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Racconti degli autori

Tre ragazzini e un aereo

Negli ambienti aeronautici si dicono tante cose. Alcune sono cose serie, importanti, anche vitali. Altre sono spesso le solite chiacchiere, racconti dei propri voli, delle proprie o altrui prodezze, pettegolezzi, ma anche dei semplici luoghi comuni. E di questi ce ne sono moltissimi. Fanno parte della vita di tutti i giorni, dilagano per gli hangar, nei piazzali, negli uffici, fanno parte del brusio emesso da gruppetti di piloti riuniti qua e là per i campi di volo. Un luogo comune molto in voga suggerisce che la passione per il volo sia una sorta di “virus che si contrae negli aeroporti”. Molte persone che volano oggi (non solo piloti, ma anche specialisti, controllori, paracadutisti ecc), raccontano di quando erano piccoli e venivano accompagnati dal padre o da un altro membro della famiglia, ad osservare gli aerei nel vicino aeroporto. E lì restavano per ore, aggrappati alla rete di recinzione, a vedere decolli ed atterraggi, sognando di diventare, un giorno, un pilota. Altri ricordano di aver volato, da ragazzini, con qualcuno che aveva il brevetto e magari avevano potuto tenere i comandi per qualche minuto. Certo, per un ragazzino deve essere un’esperienza esaltante mettere le mani sul volantino di un aereo e vedere che questo obbedisce ai suoi comandi. Oppure muovere la manetta del gas e sentire il motore che cambia rumore. In verità non è detto che chi vola da piccolo o osserva le operazioni di volo di un aeroporto poi da grande diventi un pilota. Può succedere, ma non è una regola e neanche una garanzia. Diciamo che spesso è così, ma non sempre. Nel mio caso è stato un aereo tipo “cicogna”, monomotore ad ala alta, che è passato sopra la mia testa mentre giocavo sulla piazzetta davanti casa, a farmi scattare la molla. Quella visione mi ha segnato. Avevo forse quattro anni. Se chiedi a tanti piloti come sono arrivati alla passione per il volo ottieni tante risposte diverse, qualcuno ti dirà perfino che ci è arrivato per caso, senza neanche averlo desiderato. Ma tutti sembrano essere stati contagiati dal virus della passione per il volo, all’improvviso, in un momento della loro vita. Da piccoli, ma anche da grandi. Qualcuno si è “ammalato” in età ben avanzata. Nei miei decenni di attività aeronautica ho assistito parecchie volte, di persona, al contagio. Ecco qualche esempio emblematico.

Un mio amico aveva un bel Piper, un PA 24, potente e veloce, con quattro comodi posti. Abbiamo fatto dei bei voli insieme, tanti anni fa. Molte avventure che ogni tanto ricordiamo volentieri, quando ci incontriamo nei vari aeroporti, dalle nostre parti. Uno dei suoi figli veniva spesso con noi. Di solito non faceva una piega, restando tranquillamente seduto dietro, sprofondato sul sedile tanto grande per lui che aveva sei anni e a malapena riusciva a vedere fuori. Durante un volo, una volta, ma solo una, si sporse in avanti, toccò la spalla del padre e gli disse: “papà, ma quando atterriamo”? Si era annoiato, sotto di noi scorreva una campagna piatta, coperta di neve, bellissima per noi, ma per lui era forse un tantino monotona. Quel ragazzino è cresciuto, ha frequentato l’Accademia dell’Aeronautica, è diventato un ufficiale pilota, poi ha fatto l’istruttore e oggi pilota un Boeing in giro per il mondo. In quei voli deve essersi “contagiato” e non è ancora guarito.

Un altro caso riguarda il “contagio” di un signore che aveva da poco superato i sessant’anni, a dimostrazione che questo virus non risparmia proprio nessuno. Se deve colpire colpisce, senza riguardi per l’età anagrafica. Era un amico di mio padre, sapeva che volavo con gli aeroplanetti a elica e in aliante. Sapeva anche dove, così chiese a mio padre di organizzare un incontro perché voleva che lo invitassi a volare con me. Naturalmente lo accontentai, ben lieto di fargli fare questa splendida esperienza. Venne all’aviosuperficie, gli mostrai i nostri mezzi, gli spiegai tutto quello che doveva sapere sulle operazioni di volo alle quali avrebbe di lì a poco partecipato e poi andammo in volo in aliante. Ero un po’ preoccupato per lui, non volevo che si spaventasse, così durante la salita presi ad illustrargli ogni cosa, avvisandolo prima dello sgancio dall’aereo trainatore. Una volta in volo, dal momento che sembrava tranquillo, gli feci provare i comandi. Fece qualche virata, guardandosi intorno. Altro che spaventarsi, era letteralmente estasiato. Gli piaceva e dimostrava tutta la sua felicità di essere in aria con commenti di apprezzamento. Prima del rientro, mentre ci avvicinavamo al campo per entrare in circuito, mi disse che era stato un volo bellissimo, aggiungendo alla fine, varie volte, la parola “peccato!” come ad esprimere un triste rimpianto. “Peccato di cosa?” gli chiesi. Lui esitò a rispondere, poi disse, mestamente: “Peccato per i miei sessant’anni”. A terra parlammo e gli assicurai che anche a sessant’anni si può incominciare a volare, se davvero si è sostenuti da genuina passione. Passò del tempo, non so quanto. Ma un giorno mio padre mi disse che quel signore aveva sorvolato la nostra casa pilotando un deltaplano a motore e lo aveva salutato agitando il braccio nel vento. C’era un campo di volo ad una trentina di chilometri di distanza dove quel signore aveva fatto un corso di delta-motore. Poi si era comprato un mezzo suo e volava spesso anche sopra casa dei miei, mentre andava a fare un giro sopra il suo paese poco distante. Credo che avesse contratto il virus del volo durante la sua visita all’aviosuperficie, quel giorno.

Questi due episodi riguardano un bambino ed un adulto e sono rappresentativi del fatto che l’età non conta. I miei colleghi di lavoro, controllori del traffico aereo come me, sapevano della mia attività di istruttore. Uno venne a Guidonia con il figlio affinché lo facessi volare. Era un giorno di vento forte. A terra lasciai passare qualche ora e intanto spiegai diverse cose al ragazzo, sperando che il vento, nel frattempo, calasse. Non volevo correre il rischio che una volta in volo si spaventasse per la turbolenza dell’aria. Alla fine dissi che era meglio rinunciare e volare un altro giorno perché il vento era ancora troppo forte ma il ragazzo, e anche il padre, insistettero. Così andammo ugualmente. Fu un volo molto agitato. Il vento rinforzò e la turbolenza pure. Si saliva alla grande e feci un po’ di quota per allontanarmi dal suolo, nella speranza che il vento fosse più teso, meno influenzato dai rilievi sottostanti che provocavano l’agitazione dell’aria. Infatti fu così, ma quando scendemmo trovammo raffiche continue fino a pochi metri dalla pista. Pensavo di aver fatto un bel danno, già era stato un miracolo che il figlio del mio collega non si fosse sentito male. Lui sembrava godersela un mondo, ma si sa, all’inizio i passeggeri fanno così e poi ammutoliscono di colpo e … dopo un poco è fatta: stanno male. Al parcheggio il ragazzo era estasiato. Disse che gli era piaciuto un sacco. Peccato che non avessimo fatto anche un po’ di capriole. Oggi è pilota di linea e quando incontro il padre mi porta i suoi saluti e parliamo ancora di quel giorno. Giorno di “contagio”.

Anche un altro collega venne con suo figlio, a Rieti, per farlo volare con me, nella speranza che prendesse la passione per il volo. La prese. Negli anni successivi andò negli Stati Uniti a conseguire le licenze e oggi anche lui è pilota di linea. Alle riunioni dell’associazione Arma Aeronautica, dove ci incontriamo qualche volta all’anno, suo padre mi viene vicino, telefona al figlio e mi passa il telefono. Così lo saluto e spesso ricordiamo quel primo volo di Rieti.

Ma devo anche dire che alcuni sono, o sembrano, immuni dal “virus degli aeroporti”. Avevo portato un nipotino durante il traino di un aliante con un Robin sperando che un giorno diventasse un pilota. Gli piacque molto, ma oggi ha diciassette anni e tutto pensa tranne al volo. Lui vuole fare l’avvocato, come sua madre. E forse è anche una buona idea. Suo fratello più piccolo ha potuto volare con me su un aereo e provare i comandi. Entusiasta. Gli avevo scattato delle foto mentre teneva la cloche e la manetta del gas. Per il momento credo che abbia usato quelle immagini soltanto per impressionare i suoi amici e le sue compagne di scuola. Se il “virus degli aeroporti” lo ha contagiato, ancora non se ne vedono i segni. Ma ancora non è detta l’ultima parola. Potrebbe essere semplicemente un portatore sano, suscettibile di iscriversi a qualche aero-club tra breve, oppure di fare domanda per uno dei corpi militari che hanno un’aviazione, subito dopo aver conseguito il diploma.

Se la leggenda del “virus degli aeroporti” è vera, allora è probabile che il contagio debba necessariamente avvenire per caso. In altre parole, non può essere provocato. Infatti, mi viene alla mente che, tanti anni fa, avevo portato in volo una mia nipotina, nella speranza di averla come mia allieva alcuni anni più tardi. Ma non è andata così. Oggi mia nipote si occupa di cose che non hanno nulla a che fare con il mondo aeronautico. Lei preferisce occuparsi di arte, ma quella classica, non certo l’arte del volo.

Avrei tanti altri aneddoti da raccontare, e mentre scrivo di uno me ne vengono alla mente di nuovi. Potrei riempire pagine e pagine. Ma ne aggiungerò solo un altro, perché anche questo è emblematico e da quando è successo non me lo sono più dimenticato. Ancora oggi ci penso, ogni tanto. Un giorno all’aviosuperficie venne un signore con tre ragazzini. Due erano suoi nipoti e uno era un loro amichetto, tutti di età compresa tra i sette e i dieci anni. Il nonno si avvicinò e chiese informazioni, ma i tre ragazzini avevano già le idee ben chiare: volevano volare. Qualcuno mi chiamò per fare quel volo. Il nonno sarebbe rimasto a terra e avrei portato in aereo solo i tre piccoli. Uno dei nipotini salì davanti. Il fratellino e l’amichetto salirono dietro. Spiegai loro tutto, perché sapessero cosa stava succedendo e stessero più a loro agio. A quello davanti feci tenere la manina sulla cloche perché, come gli dissi, al momento opportuno l’avremmo tirata un po’ indietro per far staccare le ruote da terra. In volo, addirittura, feci fare qualche virata a lui, mettendo le mie mani ben lontane dalla cloche per fargli vedere che era proprio lui a far muovere l’aereo. E perché lo vedessero anche i due che stavano dietro. Dieci minuti, poi tornammo a terra. I ragazzi scesero felici e andarono dal nonno. Ma il fratellino che era stato dietro e aveva visto quello davanti pilotare l’aereo piantò subito una grana al nonno perché anche lui voleva stare davanti e provare i comandi. Il nonno fece resistenza. Forse non voleva pagare un altro volo, in fondo avevano già volato. Ma il nipotino cominciò a piangere disperato. Il nonno provò a portare via i ragazzi, ma non ce la fece. Dovette tornare indietro, pagò un altro volo e si ripeté la storia di prima. Stavolta con l’altro fratellino “ai comandi”. Tornammo a terra e scendemmo dall’aereo. I fratellini erano soddisfatti e si scambiavano animati commenti su come si era mosso l’aereo pilotato da loro. Il nonno ringraziò e si avviò verso la macchina. A questo punto, l’amichetto che aveva volato due volte, ma era stato sempre dietro, cominciò a protestare. Anche lui voleva stare davanti. Il nonno, che non era suo nonno, stavolta non cedette. Il ragazzino pianse e puntò i piedi. Voleva volare anche lui davanti a tutti i costi. Non voleva andare via. Ma dovette andare. Ho ancora l’immagine di lui che piange disperato mentre entra nell’automobile. Andarono via, ma il suo pianto si sentiva ancora attraverso i finestrini aperti mentre si allontanavano. Non so chi fosse quel nonno e non conoscevo i ragazzini. Nei giorni successivi non tornarono più all’aviosuperficie. Chissà cosa hanno fatto da allora in tutti questi anni. Ma ricordo che quel giorno, mentre se ne andavano, provavo pena per il piccolo che aveva volato sempre dietro. Lui non era stato protagonista. Aveva osservato gli altri due volare da protagonisti e forse, nei giorni successivi, a scuola, avrà dovuto sentirli raccontare le loro avventure senza poter fare altrettanto. Anzi, nella crudeltà tipica di quell’età, chissà che non lo abbiano addirittura preso in giro davanti ai compagni, rimarcando impietosi che lui non aveva mai toccato i comandi. Chissà. Certamente quel giorno si era consumata una brutale ingiustizia. Mentre sentivo senza poterci fare niente quel pianto accorato pensai: “Quello da grande farà il pilota”. Se qualcuno quel giorno doveva contrarre la malattia del volo, era lui. Non saprò mai se è andata così, ma forse oggi, in qualche aereo che sento passare nel cielo, ci potrebbe essere un adulto che tanti anni fa, da piccolo, rimase contagiato dal virus del volo, non per aver volato, ma per non aver potuto sedere nel posto anteriore di un aereo.


Narrativa / Breve Inedito; ha partecipato alla II edizione del premio letterario “Racconti tra le nuvole”, 2013-2014; in esclusiva per “Voci di hangar”


Evandro Detti

 

Il maestro e la ballerina

Dal mio piccolo aereo di stelle io ne vedo e seguo i loro segnali (..) la voglio fare tutta questa strada fino al punto esatto in cui si spegne Difficile non è partire contro il vento ma casomai senza un saluto.

(Ivano Fossati – “Lindberg”)

L’uomo si sedette su un sasso. Sollevò il piede destro appoggiando il tallone sul ginocchio sinistro. Con un gesto distratto tirò via il calzino e rimase a guardarsi il piede nudo arrossato e gonfio. Poi girò la testa sul collo e dette uno sguardo alla campagna intorno: risaie, pioppi impolverati, anche tanto mais e vacche che si cacciavano le mosche con la coda. Un orizzonte piatto e afoso. Non vedeva un villaggio da almeno tre giorni. Che avesse sbagliato strada?

Proprio quando pensava di essersi perso, sul fondo all’orizzonte vide una nuvola gialla che turbinava su se stessa. Guardò meglio e gli parve di scorgere una carrozza nera che veniva tirata da due, forse quattro cavalli che però si vedevano male, quasi fossero dello stesso colore della polvere … Doveva muoversi da quel sasso se non voleva diventare come una statua di sale e si accinse a rimettere velocemente il piede nella scarpa. Ma prima che avesse il tempo di infilare il calzino fu investito da un vortice di terra mista a sabbia che quasi lo soffocò. Come poteva una carrozza, per quanto tirata da cavalli galoppanti, correre così tanto? Cercò di vedere al di là della polvere e capì che in verità si trattava di una vettura a motore. Era la prima automobile che vedeva in vita sua. Ne aveva ammirate parecchie sulle pagine dei giornali, ma mai gli era capitato di incontrarne una vera, dal vivo. Accidenti che corsa! disse fra sé.

Ma non era finita. La polvere, che aveva appena finito di dissolversi, per la sgommata finale stava tornando ad avvolgerlo, penetrandogli con prepotenza negli occhi, nel naso. Il rumore del motore si era rifatto vicino e palpitante. Chiuse la bocca e serrò le palpebre per proteggersi. Quando le riaprì, vide i parafanghi di una macchina enorme, scoperta, lucida e nera che borbottava come una pentola che bolle. Affacciata al finestrino, con un braccio appoggiato ad angolo, vide una donna che sorrideva. Non sentì cosa gli chiedesse quella voce, ma il suo sguardo si fissò sul minuscolo orologio d’oro che riconobbe immediatamente come qualcosa di conosciuto. Ma dove l’aveva visto e quando? Non riusciva a ricordare. Rimase lì imbambolato mentre la donna, con voce un poco impaziente, gli ripeteva la domanda.

“Allora, andiamo?” – lo disse col suo accento strano, che poi avrebbe capito, compreso, e portato sotto pelle. Ma non in quell’istante. In quell’attimo gli parve una inflessione vagamente sconosciuta, non priva peraltro di magia. Ma poi: dove mai voleva mai andare? A dire il vero non sapeva chi lei fosse, o forse intimamente lo sapeva ma non lo ricordava in quel frangente. Colpa magari dei piedi gonfi o dell’attenzione che stava prestando al calzino per evitare si vedesse che era bucato: sarebbe stato un cattivo (secondo?) esordio verso la ragazza, e non lo avrebbe sopportato, lui per primo; figurarsi lei che era perfettamente in pandant su quel bolide con un giubbino di pelle nero e la sciarpa svolazzante. Se lo diceva sempre tra sé e sé ogni lunedi mattina: bisognerebbe fare pulizia sulla scrivania, almeno ogni tanto. Bisognerebbe mettere ordine. E’ un buon modo di cominciare la settimana. Anche se magari si prende in mano un foglio che avevamo messo da parte con tanta cura e, questo foglio, davvero, non ci ricordiamo più perché era importante. A volte invece si decide di passare oltre e di non mettere a posto la scrivania, pur sapendo che c’è qualcosa da cercare e che ti magari cambierebbe la vita. Quel foglio rimane sepolto e nulla di particolare accade. Non era mai stato un ordinato. Lui. Dunque tenne quel pezzo di carta per anni. Un foglietto sdrucito che lo riportava a lei. Che l’aveva portata lì. Per cui non si fece domande e salì sul bolide.

Era passata da non molto la fine della guerra. E di automobili in giro se ne vedevano veramente poche, ancora meno nelle campagne dove era vissuto. Come aveva fatto ad averla? E poi un modello così lussuoso … Chissà, forse suo padre era uno degli industriali che a cavallo del secolo si erano arricchiti con la nuova industria legata ai motori; una vera esplosione in meno di dieci anni: nel 1896 la fondazione della Ford e della Renault, nel 1899 la Fiat, nel 1900 la Daimler-Benz e nel 1906 la Alfa Romeo. Di sicuro, da come guidava con portentosa maestria quella carrozza mossa a propulsione liquida, garrivano nel suo cuore i geni di quel Cugnot che nel 1770 inventò il primo veicolo semovente a tre ruote con motrice a vapore, o di quel Marcus che più di sessant’anni prima aveva concepito il primo motore a scoppio.

A causa di tutta questa favola che si era costruito in pochi secondi – ma che già gli pareva assodata – Lei gli appariva qualcosa di illusorio, originario, mai guardato prima. Era diversa da come la ricordava, se i ricordi per caso lo avessero aiutato.

Se possibile ancora più bella vestita da pilota, secondo uno stile sensuale e androgino, dove i capi del guardaroba maschile erano resi iper-femminili attraverso piccoli dettagli. Camicia bianca da uomo, cintura in pelle sempre ben in vista su pantaloni attillati, perfetti se infilati un paio di stivali o anche se lasciati lunghi con un paio di stringate. I piedi non riusciva a vederli, ma un distintivo azzurro e nero da club esclusivo spiccava sul petto.

Arrivarono in mezzo ad un prato. Uno dei pochi non messi a coltura e senza fango. Davanti a loro c’era un aeroplano. Anzi l’aeroplano per eccellenza: un Caudron G3. Lei e la macchina apparivano un insieme del tutto indivisibile, neanche Lei fosse un accessorio magnifico nato nell’officina dell’azienda francese Société des avions Caudron per imbellettare oltre misura l’acciaio e gli interni in pelle avorio. Prese il volo … e io con lei. Il maestro di musica e la ballerina: che coppia surreale.

Dall’alto pareva l’America. Non che l’avessi mai vista ma me la aspettavo così. Invece era il Polesine, in verità l’ultima sua propaggine verso l’interno, dalla parte opposta del delta. Ancora da bonificare del tutto da parte del regime, e quindi ancora denso e grasso di miasmi da Missisippi di provincia. Peraltro l’unico posto, probabilmente, dove per giorni si poteva vagare a piedi senza incontrare traccia di una urbanizzazione qualunque. E anche lei sapeva di America, ma diversamente, come latitudine: profumava di Argentina, di Rio de la Plata. Era nata su una nave. Come da tradizione si potrebbe dire: i messicani discendono dagli Aztechi, i peruviani dagli Incas e gli argentini dalle navi. I suoi genitori erano stati emigranti di fine ottocento, nella ondata composta prevalentemente da genti del nord Italia, soprattutto veneti e liguri. Era dunque argentina per vincolo di sangue. E come tutti gli argentini di origine italiana era anche lei una tanos. E, come tutti i tanos, lei non era mai riuscita a imparare lo spagnolo, ma aveva in bocca il lunfardo, quel misto di italiano e spagnolo che si parlava nei sobborghi di Buenos Aires. Una lingua usata nelle liriche dei tangos. Un idioma pericoloso. Meticcio. Un codice dai contorni mutevoli e biechi, che riprendeva molti termini di derivazione italiana, deviandoli però – in alcuni casi pesantemente – di significato.

Ugualmente mutevoli, e sottoposte al gioco sadico di una lingua di confine, apparivano le prospettive del nostro viaggio. L’essere in volo per la prima volta, e l’impossibilità oramai di scendere a terra, mi costringevano ad una sensazione assolutamente nuova e che nulla aveva in comune con la realtà tradizionalmente costituita dalle prospettive terrestri. In definitiva: dovevo arrendermi a Lei e alle nuvole, senza nessun punto fermo se non la stessa mobilità perenne. Una bolla di vento in cui l’occhio non può che osservare e dipingere partecipando alla loro stessa velocità, e imponendosi dunque un disprezzo profondo per il dettaglio e una necessità di sintetizzare e trasfigurare tutto.

Tutte le parti del paesaggio apparivano in volo come appena cadute dal cielo, accentuando i loro caratteri di eleganza e grandiosità, come se l’aeroplano sostituisse la mano del pittore che muove il pennello, o la bacchetta del maestro che dirige la sinfonia. Il tutto perde un centro e assume una plasticità assurda, quasi spirituale. L’aeroplano creava un’ideale osservatorio ipersensibile appeso dovunque nell’infinito, dove è la coscienza stessa del moto che muta il valore e il ritmo dei minuti e dei secondi. Così, dopo l’iniziale titubanza, mi sembrava di essere in volo da una vita.

Dopo essere rimasta in silenzio per tutto il decollo, arrivata in quota attorno ai quattromila lei mi si girò contro e, puntandomi dentro le pupille nero pece, mi disse: “Guardami”. Anzi: Guarda Me. Voleva andare fino a Roma. Non aveva paura di avvicinarsi troppo al sole, né di bruciarsi le ali. D’un tratto mi fu nitidamente chiaro in che storia ero ed ero stato, e mi ricordai di tutto. Così non smisi per tutto il viaggio di guardarla parlando il minimo indispensabile per respirare, e non smisi nemmeno per un frammento di tempo di vedere attraverso lei tutto quello che passava intorno, e sotto. Vuotammo quasi tutto il serbatoio, con andatura da milonga. Un ritmo fortemente cadenzato, una melodia non uniforme. Più spinta e meno spinta. Accelerazione e decelerazione alternate. Titubanza reiterata. Struggente. Violenta. Da bandoneon. Coacervo di tutte la passioni possibili dell’animo umano.

Erano le mie strade, di me e della mia infanzia, ma giunti a questo punto le riconoscevo solo attraverso Lei: che le illuminava e le rivelava dall’alto. Ora, grazie al volo, potevo dire di conoscerle veramente. Davvero. Riconobbi così ad un tratto da lontano anche una strada sgombra. Quelle strade di campagna larghe, con muri lunghi che tornavano utili per i rimbalzi. Trenta, quaranta metri liberi che delimitavano il “campo”, all’interno dei quali da bambino marcavo le porte. Così si segnava il gol: occorreva mira e piede buono. Giocavo per ore e ore, sino allo sfinimento: spesso il pallone finiva lontano, e chi sbagliava a tirare doveva rincorrere la palla, difenderla dai cani, e recuperarla. Ogni caduta, figliastra perenne e implacabile dei contrasti più accesi a centrocampo, scorticava la pelle. Ma le sbucciature erano come trofei: il ginocchio era quasi sempre una crosta che non si rimarginava mai. Li ricordavo come meravigliosi anni senza pretese. Nonostante le cicatrici alle ginocchia. O forse proprio per quelle.

L’atterraggio avvenne a pochi metri dalla casa dove ero nato. Forse si può dire che il desiderio umano è cercare di recuperare il passato, e fare un futuro di ciò che ci manca. E la memoria dell’amore è la genesi di tutto. Lei lo capiva, da emigrante di ritorno quale era, e per questo aveva deciso di atterrare lì. E non a Roma. Roma era solo l’espediente per farmi paura, e per vedere se avessi il coraggio di seguirla ancora, dopo tanto tempo.

Mi accorsi finalmente che l’orologio che portava era quello che le avevo regalato: non poteva essere casuale. Come non poteva essere una coincidenza che mi avesse trovato sul ciglio di quella strada sperduta. Evidentemente mi aveva cercato. Appositamente. Per riallacciare il filo di quel tempo indietro che le lancette avevano aggredito senza però cancellare. Un amore che mi accorsi in volo sapevo cantare a memoria, come le partiture che eseguivo a occhi chiusi. Emozionante come il primo minuto che viene dopo una guerra, quando per quattro soldi la musica suona di nuovo. Una musica dolce e lontana. Come il primo addio.

Mi ricordai allora anche che avevo continuato a cercarla per tutti gli anni. Tutti i santi giorni. Per lettera ma anche col telefono, ove e quando ce n’era la possibilità; però al recapito non rispondeva mai nessuno. Forse quel numero scritto in fretta su un pezzo di carta da pane con una matita di poca punta era sbagliato. Ma non mi arresi, causa la testa dura dell’amore, così ogni giorno feci una telefonata: ogni volta un numero diverso combinando le cifre singole ormai sbiadite e alla fine la trovai. Si era sposata, con un ricco latifondista. Ecco il perché dell’auto roboante da moglie di villano arricchito, da parvenu. E pure l’aeroplano le aveva regalato …

Appena scesi, proprio davanti all’elica, mi chiese di ballare con lei. Era quasi sera, lei aveva gli stivali e io scarpe luride col pollice che batteva in punta. Seppur tragicamente inesatti rispetto ai manuali, e senza musica a guidarci, fu il più bel tango della mia vita. Anzi, lo fu forse proprio per quella imperfezione. Il segreto del tango sta in quell’istante di improvvisazione che si crea tra passo e passo, che rende possibile ballare il silenzio. Una complicità totale e maliziosa, intuitiva ed istintiva. Una intimità senza parole, molto più profonda del semplice contatto fisico. Avvitati insieme e divisi, con una sorprendente sincronia carica di tensione e languore. Di prepotenza e morbidezza.

Non c’è possibilità di errore nel tango, non è come la vita. Per questo il tango è così bello: commetti uno sbaglio, ma non è mai irreparabile, e seguiti a ballare. Così, mentre ballavamo, imparammo a ballare insieme, dipingendo in pochi minuti rapinosi una comune porzione di felicità: l’intesa fugace e irripetibile della coppia ideale, stretta in una ambigua e contraddittoria volontà di possesso temporaneo.

Anche lei aveva voluto ritrovarmi. Non per dirmi “ti amo”. Ma per dirmi bene “addio”, come non era riuscita a fare dieci anni prima. In Argentina.

Mentre se ne andava mi urlò: “Guarda me” in lunfardo significa “stai attento a me” e non: “guardami”!

Non l’avevo capito allora, in Argentina. E nemmeno oggi. Per questo il mio cuore abbandonato ai lati dell’incrocio al termine di quell’ultima notte aveva adesso la faccia del mio calzino. Bucato. E inutile.


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Emanuele Finardi

Preghiera di un uomo che cade tra le nuvole

Dio mio, perdonami … Perdonami se ho osato più di quanto avrei potuto, più di quanto avrei voluto … Ho deciso di prendermi un secondo per parlarti, penso che sarà l’ultima volta, son quasi certo … Sto morendo, Dio mio, o meglio stavo già morendo prima di essere qui ora, a parlare con te … Qualcuno potrebbe dire che stavo morendo sin da quando son nato, morendo lentamente magari, ma non sono filosofo e non ho il tempo per diventarlo … Il cancro mi ha prosciugato, mi ha portato via tutta la forza che avevo. La prima volta che l’ho visto, il cancro, dico, era solo una macchiolina su una lastra luminosa. Pensai che non fosse nulla, che sarebbe passato in un colpo di tosse. Invece quello era un seme: nei miei polmoni è germogliato, e presto è diventato una piantina, e poi un fiore e alla fine mi aveva preso tutto, polmoni, sangue, carne e bile. Io e il cancro siamo diventati un’unica cosa, io e quel fiore, e ho capito che presto sarei appassito insieme a lui … Ho iniziato a vivere la vita che avevo, a non lasciarla scivolare via tra le dita, ma a prendere tutta la vita che c’è. Prenderla con forza, afferrarla con la rabbia di chi ha fame, con l’avidità di chi ha sete. Ho viaggiato, ho fatto surf, ho fatto sub, e poi trekking, campeggio, arrampicata … La gente mi guardava con occhi perplessi cercare di spremere sempre di più da quel tempo che avevo ormai quasi per caso … Sono andato oltre il tempo che mi avevano pronosticato i dottori, sono già fortunato, direbbe qualcuno, ma non sono così pazzo da pensarlo davvero … So solo che volevo di più, e se non potevo vivere come volevo, almeno volevo morire come volevo … Per questo mi trovo qui adesso, tra le nuvole, a parlare con te … Sono appena saltato da un aereo in quota, intorno a me sento le urla dei miei compagni. Qualcuno ha già aperto il paracadute, quelli più cauti. I più spavaldi aspetteranno ancora, per gustarsi meglio l’adrenalina. Non sanno che io non l’aprirò mai, quel paracadute. Io me lo gusterò fino in fondo quel brivido, me lo sentirò scorrere dentro prima di chiudere gli occhi per sempre. Ho deciso di morire qui, dove ho sempre voluto essere, nel cielo, non sulla terra. Tutti i morti stanno sottoterra, io immagino di essere sepolto qui, sotto banchi di nuvole chiare, un intero camposanto che piange per me. Il cielo mi ha sempre ispirato, fosse stato per me sarei diventato un pilota. Ma la verità è che non mi sarebbe bastato stare rinchiuso in un aeroplano: era questo che volevo, tuffarmi nel cielo come ci si tuffa nel mare, perdermi in questo orizzonte sempre nuovo e sempre uguale, sentire il sapore freddo delle nuvole sulle labbra e la pioggia confondersi con le lacrime. Non c’è bisogno che te lo dica io, Signore, che spettacolo è tutto questo visto da qui … Io e te non parliamo spesso, ma ho sempre invidiato la casa che ti sei scelto: panorama davvero eccellente .. Sto attraversando il banco più fitto ora, mi tuffo in un mare bianco, un vortice di panna, il freddo pungente entra nelle ossa, l’acqua mi inzuppa i vestiti. Chissà se sentirò freddo quando questo sarà tutto finito … Dio mio, ah, se ne è valsa la pena: guarda adesso che luce, il mondo che si schiude in un abbraccio leggero, e il mare che brilla sotto l’orizzonte. Così deve essere vivere come un uccello, ah Signore se mi avessi fatto uccello … Dio santo, se mi avessi fatto nuvola o vento o goccia di pioggia … Ora non avrei così paura, ora non vorrei che finisse … Una goccia di pioggia che cade da una nuvola non ha paura, si gode lo spettacolo del mondo, la sua vita dura meno di niente e non si lamenta … Signore dammi la forza, perché di fronte a tanta bellezza vorrei che tutto questo non finisse mai … Non so perché ti parlo Dio mio, quasi volessi chiederti di salvarmi quando io son venuto qui a morire … No, non è così: son venuto qui a volare! In fondo ti parlo per tenermi compagnia, per non essere solo proprio ora … Tra le nuvole di certo non trovi compagnia, non c’è con chi parlare, la pace qui fa quasi paura … Non è che mi aspetti una risposta, intendiamoci, né un segno o altro … La mia scelta l’ho fatta, è qui che finisce, tra meno di niente … Vedo la terra che si avvicina, mi accorgo solo ora di quanto sono in alto. Sembrava quasi un sogno visto da lassù, come se non dovessi mai smettere di cadere … Non so quanto sia passato da quando ho lasciato l’aereo, forse neanche un minuto, e mi sembra passata una vita, forse perché una vita sta per passare … I miei compagni devono aver capito che il mio paracadute non si aprirà, forse penseranno a un incidente, qualcuno penserà a un suicidio … Non sanno che il mio tempo era già finito prima di saltare, prima di volare. Loro possono ancora restare in cielo, possono ancora godersi quel panorama, quel cielo splendente, possono ancora riempirsi d’aria i polmoni e inspirare dentro tutto il mondo … Nei miei polmoni di spazio non ce n’è, e il mio volo ormai è finito. E’ stato bello, Signore, parlarti. Non che mi aspetti che tu fossi lì ad ascoltarmi, ascoltare me, un uomo qualsiasi che cade tra le nuvole, ma almeno ora … Ora che vorrei scappare, vorrei correre e gridare, vorrei uccidere, piangere e fare l’amore … E’ così che immaginavo che fosse volare, un po’ come morire, solo morire un po’ di meno … Amen.


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Elio Errichiello

Lei … Lui in Aeroclub

Piazzale di un Aeroclub. Il sole del mattino scalda un uomo che sonnecchia in una sedia a sdraio. Da un portone dell’hangar parzialmente aperto egli scorge alcuni aeroplani a riposo anche loro. Se lo meritano. E’ giorno di chiusura: i meccanici stanno a casa. Oggi non si lavora; ma lui c’è andato ugualmente, come fa ogni lunedì, per controllare e sistemare i conti della settimana appena trascorsa; infatti, anche se fa il pilota istruttore, ha quest’altro compito, avendo il Presidente assunto a “mezzo servizio” una sola segretaria, Lucy, che non s’intende di numeri! Ha dormito poco, stanotte, pensando e ripensando a quell’allievo un po’ duro di testa che, pur desiderando di volare, apprende poco e trema quando si trova ai comandi dell’aeroplano. Deve decidere se tentare un altro metodo o dirgli di cambiare mestiere! Intanto, s’è preso una breve pausa volendo recuperare quel po’ di sonno perduto. Ma mentre sta per addormentarsi, avverte la presenza di qualcuno: perciò socchiude un occhio e scorge avvicinarsi un omone col naso camuso e mancante della mano sinistra; costui si ferma a gambe aperte e, con voce roca, l’apostrofa: “Mi sente, lui? Volessi parlare con chi comanda qua.” Un po’ scocciato da quell’intrusione e costretto ad alzarsi, a fatica gli porge la mano presentandosi: “Io sono Mike, il comandante. Lei chi è? E cosa desidera?” L’omone gira la testa a sinistra e a destra, ignora la mano tesa del comandante e parla al vento che, intanto, s’è levato leggero e comincia a frusciare fra le palme vicine. “Mi disse Lei? Con chi sta parlanno? Masculo sono, non sono ‘na femminuccia, e a chi mi disse LEI ci ho dato un cazzotto in bocca e non pò parlare chiù! LUI mi deve chiamare! Per nome e cognome, o meglio Coso Incazzoso, il pisseudonomo che mi davano i fans e il Mister quando facevo a cazzotti sul ringo! “Va bene, Coso, ho capito. Lei … Lui di professione era pugile. E ora, mi dica Coso, cosa fa?” E Coso, sforzandosi di parlare in corretto italiano, dopo qualche esitazione gli risponde: “Che ci posso dire, non faccio più niente, mi hanno imputato ’sta mano e dicono che devo cangiare mestiere. Per il Mister io sono sonato come ‘na campana. E perciò … ora volessi volare col coso ariaplano … e fare la patente.” Imbarazzato, Mike, ancora sonnacchioso stenta a frenare uno sbadiglio, realizza che qualcosa non va e con voce flebile gli risponde: “Già, Coso, mi dispiace; ma non vedo il nesso! Comunque, il “coso” che vola si chiama aeroplano; la patente, brevetto. Ma Lei … Lui non può pilotare con una mano sola!” E Coso, di rimando, alzando il braccio destro come se volesse dare un pugno all’istruttore che si scansa: “E io ci dico che posso. Il coso che dice lui vola nell’aria e perciò io lo chiamo ariaplano. Ora mi serve la patente! Ci l’ho lu brevetto … quello di cazzettatore brevettato!” Il povero istruttore, mentre arretra di un passo, si fa scuro in volto perché la giornata, che sembrava buona, di colpo si è annuvolata … pur essendo il cielo di un limpido azzurro. Si guarda intorno, non c’è nessuno cui chiedere aiuto, gira la testa di lato e mormora fra sé e sé: Attento Mike, costui è tanto pazzo quanto sciocco ed è molto forte! Coso, che ha sentito qualcosa, chiude a pugno la mano sinistra: “Che disse lui, ah? Non sentii bene, parlassi a voce alta!” Mike arretra di un altro passo e si scusa sostenendo di aver detto che: “Intanto c’è puzza di scirocco forte e perciò oggi non si può volare”! Perplesso, Coso, si pulisce il naso col dito indice, poi se lo ficca in bocca, lo tira fuori dopo averlo umettato ben bene, lo guarda e lo alza in alto: “Ooooo! Uuuuu! Ventu di scirocco? Ma lui chi sta dicenno, quali ventu… venticello è! Oggi la giornata è bbona!” Mike, nauseato, alza a sua volta l’indice della mano destra a indicare il cielo: “Guardi, Coso, lassù in alto, dove ci sono quelle nubi lenticolari … ce n’è tanto!” Poi, volendo allontanare quell’uomo massiccio e fastidioso, garbatamente gli dice: “Comunque, Lui non lo può fare il volo; UNO, deve prima pagare alla segretaria la quota di ammissione; DUE, deve sottoporsi a visita medica, quella psicofisica; TRE, se scrivono che Lei … Lui è idoneo, per volare deve pagare altri soldi alla segretaria; QUATTRO … A questo punto Coso lo interrompe: “Come sarebbe che ci devo dare soldi alla segretaria? Donna di malaffare è? Pissi fisica, idoneo … ma lui che mi sta dicenno?! Mi scrivono la cartolina che sto bene? Non c’è bisoooogno! Io bene sto, lo disse il dottore che m’aggiustò il naso!” Non c’è verso di liberarsene. Mike adesso è totalmente sveglio e, anche se stanco di quella manfrinata, alza un po’ il tono della voce, ma arretra ancora di qualche passo. “Senta, Coso, facciamo una cosa, non insista, oggi non si vola. Su, entriamo in hangar per vedere gli aeroplani! Vada, vada prima Lei … Lui! Ma insomma, si può sapere perché vuole volare?” “Deve sapere che ci voglio buttare ’na bomba sulla casa del Mister che non mi fece più combattere!” Coso, adesso, è rosso in faccia e nessuno, cioè Mike, si azzarda a dirgli qualcosa. Ma che cavolo gli si può dire?! “Quel brutto figlio di cana mi disse che sono monco-sonato! E perciò deve morire con tutti i figlistei!” Finalmente, entrando in hangar si guarda in giro e perplesso esclama: “Ma dove stanno gli ariaplani? Quelli, ariaplani sono? Piccolini, pesi piuma sono! E la bomba non ci sta. Neanche io ci sto! Lui ragione c’ha. E sai che faccio, ora che ci sto pensando? Ci vado a casa, con un cazzotto ci sfondo la porta e ce la metto deeentro … la cucina quando mangiano!” Parla, parla e fa un gesto apparentemente osceno con la mano destra sul braccio leso! Coso, stavolta davvero Incazzoso (ecco perché lo chiamavano così), aggiunge gridando: “Ce la metto, sì, ce la metto, ho il cazzotto duro io … glielo rompo, ci metto ‘sta bomba in cuuu…” “Ehilà, Coso, zitto … stia zitto! Non gliela metta in cucina … non gliela deve mettere proprio!” Bruscamente Mike, facendosi coraggio, l’ha interrotto perché in hangar c’è la segretaria, china in avanti per guardare dentro un aeroplano. “Ciao, Lucy.” Anzianotta e grassottella, Lucy è rimasta china, ma girando la testa aveva visto il gesto dell’omone e sentito le sue parole. Raddrizzandosi e stiracchiandosi, guarda fisso l’estraneo mentre parla al comandante: “Chi è ‘sto bel signore?” E continua a fissare l’omone: “C’è poca luce e non riesco a leggere nell’orametro i tempi dell’ultimo volo di ieri. La prego, può farlo lei?” Coso, convinto che stia parlando a lui, la fissa a sua volta negli occhi e (gong!) riattacca: “Mi disse lei a me? Io lui sono. Ci lo dica, comandante, ci lo dica che non sono ‘na femminuccia, io! Qua di femmina c’è solo lei, che mi pare pure bbona. Calata, era tonda dietro e sporgente davanti!” La donna non capisce la faccenda del lei … lui e per ringraziarlo dei complimenti gli dice a bassa voce: “Mai nessuno qua dentro mi aveva detto una cosa così carina!” Poi, alzando la voce, aggiunge: “M’inchino, m’inchino a Lei!” E si china di nuovo. Coso, che ha sentito solo il lei e la parola minchino, che nel suo dialetto vuol dire “minchione” (ops! al contrario!), ribatte violentemente: “Minchino e femminuccia a me? Bonazza, offeso mi hai! Tu sei femmina e ti devo rispettare. Però, se insistisci e mi fai incazzare ti do un cazzottone senza guanto che non te lo scordi proprio chiù! E l’ammissione non te la pago!” Che bella giornata, ma che bella giornata! Adesso Mike si fa coraggio volendo difendere la segretaria, afferra Coso Incazzoso per il braccio buono, rischiando di prenderselo lui il cazzotto, e gli dice gridando: “Ehi, Coso, non si dicono e non si fanno certe cose alle signore! E l’ammissione non la paga se non deve volare! Venga, andiamo fuori, discutiamone sul piazzale”. Lo strattona inutilmente, perché quello non si sposta d’un centimetro! Lucy, fingendo d’essere impaurita, interviene pregando Mike di calmarsi: “Che può farci, comandante, certe cose a volte si fanno alle signore! A me nessuno finora ha dato un cazzotto, lo sa? Intanto rimango china, così vediamo se s’incazza davvero e me lo dà!” Sconcertato, Mike, tenta ancora di trascinare fuori dall’hangar quel bestione, che però resta ben piantato sulle gambe … (break!), si sgancia in posizione di guardia e, arretrando verso l’uscita, alza il braccio come per parare l’eventuale colpo. “Ma siete impazziti tutt’e due? Lucy, t’avverto, se per te è la prima volta che ti prendi un cazzotto, t’assicuro che ti farà tanto, ma tanto male! Io me ne vado!” Vigliaccamente esce dall’hangar, socchiude la porta scorrevole e telefona col suo cellulare: “Pronto, 113? Venite subito in Aeroclub … qui c’è un pazzo furioso … un pugile sonato come una campana che dice di chiamarsi Coso Incazzoso e sta cazzottando la segretaria!” Nervosissimo, passeggia in tondo sul piazzale e ogni tanto va verso l’hangar per sbirciare da uno spiraglio: “Cose da pazzi … sono cose da pazzi! Stanno cazzottando sul serio!” Lui fa tiè, tiè, tiè … e Lucy prima grida, poi ride … dice “ahi” e grida … ma ride pure! Finalmente arrivano due poliziotti, con la volante a sirena spiegata, e due infermieri, con l’ambulanza a sirena spiegata. Si fermano sbandando sul piazzale e spengono quelle petulanti sirene. Scendono e, mentre un infermiere parla al comandante, l’altro lo prende sotto braccio: “Vieni con noi, sta tranquillo, non ti vogliamo fare del male!” Mike cerca di divincolarsi mentre urla: “MA CHE FATE, LASCIATEMI! IL PAZZO È IN HANGAR, SI CHIAMA COSO INCAZZOSO E CAZZOTTA LA SEGRETARIA … IO SONO QUELLO CHE VOOOLA, IL COMANDAAANTE! Intanto i due infermieri, che l’hanno afferrato entrambi tenendolo ben saldo, lo legano in una lettiga e uno dei due replica: “Sì, sì, io sono Napoleone … e quest’altro qui è Garibaldi! Vieni … andiamo a fare l’Italia! Mike urla e si dimena mentre l’infilano da dietro nell’ambulanza coi piedi in avanti; uno dei due gli tappa la bocca con una mano ed entra anche lui; poi parla al collega: “Se questo non sta bbono, il cazzotto glielo do io in bocca! … Giovà, questo dice di volare! Ma quanti pazzi che ci stanno in giro! Bah! Metti in moto e segui la volante … via terra, mi raccomando …” e con l’altra mano chiude gli sportelli. Anche i poliziotti, che sorridenti hanno osservato la scena, mentre stanno per rientrare nella volante sentono voci provenire dall’hangar: “Hai sentito? Andiamo a vedere se c’è davvero la segretaria col coso incazzato?” “E se poi è vero che quello fa a pugni avrà il cazzotto duro! E se ce l’ha duro, potremmo prendercelo noi da qualche parte!” “Ccà nisciuno è fesso, chi pò fotterci deve ancora nascere!” “Ma sì, annamo via! Se ci dovrebbero chiamare ancora, intervenissimo immantinente!” Mettono in moto e partono rombando a sirene spiegate. L’ambulanza segue a sirene spiegate. E di Mike non si è saputo più nulla!


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Michele Gagliani

La prima missione di volo

Quel pomeriggio del luglio 1964 mi sembrava di vedere l’aeroporto di Boccadifalco per la prima volta. Come cambiano le cose quando si osservano da protagonisti anziché spettatori! Mi sentivo impacciato ma, al tempo stesso, non mi sfuggiva alcun particolare. L’hangar m’appariva immenso, gli aeroplani belve in agguato, e Gianni, l’istruttore, nella sua tuta sporca d’olio (o era sangue?), un feroce domatore! E il grande Icaro ad ali spiegate un’aquila pronta a ghermire i pinguini come me! Avevo l’impressione che tutti in Aero Club mi squadrassero e soppesassero. Ed ecco il mio aeroplano! Il Piper Cub J3 con motore da 65 cavalli: quanti, per la miseria! Gasparino, il meccanico, mi spiega sommariamente com’è fatto: “Quattro cilindri contrapposti, due candele per cilindro, due magneti, i posti sono in tandem, l’istruttore siede avanti e l’allievo dietro, se uno va in volo da solo deve sedersi in quello dietro, ma certo, per non spostare il baricentro, i comandi sono doppi, la barra fa muovere alettoni e timone di profondità, la pedaliera, laggiù, ruotino e timone di direzione, quella è la manovella del trim, la mano destra tiene sempre la barra e la sinistra la manetta del gas, sì questa, l’acceleratore a mano”. E, poi, l’interruttore dei magneti, la pompa del cicchetto, la manovella del trim (“ah, già, te l’ho fatta vedere!”), gli strumenti dai nomi conosciuti (bussola, contagiri) e strani (anemometro, variometro) e chissà quante altre diavolerie! Ascolto ma non ricevo. Sono confuso e spaventato. L’unica cosa che capisco è che fra poco andrò in volo e dovrò manovrare ed osservare tutta quella roba! Al diavolo, altri ci sono riusciti prima di me, gli aeroplani non sono che macchine e Icaro è solo una statua di gesso! Tu, Piper, sei cattivo? T’assicuro che saprò domarti e difendermi, con le unghie e con i denti, vedrai! In hangar c’è una stanza dove l’istruttore con due dita batte qualcosa a macchina (una vecchissima macchina da scrivere nera). Sul muro sovrastante la porta, un cartello specifica: SALA BRIEFING Finalmente qualcuno (un allievo, presumo) mi spiega che il briefing lo fa l’istruttore prima della missione; che in sala briefing si carteggia, si consulta l’AIP e si pianificano i voli. Bah, forse è meglio non fare domande! Ricordai quella volta in cui dovetti sorbirmi le lunghe dissertazioni di un marinaio che usava, con naturalezza, termini come babordo, bottazzo, boma, pozzetto, scuffia … io sono ignorante, me le dovete spiegare le cose! In effetti Gianni, l’istruttore, aveva la buona abitudine di scrivere le MIX – missioni – (da 1 a 10) che spiegavano sommariamente le missioni di volo, tratte probabilmente da un vecchio basico militare. La spiegazione che mi consegna è la MIX 1 – GEOGRAFIA DELL’AEROPORTO, scritta su un foglio di carta velina: ne stampava a macchina diverse copie, con la carta carbone, non avendo a disposizione una fotocopiatrice; quando si esaurivano, pazientemente le riscriveva. Nell’ultima guerra aveva pilotato, volando a pelo d’acqua per sfuggire ai radar inglesi, grossi velivoli da trasporto, fra la Sicilia e l’Africa; qui poi s’era fermato per fare lavoro agricolo con l’aeroplano. Volo radente, tanto per cambiare, per spargere insetticidi, diserbanti e concimi! Infine, col brevetto di istruttore e collaudatore era sbarcato a Palermo. Capace di atterrare indenne su qualunque terreno, l’aveva fatto con naturalezza ogni qualvolta il motore s’era perso un colpo. Era sceso anche a Floresta, il comune più alto della Sicilia, e ne era ripartito … Non ho più notizie di lui, da tanti anni è rientrato nella sua Trieste … chissà..! Discute con me e mi spiega, voce per voce, tutto quello che faremo in quel primo volo di circa venti minuti (eureka, è il briefing!). Ci accostiamo all’aeroplano, nel frattempo spinto fuori dall’hangar e rifornito di benzina da Totuccio, un meccanico della mia età, che è il vero artefice di tutto, mentre Gasparino, più anziano, è praticamente il capo, quello che dà gli ordini. Non c’era una CHECKLIST, la lista dei controlli da effettuarsi all’aeroplano prima del volo. In verità, mi accorgerò più tardi che di scritto non c’era nulla, a parte le MIX di Gianni ed un vecchio sgualcito AIP (Pubblicazione Informazioni Aeronautiche) che contiene, adesso lo so, le regole dell’aria, le mappe degli aeroporti, e via discorrendo. I libri di testo arriveranno più tardi. Mi sento quasi un pioniere! Facciamo un giro attorno all’aeroplano, per controllare che non ci siano rotture nell’elica di legno, che non si siano perse le coppiglie dei bulloni, che le gomme delle ruote (pardon, carrello) siano gonfie, che i tiranti di coda risuonino come le corde di un contrabbasso! Finalmente a bordo. Mi calo con difficoltà nel posto di dietro. Ci sto maledettamente scomodo. Spalliera e cuscino di crine sono duri. Non posso allungare le gambe, che mi ritrovo piegate quasi a novanta gradi. Piedi sulla pedaliera, con l’aggravante che i freni, indipendenti sulle due ruote del carrello, si devono azionare pigiando coi tacchi delle scarpe (provate, e vi accorgerete che da subito cominceranno a farvi male i polpacci!). Cicchetto, tutto escluso, e Totuccio dà qualche giro all’elica, nei due sensi. Pronto? Contatto! Gianni alza la mano sinistra per azionare l’interruttore dei magneti. Manetta al minimo. Totuccio spinge in giù, con forza, una pala dell’elica, ed il motore parte rombando. L’elica scompare e si forma come d’incanto una circonferenza di luce, un riflesso lieve dove prima stavano le estremità delle pale. Ma sono frastornato dal rumore e vibro all’unisono con tutto quanto; dal mio posto, poi, non vedo il terreno avanti al muso dell’aeroplano che sta seduto sul ruotino di coda; anche le spalle dell’istruttore mi coprono la visuale. Gianni, tuttavia, le sposta il più possibile di lato e, girando la testa verso di me, m’invita a rullare. Mi aveva già spiegato che per vedere bisogna zigzagare, andare a destra e guardare a sinistra, andare a sinistra e guardare a destra, pigiando sulla pedaliera collegata al ruotino posteriore oltre che al timone di direzione, ovviamente inefficace a bassa velocità. Unica accortezza, anticipare il movimento dei piedi per evitare che il lungo muso continui a ruotare per inerzia superando la direzione voluta. “Facile”, gli avevo detto, e Gianni sornione aveva scommesso mille lire che non ne sarei stato capace. Figuriamoci! Non si trattava di pilotare un aeroplano ma di fare muovere sul terreno una specie di triciclo con ruota sterzante posteriore! E proprio qui stava l’inghippo, in quel ruotino piccolo e saltellante, agganciato con due molle al timone di direzione. Un po’ di manetta, aumentano i giri dell’elica e i battiti del mio cuore; ci muoviamo e … cribbio (chissà se dissi cribbio!?), la coda ballonzola … spingo il piede destro e, invece che a destra, l’apparecchio va a sinistra sull’erba, contro ogni legittima aspettativa. Più m’innervosisco e più s’incasinano le cose. Mi sento perso (voglio scendereeeeeee..!), ma Gianni interviene sui comandi sostenendo che “non è tempo di andare per funghi!”. Si muove con grazia, adesso, a passo d’uomo come prescritto, va a destra (“guarda a sinistra”), va a sinistra (“guarda a destra”), e finalmente si ferma in posizione attesa. Qui, prima di entrare in pista, facciamo il controllo dei magneti: ruotiamo il selettore sul sinistro (e c’è un leggero calo di giri, perché in ciascuna camera di scoppio funziona solo una delle due candele), poi sul destro (come prima) e infine, riportato su entrambi, i giri si ristabiliscono al valore iniziale. Dimenticavo: niente radio, a quel tempo non era obbligatoria e naturalmente l’Aero Club, per risparmiare, non ne aveva. Venivamo autorizzati coi segnali luminosi di un faretto orientabile; occhio alla Torre, dunque: VERDE, possiamo andare. Allineati in pista, manetta dolcemente avanti (fa tutto naturalmente l’istruttore, io seguo, o meglio, tento di seguire la manovra), il motore mi spacca le orecchie, l’aeroplano si muove, adesso corre, barra avanti, il muso si abbassa (oh, cribbio, invece di alzarsi …), ma un momento dopo, meraviglia delle meraviglie, siamo per aria. Il terreno si allontana, i monti vicini si colorano d’azzurro, poi vedo i tetti delle case, la città (ma è Palermo? Giuro, non la riconosco!), puntiamo verso il cielo … siamo sempre più in alto, in cima al mondo. Gianni indica l’altimetro: mille piedi! Ho qualche difficoltà a convertire la misura in metri, “dividendo più o meno per tre” come da approssimative spiegazioni di Gasparino (dividendo, più, meno, per … con un solo confuso ragionamento applico le quattro operazioni insieme), per realizzare infine che siamo appena a trecento metri di quota! Mica tanti! Dove sono i diecimila del Mustang e dello Spitfire?! Provo un miscuglio di euforia e paura. Ma piano piano il rombo regolare del motore mi rassicura, non mi disturba più, ora mi fa compagnia. Sto all’erta, è vero, ma comincio a rilassarmi. Ho la sensazione di stare fermo, mentre il panorama scorre lentamente intorno a me … PATAPUMFETE … PUMFETE … RIPATAPUMFETE! Mi gira tutto, mi sento sbattuto e pesante! Che succede? Gianni, quel figlio di buona donna, ha combinato qualcosa per saggiare le mie reazioni. Fingo indifferenza e gli urlo che mi è piaciuto, anzi … mi è piaciuto assai (lo ucciderei!). “A ore 12, sotto Monte Cuccio, l’aeroporto; a ore 3 Monte Pellegrino …” e parla, parla: che vuole costui? Poi affiorano i ricordi di vecchie letture (Attento! Caccia ad ore 9!) e capisco che si sta riferendo alle lancette dell’orologio per darmi la prima lezione di orientamento (in seguito passeremo alla bussola). Rientriamo. Discesa e avvicinamento, luce VERDE, possiamo atterrare, fa tutto lui, viriamo, scendiamo ancora, sfioriamo le terrazze delle case e … plomft, tocchiamo dolcemente, all’inizio della pista, da fermi o quasi. Mi lascia i comandi per rullare fino al parcheggio e, stavolta, va meglio. Via i magneti … e mi gusto (anche Gianni, credo) qualche momento di silenzio. Bello, bello, bello! VOGLIO FARE IL PILOTA.


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Michele Gagliani