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Aria


Fa freddo, molto freddo per essere aprile.

Il vento è tirato, forte.

Già, forse mi dimentico che siamo a 1600 metri d’altezza.

Che strana sensazione stare così, appiattita contro l’erba secca, e lasciare che il vento mi muova, nonostante io gli opponga pochissima superficie. Incredibile la forza delle raffiche: sono sdraiata sulla pancia, distesa secondo la direzione del flusso d’aria, eppure sto oscillando.

Le braccia a novanta gradi col corpo, i gomiti piegati, appoggio il mento sul dorso delle mani, cercando di impedire ai fili d’erba asciutti e resistenti di pungermi la faccia. Sono tutt’una col suolo, piatta e invisibile, ma lui mi scova sempre, questo incredibile movimento d’aria che viene chissà da dove, superando la cima dell’altra collina che mi sta di fronte. Tuttavia sto bene, sono a mio agio.

E’ bello essere qui, così. La giacca a vento fa il suo lavoro, i guanti da neve imbottiti sono caldi e morbidi, i pantaloni foderati sono sufficienti, gli scarponcini… sempre adatti ad ogni stagione. La testa, prua del mio corpo, è ben protetta dal casco e dal passamontagna rosso che durante l’inverno indosso sotto.

Solo gli occhi sono scoperti, due fessure sottili che si sentono raggelare e portare via l’umidità dal getto sempre forte d’aria.

Mi viene da sorridere: sto davvero bene, non vorrei essere in nessun altro posto al mondo, per nessuna ragione.

E’ pomeriggio tardi, la luce comincia a diminuire. Di solito con la sera il vento cala un po’, ma questa qui non è la solita brezza nata in loco dal compensarsi di masse d’aria calde e fredde, quindi non segue la regola. E’ aria che arriva da lontano, chissà quanto, da movimenti molto più ampi che interessano grandi masse atmosferiche. Potrebbe durare tutta la notte.

Rido e mi volto verso i miei compagni. Pare che anche loro non abbiano voglia di rimettersi in moto. Penso che, visti dall’altro, dobbiamo davvero rappresentare un mistero: tre croci colorate stese sulla cima della collina brulla, che saranno? Qualcuno, però, migliore osservatore, noterebbe qualche metro più in là il nostro pullmino con tre custodie lunghe sul tetto e, forse, capirebbe.

Coraggio, alziamoci che viene troppo buio!

Lentamente ci muoviamo, e scarichiamo dal portapacchi i nostri bagagli per disporli secondo la direzione del vento. Poi, ormai del tutto dimentichi del torpore, iniziamo il rito.

Giù le lunghe cerniere delle sacche e fuori i nostri preziosi deltaplani. Rapidi i gesti per fissare il trapezio direzionale, voltare l’aquilone e allargare le ali.

Ognuno dispone con ordine sul prato le stecche di alluminio – le destre e le sinistre – da infilare nelle scanalature della tela di dacron. Le ali le accolgono docilmente e prendono anima, un forma semirigida che le rende elastiche e robuste, capaci di portanza. Fissiamo le torrette coi tiranti di acciaio.

Nessuno ha mai voglia di essere l’ultimo a concludere la procedura, è come se ci fosse una specie di gara a chi è più abile, più pronto. Più impaziente.

Ci aiutiamo a vicenda a mettere in piedi i nostri mezzi e ad agganciare i cavi dei trapezi alle chiglie, obbligati a non farci prendere di sorpresa dalle raffiche che tendono a prevalere sulla nostra forza di braccia e sull’equilibrio che cerchiamo di dare ai deltaplani.

Poi il primo pilota si imbraga e si aggancia all’aquilone, aiutato dagli altri due a raggiungere il punto dove inizia il declivio. Le raffiche di vento seguono una regola, come le onde del mare, hanno ritmi ripetitivi, prevedibili. Lui aspetta che il vento si calmi e così trova l’attimo giusto fra una folata e l’altra per la breve corsa e il decollo. Gli bastano tre o quattro balzi decisi ed è fatta.

Questa volta non tocca a me “fare il recupero”, rinunciare a volare per aiutare anche l’ultimo pilota e portare poi il pullmino all’atterraggio: è compito del nostro amico che ha già volato stamattina. Ora, quindi, è il mio turno per decollare.

Mi infilo nell’imbrago, lo assicuro col moschettone alla fettuccia al culmine del trapezio e imbraccio il deltaplano, con l’aiuto del compagno che mi sostiene e mi dirige qualche passo in avanti, fino al punto sul terreno scelto per partire. Ci siamo, finalmente.

L’aria è fredda e veloce, la luce sta calando ancora e già si vede il rosso del tramonto oltre le colline. Il cuore batte forte, mai tranquillo nella fase di decollo, oggi impegnato più che mai per l’attenzione particolare che ci vuole con questo vento forte.

Una brezza di breve durata prende il posto dell’ultima raffica: vado!

Pochi passi di corsa e mi stacco da terra, non più ostacolata, bensì favorita, dal grande spostamento d’aria che passa sotto e sopra le mie ali. Prendo quota in fretta.

Sotto di me la cima della collina e il mio amico autista che fa ciao col braccio. Tutto intorno, in alto, in basso e in ogni direzione raggiungibile dallo sguardo, quanto di più bello si possa immaginare. E sono felice.

(da Forca di Presta verso il Piano Piccolo di Castelluccio di Norcia, 25 aprile 1985)



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Mariangela Calabria

Un volo per due


Mia zia Dorina non è una donna come le altre.

Con questo non intendo dire che le manca qualche rotella. No, no! … Anzi: voglio renderle giustizia. Perché, di tutto il parentado, é quella che preferisco. Certo, anche lei ha un debole per me; e non lo nasconde. Ma io non le sono attaccata solo perché mi capisce, mi sopporta, mi coccola (diciamo pure che mi vizia, anche). Io l’ammiro – e un po’ l’invidio – perché la vedo sempre a suo agio, dovunque e con chiunque. Spontanea, spiritosa, disinvolta (senza essere mai sfrontata), sicura di sé (ma non imprudente).

Mi sono chiesta spesso quale combinazione, quale miscela di circostanze l’ha modellata così. Boh! Che sia attraente non ci sono dubbi. Ma la simpatia che sprigiona non si può spiegare solo con l’avvenenza.

Deve senz’altro entrarci qualcosa che ha a che fare col carattere, la curiosità e la fantasia, la conoscenza e la riflessione.

Quando la stuzzico su queste faccende, lei taglia corto e risponde bruscamente: “La formazione e l’esperienza”.

Credo che al giornale, dove lavora, l’apprezzino soprattutto per il piglio vivace con cui tratta i temi tecnici e scientifici. Riesce a rendere interessanti e comprensibili anche gli argomenti più barbosi e complicati.

Lei, ridendo, mi confida di avere imparato i segreti della divulgazione dai “maestri” inglesi. Sarà! … di fatto, il suo modo di raccontare ti coinvolge e ti avvince subito.

Ricordo quella volta che mi ha fatto il resoconto d’un raduno aviatorio, di cui doveva stendere la cronaca per il settimanale di provincia che allora dirigeva. Quando ho letto il servizio – pubblicato senza firma e intitolato “La Gazzetta dell’Adda ha preso il volo” – sono rimasta di stucco nel constatare che non aveva esitato a esprimersi, anche per iscritto, col tono familiare e complice che aveva usato con me.

L’inizio era apparentemente distaccato: “Alla festa svoltasi domenica, per l’inaugurazione del campo d’aviazione di Altariva, era presente anche il nostro giornale con un modesto stand allestito a lato della pista. Le competizioni in programma hanno fatto intervenire decine di aviatori, con aeroplani dalle forme più strane e dai colori sgargianti. Le esibizioni in volo hanno a loro volta richiamato migliaia di spettatori, la cui affluenza ha confermato l’interesse che suscita questa nuova realtà locale.

Fatte queste premesse – però – il registro cambia e fa capolino la vena ironica della zia, che non rinuncia a esporsi in prima persona: “Il nostro direttore, notoriamente appassionato di aviazione, è andato a curiosare e a tentare di scroccare un voletto. Ne abbiamo furtivamente registrate le impressioni, quando le ha riferite in redazione, e ne riportiamo qualche stralcio sfidando il suo prevedibile disappunto”.

Mi diverte questo suo giocare a rimpiattino col lettore. E mi sorprendono sempre gli espedienti cui ricorre per agevolare la comprensione di fenomeni astrusi, o per far sembrare ordinarie certe attività non proprio praticate da tutti.

Ma ecco, parola per parola, il seguito di quanto è comparso sul settimanale. “Ragazzi, è stato un successo strepitoso! Non ho visto una sola persona, al campo o nei dintorni, che non avesse tra le mani (o da qualche altra parte) la sua brava copia della “Gazzetta dell’Adda”. Una soddisfazione! … per dirla tutta, devo riconoscere che molti ne facevano un uso improprio. Qualcuno – molto praticamente, devo ammetterlo – se ne serviva per non imbrattarsi gli abiti sedendosi sull’erba. Le donne poi – è risaputo – gradiscono agitare un ventaglio, o qualcosa che ne faccia le veci, quando il sole picchia a perpendicolo. Tutto sommato, però, quell’inaspettata popolarità della nostra pubblicazione mi ha preso alla gola. Chi è madre capisce l’orgoglio che si nutre per le proprie creature. Devo comunque confessare che ho inghiottito un po’ amaro quando ho scoperto che chiunque poteva prelevare quante copie voleva dal rustico stand messoci a disposizione dagli organizzatori e che avrebbe dovuto essere presidiato dalla nostra grintosa segretaria tuttofare, Maurizia. Niente! Lei si limitava ad ammucchiare copie e copie sul tavolino, non appena gli avidi lettori di passaggio avevano demolito la pila incustodita. Ma lo faceva “a ragion veduta”. Perché – come mi ha pazientemente spiegato – in queste occasioni è più producente largheggiare offrendo il settimanale in omaggio. “Per una questione d’immagine”, mi ha fatto capire. Dalle strategie promozionali mi ha tuttavia distolto l’arrivo di un conoscente, che sapevo essere pilota e proprietario di un velivolo biposto e che ho salutato con insolita enfasi. Quando mi ha chiesto cosa facessi da quelle parti gli ho risposto prontamente – ma con studiata noncuranza – che ero lì per favorire, in caso di necessità, qualche concorrente obbligato dal regolamento a gareggiare con un passeggero a bordo. Ho pudore a riportare le parole con cui ha manifestato tutta la sua ammirazione per il mio disinteresse, assicurandomi che avrebbe approfittato lui della mia disponibilità se non avesse danneggiato poco prima il carrello del suo aereo. La mia simpatia per quell’aviatore maldestro è sfumata di colpo. Subito dopo, senza che mi accorgessi dove mi portavano le gambe, mi sono trovata a passare in rassegna i velivoli in procinto di spiccare il volo (con un occhio di riguardo per i biposto). Ho sudato sangue per dribblare il boss dell’organizzazione, che inflessibilmente ricacciava gli invasori nell’area riservata al pubblico. Avevo deciso di spacciarmi per un’addetta ai lavori e, per non insospettire quel mastino, mi fermavo ogni tanto a scambiare autorevoli opinioni coi vari piloti. Ma per un pelo il boss non mi ha presa in castagna, quando mi sono scottata quattro dita posandole con eccessiva disinvoltura su un motore rovente. Comunque, Parigi val bene una messa! Così ho continuato a far sfoggio della mia competenza (e della mia propensione ad assecondare i piloti che detestano volare da soli) finché la mia costanza è stata giustamente premiata. Mi ha portata in volo un gran simpaticone, che conosceva e apprezzava La Gazzetta dell’Adda. Mi ha trattata come una zia d’America e – senza neanche informarsi su quale parte avessi nella realizzazione del periodico – ha voluto gratificarmi di un’esperienza aviatoria superlativa. Pensate, ragazzi, al potere della stampa! Al ritorno, però, mi aspettava un’altra sorpresa. L’aeroplanetto non aveva ancora raggiunto il parcheggio e già un’esagitata ci correva incontro sbraitando. Era Maurizia, visibilmente contrariata. Voleva prendere il mio posto e, nella foga, per miracolo non mi ha strangolata nel tentativo di levarmi di testa il casco senza allentare la cinghia. Intanto il pilota chiedeva spiegazioni a quella forsennata, per cercare almeno di stabilirne l’identità. E’ saltato fuori che – come principale rappresentante del settimanale – Maurizia aveva brigato per ottenere un voletto a sbafo: e credeva che io l’avessi defraudata. Chiaro, no? L’incauto pilota che mi aveva accolto con spirito fraterno sul suo trabiccolo s’era sbagliato! L’ospite di riguardo avrebbe dovuto essere Maurizia. Sia come sia, abbiamo volato tutt’e due. E questo basti, ragazzi, a dimostrare il prestigio della nostra testata e i vantaggi che si hanno ad operare nel settore giornalistico”.

Questa insolita maniera di mettersi in rapporto coi lettori non l’ha abbandonata nemmeno adesso che scrive per un giornale molto più importante.

“Ho dovuto adattarmi a uno stile più impersonale e misurato”, dice. Però, ci tiene a non tradire la sua naturale comunicativa e – per controllare se lo scritto rimane accessibile e gradevole – mi concede di leggere i pezzi che sta preparando e che più mi incuriosiscono.

Io lo considero un privilegio: e scoppio d’orgoglio quando mi chiede un parere, dimostrando di tenere conto delle mie impressioni.

Per essere sincera, all’inizio era lei ad insistere perché leggessi. Voleva distogliermi “dalle trasmissioni televisive più insulse e perniciose”. Che – tradotto alla buona – vuol dire: “per niente valide, ma architettate per disintegrare i cervelli”.

Adesso le sono riconoscente per avermi sottratta alla teledipendenza e guidata a scoprire le suggestioni della lettura.

Di tutte le cose di cui tratta, la zia Dorina manifesta una spiccata preferenza per l’aviazione.

Come molti che hanno a che fare con lei, anch’io subisco l’influenza della sua personalità e mi sorprendo spesso a imitarne le espressioni ed i gesti, a condividerne le opinioni e i gusti. E’ così che ha avuto origine in me la passione per le macchine volanti ed è nato il desiderio di conoscere come si è pervenuti alla conquista del cielo e si sono prodigiosamente evoluti i primi mezzi aerei, fino a trasformarsi negli attuali veicoli supersonici e spaziali. In questo mi ha facilitata l’hobby della zia, la cui libreria trabocca di pubblicazioni sull’argomento. Ma la conoscenza generica della storia del volo non ha fatto che stimolare altre curiosità e sollevare interrogativi su momenti particolari del fenomeno aviatorio.

Ad un certo punto sono diventata una “cacciatrice” autonoma di notizie su questo mondo affascinante, accentuando progressivamente un’ indipendenza che la zia ha incoraggiato.

“Non c’è nulla più potente della curiosità pilotata – garantisce mia zia Dorina – per indurre una ragazza, altrimenti frivola e amorfa, ad ampliare i propri orizzonti culturali”.

Parole profetiche, nel mio caso, se si considerano gli stupefacenti risultati delle mie appassionanti ricerche. Infatti, ogni scoperta che le riferivo offriva spunti per valutazioni e confronti che allargavano la sfera dei miei interessi, costringendomi a approfondire aspetti inerenti – di volta in volta – storia, scienza, tecnica, geografia, economia, politica. E chi più ne ha, più ne metta.

La svolta decisiva, che ha determinato la mia consacrazione a “socia in affari” della zia, è stata impressa dal casuale rinvenimento di uno scatolone in cui la mia eclettica parente conservava un raccoglitore, con una cinquantina di fogli dattiloscritti. E, non a caso, diverse buste contenenti centinaia di fotografie (di varie epoche, ma tutte raffiguranti delle donne: chi ai comandi, chi semplicemente in posa vicino a una macchina volante).

Avevo senza dubbio messo le mani su una serie di articoli destinati alla pubblicazione, ma poi rimasti – per non so quale motivo – nel cassetto.

I fogli, numerati e in bell’ordine, erano inseriti in una cartellina gialla sulla quale spiccava, a pennarello, una scritta un po’ ermetica: “Le padrone del cielo”.

Ma l’enigma sul tema trattato mi era stato definitivamente svelato da un’aggiunta a matita: “La presenza femminile nella storia del volo”.

Di primo acchito, il sospetto che la zia mi avesse tenuto nascosto quel materiale mi ha ferito. Poi, realizzando che sarebbe bastato parlargliene per ottenere le più esaurienti spiegazioni, mi sono calmata.

Appena il cuore ha ripreso a battere regolarmente ho cominciato a leggere le poche righe che fungevano da introduzione.

Per iniziare correttamente una storia sulla sporadica presenza femminile nell’attività aviatoria, è indispensabile ricordare che – cent’anni dopo il primo volo a motore dei fratelli Wright (1903) – sui campi d’aviazione circolava ancora la battuta che attribuiva le difficoltà della “scalata al cielo” alla forza di gravità e … alle donne. Un’evidente eredità di atavici pregiudizi nel confronti del cosiddetto sesso debole, oltre che dell’inconfessato ma incontenibile desiderio di volare: da millenni considerato un grave atto di presunzione, contro natura; e perciò da avversare come pratica nociva, se non addirittura di origine diabolica. Questo atteggiamento persisteva, nonostante la sbalorditiva serie di brillanti intromissioni femminili che – nel brevissimo arco di un secolo – aveva costellato il frenetico progresso dei mezzi aerei e spaziali. A riprova depone la particolarità che la presenza di alcune spettatrici ha il potere di spingere gli uomini ad affrontare le imprese più temerarie”.

Mentre gli occhi scorrevano l’ultima riga mi sono sentita avvampare. Naturalmente non ignoravo che tante donne avevano praticato diverse discipline aviatorie e preso parte ad imprese memorabili.

Nelle mie escursioni libresche m’ero imbattuta con piacere in diversi nomi femminili; ma, anche se per me quelli degni di menzione erano molti, nelle pubblicazioni non specialistiche ne figuravano pochini. Quasi quanto le uvette nel purè. Così non avevo percepito l’ampiezza del fenomeno e, men che meno, immaginato che la zia potesse averne fatto oggetto di una trattazione impegnativa.

Per qualche minuto è affiorato di nuovo il risentimento. Come aveva potuto, la sorella di mio padre, tenermi all’oscuro di tutto? Perché non me ne aveva mai accennato? Non si compilano tante pagine senza rendersene conto ( a meno di lavorare in preda al sonnambulismo).

Quando aveva raccolto quella documentazione ed elaborato il testo? Perché ha occultato tutto in un contenitore così insignificante e anonimo che, neanche per scommessa, mi sono mai sognata di aprire?

Non vedevo l’ora che rincasasse per sottoporla al fuoco di fila delle domande che mi premevano in gola e che minacciavano di soffocarmi. Ma sarebbe rientrata solo per la cena e non restava altro che far passare tutto quel tempo cercando di vincere l’impazienza. Meno male che deve esserci un santo protettore anche per gli ansiosi. Infatti ho smesso di rodermi appena mi sono detta: “Che stupida! Cosa fare di meglio, se non cominciare la lettura del fascicolo?”

Gli articoli erano piuttosto brevi e le prime parole riflettevano l’indole un po’ maliziosa della zia.

Arrivata a un certo punto non avvertivo più nemmeno un’ombra di rancore verso la zia. Anzi, le ero incontenibilmente grata per avermi fatta partecipe delle strabilianti avventure di tante donne “con una marcia in più”.

Avrei voluto telefonarle subito al giornale, per dirle la meraviglia, l’emozione, la gioia per quanto di nuovo avevo appreso. Unico motivo di rammarico: che il libro non avesse visto la luce. Così è tornata ad affiorare l’idea e, con essa, l’urgenza di architettare uno stratagemma infallibile per realizzare il mio progetto. Ma, benché mi arrovellassi tutto il santo giorno sulla impostazione da dare al discorso – immaginando e rintuzzando mentalmente ogni presumibile contestazione – a sera ero più smarrita che mai, in mancanza di un piano preciso.

Per colmo di sventura, quando la zia mi ha inaspettatamente chiesto se avessi cominciato a leggere il fascicolo, non ho saputo evitare di farmi sfuggire due frasette ignobili, di una banalità sconcertante: “L’ho trovato semplicemente fa-vo-lo-so! Fossi in te lo avrei proposto a più di un editore”.

Voleva essere un complimento: è stato il modo più cervellotico di rivelarle il mio chiodo fisso.

La frittata era fatta! La zia ha corrugato impercettibilmente la fronte; poi, sorprendendomi, ha risposto: “Così com’è, no. Ormai è datato e, quindi, improponibile”.

“Se è solo per questo – ho continuato, cogliendo la palla al balzo – lo potresti completare rapidamente”.

“E’ vero”, ha ammesso. Ma ha subito aggiunto, fissandomi con una punta di diffidenza: “Si può sapere perché ti incaponisci a propormi una iniziativa che esula come nessun’altra dai miei interessi attuali?”

Questa domanda – attesa e temuta – segnava il momento della svolta decisiva. Ora dovevo giocare il tutto per tutto! “Per un sacco di buoni motivi!” ho esclamato, concitata, mentre cercavo affannosamente di farmene venire in mente almeno uno che fosse appena appena potabile.

Aggrapparmi a qualche nobile causa mi sarebbe servito, se non altro, a giustificare il mio fervore. 

Quella che non volevo confessare – per il momento – era la vera ragione della mia insistenza.

“Mi hai insegnato tu – ho esordito con una certa impudenza – che conoscere il passato è essenziale per esprimere giudizi equilibrati sul presente; e che non fornire la testimonianza di eventi significativi (riguardino le donne o qualsivoglia argomento) equivale a cancellarli dalla storia. E’ come se non fossero mai avvenuti; non daranno il minimo contributo alla formazione critica delle coscienze”.

Sui due piedi, avevo improvvisato una sintesi un po’ semplicistica del “Dorina-pensiero”.

A dirla onestamente: era una specie di parodia, di quelle che facevo spesso e che mettevano la zia di buonumore.

Avrei potuto continuare per ore a scimmiottarla (in questo esercizio eccellevo, sguazzavo come un topo nel formaggio), ma non potevo rischiare di spazientirla.

Ero quasi sicura d’ avere aperto una breccia: dovevo infilarmici a capofitto. Ho quindi preferito tagliar corto e concludere: “Ecco. Secondo me pubblicare questo libro è un atto di giustizia, un dovere nei confronti di tutte le appartenenti al nostro sesso”.

La replica è stata pacata, ma recisa: “E’ una motivazione speciosa, un pretesto poco convincente. Non è sulla sete di giustizia che prospera l’editoria”.

M’ero illusa e avevo fatto cilecca. Non ce l’avrei mai fatta puntando sul raziocinio. Bisognava cambiare tattica – e alla svelta! – per far leva sulla sua mai sopita vocazione pedagogica.

Con la disperazione di un pugile “suonato” e costretto nell’ angolo da un avversario implacabile, ho dato fondo alle mie risorse teatrali assumendo ipocritamente l’atteggiamento più umile e indifeso, quasi infantile.

“Io potrei … – ho detto a bassa voce, accentuando la pausa – … darti una mano”.

Pochi secondi di riflessione, durante i quali cercavo di vincere l’agitazione scrutando attonita i disegni della tappezzeria (come se li vedessi per la prima volta!).

Finalmente la risposta. Era senza dubbio un assenso: anche se – come mi aspettavo – corredato da circostanziate condizioni. “D’accordo. Ma, se ci tieni tanto, dovrai faticare. Farai una attenta ricerca sul periodo più recente e mi segnalerai gli episodi che a tuo parere hanno un inequivocabile valore emblematico. Cioè: i più adatti a far emergere un particolare significato dal quadro complessivo della storia del volo. Ti avverto che non sarà facile, perché è inteso che agiremo come se la pubblicazione fosse scontata. Voglio dire: senza prendere sottogamba l’impegno di scrivere per dei giovani e come se dovessimo sottoporre il nostro lavoro al severo giudizio di uno staff editoriale”.

In preda all’esaltazione, l’ho interrotta: “Lo facciamo per completare insieme un racconto che ci piace”. E, per assicurarle che avevo capito perfettamente dove voleva andare a parare, ho aggiunto subito, conciliante: “Lo facciamo per sport: nel più puro spirito olimpico propugnato da De Coubertin”.

“Brava. Ma su quanto ti ho precisato non transigo. Se poi, a opera finita, troveremo chi la vorrà prendere in considerazione, bene! In caso contrario ci saremo divertite o, quanto meno, avremo imparato entrambe qualcosa”.

Bingo!! Avevo fatto centro! Ero al settimo cielo e mi pareva di galleggiare, libera come un pallone-sonda nella stratosfera. La zia poteva pretendere quello che voleva!

In quegli attimi ero lontana anni-luce dal sospettare che la mia euforia non sarebbe durata per l’eternità. La delusione, purtroppo, era già in agguato. Eppure, credevo di essere partita col piede giusto.

Avevo scartabellato giorni e notti a spulciare libri e raccolte di periodici, per scovare le cronache degli eventi di spicco. Mi ero talmente immersa nel compito che alla zia chiedevo poche e generiche indicazioni. I rari scambi d’opinione riguardavano più il reperimento di un volume o la collocazione di un servizio giornalistico, piuttosto che i criteri di selezione da adottare di fronte alla vastità dell’argomento.

Ultima incombenza era la cernita e la digitalizzazione di un centinaio di illustrazioni, da scegliere tra la valanga di foto custodite dalla zia. Del resto, una scorsa al titolo dei sedici capitoli non lasciava dubbi sull’entità del materiale da trattare. Si andava dalla prima ascensione in mongolfiera (1784) alla comparsa dell’aeroplano; dall’inarrestabile affermazione dei velivoli alle loro imprese più eloquenti; dal coinvolgimento delle donne in voli di guerra alle loro clamorose sfide per il primato di velocità; dalle prime, eccitanti, missioni spaziali ai ricorrenti “giri del mondo”, con o senza scalo.

Non c’era dubbio che, col passaggio dalla fase di espansione a quella dell’inimmaginabile proliferazione dei mezzi aerei verificatasi negli anni ‘70 e ’80, il “peso” della presenza femminile fosse aumentato in proporzione. La conferma veniva anche dall’ultimo capitolo del fascicolo, nel quale la zia aveva tracciato una specie di “panoramica” che sanciva l’inarrestabile avanzata delle donne in tutti i settori dell’attività aviatoria e spaziale. Siccome era indispensabile evidenziare il fenomeno, abbiamo deciso di comune accordo di lasciare inalterato il testo: saremmo partite dalla presa d’atto di questa realtà per valutare e inquadrare le successive imprese femminili.

Un bel giorno – inaspettatamente, almeno per me – si è profilata l’ opportunità di cogliere l’attimo, si è fatta strada la convinzione di potere offrire un prodotto che – anche se non indispensabile – viene avvalorato dall’imperante stimolo della curiosità.

“Veramente – ha mormorato quasi tra sé la zia – un’occasione straordinaria ci sarebbe: l’imminente missione spaziale della prima donna italiana, Samantha Cristoforetti, in programma per il 24 novembre prossimo”.

Che botta! Ossessionata dall’onere del compito assegnatomi, ne avevo dimenticato l’intento divulgativo. Ho rimediato subito, affermando perentoriamente che era una circostanza irripetibile. Avrebbe suscitato l’interesse generale, garantendo un effetto propagandistico impagabile e duraturo: perché il sistema mediatico se ne sarebbe avidamente nutrito prima, durante e dopo l’avvincente impresa.

Infine, ancora inaspettatamente, la zia ha concluso: “Inoltre, sarebbe opportuno partecipare a qualche iniziativa promozionale, organizzata da associazioni o club sensibili al tema, in quanto verosimilmente costituiti da appassionati d’aviazione. Ce ne sono ancora, per fortuna. Ottenere una buona classificazione in un concorso letterario, per esempio, potrebbe essere determinante per acquisire un minimo di notorietà”.

A questo punto non c’erano altri problemi da risolvere. Significava, né più né meno, che bisognava rimettersi a lavorare sodo.



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Michele Gagliani

Leggero


All’improvviso si trovò nel cielo, il suo sguardo si perdeva in un blu accecante; le nuvole sfilacciate erano sotto di lui e celavano in parte il reticolo geometrico di campi delimitati da strade, corsi d’acqua e filari di alberi. Sopra di lui la curva dell’atmosfera sfumava in toni diversi sino al profondo più scuro, al limite stesso del pianeta.

Il sole era dritto davanti a lui, leggermente più in alto, sorto da alcune ore si avvicinava al mezzogiorno crescendo di luminosità.

Tutto intorno solo aria e libertà, pensò di avvicinarsi alle nuvole e di sfiorarle; con il solo pensarlo sentì le mani che si muovevano e come a braccia distese cominciò a cabrare leggermente, si rovesciò virando a sinistra fino a trovarsi in picchiata verso il bianco soffice che correva sfuggendogli; e lui lo inseguì.

Solo quando si mise in volo livellato si rese conto di essere al posto di pilotaggio del suo piccolo monomotore, non ricordava di aver mai decollato, la sensazione di essere solo con i suoi pensieri e sogni l’aveva stordito … solo lui e l’aria.

Ora vedeva e controllava la strumentazione e restò quasi deluso quando entrò tra le nuvole, avrebbe giurato di poterle toccare; ma passò in un attimo, lo spettacolo dell’aria umida e carica di condensa che scivolava sulle ali lo rapì.

Si voltò indietro a vedere la scia che disegnava la rotta, come se avesse creato un sentiero che potesse ripercorrere senza perdersi.

Una gioia incontenibile gli saliva dal cuore mescolandosi con l’eccitazione, si avvitò, volò rovesciato con gli occhi inchiodati allo spettacolo della terra, seguì l’argento di un fiume tra il verde prima di raddrizzarsi e puntare dritto verso l’infinito.

Diede manetta e si spinse sino al limite di tangenza, il motore scese di giri sino a ricordargli che il suo posto era la terra e non il cielo.

Quante volte aveva sognato di bucare il cielo, spingersi oltre fino a trovarsi nello spazio … liberarsi del peso e dell’indistruttibile filo invisibile che lo legava al mondo.

Quasi in stallo si lasciò scivolare d’ala senza agire sui comandi, come se non fosse lui a decidere di ritornare verso il suolo, lo stomaco per un attimo si strinse e il respiro si sospese.

Recuperò il controllo sempre puntando in basso, ancora e ancora; più veloce, ancora più veloce. L’aria fischiava quasi assordante e l’altimetro impazziva; giù, ancora più giù!

Era come bloccato in una trance, non riusciva a pensare neanche di tirare a sé la cloche; gli occhi inchiodati sul verde dritto di fronte a lui, volava e precipitava spingendosi al limite.

Non voleva o non poteva, la terra si scatenava e lo tirava a se senza che lui potesse muovere un muscolo; ad un tratto non era più lui con il suo apparecchio a volare verso il suolo, ma era il suolo stesso che gli correva incontro.

Non aveva paura, ne sentiva pericolo, era sereno. Staccò le mani dai comandi e lentamente chiuse gli occhi.

Gli occhi erano pesanti, li aprì lentamente, sbattendo più volte le palpebre.

Si drizzò a sedere aiutandosi con le sole braccia, sistemò i cuscini dietro la schiena e si appoggiò alla testata del letto. Aveva ancora nel cuore la sensazione di pace e libertà e lasciò che restasse il più a lungo possibile ritardando il risveglio, la coscienza.

Era leggermente sudato, prese il bicchiere dal comodino e bevve un sorso; rimase ancora qualche minuto in contatto con l’anima richiudendo gli occhi. Ormai il cervello era tornato in contatto con la consapevolezza della realtà e decise che era ora di alzarsi.

Con movimenti studiati e ormai meccanici avvicinò la sua fedele carrozzella e quasi con naturalezza le sue braccia lo fecero scivolare a sedere su di essa. Si avviò verso il bagno, la sensazione di peso, di essere a terra, non lo disturbò, il suo pensiero era sereno e leggero.

Si sentì fortunato perché mai i suoi sogni lo avevano abbandonato e riusciva a volare davvero oltre la difficile vita … un sorriso dolcissimo gli salì dall’anima fino agli occhi e guardò dalla finestra un nuovo sole, lassù nel cielo.



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Andrea Barlotti

Viola


Ore ventitré e ventitré del 19 marzo 2010.

Il Sig. Celante Rino è chiuso nella sala interrogatori del Comando dei Carabinieri di Conegliano Veneto. Solo un’ora prima, si era alzato dalla sua poltronissima numero 4, fila B, del Teatro Accademia e, raggiunte le quinte, si era avventato sul Maestro Salvatore Accardo, uno dei più famosi violinisti italiani, nel tentativo, sventato, di rubargli il “Firebird”, preziosissimo stradivari del 1718.

In molti devono aver pensato all’insano gesto di uno squilibrato; tutti hanno creduto al furto come movente, ma nessuno ha capito il senso delle parole urlate da Rino, durante l’aggressione: “L’essenziale è invisibile agli occhi”.

Per capirle, forse, bisognava fare un salto indietro di due anni, al 16 marzo 2008. Quel giorno Rino scese al bar per fare colazione, ordinò cornetto, cappuccino, e, come ogni mattina, si mise a sfogliare il giornale sul frigorifero dei gelati. Improvvisamente chinò il capo in avanti come se avesse ricevuto un colpo alla nuca e si lasciò cadere con tutto il peso del corpo, puntando le braccia, tese e tremanti ai lati del quotidiano. Il titolo in grassetto diceva: “Smettete di cercare la verità su Saint-Exupéry. Sono io che l’ho abbattuto”.

Con queste parole, l’88enne Horst Rippert, ex-pilota della Luftwaffe, conosciuto ai più per la sua carriera da giornalista sportivo nel dopoguerra, confessava al mondo intero che, la notte del 31 luglio 1944, aveva abbattuto l’aereo pilotato dall’aviatore e scrittore francese Antoine de Saint-Exupéry.

Dall’articolo emergevano chiaramente le due diverse ragioni che l’avevano indotto a custodire gelosamente, per oltre sessant’anni, questo triste segreto.

La prima era il sincero dispiacere provato nello scoprire l’identità della sua vittima; Antoine de Sainte-Exupéry era conosciuto e stimato, già all’epoca dei fatti, da tutti i piloti per i suoi diversi scritti sul mondo dell’aviazione ed era anche l’autore che più di chiunque altro aveva saputo rappresentare il cielo e i sentimenti di chi sfidava gli elementi a bordo degli apparecchi, tanto che lo stesso Rippert lo riteneva un vero e proprio idolo. La seconda motivazione, alimentatasi negli anni, era il timore di rimanere indelebilmente immortalato nell’immaginario collettivo come colui che aveva ucciso l’autore della fiaba intitolata: “Il piccolo principe” che, tradotta in oltre 250 lingue, sarebbe diventata con il tempo una delle più apprezzate in tutto il mondo.

Ora, dopo più di mezzo secolo, era giunta l’ora di liberarsi da un peso portato per troppo tempo da chi in fin dei conti aveva solamente fatto il proprio dovere di militare.

Rippert racconta in un passaggio dell’intervista che quella lontana notte, mentre sorvolava il Mediterraneo nei pressi di Tolone sul suo Messerschmitt, avvistò un Lightning P-38, un “Mosquito” come veniva simpaticamente soprannominato dai piloti delle forze alleate. Il caccia bimotore, in missione da ricognizione, portava sulla carlinga i colori della bandiera francese e questo bastò a Rippert per decidere di aggiungere un’altra tacca sulla fiancata del suo aereo.

Rino che, come tanti altri, aveva sperato che le leggende sulla misteriosa scomparsa del pilota fossero vere, si era sempre voluto illudere che il suo mito fosse ancora vivo in chissà quale sperduta parte del globo ma ora quella notizia, appresa così amaramente, gli aveva annebbiato la vista e i pensieri. In pochi istanti tutto nella sua testa sembrò tingersi di un viola livido, come la desolazione e lo smarrimento per una perdita inattesa.

Viola, il cui significato etimologico è appunto “intrecciare”, era anche il colore che più volte gli era capitato di associare ad Antoine de Saint-Exupéry e alla sua vita. Una vita nella quale, all’anima romantica e sognatrice dello scrittore, s’era spesso intrecciata quella tecnologica e moderna dell’aviatore.

Come in pittura, per ottenere il viola, si devono mescolare due colori primari, il rosso e il blu; così nella realtà, il rosso della sua passionalità artistica si mescolava con il blu della sua razionalità di pilota. Il viola era un colore che lo rappresentava alla perfezione ma che, proprio per lui, in quella notte del 1944, cambiò essenza e ingredienti, così che, alla riposante accoglienza dell’azzurro, si sostituirono le blu e gelide acque del mare, mentre alla vitalità del rosso, purtroppo, si sostituì il caldo e purpureo sangue dello scrittore.

Tutti quegli assurdi pensieri iniziarono a intrecciarsi in un delirio di disperazione, era come se quella notizia, non annunciasse la morte di un essere umano, bensì quella di un’idea.

Rino aveva amato “Il piccolo principe” fin dalla prima volta in cui lo aveva letto, a soli dieci anni. Col tempo si era impegnato a vivere la sua vita, nel rispetto di semplici regole e così, come nella fiaba, si era spesso fermato a riflettere sul reale significato delle cose e sull’importanza di “creare dei legami”. Il più forte di quei legami, paradossalmente, lo aveva stretto proprio con l’autore di quel racconto che, molte volte nel corso degli anni, si era trovato a rileggere. Era come se un perfetto estraneo avesse saputo mettere, nero su bianco, le istruzioni per la sua vita.

Rino si sentiva molto vicino ad Antoine e la sua complicità con l’autore si arricchiva, grazie ad un’altra passione in comune: quella per la musica classica e per il violino, in particolare. Quello strumento, era stata una vera ossessione per Antoine de Saint-Exupéry; tale da indurlo a far culminare il suo amore per l’arte e la buona musica nell’acquisto di uno degli strumenti più pregiati e costosi al mondo; un vero e proprio pezzo di storia: uno Stradivari del 1718, il “Firebird”.

Non serve essere degli esperti per capire il valore di un tale oggetto. Antonio Stradivari è stato il più grande liutaio di tutti i tempi. Degli oltre mille strumenti che presero vita dalle sue sapienti mani, se ne possono ammirare oggi poco più della metà e solo alcune decine di questi esemplari sono ancora in grado di produrre il mirabile suono che li ha resi un simbolo universale della buona musica. Alcuni si trovano nella collezione privata del re di Spagna, altri in Russia, grazie all’editto con il quale Lenin li confiscò alla nobiltà francese fuggita in seguito alla rivoluzione del 1789. La storia è ricca di accadimenti che hanno come protagonisti questi straordinari oggetti di culto per tutti gli amanti della musica, e non solo, e Rino era davvero fiero che uno di questi pregiatissimi strumenti fosse appartenuto al suo idolo. Soprattutto amava sapere che il “Firebird” suonasse ancora. Gli piaceva pensare che, ogni volta che quelle corde producevano il loro canto, lui potesse sentirlo. Non pensava, agli oltre cento anni che avrebbe dovuto avere perché, Antoine era una “leggenda”, e le leggende non hanno età, così come le idee.

Quella mattina del 2008 però, la leggenda era stata cancellata dalle parole di un vecchio aviatore nazista. Era come se il braccio armato di uno dei più crudeli ideali mai partoriti dalla mente umana avesse annientato per sempre il mito del romanticismo sentimentale. Era come essere rimasti imprigionati, per sempre, nell’atavica paura della solitudine che, nelle pagine de “Il piccolo principe”, era magistralmente descritta.

Nemmeno la musica del “Firebird” poteva ridare vita alla magia di quell’idea. Con la morte di Antoine de Saint-Exupéry, quell’oggetto non era più degno di ricordarla. Per quel motivo Rino provò a farlo tacere per sempre. Perché ormai, solo con il cuore si poteva godere di quell’idea, poiché: “l’essenziale è invisibile agli occhi … e non udibile alle orecchie”.



§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§

# proprietà letteraria riservata #


Emiliano Baroni

I have control


Tutto cominciò una ventina di anni fa.

Ancora infante, da poco in grado di camminare e di parlare, per la prima volta vidi un mezzo volante da vicino.

Un Agusta A-109A2 della Guardia di Finanza, in esposizione statica per una manifestazione, nel porto dove mio padre prestava servizio.

Finanziere, imbarcato su una motovedetta, amante del mare come io lo sarei stato del cielo.

Ricordo la mia curiosità insaziabile di bambino, precoce e sveglio a giudizio di molti che mi conobbero allora. Iniziai a tempestare lui e mia madre di domande sulla strana macchina, su come funzionasse, su come era fatta dentro.

La memoria di questi primi tempi della mia vita, per quanto vivida, ha qualche falla.

C’è una foto di me sul bordo del vano passeggeri, aggrappato al portellone aperto, e ho un vago ricordo dei miei genitori che non sanno come rispondere in maniera comprensibile ai mille interrogativi che gli pongo.

Ricordo una promessa fatta a me stesso, straordinariamente chiara, per quell’età. Se mia madre e mio padre non sapevano rispondermi, avrei trovato io le risposte. Nella soffitta della casa dove sono cresciuto è conservata un enorme quantità di riviste, libri, raccolte a fascicoli, e fogli strappati a quaderni di scuola per prendere appunti e disegnare.

Aerei ed Elicotteri, veri o partoriti dalla mia mente. Una carrellata di modellini assemblati in maniera via via meno rozza e più ricercata con gli anni.

Più o meno da quando sono stato in grado di leggere qualcosa di più complicato dell’abecedario, leggo di aviazione.

Ammetto di sapere comunque poco rispetto agli esperti del settore, ma ai tempi, senza nessuna conoscente addentrato in quel mondo, vivendo in un paesino relativamente isolato, in un epoca in cui la grande internet che ha tutte le risposte, spesso anche quelle sbagliate, ancora non era accessibile ai più, soprattutto in Italia, è sorprendente la mia volontà di raccogliere informazioni in materia di volo. Se mi avessero chiesto cosa volevo fare da grande, già alla fine delle elementari la risposta era netta e decisa.

Volevo fare il pilota.

La voglia di solcare il cielo la incanalai negli anni delle scuole medie e superiori nei simulatori di volo, complice l’ingresso in casa di PC via via più performanti col passare degli anni. Alcuni spiacevoli eventi mi turbarono l’adolescenza in maniera troppo subdola per essere percepita dall’esterno, iniziai a isolarmi, alienandomi al mondo.

La forza d’inseguire il sogno stava spegnendosi. Nemmeno i primi viaggi su aerei di linea erano serviti a molto.

Mi aveva dato la stessa, scomoda, arida sensazione di viaggiare su un autobus.

Solo molto veloce.

Guardando fuori dal finestrino vedevo il luogo a cui da sempre anelavo, l’infinito spazio del cielo, ma qualcosa non tornava, non lo stavo vivendo come volevo.

Arrivato al quarto anno del liceo scientifico mi stavo ormai convincendo che quello di pilotare davvero sarebbe rimasto un bel sogno, ma che dovevo accontentarmi delle nottate davanti al monitor, collegato in rete con altra gente, a discutere di simulatori, a costruire scenari di guerra tanto virtuali quanto i velivoli con cui ne avremmo poi solcati i cieli.

Ero stato a qualche airshow, ma sempre in madrepatria, e non mi avevano entusiasmato più di tanto.

Guardare da terra era solo un modo per stuzzicarmi l’appetito, e lasciarmi poi a bocca asciutta.

Come guardare dolci in vetrina sapendo che non entrerai a comprare né un vassoio ne un singolo pasticcino. Ma fortunate coincidenze riaccesero prepotentemente la fiamma della passione.

In un paese non lontano costruirono un aviosuperficie.

Ci andai una volta per conto mio, trovando solo un hangar chiuso e nemmeno l’anima di una persona. Ma qualche tempo dopo la gestione di quella stessa aviosuperficie iniziò a tenere corsi di divulgazione sul mondo aeronautico, in un bar a meno di dieci minuti a piedi da dove abitavo.

Una sera andai a curiosare, e da allora, ogni giovedì ero là.

Frequentai più assiduamente di chiunque altro i corsi, presi appunti, studiai anche per conto mio. Molti altri “allievi”, perso l’effetto della novità, abbandonarono.

Fatto tipico e non sorprendente nella vita di paese.

Eravamo sempre di meno, e io ero l’irriducibile. Arrivai a farmi rimproverare da mia madre per il dedicare più tempo a questo corso settimanale, che al liceo, e devo ammettere, mio malgrado, che i voti davvero ne stavano risentendo. Ma strinsi i denti, cercando di dividermi equamente tra le due “scuole”.

E alla fine, premio insperato, ai tre che rimasero fino a fine corso, fu offerto un volo gratis sull’ultraleggero della scuola di volo. Di quei tre ero il primo. Ricordo ogni dettaglio di quel giorno. Ricordo la mia ansia, mentre divoravo il pranzo, dopo aver perso tempo prezioso nella ressa all’uscita da scuola, per uno stupido contrattempo. L’avrei saltato, ma già ero senza colazione, sarei crollato se non mangiavo qualcosa.

Finalmente col mio zainaccio di tela militare, consumato ma tenuto affettuosamente in uso per anni e anni, salii a bordo dell’automobile con cui mio padre mi avrebbe accompagnato al campo. Ero nel panico. Mi sembrava di avere l’occasione di una vita davanti, e di essere prossimo a perderla.

Aveva un bel da fare, papà, a cercare di rincuorarmi, a bruciare semafori e rischiare multe per eccesso di velocità.

Ero terrorizzato, tremavo. Ma arrivammo alla pista, e c’erano ancora solo due tecnici che spostavano materiale nell’hangar. Accertato che non sarei rimasto a terra, ritrovai la pace, come se nulla fosse successo.

Incominciai a tempestare di domande, con la stessa furia innocente del bambino che ero stato, tutti i presenti. I due tecnici, l’istruttore, il gestore … chiunque mi sembrava potesse insegnarmi anche solo una virgola più di quel che sapevo, fu tartassato dalle mie domande, frenate solo e unicamente dal terrore di irritare qualcuno e restare a terra.

Nell’aula di teoria della scuola ci spiegarono in pratica quello che avremmo fatto. In realtà pochi minuti, ma per me era l’universo intero.

Decollo, giro di un paio di punti caratteristici dei dintorni, con un qualche attimo di controllo sui comandi, ritorno verso il campo, circuito e atterraggio.

Spiegato per sommi capi il volo, arrivò il momento di toccare con mano.

Ci avvicinammo all’ultraleggero parcheggiato sul piazzale in cemento.

Fusoliera bianca in vetroresina, ala alta, motore spingente, carrello triciclo, coda a T, sedili in tandem e un tettuccio in plexiglass incernierato sul lato che gli dava un aria stranamente aggressiva per un “giocattolino da poco”.

Negli anni avrei sentito dire peste e corna di quel modello, e di tante piccole magagne che si portava dietro … ma per me era e resta bellissimo. Come si suol dire, il primo amore non si scorda mai.

Ci mostrarono tutti i controlli che andavano fatti prima di ogni volo, ci fecero osservare mentre venivano eseguiti, toccammo tutti con mano, previa spiegazione e sotto supervisione. Mi venne dato incarico di rimuovere la copertura e il “tappo” dal tubo di pitot.

A ripensarci oggi è stato il momento fondamentale della realizzazione che stavo davvero per volare. Che non era un sogno folle ed effimero, ma una concreta realtà.

Avevo la copertura, con il contrassegno “REMOVE BEFORE FLIGHT” stretta nella mia mano sinistra, rosso su bianco.

Finora quella scritta l’avevo vista solo su un portachiavi recuperato a una manifestazione, anni prima, e usato fino a distruggerlo. E l’odore, l’odore quando spillammo dal serbatoio un con l’apposito strumento un piccolo campione di carburante, per verificare l’eventuale emulsione di acqua all’interno.

L’odore pungente della benzina automobilistica usata da quel motore Rotax, tuttora mi ricorda quel giorno, ogni volta che passo da un benzinaio. Un attimo ancora d’incredulità nacque quando mi dissero di sedere davanti, che l’istruttore da dietro poteva benissimo controllare tutto. E montammo in cabina.

Il cielo, che la nel corso della mattina mostrava ancora le cicatrici di un violento fronte temporalesco passato in settimana – altro fattore dell’ansia che avevo sofferto mezz’ora prima – era pulito, con poche nubi alte, ben oltre le minime condizioni per il volo a vista. E un vento relativamente tranquillo, per la media di quel febbraio.

Iniziai a seguire le istruzioni che mi vennero dettate man mano e preparandoci alla messa in moto. Cinture, chiusura del tettuccio, segnalazione dell’avviamento, batteria, magnete 1 On, Magnete 2 On,

Un ultimo urlo di “VIA DALL’ELICA!”, Controllo visivo, per ulteriore sicurezza … e lo scatto dell’avviamento, la macchina che prende vita, il fragore del motore che si avvia …

Un rumore che rimbombava nell’abitacolo e nella mia testa, complici le cuffie in prestito, troppo logore e ormai non totalmente capaci di attenuare i rumori esterni.

Poi l’accensione della radio, l’impostazione della frequenza, il sentire l’istruttore parlare. Frasi che avevo immaginato mille volte leggendole, che finalmente mi arrivavano filtrate dalla statica dell’interfono, mentre l’istruttore comunicava man mano le sue intenzioni …

Rullammo in attesa, con un primo momento di mani sui comandi, sempre dirette e corrette dall’istruttore, che di fatto non mi avrebbe mai ceduto, per questo volo, la completa autorità sul velivolo.

Rimasi molto spiazzato la necessità di dover manovrare usando separatamente i freni delle ruote, destro e sinistro, a distanza di anni il rullaggio a terra è una cosa che non ho mai davvero padroneggiato fino in fondo.

La prova motore, che lo spartano freno di parcheggio dell’ULM non gradì molto, costringendoci a coadiuvarne l’azione agendo con forza anche sui freni “di manovra”.

Tenendo il motore ai 4300 giri, togliemmo un magnete, osservando entrambi la lieve diminuzione di giri. Lo reinserimmo, ripetemmo col secondo. Risultato analogo.

Nessun traffico, nonostante la pista di un migliaio abbondante di metri, in asfalto. Un lusso, per un campo di volo del genere, davvero un lusso raro, soprattutto in Italia. Quasi nessuno volava mai da quelle parti, e solo anni dopo avrei capito perché. Ma in tutto questo non importa, allora non sapevo né sospettavo e anche averlo saputo non avrebbe cambiato nulla dell’esperienza in sé.

Rullammo dal raccordo alla testata pista. Direzione 27, comunicando all’improvvisata “biga” a terra la nostra intenzione di decollo. La mia mano che su richiesta dell’istruttore porta la levetta dei flap alla prima tacca …

Un ultimo momento di fermo appena allineati … poi lasciammo i freni e portammo la manetta a fondo corsa.

I 100 cavalli del motore, non tantissimi, ma più che sufficienti per quella massa, iniziarono a spingerci, il mondo fuori dal cockpit accelerava.

L’anemometro segnalò in breve la velocità di rotazione, e quasi immediatamente dopo fu il distacco dal suolo. Una sensazione più leggera del volo di linea, ma allo stesso tempo molto più tangibile.

Sentivo i comandi sotto le mani e i piedi, mossi dall’istruttore, ma comunque percepiti da me. Inconsciamente lasciavo che il mio corpo seguisse l’input percepito dal pilota in comando alle mie spalle, in modo da assimilare con la memoria di movimento le azioni. Insegnamento ricavato da chissà che libro letto anni prima, ma che in quel momento d’istinto non potevo fare a meno di eseguire.

A differenza delle precedenti esperienze, ogni pezzo era al suo posto. Avevo trovato ciò che cercavo. La bellezza del volo, la bellezza del mondo visto dall’alto, con la consapevolezza di controllare il proprio spostamento. Immobili eppure oltre i limiti del proprio corpo. Il moto perfetto, il volo della mente che in barba alla legge di gravità si porta dietro anche il corpo.

Esattamente quello che cercavo nei libri dei filosofi, e nei manuali tecnici. Ma ciò che avevo letto, e con scarsi risultati anche scritto, impallidiva di fronte alla realtà.

Livellati e impostato un assetto di crociera a 1000 piedi, virammo verso un isoletta non lontana, forse un paio di minuti per raggiungerla, a 75 nodi, velocità già sostenuta, per quel mezzo. Per un po’ l’istruttore mi lasciò i comandi, facendomi provare alcune blande virate, lievi cambi di quota e di regime di volo.

Vedendo la tranquillità con cui seguivo le sue istruzioni, mi lasciò arrivare all’ingresso del sottovento per il circuito d’atterraggio, riprendendo solo allora il controllo completo, e non solo il non dichiarato controllo passivo, che ero istintivamente certo non avesse mai lasciato.

Non avevo un modo per vedere davvero cosa stesse facendo, ma tutto ciò che avevo studiato, unito al comune buon senso, mi lasciava intuire la sua mano a guidare e controllare la mia, i suoi piedi a correggere la mia azione sul timone, per tener centrato l’aereo.

Il contatto col suolo fu più duro, per certi versi, di quello su un jet da 300 posti. Ma ironicamente, in 300 metri scarsi eravamo abbastanza lenti da invertire la direzione e liberare la pista, trotterellando allegri sulle poche irregolarità del piazzale, seguendo passo passo le indicazioni dell’istruttore.

Una volta arrivati allo spazio marcato a terra, motore al minimo, freno di parcheggio inserito, l’istruttore mi fece togliere la cuffia, scendere dal mezzo, e come da istruzioni mi allontanai stando lontano dal motore, mentre un altro allievo veniva a darmi il cambio.

Mentre rullava nuovamente verso la pista, rimasi a guardare. Aspettai che rientrasse, aspettai anche tutto il volo del terzo allievo. Volevo sentire cosa aveva da dire, volevo sapere, capire.

Andammo via solo quando ci cacciarono.

Fu l’inizio del cambiamento.

I simulatori non bastavano più, avevano il sapore di un palliativo, e anche molto inefficace.

Anche solo un ultraleggero nella realtà superava di gran lunga qualsiasi caccia pilotato di fronte a un computer.

Avevo 17 anni. Molta gente aveva iniziato a età inferiori, molta gente, in luoghi e tempi antecedenti, poteva avere già una licenza, alla mia età.

I miei, che temevano il mio concentrarmi troppo sul volo e troppo poco sullo studio, vollero farmi attendere fino al compimento della maggiore età, e solo allora riprese quello che chiamavo “l’apprendistato”.

Visite mediche, viaggi in questura per avere il nulla-osta che mi avrebbe autorizzato a iniziare i corsi, l’iscrizione in palestra per migliorare la mia forma fisica e combattere l’annoso problema di peso che da sempre mi trascinavo dietro. Era il mio ultimo anno di liceo, era l’anno del corso di volo. I rapporti coi miei compagni di classe andavano deteriorandosi ogni giorno di più, ma questo non era importante.

Esclusi un paio, con cui ancora ho piacere di sentirmi, erano persone migliori da perdere che da trovare.

Per certi versi, era una cosa dura da affrontare.

La preparazione per l’esame di stato, i corsi per la patente B iniziati appena possibile, e affrontati con una certa noia perché sì, apprezzavo guidare, ma non reggeva il confronto. Un crescere di impegni in famiglia e fuori, a cui non potevo esimermi. Ma ogni weekend a cui il mondo arrivasse senza esplodere, ero al campo. Anche se per qualche motivo legato al meteo o a fattori tecnici non si poteva volare. Era irrilevante.

Ero in mezzo al mondo del volo, ero in un hangar, ero negli uffici. Gli aeroplani non erano più un insieme di poligoni disegnati e ricoperti di texture da un sistema di calcolo infinitamente più semplice e stupido di un cervello umano, erano ruote sul cemento del piazzale, erano giunture meccaniche, scocche in metallo o in resine, erano motori a cui all’inizio della giornata si faceva un controllo ben più approfondito del pre-volo, a cui si controllava sempre il livello dell’olio.

Era divertente il fatto che per rendere veritiero il controllo, eliminando le bolle d’aria, bisognasse far ruotare, a magneti scollegati e fermi, l’elica un paio di volte, fino a un rumore caratteristico, che divenne in breve famoso tra noi allievi come “il ruttino”.

Imparai a conoscere anche altri aerei, che là erano fermi, tutti bellissimi, anche se alcuni, abbandonati a loro stessi, erano tutt’altro che in condizioni di volare.

L’istruttore che mi seguiva era diverso. Il suo predecessore era partito per una migliore offerta di lavoro, all’estero. Il nuovo, sulle prime, parve un filo più burbero, ma la sua esperienza, e il modo in cui ci addestrava, li trovavo eccezionali. Trovava la giusta misura.

Abbastanza severo da farmi ricordare e correggere i miei errori, concettuali e pratici, ma non tanto da scoraggiarmi. Ricordo di aver preso sulle prime la cosa come una sfida. E ci misi impegno, pian piano iniziai a limare i miei errori.

Molti parlano del loro primo volo solista, come momento di culmine della propria formazione. Per me fu il primo atterraggio davvero riuscito. Era la sesta lezione pratica del corso. Nelle precedenti avevo avuto dei problemi a concentrarmi, mi emozionavo tanto da fare errori piccoli, ma fondamentali, cose che continuavano a condannarmi a ramanzine e ripassi di teoria.

Quel giorno ero arrivato, dopo una settimana abbastanza difficile a scuola, a fare la checklist, come sempre felice di staccare un po’ la spina da un contesto causa per me di molto stress, e davvero avevo bisogno di godermi il volo.

La missione era la stessa della settimana prima: volo lento, qualche stallo da quota di sicurezza con recupero, e circuiti di atterraggio, per pista 27, come prontamente risposi all’istruttore guardando la manica a vento.

Pre-volo e decollo furono senza imprevisti, e andammo a fare un volo che si preannunciava identico alla settimana prima.

Ma qualcosa era diverso.

Forse nel modo in cui mi ero posto quel giorno. Ormai sapevo che sbagliare avrebbe causato l’ennesima ramanzina, che l’istruttore avrebbe ripreso i comandi, togliendomi parte del piacere. Ma non avevo nulla contro di lui. Solo, quel giorno volevo godermi il volo, e non avrei permesso a nulla e a nessuno di mettersi in mezzo tra me e quella che sapevo sarebbe stata la migliore ora di tutta la settimana, quella che mi serviva davvero per stare bene.

Dopo gli stalli, l’istruttore mi fece percorrere dei quadrati intorno alla nostra “area lavori”, in assetto di volo lento, con una tacca di flap, poi due, poi tre, alternando le configurazioni e assetti dell’aeromobile.

Stavolta non gli sentii dire nulla. Anzi, accadde ciò che davvero non mi sarei mai aspettato.

Non ci avrei creduto, se non l’avessi visto. Avevo preso l’abitudine, per vedere in faccia l’istruttore, cosa preclusami dai sedili in tandem, di portare con me un piccolo specchietto, e incastrarlo in un anfratto del cockpit che quasi pareva fatto a misura.

Guardando dietro con questo ausilio improvvisato, vidi le pagine di un quotidiano. Forse in un altra occasione l’avrei visto come un gesto di poca professionalità. Ma in quel momento il significato era tutt’altro.

M’ero guadagnato la sua fiducia. Riteneva che potevo affrontare il volo senza il suo intervento. Non sentii rimproveri dall’interfono. Solo la richiesta, qualche minuto dopo, di entrare in sottovento per la pista e atterrare, che la nostra ora di volo stava per finire.

La fiducia che il gesto dell’uomo seduto alle mie spalle aveva instillato in me, produsse un circuito volato con una precisione totalmente aliena al mio volo della settimana precedente, e si concluse in un atterraggio che a tutt’oggi ritengo tra i miei migliori, tanto da stamparsi a fuoco nella memoria.

La definizione di “pennellato”, se mi è concesso per un attimo abbandonare la modestia. Preciso sul pettine, con un contatto morbido, tenendo il musetto sollevato il giusto dopo la toccata per lasciare che l’aereo decelerasse per l’attrito con l’aria, senza toccare i freni finché, esaurita la velocità e con essa la forza dei comandi aerodinamici, la forza di gravità richiamò a se il ruotino anteriore.

Invertimmo la direzione, rientrammo al parcheggio, spegnemmo come da procedura.

A motore spento, tolsi la cuffia, e mentre recuperavo e mettevo in tasca il mio specchietto, sentii una pacca sulla spalla. In quel momento toccai un nuovo massimo di autostima. Non ero solo io a credere, e nemmeno tanto, in me. C’era almeno una persona con cui non ero imparentato, al mondo, che era stata in grado di affidarmi un mezzo del valore di svariate migliaia di euro, e la sua stessa vita, e a giudicare dal fatto che ora eravamo fermi sul piazzale, col tettuccio aperto e i piedi ben saldi sul cemento, la sua fiducia era ben riposta.

Era ottobre.

Non avevo ancora la patente B, che sarebbe arrivata solo a metà novembre. Per la legge non potevo guidare da solo un automobile. Che importava. Potevo pilotare un aeroplano, per quanto coi limiti e le problematiche di un ultraleggero. Era quello il punto fondamentale.

Sulla mia agenda dell’epoca, usata per tenere traccia degli impegni studenteschi e mille altre cose, figura una frase scritta con molta forza, quasi incisa, in quella data:

I Have Control

Scritto esattamente così, con la prima lettera di ogni parola in maiuscolo, che mi dava esteticamente l’impressione di un affermazione più forte e definitiva.

Era quello che volevo, era quello che nel volo avevo sempre ricercato.

La libertà, l’autorità di prendere in mano i comandi e decidere la mia linea di azione, con le conoscenze e gli strumenti per farlo. Certo, con la lucidità di non essere ancora pronto a tutto, di avere davanti ancora un lungo percorso. Ma mi era stato accordato il poter atterrare autonomamente. Era un inizio.

Il resto del corso ebbe comunque i suoi ostacoli. L’emergenza da cielo campo con discesa in virata. Ci misi mesi a impararla ragionevolmente bene. Le prime esperienze di navigazione cartografica, e alcuni voli, chiusi prematuramente per un peggioramento imprevedibile del meteo, totalmente inatteso anche dalle previsioni e dai bollettini a cui avevamo accesso.

Ricordo in un occasione un atterraggio rocambolesco. Nell’esatto istante della toccata, dal nulla partì una raffica di vento ai limiti di quanto il mezzo potesse sopportare, e un tratto di pista percorso sulla sola ruota sinistra, prima di riuscire a metterci vincere la forza del vento e raddrizzarci. Nondimeno, siam sempre andati via con le nostre gambe, e senza danneggiare nulla. Ma a quel periodo appartengono anche la gioia di vedere dall’alto la mia scuola e la mia casa, il primo trasferimento su un altro campo, nell’entroterra, la sfida di affrontare un ambiente di volo totalmente diverso.

Ormai avevo anche la patente, andavo al campo con la macchina dei miei genitori, e iniziavo ad apprezzare anche quel tipo di spostamento. Anche lì avevo il controllo. A scuola andava bene, per i voti. Male per i rapporti con buona parte della classe. Cosa assolutamente voluta.

Il 3 luglio di quell’anno conseguii il mio attestato VDS, con un esame pratico discreto, e una teoria migliorabile, a sentire l’esaminatore. Mi dispiaceva non aver fatto di meglio, ma già riuscire a integrare questo risultato con tutto quello che c’era da affrontare fuori dal campo di volo.

Tre giorni dopo firmavo di fronte alla commissione esaminatrice dopo aver sostenuto la prova orale dell’esame di maturità, promosso con una valutazione di novanta su cento.

Era il momento di andarmene. Per varie divergenze con il gestore del campo di volo, decisi di non proseguire con loro l’attività, pur mantenendo il massimo rispetto per i suoi dipendenti, per chi mi aveva istruito, e per chi faceva l’impossibile pur di mantenere insieme una flotta in condizioni di volo, purtroppo sempre più esigua.

Tra i miei coetanei avevo praticamente fatto terra bruciata, quindi decisi di andare lontano per gli studi. La mia nuova casa è a 13 ore di autobus, o altrettante di treno, da dove sono nato e cresciuto. Non mi pesa più di tanto. La lontananza della famiglia si fa sentire, ma alla fine la tecnologia sa accorciare le distanze.

Il vero sacrificio è stato smettere, per ora, con il volo. I soldi servivano per l’affitto, per i libri, per mangiare, per la retta dell’università, anche mi fossi iscritto a un ateneo più vicino, non avrei potuto permettermi il volo.

Mi ero ripromesso un ritiro solo temporaneo. Volevo riprendere appena possibile. Ma la vita, di nuovo, si metteva in mezzo. L’orientamento, il riorientamento e il disorientamento della mia carriera universitaria, varie vicissitudini familiari e non, spese impreviste, tutto contribuiva a rimandare la ripresa del volo.

Accantonai l’ipotesi dell’arruolamento nelle forze armate, per varie ragioni, principalmente caratteriali. In una gerarchia di tipo militare non sarei finito molto bene, allora come oggi.

La speranza tornava a spegnersi, come un fuoco a cui si smetta di aggiungere legna. Mi lasciavo andare ogni giorno di più, di nuovo prigioniero di me stesso. Convinto di non farcela, sempre meno preoccupato del mio fisico e della mia mente, a rivangare con nostalgia un passato, sempre più lontano.

E proprio la persona che meno mi aspettavo stava per mettermi in mano un ceppo, e la benzina da buttare sulla brace.

Un’amica, forse la migliore amica che potessi aspettarmi di avere, nonostante il poco tempo speso assieme, che mi guarda negli occhi e mi chiede cosa voglio fare nella mia vita.

La risposta è quella: voglio volare. Ma nemmeno io sembro crederci più, lo dico fiaccamente, meccanicamente. Ma lei continua a fissarmi, non rompe il contatto visivo.

“Vuoi? Puoi!”

La legna, la benzina e la fiammata. Allora tutto cambia.

L’ultima volta che sono stato a trovare i miei genitori ho ripescato dall’armadio la mia cuffia, comprata a una manifestazione di settore per partecipare alla quale avevo allegramente disertato la gita del quinto superiore.

Ho ricomprato il cosciale, ho tirato fuori dall’archivio le vecchie carte di navigazione a bassa quota, i libri, gli strumenti per la navigazione, ho ricominciato a curare il mio fisico, e ormai l’interrogativo non è se, è quando.

Sono passati quattro anni, c’è una visita medica da superare, ci sono dei soldi da trovare, dovrò fare di nuovo carte in questura, e stavolta punto più in alto. Aviazione generale. Per cominciare.

In questi anni sono cambiato, e molto. Del bambino che ero conservo la curiosità, il desiderio di apprendere, ma ho acquisito esperienza del mondo fuori dal paesino. Ho imparato a vivere e controllare la mia vita, anche fuori dal cockpit, a equilibrare intransigenza e compromesso, a liberarmi dei pesi morti, a scegliere bene di chi fidarmi, a cambiare strada quando necessario, senza vergognarmi del correggere i miei errori.

Quello che ho appreso volando, mi è stato utile a terra, il saper prendere decisioni, il saper pensare in prospettiva, il mantenere la consapevolezza della mia situazione, il pianificare nel modo più completo possibile. Ma la cosa più importante resta quella. Il sapere che sono io, solo io, artefice del mio destino, con le mie azioni. Sapere che ho il comando.

I. Have. Control.



§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§

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Mario Antonio Corrado Auditore