la storia, traspariva dalla sua voce, un po’ più roca, il suo forte coinvolgimento e il ricordo ancora vivo nella sua mente. Il sole era quasi all’imbrunire e lui d’istinto diresse lo sguardo in quella direzione come se aspettasse il rientro del pilota di quella sera e che qualcuno lo svegliasse da quel terribile sogno e gli dicesse: “Raf, svegliati … devi andare in sala operativa per l’esercitazione”.

Sara era diventata sua moglie e, durante il racconto, si sentì coinvolta emotivamente come quando l’evento era accaduto, manifestando una profonda commozione.

Subito dopo, in linea con il suo carattere gioviale e cordiale, cercò di riportarci fuori dal passato verso la realtà in una giornata calda di settembre con un gradevole vento di scirocco, offrendoci un bicchierino di Rosolio di sua zia.



§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§

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Dirigibile
Raffaele Carlino

I pirati del cielo

“Che cosa hai pescato?” chiese Everest brusco. Lo guardava fisso attendendo una risposta soddisfacente che tardava a venire.

Hancor non poteva far altro che rispondere, la voce mal ferma “Due cavoli e …”

Sentiva le risate attorno a lui. “… una bottiglia di latte”. Finì la frase deglutendo, la gola secca.

Everest lo metteva in soggezione. Ogni volta che andava a pescare si ripeteva la stessa scena. Hancor e la sua pesca scarna, Everest e i suoi occhi che si facevano piccoli piccoli, Hancor e la sua voce che tremava, Everest e la sua pazienza che veniva meno.

“E cosa ce ne facciamo di due cavoli?” chiese ancora Everest salendo di un paio di toni nella voce, l’ira che montava.

I ragazzi radunati attorno alla pesca avevano smesso di ridire. Lo sguardo di Hancor fissava la terra sperando che si aprisse per inghiottirlo.

“A me piacciono i cavoli”. Basilea aveva tredici anni, una lunga treccia e uno sguardo che non la tradiva mai.

Everest l’avrebbe presa a calci se non fosse stata l’unica ragazza del gruppo. Basilea lo sapeva e senza scomporsi restava fissa su Everest che di rimando sputò per terra.

“Cile che cosa hai pescato?” Everest era passato a un altro ignorando Hancor rimasto in piedi come un palo in mezzo alla radura.

Dopo un momento di esitazione si sedette impacciato senza dire altro. Doveva ringraziare Basilea. Se non fosse stato per lei Everest l’avrebbe di certo punito. Patate da pelare, stoviglie da pulire, letti da rifare. La ricompensa dopo ogni volo.

L’avrebbe anche accettato comprendendo come dipendesse il loro sopravvivere dai suoi goffi tentativi di procurare un pasto decente ai compagni. L’avrebbe anche accettato, se non fosse stato che ogni volta alle punizioni di Everest si aggiungevano scherzi di ogni tipo giocati dai suoi compagni che mal lo sopportavano.

Era già da un anno che volava e ancora non era riuscito a procurare nulla di buono al gruppo più di qualche pesce scarno e di una manciata di frutti maturi. Era questo che più non sopportava, Everest aveva ragione. I pirati come loro solcavano ormai da anni i cieli per racimolare ogni sorta di oggetto che avesse un’utilità al loro vivere: mele, coperte, pane, acqua, parti meccaniche, libri, giacche, piatti, freni, bulloni, pistoni, caramelle, calzettoni …

Il gruppo di cui faceva parte Hancor era il più giovane che il cielo conoscesse. Si muovevano sopra minuti aerei giocattolo monoposto, riadattati con motore ed eliche che loro stessi avevano più volte smontato, ricostruito, rimontato, rattoppato. Erano i retaggi del passato della Città Ventosa, il luogo in cui erano nati e in cui erano cresciuti come bambini, e che ora da adulti, quali si consideravano a quindici anni, gli restituiva dopo la guerra qualche briciola di misericordia e il ricordo dei voli tra le pale dei mulini lungo il fiume.

Alla fine della raccolta del pescato il gruppo iniziò a sparpagliarsi, per tutto il tempo Hancor aveva cercato di diventare trasparente come il vento che gli soffiava addosso ma non ci era riuscito. Si era limitato a restare in silenzio e sempre in silenzio si apprestava ad andare verso la sua tenda per sprofondare in un sonno che gli avrebbe restituito forse un po’ di pace.

“Hancor” si sentì chiamare. Era Pacifico.

“Hancor” chiamò ancora il ragazzo che lo stava raggiungendo correndo.

Pacifico si era scelto un nome bellissimo, pensava Hancor.

I pirati del cielo quando si erano riuniti in gruppo, senza patria e senza famiglia, desideravano per loro un nuovo inizio, e il punto da cui erano partiti dopo il recupero degli aerei, era stato darsi un nuovo nome sperando così di cambiare un po’ anche il loro destino. Avevano scelto il nome dei luoghi che avrebbero voluto sorvolare. Cile, Minnesota, Singapore, Grand Lake …

Everest che era il capo aveva scelto il nome della montagna più alta su cui era stato con suo padre. Basilea si chiamava come la città in cui era nata. Hancor aveva scelto i templi della Thailandia che tanto l’avevano affascinato da piccolo con l’oro che luccicava fin fuori dai libri di storia. E poi c’era Pacifico, che era il suo migliore amico.

Lui aveva scelto il nome più bello, pensava Hancor, quello dell’Oceano.

Erano in quattordici a volare, tredici ragazzi e una ragazza. Tutti tra i dodici e i quindici anni ad eccezione di Polonio il fratello minore di Pacifico che di anni ne aveva dieci.

“Hancor” ripeté Pacifico mezzo ansimante una volta raggiunto il ragazzo, le mani sulle ginocchia a riprendere fiato, la testa alzata verso di lui e un sorriso aperto. “Voli con me domani?”.

“Cosa?” rispose Hancor con fare quasi indignato “Domani? Ma sei diventato matto? Il giorno della grande pesca e tu vuoi fare la figura dell’uccello morto?”.

Domani era il giorno della festa dell’anno che i ragazzi celebravano con una gara di volo a coppie, una sorta di staffetta per raccogliere quanto più materiale possibile. “Più raccogli, più guadagni” continuò Pacifico senza distogliere il sorriso come leggendogli nel pensiero.

“Appunto” rispose Hancor “Ti mancano due aquile d’oro per sfidare Everest, potresti essere tu il nostro nuovo capo e vorresti gettare al vento questa possibilità per metterti in coppia con me che ho pescato due cavoli oggi?”.

“Anche a me piacciono i cavoli” rispose tranquillo Pacifico “facci un pensiero amico” e senza aspettare risposta corse via.

Hancor entrò nella tenda e quasi non chiuse occhio rimuginando su ciò che gli aveva detto. Erano cresciuti insieme, Pacifico per lui era come un fratello, non voleva essergli di peso né tanto meno deluderlo. Perso nei suoi pensieri scivolò nel buio mentre la luce iniziava a farsi strada nel cielo.

La mattina seguente di buon ora i ragazzi erano già tutti schierati pronti a partire, sprezzanti e fieri. Eliche brillanti, cofani luccicanti, motori vibranti. Hancor sospirò. Pacifico gli corse incontro, “Hancor sei arrivato, pensavo non venissi più”.

“Stavo per farlo” voleva dire, ma rispose annuendo.

“Allora voliamo assieme” disse Pacifico, non era una domanda. Hancor annuì ancora.

“Ehilà!” gridò da lontano Basilea, sventolando una mano mentre l’altra teneva un grosso cappello di paglia “il vento è forte oggi!”.

“Non voli Basilea?” chiese Pacifico quando la ragazza gli fu vicino.

“No oggi no, ho il plano in riparazione”.

Pacifico rise di gusto. “E da quando due bulloni che saltano sono un problema per te?”.

“Infatti non lo sono” sorrise sorniona Basilea “lo sono il carburatore fuso e il braccio meccanico bloccato, quello che un certo “ci penso io” aveva promesso di aiutarmi a riparare un mese fa”.

“Mi arrendo, sono colpevole” disse Pacifico con un sorriso disteso “ti regalerò una delle mie aquile vinte oggi”.

“Siamo sicuri di noi!” rispose gioviale Basilea.

“Abbiamo le nostre armi” Pacifico batté la spalla a Hancor che altro proprio non riuscì a fare se non un forzato sorriso tanto la sua preoccupazione stava crescendo.

“Sbrighiamoci, stiamo partendo” fu la frase pronunciata in modo deciso dall’amico a scuoterlo.

“Buona fortuna” sentì Basilea da lontano.

Il vento soffiava maestoso, i plani lucidi e brillanti erano allineati per partire, un rumore di eliche che vorticavano.

Hancor si avvicinò a Pacifico. “Allora” iniziò l’amico “Io vado per primo, mi dirigo a est, andranno tutti verso la città, non ci conviene andare di là, troppa gente uguale meno cibo, a est ci sono i campi, distese di campi, seguirò il fiume. Una volta arrivato al confine, in fondo alle piantagioni di patate, troverò un punto adatto per pescare. Quando tornerò indietro ti dirò dove planare. Dobbiamo essere veloci”.

Hancor non capiva perché non potevano fare come gli altri, andare in città, sorvolare qualche vecchio magazzino, arraffare quanto più potevano e andare via. Ma si limitò a dire un semplice “come vuoi”.

Pacifico, strizzando gli occhi per il vento, con un piccolo salto salì a bordo del suo plano mentre Hancor si strascicava poco convinto verso il suo, posto alcuni metri più in là, dietro al velivolo dell’amico.

Il ragazzo addetto a far iniziare la gara alzò un fazzoletto rosso.

“Allora come detto?” urlò Pacifico rivolto ancora a Hancor e si abbassò il casco dopo che il ragazzo alto e mingherlino disse “Pronti!”.

Subito il fazzoletto si abbassò. Poco dopo fu solo un forte rumore di motori e di ruote stridenti e in breve Pacifico volava nel cielo come un grande uccello metallico.

L’eco dei rumorosi plani rimbombava ancora in lontananza mentre la maggior parte dei ragazzi si dirigeva a ovest verso la città con le sproporzionate reti che penzolavano dagli abitacoli. I plani brillavano sotto i riflessi del sole, piccoli ma sufficientemente veloci, le ali sostenute dal vento che li accompagnava. I ragazzi più grandi salutavano lo sparuto pubblico raccolto con qualche acrobazia, disegnando grandi cerchi verticali nel cielo e facendo muovere le spighe dei campi di grano lì accanto.

Hancor osservava e quando non vide più nessuno all’orizzonte si sedette strappando un filo d’erba.

“Hancor quanti cavoli prevedi di pescare oggi?” Sentiva gli altri come lui rimasti a terra che lo schermivano ma fingeva di non dargli ascolto, ripetendo a mente il percorso che Pacifico gli aveva dato.

Dopo una buona ora un luccichio apparve nel cielo. Era Pacifico con una rete talmente piena che quasi strascicava al suolo. Conteneva parti di mulino, grandi viti che tornavano utili per gli aerei, e pale, ma anche pentole di rame, stoviglie varie, abiti, sacchi e sacchi di graniglia che poteva essere ancora buona per uno stufato, e, se gli occhi non lo traevano in inganno, grossi, anzi grossissimi pesci che quasi saltavano fuori dalla rete.

I ragazzi seduti nella radura in attesa dell’arrivo del primo plano presero ad alzarsi e a sventolare vecchi fazzoletti. Chi fischiava, chi gridava in segno di saluto.

Hancor che era rimasto a bocca aperta di fronte all’arrivo del compagno così carico di provviste si fece coraggio, si mise in piedi in fretta e a pugni stretti si diresse verso il suo plano. Se Pacifico ce l’aveva fatta lui non voleva essere da meno. Il suo amico che era arrivato primo con un carico che mai si era visto contava su di lui. E lui non lo avrebbe deluso. Si sistemò nell’abitacolo, abbassò il casco, avviò il motore e attese l’atterraggio di Pacifico che fu bravissimo a mantenere l’equilibrio con la grande rete che pendeva dietro.

Appena il plano si affiancò a quello di Hancor l’amico si sfilò veloce il casco e gli urlò “Il mulino rosso!”.

Hancor decollò. Non perse tempo. Si alzò veloce nel cielo. Il suo tra tutti era il plano più leggero e per questo anche il più veloce. In breve tempo raggiunse la quota necessaria sostenuto dal vento fresco che continuava a soffiare. Aveva capito il punto indicato da Pacifico. Si trattava di una fila di vecchi mulini di diverso colore disposti lungo il fiume a est, dopo i campi di riso.

Hancor filava dritto con il suo plano e aveva ormai raggiunto metà della strada necessaria per arrivare al luogo indicatogli da Pacifico quando all’altezza di una grande quercia, che segnava l’inizio della periferia della città, dove lui avrebbe dovuto virare ad est, qualcosa attirò la sua attenzione.

C’era una massa grigia, grossa, dall’aspetto metallico incastrata tra i rami degli alberi cresciuti vicino alla recinzione di una vecchia industria tessile. Poteva trattarsi di qualche rottame rimasto lì nel tempo se non fosse che quella strada l’aveva già fatta diverse volte e che, seppur in parte nascosto dalle fronde, quel velivolo si vedeva bene ma lui non l’aveva mai notato.

Iniziò ad abbassarsi, facendo un cerchio largo per valutare meglio la situazione.

Un’ala era spezzata e doveva essere caduta a terra, il resto del plano era incastrato tra gli alberi a testa in giù, abitacolo compreso. Hancor volò in cerchio ancora più vicino. Riconosceva quel plano, apparteneva a Pago, un ragazzo con i capelli rossi sempre arruffati che non lesinava di rovesciargli qualche secchio quando toccava a lui pulire.

Trattenne il fiato e mentre si abbassava ancora notò che dal veicolo qualcuno agitava un maglione per attirare l’attenzione. “Pago!” gridò Hancor “stai bene?”.

Rispose una voce piagnucolante ma viva. “Hancor sei tu? Tirami fuori di qui!”.

Hancor sospirò per il sollievo. “Cerca di arrampicarti fuori dal plano, io faccio calare la rete”.

Pago rispose con un tremolante sì e dal finestrino rotto, dove aveva sventolato il maglione, iniziò a strisciare fuori con non poca fatica attaccandosi al robusto ramo dell’albero.

Il ragazzo appariva agli occhi di Hancor, che adesso poteva vederlo bene, impaurito e malconcio per la caduta e per i segni lasciati dal vetro dell’aereo. “Non preoccuparti!” gridò Hancor “ora calo la rete così ti ci puoi aggrappare. Ce la fai?” chiese al ragazzo.

“Si” rispose di nuovo il suo compagno.

Hancor in cuor suo invece, non era sicuro di farcela, pescare cavoli era un discorso mentre pescare un ragazzo ferito era un altro. Si fece coraggio aspettando il momento giusto per non incagliarsi tra gli alberi. Volò quanto più lentamente e vicino potesse e quando fu sufficientemente certo che il ragazzo potesse farcela, abbassò la rete. Non sbagliò. Il compagno ci si buttò rovinosamente dentro e Hancor iniziò a salire. “Tutto bene?” chiese a Pago.

“Sì, grazie al cielo!” si sentì rispondere.

Hancor volava piano, talmente piano che non era sicuro di rientrare prima del tramonto.

“Di certo a terra saranno tutti preoccupati per il nostro ritardo” pensava. Quanto alla sua gara ormai era andata così, gli dispiaceva solo per Pacifico. La rete sotto il plano dondolava lenta cullata dal vento.

Alla fine arrivò che il cielo iniziava a imbrunirsi. Quando fu sufficientemente vicino vide una piccola folla che agitava mani e cappelli in segno di festa.

Stranito da così tanto entusiasmo iniziò concentrato l’atterraggio, attento a non far strascicare rovinosamente la rete con il compagno a terra. Riuscì bene nell’intento e quando il plano finalmente si fermò si sfilò accaldato il casco e tirò un sospiro di sollievo trattenuto fino a quel momento.

Ce l’aveva fatta.

In breve fu attorniato da un gruppo urlante che lo incitava. Con la coda dell’occhio, mentre veniva trascinato dai festanti ai bordi della radura, vide Pago soccorso da altri ragazzi. Stava bene.

Arrivato ancora stordito in fondo al campo dove c’era una piccola collinetta vide prima Pacifico e poi Everest. Il sorriso che si era stampato sulla faccia sparì in breve.

Everest stava eretto, le braccia incrociate, lo sguardo imperturbabile che lo fissava. “Hancor” esordì duro Everest “sei arrivato fuori da ogni qualsiasi plausibile tempo”.

Hancor non sapeva cosa dire. Non lo sapeva mai, tanto meno in quel momento. Abbassò le spalle, pronto a ricevere un altro duro colpo al suo orgoglio già tante volte ferito. Mai come in quel momento avrebbe voluto essere soffiato via dalla terra come uno di quei fiori di campo.

“Ma sei tornato con la più grande pesca che si sia mai vista. E per questo io ti premio con una menzione d’onore e ti ringrazio per quello che hai fatto. Grazie Hancor. Oggi hai salvato un compagno. Non c’è pesca che valga più di questo”.

Hancor non credeva alle sue orecchie. Il viso di Everest si era disteso in sorriso che mai avrebbe pensato a lui rivolto e gli occhi brillanti del ragazzo sembravano perfino diventare lucidi. Anche Hancor si commosse. Tirò su col naso e si asciugò con la manica della camicia. Non fece altro.

Attorno a lui i ragazzi radunati saltavano e fischiavano ancora. Pacifico gli si avvicinò e gli diede una vigorosa pacca sulla spalla.

“Quando ti ho chiesto di partecipare con me ero certo che avresti fatto grandi cose. Solo un cuore leggero può volare in alto” e così lo lasciò, solo, ai suoi festeggiamenti e ai suoi pensieri mentre le prime stelle della sera accedevano un cielo ormai spento.



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Elisa Trettene

Settemilacinquecento

Il clangore del traffico sulla circonvallazione sembra amplificato dal calore esalato dall’asfalto, finestrini chiusi su aria climatizzata, da quei pochi aperti braccia penzoloni, pacchiani bracciali d’argento e musica neomelodica a palla.

“Sconti fino al 70%!” gridano i cartelloni pubblicitari 3×6 disposti a spina di pesce sul bordo stradale, dietro guard-rail coperti di vegetazione infestante. Dal sovrappasso sventola un lenzuolo ormai logoro con la scritta Deborah ti amerò per sempre e non si capisce se è un addio per una prematura dipartita o una illusoria promessa. Un’orchestra di clacson sancisce lo scatto del verde al semaforo e cento occhi abbandonano l’ultimo modello di lingerie della réclame per puntare sui pochi spazi liberi tra autocompattatori dalla scia vomitevole, Apecar adorni come carretti siciliani e vecchie Peugeot diesel spompate e fumanti, stracariche di merce di extracomunitari. Le poche uscite dalla tangenziale non alleggeriscono la massa di automezzi che esce dalla città, stretta nel collo di bottiglia tra la montagna ed il mare. Poi subito in vista, dietro la cortina di orribili case abusive, il profilo dell’Isola delle Femmine, e là in fondo, come un’oasi ristoratrice, Punta Raisi.

E invece l’aerostazione è sgradevole, gli spazi appaiono sempre insufficienti rispetto alla massa di passeggeri che vi si aggirano sempre un po’ smarriti. Alcuni sembrano sollevati per il solo fatto di essere arrivati in orario, risolvendo in qualche modo le incredibili difficoltà di chi ha scelto di lasciare la propria auto in uno dei parcheggi, dai quali si esce solo scavalcando barriere, dissuasori e transenne varie. Sembrano dirti: “Devi proprio viaggiare in aereo?”

“Ouh … sì, sono all’aeroporto, tutto a posto. Il solito casino … sì, anche a Venezia è previsto bel tempo, ma freddo, puoi immaginare. I bambini? … bene, ok, ti richiamo all’arrivo, … un bacio, ciao … ciao.”. “Un decaffeinato, per favore … no, grazie, niente cornetto.”

I pochi punti di ristoro rifilano panini insapori con assurdi nomi e cornetti surgelati a prezzi da rapina, i bagni sono perennemente in pulizia, non si può entrare, “Vada all’altro là in fondo”. Ti capita di vedere delle hostess che hanno perso la loro aura di bellezza irraggiungibile, quelle belle gambe fasciate da seriche calze, ora c’è sempre un dettaglio fuori posto, un piccolo difetto che prima avrebbe decretato la loro esclusione, sempre più spesso indossano pantaloni. I controlli di sicurezza poi sono ridicoli, qui di una superficialità imbarazzante, altrove di una irragionevole e gratuita villania. Gli aerei infine, con quei sedili non più reclinabili, l’impossibilità di allungare le gambe o aprire un giornale, il personale di bordo che vuole rifilarti un gratta e vinci. Eppure.

Eppure per Max – si presenta così mentre sulla carta di identità è Massimiliano Pio -, che vola per lavoro ma che di volo è appassionato, che non dorme mai a bordo, che cerca sempre di avere un posto lato finestrino, che si gode i decolli e gli atterraggi, che non si perde l’attimo in cui l’aereo, in salita, sbuca dalle nuvole, o vi si immerge in discesa, che qualche cosa conosce di questo mondo, non si lascia deprimere, quando non è impegnato sul suo laptop a preparare la prossima virtuale esibizione dei prodotti che rappresenta in giro per l’Italia, osserva la varia umanità che transita nell’area partenze o al gate in attesa dell’imbarco, li cataloga, si misura a classificarli. Quelli che fanno un lavoro come il suo, facilissimi da riconoscere, le eleganti coppie mature che si possono permettere di andare a vedere l’ultimo vernissage a Milano, quelle più nervose che devono consultare, magari sempre a Milano, un medico specialista. I ragazzi con immancabile zainetto e smartphone in perenne attività, che vanno o vengono da un Erasmus. L’anziana dalla parlata dialettale dell’entroterra che telefona in continuazione ripetendo informazioni di partenza e arrivo, con finali baci per tutti, che mostra una discorde dimestichezza con i viaggi aerei. Lui evita accuratamente di mangiare in aeroporto, neanche a parlarne in aereo. Peraltro i voli “domestici” si risolvono in un massimo di un paio d’ore, c’è di che organizzarsi, e non certo per ultimo lo stipendio è quello che è.

Max è un “frequent flyer”, o meglio: lo era. Ha fatto viaggi gratuiti con i punti accumulati, ha ricevuto anche graziosi gadget, è persino riuscito a farsi ammettere un paio di volte in cabina di pilotaggio. Poi le cose sono pian piano cambiate, ha dovuto dimostrare di volare al prezzo più basso, ha accettato a malincuore i voli low cost, gli orari impossibili, le hostess bruttine, gli aeroporti più distanti dalle città. Eppure va bene così. Fa un lavoro che tutto sommato lo soddisfa, uno stipendio dignitoso, dormire fuori casa come un pilota di linea – la mette così, è meglio – e viaggiare tanto in aereo.

E’ comodamente seduto aspettando la chiamata del volo, un Palermo-Venezia schedulato per una durata di un’ora e quaranta, anche se lui sa già che durerà meno, anche venti minuti meno, i flight dispatchers delle compagnie si sono attrezzati per evitare ritardi all’arrivo, suona male, le statistiche possono deprimere la domanda, per non parlare di eventuali rimborsi.

Il volo non sarà affollato, ha imparato a stimare il numero dei passeggeri e a confrontarlo con la capacità del velivolo. Non più di cento, centodieci persone per i 190 posti circa dell’aereo, un Boeing 737-800. Meglio così, meno confusione. Nessun bambino, pochi ragazzi non giovanissimi, saranno tutti immersi nelle loro cuffie e nei loro aggeggi elettronici rigidamente in modalità “aereo”.

Ci sono due, no tre giovani di colore, nordafricani si direbbe, maschi, in abbigliamento dimesso ma pulito, ingombranti giubbotti invernali, adatti alla stagione e a Venezia. Non sono assieme, due sono seduti lontano uno dall’altro, il terzo è in piedi e parla concitatamente al telefonino, in una lingua incomprensibile, arabo forse. Non li aveva visti ai controlli, sono arrivati al gate dopo di lui, assieme ad altri ritardatari. In ogni caso ancora non ci si imbarca, mentre scorrono i primi minuti di ritardo. Con l’unghia spropositatamente allungata del mignolo sinistro si tocca distrattamente le sopracciglia scolpite.

Squilla il suo di telefono, all you need is love, dei Beatles. “… pronto? Daniele! Carissimo, come stai? … sì sono informato, nessun problema, ho portato il preventivo aggiornato … no, qua sembra tutto più o meno a posto, non indicano alcun ritardo …. ah, mi confermi che non saremo soli? … (abbassando la voce) Bastardo! Pure svedesi le trovi! Bravo, a dopo, ciao.”

Max non crede di essere razzista, il suo lavoro lo porta ad incontrare gente delle più svariate provenienze, e poi il fatto di essere meridionale gli impone un pregiudizio di vittima di pregiudizi, ripetutamente smontato da quelli che sembrano ottimi rapporti professionali e personali che è riuscito a crearsi nell’intero nord Italia. “Certo, tutti questi immigrati che arrivano in Sicilia, non si parla d’altro”. Lui ha sempre la stessa risposta – Non si fermano da noi, vogliono venire qui al nord, cazzi vostri! –

Non riesce comunque a staccare gli occhi dal ragazzo al telefonino, con quei suoni espirati e la cadenza frenetica della voce. Degli altri due, uno è piuttosto vicino, ma non dà segni di interessamento, pur udendo di certo la conversazione o una metà di essa. La telefonata finisce e il giovane, scambiata un’occhiata con il più vicino degli altri due, viene a sedersi proprio di fronte a Max.

Un’occhiata all’orologio, già 15 minuti di ritardo. Uno sbuffo di impazienza, poi di nuovo ad osservare il ragazzo di colore di fronte. Non ha bagaglio, ora che ci pensa nessuno dei tre ha bagaglio. Ha lo sguardo perso nel vuoto, le mani sulle ginocchia, un tic nervoso al piede destro. Il giubbotto chiuso fino alla gola.

Max si alza e trascinandosi dietro il piccolo trolley si muove in direzione del gate, dove è comparso un addetto con tanto di radiotelefono gracchiante. Ha ottenuto un posto finestrino, ma sopra l’ala destra. Va bene comunque, i movimenti delle varie superfici mobili, flap, diruttori, ipersostentatori e deflettori in decollo e in atterraggio sono interessanti. Il seggiolino accanto al suo rimane vuoto, mentre il terzo, vicino al corridoio, viene occupato da un signore anziano che si immerge subito nella lettura di una rivista di tatuaggi.

Dei tre ragazzi nordafricani uno, il “telefonista”, è ben in vista poco più avanti, sulla sinistra, vicino al finestrino, un altro è sul posto immediatamente dietro l’appassionato di tattoo, il terzo non si vede, sarà da qualche parte davanti. Il decollo e la salita alla quota di crociera sembrano fatti su una rotaia, né una scossa né una correzione di assetto, il cielo è terso e il sole è accecante. Max è costretto a guardare dentro.

Il “telefonista” si è spostato sul sedile lato corridoio. Non si è tolto il giubbotto. Max guarda sopra la sua spalla sinistra, anche il secondo ragazzo non si è tolto il giubbotto ed è intento a cercare qualcosa con lo sguardo in avanti, lungo il corridoio.

– Ok, che cavolo vai cercando, che ti vuoi inventare? – pensa Max mentre un brivido lo attraversa. – Hanno i giubbotti perché sentono freddo, dopotutto vengono da paesi caldi. Non hanno bagaglio a mano, ne avranno avuto da imbarcare. Non sono assieme, non si conoscono, e allora? Per imbarcarsi hanno fatto i controlli di sicurezza, è tutto a posto.-

– Certo, a Palermo non è che siano così meticolosi. Chissà cosa passa prima. Li avranno pur fatti spogliare, quindi niente giubbotti esplosivi. Coltellini di plastica? Fili metallici, cos’altro? Magari una pistola in ceramica, come si chiama, una Glock. – Ecco, ora anche il terzo ragazzo è in vista, si è alzato da una delle prime file, guarda indietro, lungo il corridoio e poi si dirige verso la cabina di pilotaggio. Indossa il giubbotto.

Occhiata sopra la spalla e poi davanti.

I due ragazzi seduti lo stanno osservando entrambi. Nel passetto prima della cabina di pilotaggio un’hostess intercetta il giovane, un breve scambio di parole, poi questi si infila nella toilette. Ora Max è veramente agitato, cerca di non darlo a vedere e si volta a guardare fuori, quel cielo azzurro, scuro in alto, il sole abbagliante. –

Ragioniamo, ammettiamo per gioco, ancora il volo è lungo, che ‘sti tre vogliano fare qualcosa, un dirottamento o un attentato. Attentato no, escludiamolo subito, se metti una bomba, al momento giusto la fai esplodere e amen. Un dirottamento. Prendere il controllo dell’aereo. Gesù, per farci cosa? Fra non molto dovremmo essere all’altezza di Roma. Il Vaticano! Quante volte, anche ultimamente, gli integralisti hanno minacciato i luoghi simbolo del cristianesimo? Se hanno colpito due volte un grattacielo, non dovrebbe essere difficile colpire Piazza S. Pietro. –

– Che stupido! Ormai le cabine di pilotaggio sono ermeticamente chiuse, a prova di proiettile credo. – – Sì ma la hostess è già entrata un paio di volte, si fa aprire, porta da bere … – – Bene, se volevo spaventarmi, ci sono riuscito. –

Il ragazzo seduto più avanti, il “telefonista”, si alza e si avvicina, passando accanto al terzo gli sussurra qualcosa e prosegue verso la coda.

Max non si azzarda a girarsi, non intende certo metterli in allarme. Intanto la hostess ed uno stewart cominciano a distribuire bibite ed altro, col loro carrellino, avanzando da prua. Che fare, dire qualcosa, ma uno di quelli è alle sue spalle, sentirebbe. E poi dire cosa? – Sentite, sono certo che a bordo ci sono tre terroristi -, oppure: – Signora, la prego non entri in cabina di pilotaggio per alcun motivo -.

La hostess non è giovanissima e questo sembra giovarle, i lineamenti sono definiti, il trucco ormai sicuro, ma l’atteggiamento professionale è poco filtrato, il sorriso assolutamente posticcio. Incrocia lo sguardo di Max e si appresta a risolvere ogni problema, poi vi coglie un imbarazzo diverso e il suo livello di attenzione cambia, comincia rapidamente a elencare mentalmente evenienze più rare cui far fronte, malesseri, strane rimostranze, richieste inusuali.

“Posso aiutarla, desidera qualcosa?”. L’approccio è garbato e generico, in modo da concedere al passeggero ogni possibile uscita dall’impaccio.

Volevo chiederle … sarebbe possibile visitare la cabina di pilotaggio?

“Lei è un pilota, o cosa?” è la risposta sulla difensiva dell’hostess.

Con un sorrisetto impacciato: “No, sono solo un appassionato.”

“Mi spiace, le regole della Compagnia non consentono …”

“Ma non è il comandante che decide?”

“Mi spiace …” conclusiva.

“Senta, può dire al comandante che ho un codice, 7500, magari mi fa entrare …”

“… un codice? Della compagnia?”

“Sì, sì, certo, della compagnia. Settemilacinquecento, la prego!”

“… non mi risulta, non credo …”, e si allontana verso prua.

Un’occhiata gli conferma che il ragazzo di colore seduto dietro lo sta osservando con insistenza, si costringe a non arrossire. Anche l’anziano accanto ha chiuso la rivista e lo guarda di sottecchi. L’hostess sta parlottando al telefono e sbircia verso di lui.

Il ragazzo dietro si è alzato, passa accanto, lo fissa per due secondi e poi procede, armeggiando nelle tasche del giubbotto. Max sta somatizzando l’angoscia che lo pervade, si toglie la giacca, si alza sul posto e si guarda attorno. Chi può coinvolgere? L’anziano appassionato di tatuaggi? Figuriamoci! Lo stewart che staziona in fondo alla carlinga sta rispondendo al telefono e sembra osservarlo. A prua due dei ragazzi di colore sembrano discutere col personale di cabina. Cristo! Stanno per agire!

“Ma nessuno vede niente!!” il grido erompe incontrollato, seguito dal solo rumore sommesso dei propulsori, mentre i passeggeri nel raggio di cinque metri si voltano a guardare, incuriositi. Qualcuno preme il tasto di chiamata, proprio mentre si accende il segnale di allaccio delle cinture e viene annunciato l’inizio della discesa verso Venezia. Max si accorge solo ora che da un pezzo hanno superato Roma ed anche l’Appennino, ma questo non lo calma, anzi.

– Certo, lo faranno ora, appena scesi di quota, con la laguna in bella vista, puntare la città sarà uno scherzo e poi cosa, di sicuro piazza S.Marco, gremita come sempre di turisti, un simbolo dell’occidente cristiano marcio e depravato – i pensieri di Max ormai viaggiano come su un binario ben oleato, mettendo in fila tutti i tasselli di un evento già scritto, alimentato da mille informazioni multimediali sedimentate.

Si alza mentre l’aereo attraversa un banco di nubi, scurendo la luce all’interno della cabina – Dobbiamo intervenire ora, come avevano provato a fare troppo tardi quelli del volo UA93, tutto sommato sono solo in 3, possiamo sopraffarli –

“Si metta a sedere!”. Lo stewart in coda lo addita, mentre da prua arrivano l’hostess ed uno dei ragazzi di colore …

“Dobbiamo fermarli!” grida Max indicando il ragazzo. “Ce ne sono altri due, bisogna bloccarli!”

Un lamento multitonale di stupore e di paura si solleva dai passeggeri, molti dei quali stentano a realizzare la situazione. “Torni al suo posto!” anche l’hostess lo addita, il volto fiammeggiante.

“Perdio! E questo non lo vedete!” indicando a sua volta il ragazzo di colore che gli si avvicina.

Ora i passeggeri sono prossimi al panico, si sente qualche grido soffocato, mentre l’aereo effettua una virata poco coordinata, evidentemente in manuale, che fa traballare tutti quelli che sono in piedi. Max è madido di sudore, prova a riflettere sul passo successivo da fare, ficca una mano in tasca alla ricerca del fazzoletto, un gesto che viene accolto da una bordata di urla dei passeggeri vicini, oramai terrorizzati.

Rimane con la mano in tasca mentre qualcosa lo colpisce sbattendolo a terra sullo stretto corridoio. Un forte dolore alla spalla e il pensiero – Gesù, quel porco mi ha sparato, quindi aveva la Glock di ceramica! –

Le grida continuano indistinte mentre Max sente adesso un gran peso su di sé – sto morendo … – e una voce all’orecchio con uno strano accento: “Sta bono e non ti movere!”.

Una mano gli si infila dappertutto – forse cercano la ferita per bloccare l’emorragia – poi di nuovo un lancinante dolore alla spalla, le braccia ritorte all’indietro, qualcosa di sottile gli serra le mani.

Sente distintamente l’hostess, qualche metro dietro “Kevin … chiama il comandante all’interfono … digli che l’Interpol lo ha bloccato, può comunicarlo a terra e procedere all’atterraggio”.

Max si sente sollevato, dunque l’attentato è stato sventato, il terrorista – uno!? – bloccato, lui è stato ferito, lo stanno stabilizzando – buon Dio, ho salvato Venezia! –

Quando lo trascinano fuori, lungo la scaletta, lo accoglie una pioggia fredda e pesante. Il dolore alla spalla è diminuito e un solo chiaro pensiero gli attraversa la testa, per il resto confusa – ma come, non era previsto bel tempo? –


 

 

 

Note dell’autore 7500. E’ il codice internazionale che convenzionalmente indica, inserito nel transponder di bordo, “dirottamento” o “bomba a bordo”. Quando il radar secondario dei servizi di controllo del traffico aereo irradia il velivolo ne ottiene una serie di informazioni, tra le quali il codice digitato dai piloti appunto sul transponder.

UA93. United Airlines 93. Era il nominativo del volo coinvolto nei fatti dell’11 settembre 2001 che verosimilmente doveva schiantarsi sulla Casa Bianca. Le ricostruzioni effettuate sulla scorta dei dati radio e telefonici e relativi a quel volo indicano che un certo numero di passeggeri, realizzato il pericolo, si organizzarono per attaccare i dirottatori ai quali non rimase che schiantarsi al suolo, 240 chilometri (pochi minuti di volo) da Washington.



§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§

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Donaldo di Cristofalo

La guerra è sempre la stessa

Succede che, all’improvviso, quando meno te lo aspetti, il mondo ti crolli addosso. Un momento dopo, senti dentro di te una forza che non sapevi di avere, e più quella forza t’invade, più ti senti sciocco. Averlo saputo prima di averla quella forza! Quante vicende avresti potuto risolvere diversamente, quanti fatti non sarebbero accaduti!

Ma, sciocco è non capire che, ciò che siamo, lo siamo nel momento in cui giustamente abbiamo bisogno d’esserlo. Si dorme quando si ha sonno, si mangia quando si ha fame, si ha paura quando si rischia. Si reagisce quando ci si sente braccati.

Un urlo.

Mi sveglio, non sono sicura di essere proprio sveglia, mi guardo attorno cercando di capire se l’ho sentito veramente, o se l’ho solo sognato.

Da quando sono sola, la notte dormo poco, oramai riconosco ogni impercettibile rumore di casa.

Alzo un po’ la testa dal cuscino, adesso sento chiaramente un singhiozzare sommesso, mi alzo di scatto, un brivido marca tutta la mia paura, mi ricordo, corro verso il tuo letto. E ti vedo.

Raggomitolato, con le mani sopra la testa, piangi.

Ssssssssszzzzz … “Stai tranquillo sei a casa, ci sono solo io”, ti prendo le mani, le allontano dal tuo viso madido, me ne circondo la vita, ti accarezzo le spalle robuste, “era solo un incubo, è finito”, e tu, pian piano smetti di piangere, mi stringi sempre di più, alla fine ti riaddormenti.

Nessuna parola, nessun commento, niente. Solo paura, quella paura che silenziosamente sta destabilizzando il mio meraviglioso figliolo, me lo sta portando via.

***

Me lo ricordo ancora, quella volta, tuo padre.

Quella sera tornò un po’ prima del solito, eravamo ragazzi, io non ci feci neanche caso, stavo preparando la cena di spalle voltata verso il lavabo. Lo salutai. Scherzai sull’orario: “Volevi farmi una sorpresa?” gridai, ma lui non rispose, mi girai.

Era bianco e increspato come un cencio lavato, gli occhi abbassati, i capelli arruffati.

Si abbandonò su una sedia, mi guardò e mi disse: “Oggi mi sono spaventato, davvero”.

Davvero, erano i tempi della guerra fredda e per un pilota di caccia militari non erano certo bei tempi.

Piloti, ragazzi di appena vent’anni con una passione sfrenata per il volo, che per poterla inseguire non avevano altra scelta che entrare in Aeronautica Militare e, una volta lì, erano istruiti per salire su quei portenti della tecnologia.

Si sentivano onnipotenti sopra quei “mostri”, così li chiamavo benevolmente.

Venivamo da una guerra recente, con attaccata alle braghe la paura di una nuova guerra, tremenda, fatale.

Con quella paura io ho convissuto per anni. Vedevo tuo padre andare al lavoro ogni volta come se fosse l’ultima, non sono mai riuscita ad abituarmi, e lui mi leggeva quella paura negli occhi.

Non mi perdonerò mai questa colpa, perché so di aver offuscato tutta la bramosia che tuo padre metteva nella sua passione e, fortunatamente, suo lavoro per la vita.

– Oggi mi sono spaventato, davvero.

Non ho avuto paura di morire … è andata bene, non c’è stato tempo per avere paura.

Siamo partiti in formazione a tre, il leader era il Comandante del gruppo, in ala destra il capitano anziano, io in ala sinistra. Siamo decollati a 3 secondi. È partito il primo, il secondo, io per ultimo. Decollo normale, stacco da terra, carrello su, voliamo in fila indiana.

Accelero, il numero 1 vira a sinistra per permettere il ricongiungimento degli altri due, io a 250 nodi, disinserisco il postbruciatore e comincio ad avere la sensazione che l’aereo rallenti, sento la velocità ridursi. Guardo gli strumenti e vedo la temperatura del motore bassissima. La cosa non è normale, comincio a preoccuparmi. Contatto gli altri, dico che ho un problema e che rientro alla base. Intanto, il numero 2 mi si affianca, gli dico della temperatura bassa, delle ciglia (nozzles) che mi sono rimaste in apertura, che ho già provato inutilmente a chiuderle in manuale. “Riprova” risponde, “riprova ancora”. La velocità comincia a scendere, come non avessi più spinta, allerto la base, mi vengono fuori gli slats. Ma la base è ancora lontana. Comincio a capire che posso non farcela, sono troppo basso, non posso lanciarmi, il seggiolino eiettabile di quest’aeroplano non mi assicura la sopravvivenza sotto 1000 piedi. Decido di andare avanti, intanto continuo a lavorare sul pulsante delle ciglia. Funziona! Improvvisamente il pulsante ha funzionato, le ciglia si chiudono, solo che vanno in totale chiusura. La temperatura del motore comincia a salire velocemente, troppo, potrebbe scoppiare, riduco il motore, ma non ho spinta, penso di alleggerirmi sganciando le taniche piene di carburante, non è possibile sono su una zona fortemente abitata, sento il motore fluttuare, inserisco il sistema d’alimentazione d’emergenza. Non posso farcela, sono pesante, la velocità decresce e la pista è lontana, ma non ho altra scelta che tentare. Alla fine ci arrivo alla pista, ci vado con l’ala abbastanza pulita, do una prima tacca di flaps, tiro giù il carrello e atterro. Atterro veloce, a 160-165 nodi.

Sono salvo.

***

Mi disse: “Era solo una ricognizione, e potevo morire. Se ci fosse una guerra, io non mi tirerei mai indietro. Fosse accaduto lo stesso fatto in campo nemico, sarei potuto morire, o peggio, restare prigioniero.

Questo è il mio lavoro. Non mi è stato imposto, l’ho scelto, l’hai scelto anche tu sposandomi”.

Lui non aveva avuto paura di morire, ma paura di lasciarci: me, te così piccolino, e solo dopo che tutto era accaduto, aveva immaginato la nostra vita senza di lui e … si era sentito smarrito.

Mi disse: “Egoista, mi sono sentito egoista per aver rischiato la mia vita senza pensare a voi, alle vostre vite, al vostro futuro. Oggi mi sono spaventato, davvero.”

Appoggiai la parte sinistra del grembiule sul fianco destro, come faccio sempre, quando temo di sporcarlo con qualcosa che non sia cibo. Mi avvicinai a lui, mi sedetti sulle sue gambe e lo strinsi a me.

In silenzio, dentro di me promisi che non avrei mai più parlato della mia paura di perdervi, inutilmente promisi di imparare a gestirla. La mia paura andava taciuta. La sua, era l’aver sentito che la vita è un soffio, che a volte la sprechiamo senza rendercene conto, che se non fosse stato così determinato, forse non ce l’avrebbe fatta.

Così tanta voglia e bisogno d’esserci ancora e forse, inconsciamente, noi siamo stati lo stimolo per rimanere in vita. Ed io capii che la sua paura era utile per la sua e la nostra esistenza.

Il dolore non ha niente di saggio, ci tramuta in ciò che realmente non vorremmo mai essere, bisogna uscirne per salvaguardarsi.

“Ragazzo mio, quello che ti è successo deve spaventarti davvero”.

Alzi gli occhi dalla grande tazza che ti ho riempito di latte come quando eri bambino, mi guardi incredulo, allarghi le mani come per dire: “Che blateri? È così che mi conforti?

***

Ti vedo, tra le macerie. Sei sempre stato svelto nelle decisioni, correre dietro a quella ragazza, strapparle lo zaino, gettarlo lontano.

Solo dopo l’altro scoppio, sopra di lei, andare su tutte le furie per il suo sguardo beffardo, sollevarla, scuoterla, e indicarle tutte quelle vittime. Bel lavoro avevano fatto lei e il suo amico!

Poco prima della tragedia, costato la vita a ventiquattro persone, sbraitavi al microfono con un tuo collega, la stazione era piena di gente, troppo poco preavviso, voi eravate pochi, l’incarico era stato chiaro, trovare due giovani terroristi, l’informazione aveva dato per certo un attacco in quella stazione, in quella giornata.

Era luglio, mese di vacanze, di fine studio per gli studenti. La stazione era piena di giovani carichi di zaini, valigie e trolley. Come riconoscerli? Avete studi e metodi, ma tu lo sai, l’istinto, è solo l’istinto che ti permette di riconoscere una persona tra migliaia di persone, e tu fiutavi come un cane, ma non hai sentito altro odore che quello maleodorante di una stazione di treni in piena estate.

Poi uno scoppio violento, hai visto il collega rimbalzare contro la parete, urla, crolli, ti sei guardato bene intorno e hai capito, tutti che correvano, lei no, lei si era voltata verso l’origine del boato come a cercare qualcosa, qualcuno, la mano attaccata alla cinta. Era lei.

***

Ti hanno dato una medaglia per questo, ma io lo sapevo che non saresti andato a ritirarla, aver salvato altre vite non ti ha mai fatto dimenticare le persone che tu e la tua squadra avreste dovuto difendere e che invece sono morte, non per mano vostra, ma per colpa vostra, almeno è quello che credi.

Dici che era prevedibile, che un terrorista determinato trova sempre il modo di operare, ma voi siete addestrati a questo, e dovete capire, intervenire, inficiare, precludere ogni azione di guerriglia.

Eppure figlio mio, non è così. Almeno non proprio. E avere paura di non farcela non è abbastanza per abbandonare.

Ricorda la fiducia che avevi in te stesso e pensa all’albero al quale hanno potato i rami “a corto”, diceva papà, ma il cui tronco è ben radicato, e presto, a primavera butterà nuovi getti.

Un uomo forte, fisico da atleta, tuo padre ha tentato tutta la vita di metterti su un areoplano, ma tu niente, non ti piaceva, volevi fare il carabiniere, giustizia per tutti, stare in trincea, volevi essere un paladino della legge, giocando alla guerra gridavi “io impavido eroe vincerò”.

C’era voluto un po’ per farti capire il significato d’impavido, ma poi l’avevi fatta tua questa parola, e la mettevi dappertutto. Non hai più smesso da allora, solo adesso, da quando sei tornato dall’ultima missione, non l’ho udita più.

Non era una cosa di bambini, ci hai lavorato da sempre, nello studio, in palestra, nelle poche iniziative politiche, persino quando tuo padre ti portava in cielo, tu stavi lì a domandarti e domandargli dell’Aeronautica Militare, come si difende il mondo da lassù.

Ci hai lavorato così tanto che, quando hai fatto domanda per entrare nei Carabinieri, ci era sembrata una logica conseguenza, incontestabile, persino per me che dicevo sempre: “Meglio un figlio prete che militare”. Che no, non lo dicevo mica perché avessi di che dire su preti o militari, no, lo dicevo perché entrambe le scelte mi sembravano tribolate, difficili, pericolose, perché avevo paura.

Per me la guerra fredda non era mai passata, mi aveva freddato, anzi gelato il cuore, tante erano le notti che ho passato pregando che non volevo più saperne di soldati, di guerre o simili. E invece tu sei diventato un carabiniere, troppo presto nei corpi speciali, “antiterrorismo”, pure la parola spaventa.

Io sì, posso essere spaventata, sono tua madre, è logico così, ma tu no, caro mio. Tu sei l’impavido eroe che vincerà, sei quello che da anni predica che la vita non è niente se non è libera, che il male va combattuto e che non bisogna mai smettere di lottare.

Com’è che urlate nelle vostre riunioni? Non ricordo la frase ma il senso sì: “Siamo i migliori e vinceremo!”. E vincerai. Vincerai il tuo dolore, la paura di non riconoscerti ora che sei cambiato, vincerai per continuare a fare ciò che non hai mai smesso di pensare giusto.

***

Qualcuno ha detto: “Si ricorda con il cuore e si dimentica con la mente”.

L’impulso naturale di sopravvivenza, questa rabbiosa sensazione che contraddistingue ogni genere vivente esistente sulla terra, l’istinto che ci modifica e ci adatta ad ogni nuova evenienza, che fa vivere microrganismi per secoli nel ghiaccio, che modifica, incrocia specie diverse generandone alcune del tutto nuove, che ci ha tradotti fino ad essere ciò che siamo, questo nostro istinto che ci trasmette il pericolo affinché ogni più piccola parte del nostro essere si muova per combatterlo.

L’istinto muove la forza, la forza vince la paura ed è così che si lotta, ogni momento senza pensare a ciò che sarà. Quello che c’è da vincere sta nell’oggi, nel non sentirsi umiliati, persi dentro una prospettiva che non ci appartiene.

Dentro un mare di melma, se non si riesce a nuotare si arranca sino all’appiglio, sino a una mano che viene ad aiutare. A volte quella mano è la nostra, sporta istintivamente ad altri rischiando di cadere nel fango.

Il coraggio è altra cosa.



§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§

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Maria Grazia Cervelli

Una complicata storia, fatta di cabine telefoniche della Pan Am, volpi finte e aeroplani veri.

Se dovessi spiegare com’è nata in me la passione per l’aviazione anziché per il calcio o per altri hobbies, più comuni e banali, dovrei confessare che non esiste una sola causa, ma diverse, distribuite nell’arco di trent’anni. E’ come se l’interesse per gli aeroplani fosse cresciuto assieme al sottoscritto, partecipando alla mia formazione intellettuale e rappresentando, al tempo stesso, la metafora della libertà: andare ovunque, annullando la distanza tra le persone. Sì perché, fino ad oggi, la mia vita è stata contrassegnata da questa continua contrapposizione tra vicino e lontano, in senso geografico e umano. Ma di tutto questo sono diventato consapevole in modo graduale, come in un viaggio, un volo lungo trent’anni, che ha come primo scalo una cabina telefonica, quella della Pan Am.

Si trovava a Santa Marinella (sul litorale laziale, ndA), lungo la via Aurelia, vicino alla strada che portava alla stazione. Avrò avuto pochi anni, quelli sufficienti a saper leggere, ma non era tanto il significato delle parole, quanto il messaggio che veniva diffuso con le immagini, a colpirmi. Un globo azzurro e una frase ad affetto che spiegava come il mondo, grazie alla Pan Am, fosse a portata di mano.

Quella pubblicità e quella cabina colpirono molto la mia immaginazione, quella di un bambino, perché simboleggiavano qualcosa di molto lontano, moderno, esotico, diventato improvvisamente molto vicino; due mezzi di comunicazione (aerei e telefoni) messi insieme dal caso in una cittadina di provincia, quanto di più periferico potesse esistere allora.

Oggi, da adulto, potrei dire che quell’apparizione provocò in me lo stesso effetto che fece il monolite nero alle scimmie del film “2001 Odissea nella Spazio”: mise in moto qualcosa. A livello inconscio avevo compreso che esistevano posti lontani, raggiungibili solo in due modi o facendo una telefonata o prendendo un aeroplano.

E quell’aeroplano per gli Stati Uniti, qualcuno lo prese davvero e per un viaggio di sola andata. Si chiama Vittorio, era il mio amico del cuore e compagno di classe nei primi due anni della scuola elementare. Suo padre era tornato dagli Stati Uniti per trovare moglie e un lavoro, ma trovò solo la prima e dopo aver fatto due figli, tornò in America a Baltimora.

Per un po’ di tempo ci scrivemmo lettere che attraversavano l’Atlantico in aeroplano, ma ben presto ci perdemmo di vista. Comunque io non lo dimenticai tanto presto e un giorno, sfogliando un libro di Richard Scarry (sarà stato il 1973 o il 1974), notai un racconto illustrato che descriveva in viaggio in aereo di Sandrino, uno di personaggi più cari al celebre disegnatore. Sul piazzale di un aeroporto, ai comandi di un caccia a reazione c’era lui! A essere precisi era una volpe disegnata … ma a otto anni non si va tanto per il sottile, Volpe l’uno, volpe l’altra… l’associazione era fatta.

E fu così, che, per non dimenticare una persona lontana, iniziai a interessarmi agli aeroplani, militari per l’esattezza.

Ma presto sarebbe venuto il mio turno di volare davvero.

Era il Natale 1975 e l’aeroplano era un Lockheed L-1011 Tristar della British Airways, o almeno così lo identificò mio padre, osservandolo nella piazzola di sosta a Fiumicino. Allora non esistevano i finger e si saliva a bordo utilizzando una scaletta, un metodo che permetteva di ammirare un velivolo da vicino, rendendosi conto di come fosse fatto, di quanto fosse grande: un titano ai miei occhi. Avevo undici anni e volare su un aeroplano di una prestigiosa compagnia aerea diretto a Londra, una delle più importanti città del mondo, costituì per il sottoscritto un’esperienza indimenticabile. Fiumicino mi apparve come un posto enorme, luccicante, pieno di belle cose e con il mio primo decollo prese il volo anche la mia fantasia …

Da allora ho volato molte altre volte, ma, oltre a quel viaggio, memorabili ne restano altri due. Il primo avvenuto durante le ferie natalizie del 1976 a Tangeri (con cambio a Madrid) in Marocco, dove, sballottati dalle raffiche di vento e d’acqua dell’Oceano, atterrammo, infine, su una pista che ci apparve all’ultimo istante, poiché questa terminava praticamente sulla spiaggia. Io non ebbi paura, ero troppo giovane per provarla, ma i grandi non erano affatto tranquilli e due anziane sorelle si misero a pregare. Ad ogni modo andò tutto bene, altrimenti non starei qua a raccontarvelo, ovviamente.

Il secondo effettuato con i miei genitori nell’agosto del 1978 da Atene a Roma a bordo di un velivolo della TWA del quale conservo un simpatico gadget (Sorry, but this seat is occupied). Una piccola consolazione per un decollo brusco: il velivolo si alzò rapidamente in cielo ed ebbi la sensazione che con la coda avesse toccato la pista – una cosa impossibile! -, un’affermazione detta ad alta voce e criticata aspramente da mia madre. Due voli che, al di là del contingente, rafforzarono in me la fiducia nelle macchine volanti. Insomma, grazie agli aeroplani avevo raggiunto posti lontani, fino allora visti sulle pagine dei libri o solo immaginati … se vi par poco!

Negli anni successivi ho continuato a volare, seppure in modo sporadico, ma in compenso ho divorato libri e riviste, ho costruito modelli di apparecchi militari, mantenendo così vivo in me questo interesse e riuscendo, grazie al modellismo, a crearmi una rete di amicizie, unite da una simile passione. Insomma un hobby aggregante, socializzante, a dispetto di tanti altri. Devo, invece, confessare che non ho mai tentato la strada dell’Accademia Militare Aeronautica, consapevole dei miei limiti umani ed emotivi che non mi avrebbero mai consentito di superare la selezione, i famosi tre giorni, che si svolgevano proprio nella caserma dove ho svolto il servizio militare come aviere a Vigna di Valle, sul lago di Bracciano, e dove si trova il Museo Storico dell’Aeronautica Militare.

Ultimo scalo, il 1995, l’anno della liberalizzazione del trasporto aereo in Italia. Si aprivano nuovi spazi e il trasporto aereo diventava un settore interessante sotto tutti gli aspetti, anche lavorativo. Mi sarebbe piaciuto tanto lavorare in una compagnia aerea, come addetto stampa, ho tentato più volte questa strada, e anche per questa ragione i miei interessi aeronautici hanno compiuto una correzione di rotta, abbandonando il settore militare a favore di quello civile. Non è stato così, le mie speranze hanno preso il volo senza di me. Pazienza. La passione per l’aeronautica è rimasta come un sano hobby e forse è stato un bene che sia andata così.

Ancora oggi, a cinquant’anni d’età, quando la mattina presto, disteso sul mio letto, avverto il rumore dei motori degli aeroplani (un fischio profondo di libertà), mi capita di sentire lo stomaco chiudersi a pugno … ma un attimo dopo mi calmo, me ne faccio una ragione.

Dopotutto, qualcosa (la passione per il volo), deve pur restare immutata perché tutto il resto possa cambiare serenamente.



§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§

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Andrea Coco