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Racconti degli autori

Il club MELC


Ho sempre avuto due punti deboli nella mia vita, da che ho memoria, anzi, tre, ma il terzo è diventato il mio lavoro e quindi non lo conto più. Aggiungo che, col tempo, ho accettato il concetto di debole riguardo ai punti perché lo associo all’impossibilità di resistere loro. Ma questa è un’altra storia. Una vecchia storia.

A ogni modo e a onor del vero sono sempre stati gli altri a definirli debolezze. I punti in questione, intendo.

Credo, e non sono lontano dalla verità, che sia stato del livore. Niente altro che umano livore per i miei progetti. Comunque non mi sono mai agguerrito per trasformare il tutto in un affare di orgoglio. Non seguo troppo i pareri altrui. In un modo o nell’altro faccio sempre di testa mia. Tiro dritto per la mia strada.

Ebbene, in questa vicenda i fatidici tre punti si sono beatamente incrociati. E aggiungo,  coordinati fra loro per dare forma a una delle più  indimenticabili  esperienze della mia vita.

È questo che importa e che ha fatto la differenza.

Se tornassi indietro farei esattamente ciò che ho fatto, comportandomi proprio come mi sono comportato.

 

1.

Il pomeriggio quando tutto iniziò mi trovavo a Parigi. Piovigginava. Era la fine di aprile. Sarei ripartito solo l’indomani quindi ero libero di muovermi come meglio credevo.

Ho sempre prediletto camminare senza meta lungo il viale dei bouquinistes. Lungo la Senna. Curiosare fra i vecchi libri.

Procedevo lento perché ero in anticipo per l’appuntamento con una vecchia amica. Ripeto, non dovevo essere a Parigi, ma all’ultimo avevo sostituito un collega ed eccomi lì.

A proposito mi chiamo Marc. Marc Fabrien. Francese da indicibili generazioni. Pilota di linea della Air Corsica, ma per un bel po’ di tempo sono stato pilota privato grazie al Club aeronautico della Camargue. Periodo splendido quello.

Quando riaffiorano i ricordi mi vengono gli occhi lucidi.

È in Camargue che ho conosciuto due dei miei più cari amici. Tutti e tre noi, piloti.

È con loro che ho affinato la mia indole naturale di generosità genuina, quella che ancora oggi mi rende disponibile a sostituire un collega se ne ha bisogno. Siamo stati inseparabili per due anni. Noi tre a cavalcare i cieli su i Cessna 172. I piccoli monomotore a quattro posti placidi nella loro garbata velocità massima. Ci sentivamo intoccabili. Noi tre a stilare sfide con i numeri di ore di volo. Noi tre a ridere della nostra audacia. Ci sentivamo dei temerari. Più di tutto liberi. Era come se sapessimo sfruttare ogni momento della vita. Ci caricavamo facendo paragoni.

Anche se certe auto sportive regalano sensazioni da brividi – ci dicevamo – con le loro capacità meccaniche, con il gioco impercettibile dei cambi di marcia fra tornanti montani o lungo autostrade infinite, non c’era storia a nostro vedere.

No, non ci lasciavamo abbindolare dalla potenza dei cavalli di certe quattro ruote.

Eravamo così.  Édouard, Claude e io. Uniti.

Poi in piena notte ci ritrovavamo per fumarci in pace una sigaretta e raccontarci a turno i sogni a venire. E guardavamo davvero il cielo scuro.

Per me volare significava  respirare. Anche oggi.

E, scordavo, ero un fumatore quanto basta. Ancora adesso ma forse questo è un dettaglio marginale in tutta la vicenda.

Insomma stavo aspettando Aline e per un verso ero contento fosse lei in ritardo e io  in largo anticipo.

Mi è sempre piaciuto crogiolarmi fra i libri e vecchie storie e questo è un’altra forma di libertà. A rigor di puzzle della vicenda, è il primo dei due punti entrato in scena. Mi spiego meglio.

Sono uno che ama leggere, sfiorare le pagine scritte, raccontare storie. I vecchi libri, quelli passati nelle mani di altre persone, mi procurano misteriosa adrenalina che mette in moto il mio senso dell’avventura.

Ebbene, curiosando qua e là, passavo in rassegna le varie copertine sperando di essere attratto da un’immagine magnetica che per me significava viaggi o esplorazioni. Capitai su un volumetto grigio e piuttosto sgualcito nell’insieme ma con, in bella mostra, un aereo d’epoca. L’avevo riconosciuto senza se e senza ma.

Un caccia  North American P-51 Mustang in voga durante la Seconda Guerra Mondiale. Un gioiello che con la sua apertura alare inclinata e in scala copriva la grandezza della pagina. Mi ritrovai ad accarezzarne le forme con pura delicatezza.  Volevo toccare.

“Posso?” Chiesi al tizio dietro il banco pensile.

“Certo signore , sbirci pure. ” Mi sorrise soddisfatto, credo perché intuii che l’avrei comprato.

“Lo prendo.”

“Cinque euro. Prego e buona lettura.”

Mi sentivo più tranquillo avendolo tra le mani. Quasi come una premonizione liberatoria. Ammiravo quella copertina dai bordi mangiucchiati. Avevano la forma ricamata tipico del lavorio sordido dei pappagallini. Lo so perché ne avevo uno da bambino che si divertiva a rovinarmi i quaderni.

Salutai il venditore con un cenno del libro sollevato a mezz’aria e con il desiderio di appartarmi per divorare quelle pagine. Nascondevano un mistero, ne ero sicuro poiché avevo adocchiato delle mezze frasi scritte a matita fine all’interno, aprendolo casualmente. Il mio animo antico di pilota solitario si era svegliato. E alla grande. In effetti non sono diventato pilota a caso. Ho sempre provato attrazione per gli aerei, per il volo, per la libertà.

Gran parte di questa passione la devo agli anni trascorsi nel sud della Francia. In estate. A Perpignan. Nella casa di famiglia dove a un certo punto non si capiva più chi era chi e chi arrivava o andava. Cugini mai visti. Amici di amici.  Una gran confusione e a me le confusioni non sono mai andate giù, nemmeno in estate. Il caldo torrido, poi,  non l’ho mai tollerato e un mio zio di Marsiglia a quanto pare se n’era accorto e aveva cominciato a salvarmi spesso dalle noie della spiaggia e dai  rumori della casa o forse io salvavo lui.  Non ho mai approfondito.

Mi portava  all’hangar di Marsiglia. Quello nei pressi della Legione Straniera. Un luogo magico per lui. Sia l’hangar sia la Legione.

E magico anche per me.

Zio Xavier era un meccanico con la emme maiuscola. Ci capiva di motori come Monet di colori.

Lavorava in quell’hangar e non avvertiva il bisogno di staccare perché amava il suo lavoro. A dirla bene la vacanza era un dovere e così  forse è più evidente captare il tipo di personalità.

Mi ripeteva spesso:

“Marc, pensaci bene! Pensa molto bene a quel che vuoi fare da grande. Se sbagli lavoro sarai fottuto. Rovinerai la tua vita.”

“Farò un lavoro fantastico.” Rispondevo tanto per rispondere ma non sapevo cosa dicevo. A me, al contrario suo,  importava che le  vacanze durassero il più a lungo possibile.

Avevo sette anni e mezzo la prima volta che toccai con le mani un aereo. Voglio dire, non ci capivo un bel niente. Li vedevo di solito passare in cielo. Tutto qui. E con l’espressione un po’ da ebete allungavo il collo e sgranavo gli occhi su, su fin dentro al cielo e non li staccavo se non dopo che l’aereo di passaggio svaniva dalla mia vista.

Quel giorno invece, con zio, la mia mente cominciò a lavorare a modo suo e non mi lasciò più in pace. Da quell’istante non mi sarei più accontentato di guardarli.

Vedere con gli occhi quelle meraviglie volanti, ascoltare i piloti che sembravano parlare in codice fra loro era rugiada; anche i meccanici apparivano speciali nelle loro tute, nei loro andirivieni, l’atmosfera mi faceva sentire fortunato.

Era un mondo nel mondo.

Altro che stare sulla sabbia, facendo buche, aspettando di fare un bagno.

Nell’immenso capannone, dove mi sentivo una piccola vite, toccavo aerei veri. Veri.

Sarei diventato un pilota. Lo comunicai allo zio nell’istante stesso in cui lo decisi e lui, per suggellare il momento, mi alzò di peso e mi collocò seduto all’interno dell’abitacolo dell’aereo che stava controllando, davanti a un riquadro di pulsanti che per un istante mi fece sobbalzare.

Ecco, tutto quel pomeriggio contribuì a formare il terzo punto di debolezza che con gli anni ho onorato in pieno.

E non finì là. Eh no.

Divenni la mascotte dell’hangar. Conobbi un po’ tutti.

In estate andavo più spesso all’hangar che dal gelataio.

In inverno vivevo come un orso in letargo per accumulare energie da liberare a Marsiglia.

Ognuno di loro – quelli dell’ hangar  ovvio – mi raccontava avventure incommensurabili che facevano brillare gli occhi e uno in particolare. Un pilota che lavorava a tempo pieno per un ricchissimo uomo d’affari e pilotava per lui un jet privato con le ali di uno sfavillante color rosso, mi prese in simpatia. Luc, si era semplicemente presentato così. La seconda volta che mi vide, mi prese per mano e mi portò vicino a due bidoni di un colore blu acceso. Vicino alla grande apertura che si immetteva sulla pista. Su quella traiettoria arrivava il vento che movimentava l’aria calda.

“Conosci Il  piccolo Principe?” Mi chiese a bruciapelo.

“Il libro?”

“Sì proprio il libro.”

Lì per lì rimasi deluso perché all’epoca i libri non mi interessavano anzi li scartavo come regola prioritaria.  Non avevo mai passato cinque minuti di mia volontà con un libro aperto  fra le mani.  Quel libro poi me lo avevano regalato ben due volte in due compleanni diversi. Uno strazio ricevere quel che non si vuole.

Il mio rammarico si vedeva lontano un miglio e Luc riprese la situazione a vantaggio di quel libro.

“Non dico di leggerlo. Se vuoi ti racconto la storia e dopo, sono sicuro che vorrai sbranarlo personalmente.”

“Non credo. Non credo proprio.”

Non avevo nemmeno colto il concetto di sbranare delle pagine.

Ricordo la risata immensa di Luc. Mi strizzò l’occhio e cominciò a parlare.

In capo a dieci minuti lo seguivo con la bocca aperta e rigoletti di saliva pendenti ai lati per quanto rapito dalla storia.

Venni così a conoscenza di uno strepitoso, misterioso Antoine de Saint-Exupéry. Saint-Ex per gli amici, a detta di Luc, quell’Antoine sapeva più di quel che voleva far intendere, e il libro del piccolo principe era un concentrato di simboli e codici da decriptare. Decisamente non era un semplice e bravo pilota.

Soprattutto mi colpì il mistero della sua scomparsa e del suo aereo sprofondato in mare.  Luc disse testualmente le seguenti parole, parole che imparai a memoria:

“Antoine de Saint-Exupéry sparì da qualche parte nelle profondità marine a largo delle coste della Provenza. Stava pilotando un P-38 Lightning.”

Risposi.  E pensai che lui era un pilota nell’anima. Era l’anima del pilota. Tutto ciò che stavo ascoltando con le mie orecchie faceva galoppare il mio cervello e non avevo nemmeno  nove anni. Traguardo per me lontanissimo ai tempi.

Ovviamente decisi in silenzio che avrei letto parola per parola quel libricino e non lo avrei più considerato una fiaba per bambinetti. Eh no! Le cose erano radicalmente cambiate. Io ero cambiato e quando si cambia è molto difficile tornare indietro. Si vuol solo andare avanti.

È quel che feci da quel giorno grazie a Luc, a zio Xavier ma anche alla brutta casa caotica di Perpignan perché se non fosse stato per lei molto probabilmente non sarei mai diventato pilota e tantomeno  l’uomo che sono.

 

2.

L’universo di Saint-Exupéry non mi ha mai più abbandonato. Con gli anni mi affaccendai nel tempo libero per scoprire sempre più nuove informazioni sulla vita di quel pilota scrittore. In realtà non mi andò mai via dalla testa ciò che mi svelò Luc quel caldo giorno d’estate, ovvero, Saint-Exupéry era sparito. Disperso. Il suo corpo non era stato trovato. Ovviamente lo si considerava morto, ma non c’erano dati inconfutabili né ragionevolmente probatori a dimostrarlo.  Dove era finito ?

Insinuazioni, ricostruzioni non avevano fatto altro che gettare mistero sul mistero.

E c’era dell’altro. Ne erano tutti certi.

Le mie giornate sfuggivano per quanto facevo. Fra il lavoro e le mie ricerche e i libri ero stanco sì eppure profondamente gioioso. Le persone che gravitavano intorno a me non si davano pace. Era fastidiosa la mia esuberanza. Avrebbero preferito un Marc lagnoso. Pessimista. Normale. Controllabile.

Mai stato e mai lo sarò.

Lessi tutti i libri del pilota scrittore. Del mio pioniere preferito. Quelli che in pochi apprezzano perché sembrano diari tecnici. Molto specializzati. Io invece ci scovavo sempre nuovi dettagli geniali. Non che io sia dotato di intelligenza superiore ma, con gli anni, ho compreso che ognuno ha un talento ed è un peccato non alimentarlo. Ho anche sorvolato il Nord Africa seguendo i suoi tragitti. Ho riletto e riletto Il Piccolo Principe senza mai averne abbastanza.

Uno spettacolo. Più procedevo e migliore e forte mi ritrovavo.

È lampante che il secondo mio punto di fantomatica debolezza è Antoine de Saint- Exupéry. Lui e chiunque l’abbia conosciuto.

È gioia pura in me quando rileggo un suo passaggio scritto e non voglio spiegare di più perché guasterei la magia . Ecco l’ho detto. Con i suoi scritti mi ero avvicinato al senso della magia quale mistero insondabile della vita. La stessa magia che provo quando sono in decollo e trasporto sotto mia piena responsabilità un bel numero di persone.

Mi aveva affascinato anche il suo rapporto con la madre.

Madame Marie de Boyer de Fonscolombe. Una contessa. Una donna acuta. Una madre che dopo la presunta morte del figlio ricevette – a quanto si vocifera – una sua lettera nella quale la confortava spiegando che stava bene.

Quale fitto mistero nella vita di quest’uomo!  Come faceva a stare bene se era scomparso, se il suo Lightning si era inabissato, se il cadavere non era mai rinvenuto? Quale orizzonte sconfinato mi aspettava da sondare ? Lui che decollato la mattina per una ricognizione non aveva più dato segnali via radio e il suo aereo, abbattuto da uno nemico, era stato inghiottito dal Mediterraneo?

Senza aprire poi lo squarcio del marinaio che alla fine degli anni novanta scovò un oggetto che rimescolò la già fitta e intricata leggenda della scomparsa di Saint-Exupéry. Strati di misteri.

Decisi che non potevo tenermi tutto dentro. Troppa carne al fuoco. Troppa energia da gestire. Tanta esuberanza. Morivo dalla voglia di confidarmi.  Confrontarmi o semplicemente raccontare quel che ribolliva dentro il mio animo. Ricontattai i miei due amici Claude e Édouard per metterli a conoscenza.

In men che non si dica ricostituimmo il nostro club dei piloti fumatori. E gli anni sembravano non essere trascorsi quando ci vedemmo. Non avrei sperato meglio.

 

3.

L’aperitivo con Aline non sortì l’effetto sperato. Nel senso di trascorrere un paio d’ore in allegria. Quando arrivò si sprigionò disagio fra noi. Forse io non ero più dell’umore dopo aver comprato il libricino che mi rubava tutta l’attenzione. O forse ero più brutto di quel che lei ricordava. Non so che dire su di noi. La stonatura era reciproca.

Aline non era mai stata una bellezza ma aveva un certo fascino, un bel sorriso, la ricordavo buona conversatrice. Non so, non l’avevo, però, mai pensata fuori dai paletti dell’amicizia e probabilmente neppure lei.  Francamente non saprei nemmeno dire perché l’avevo chiamata. L’aggravante stava, comunque, nel libro appena trovato. 

Non avevo dubbi. Non c’ero con la testa. Una donna lo capisce al volo ma per fortuna non me lo fece pesare. Non avevo intenzione di svelarle che un libro aveva appena rapito tutta la mia esuberanza e non ne restava per altro.

Chiacchierammo del più e del meno. Bevemmo il nostro aperitivo e ci salutammo sfiorandoci con tre bacetti sicuri che non ci saremmo mai più cercati.

Del resto certe conoscenze non sanno sprofondare dell’anima e non c’è niente di male in questo.

Mi precipitai in albergo inseguito da una pioggia che si era fatta più prepotente.

Niente di meglio che vedere l’acqua disintegrarsi sui vetri lisci e io  dentro al riparo.

Lessi tutta la notte. Non riuscivo a chiudere occhio. Non tanto per la storia che non era eccezionale quanto per le note scritte dal misterioso proprietario del libro.

La grafia era pessima. Stretta, inclinata. Le lettere erano mangiate. Questi fatti non facevano che esaltare la mia vivacità.

Avevo deciso di trascrivere tutto quanto su un foglio separato. Intendevo dare un ordine e infine una logica.

Il dettaglio sconvolgente fu un nome.

Circa verso la fine, precisamente alla quintultima pagina scritta sul margine esterno, decifrai: “deBoyer”.

Ora, se uno più uno non può mai fare tre, io mi trovavo nel bel mezzo di una straordinaria rivelazione;

“de Boyer” era  la porzione di cognome della madre di Saint-Exupéry. Se non era riferito a lei, era comunque qualcuno della famiglia. Il cerchio era ben ristretto.

Non era tutto. Accanto al nome c’era scritto: “…domandare a …”ˋ

Cosa? E perché ?

E ancora. Seminati fra le pagine erano annotate tante cifre doppie.

A cosa si riferivano quei numeri? E perché così tanti? E perché simili e in successione ? Del tipo: se c’era il trentasette, trovavo anche il trentaquattro e il trentotto e così via.

Sudavo per l’energia ridondante.

Ricordando cosa Luc, il pilota di Marsiglia, mi raccontò circa i numeri sparsi fra le pagine de Il Piccolo Principe non potei concludere altro che quelle annotazioni erano preziosissime e che l’intuito mi suggeriva essere collegate al mistero di Saint-Ex.  Me lo sentivo. Non mi sbagliavo.

Presi il libro fra le mani e cercai la data di pubblicazione,

Millenovecentosessanta.

Annotai dei dati della casa editrice. Non era una di quelle famose.

Dovevo iniziare da qualche parte.

Presi il telefono chiamai il servizio in camera e mi feci preparare, nel bel mezzo della notte, una bottiglia di champagne e due spumose omelettes.

Mi andava così. Ero su di giri. Avevo fra le mani una bomba. Forse sarei divenuto colui scelto dal destino per aggiungere un tassello nuovo al mistero della scomparsa di Antoine de Saint-Exupéry.

L’indomani avrei chiamato Claude che avrebbe rintracciato Édouard. Non stavo più nella pelle.

Era evidente. Qualcuno aveva usato un libro qualsiasi e poco attraente per il grande pubblico ma legato al mondo dell’aviazione. Un libro la cui copertina poteva interessare principalmente un certo tipo di persona. Un appassionato di aviazione. Un pilota. Qualcuno poco conforme al qualunquismo. Il libro non era destinato ad andar perso. Sembrava che il tutto facesse parte di un grande piano.  E chi l’aveva trovato?

Io. Me medesimo. Marc. Pilota. Strambo. Appassionato di libertà. Non poteva essere un caso ma non volevo fissarmi su quel dettaglio. Era capitato. Dovevo proseguire a ogni costo.

Esultavo. Non vedevo l’ora di dare un assetto a quel materiale tanto vago quanto intrigante. In seguito sarei andato alla ricerca di qualche “de Boyer”. Di qualche discendente. E poi via, sempre oltre.

Mi addormentai dopo aver svuotato la bottiglia e dopo aver scritto in modo indecente: “Svelare i misteri ma non troppo …”

 

  4.

Quando mi svegliai era tardi. Troppo tardi. La realtà era in trepidazione ma la mia sbornia pesava come cento mattoni sulla testa e non ero in grado di mettere a fuoco un bel niente.

Avevo il volo Parigi-Nizza a breve e le mie condizioni somigliavano a una tenda travolta da una tormenta di sabbia.

Quando si elargiscono piaceri è facile riceverne. Tentai. Andò bene. Trovai il mio  sostituto causa forza maggiore. Intendiamoci non accadono spesso gli scambi ma è altrettanto vero che quando il destino ci si mette non ce n’è per nessuno. O lo si segue o gli ostacoli si moltiplicano.

Più rilassato ma sempre alticcio mi preparai per uscire. Avevo in mente di fare un salto dal tizio che mi aveva venduto il libro. Forse ricordava qualche dettaglio, tipo la provenienza. O addirittura il proprietario.

Per esperienza so che le coincidenze esistono quali movimenti di disegni più grandi. Mi gironzolavano un sacco di idee in testa.

Non ero ancora capace di comprendere la ragione  di tutto questo ma se proprio volevo trovare un aggancio di qualità non potevo che riferirmi a Luc e a quel lontano pomeriggio estivo. Camminavo e mentalmente mi sforzavo di ricordare al meglio.

Anche Luc doveva essere implicato in qualche modo nel grande disegno di questa faccenda vertiginosa poiché non è ordinario né frequente trovare qualcuno che getta l’amo di un importante mistero in una conversazione normale.  Tra l’altro con un bambino. Luc aveva proprio fatto così. Mi aveva visto e senza mezzi termini mi aveva catapultato in un mistero.

Dovevo contattare anche lui.  Per forza. Pur vecchio, ero certo che avrebbe saputo districarsi.

Aggiunsi il suo nome alla mia lista intitolata “il codice” e mi venne il desiderio di rivederlo al più presto.

Mi fermai in un bistrot qualsiasi per mangiare un boccone e per chiamare Claude. Rispose ancor prima che mi arrivasse il menù.

Ci accordammo. Ci saremmo visti di lì a due giorni a Marsiglia. Gli effetti dello champagne stavano dignitosamente svanendo.

La vita ha un aroma davvero speciale quando la si onora.

Pensavo ai numeri trovati nel libro. Masticavo e ripetevo mentalmente. Più ripetevo più si faceva largo l’idea che quelle cifre fossero dati di longitudini e latitudini. Mi rimaneva il compito di collegarli alle lettere stampate del libro accanto alle quali erano state scritte. Quel collegamento lo trovavo un buon punto di partenza.

Quanto lavoro mi aspettava. Quante notti insonni.

A un tratto per riposare la mente strizzai e sgranai gli occhi a intermittenza per mettere a fuoco la vista. Gli scorci di Parigi erano proprio inimitabili.

Mi sembrava di essere il protagonista di un romanzo.

Accesi una sigaretta e mi lasciai andare all’immaginazione.

Mi aspettava un bel carico di avventura.

 

5.

A Marsiglia respirai a pieni polmoni il profumo salato della baia del porto.

Arrivare a Marsiglia era come tuffarsi a ritroso nel tempo. Avrei cenato a casa di Luc. La serata si prospettava al meglio. Sul tardi ci avrebbero raggiunto i miei due vecchi amici.

Non stavo nella pelle. Le mani tremavano ma mi piaceva tremare per motivi positivi.

Ero impaziente e rovesciai anche la birra a un certo punto, bagnando tutto il tavolino al quale ero seduto.

Infine camminai un po’.  A zonzo. Con la testa fra le nuvole. Avevo inserito il pilota automatico per dirla col nostro gergo.

Trovarci insieme dopo tanti anni fu emozionante. Luc mi diede almeno tre pacche potenti sulla spalla. Era il suo modo per dirmi quanto felice fosse di vedermi. Mangiammo senza affrontare il grande argomento. Per quello avevamo deciso di aspettare Édouard e Claude.

Quella notte fondammo il nostro club esclusivo. Il club MELC.

Ovviamente le nostre iniziali accordate per essere pronunciate facilmente.

Pura genialità. Un club in onore di un pilota leggendario fondato da quattro piloti onorati d’esserlo e legati da un profondo rispetto della libertà. Cosa mai potevo chiedere di meglio?

Gettammo le basi del nostro lavoro. Euforici. Decidemmo come sede la casa di Luc.

Abitavamo tutti nel Sud e sarebbe stato semplice incontrarci. Ci dividemmo i compiti della ricerca. Io mi sarei concentrato sulla madre di Saint-Exupéry.

Avevamo una montagna di lavoro ma eravamo certi di arrivare, presto o tardi, a una notevole conclusione. Per suggellare il club, Luc propose di farci un giro col suo Cessna. Tirammo a sorte per pilotare. Toccò a Claude.

Sorvolammo i cieli della Provenza, sopra l’Estérel. In silenzio. Uniti dall’intento di onorare un grande pilota. Saint-Ex.

Il Mediterraneo sotto di noi era scuro come il velluto nero. Dentro lo stesso cielo aveva effettuato il suo ultimo ufficiale volo Saint-Exupéry quel trentun luglio millenovecentoquarantaquattro. Doveva raggiungere Grenoble. Raggiunse qualche altra destinazione dopo che il suo aereo precipitò? Pensavo a questo quando subimmo un leggero scossone. Una semplice turbolenza. Mi risvegliai dal pensiero. Guardai Luc e accennai un mezzo sorriso. Quello tipico degli uomini abituati alle fatiche.

Il Club MELC avrebbe realizzato grandi progetti.

Ne ero certo. Più che mai.



§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§

# proprietà letteraria riservata #


Luisa Sala

Roald Dahl. Come da pilota da caccia divenni scrittore

Un’intenso primo piano del protagonista di questa biografia … giusto per dare un volto al suo nome e cognome. Dahl è recentemente assurto all’attenzione delle cronache giornalistiche giacché la sua casa editrice, in virtù di una profonda esigenza di “revisionismo” e sull’onda di quanto fece qualche anno fece per prima la Disney a proposito dei personaggi dei suoi films, si è presa la briga di provvedere a una radicale rielaborazione dei numerosi testi per bambini dell’autore con l’eliminazione di quelle frasi, caratterizzazioni e uso di aggettivi poco inclusivi, potenzialmente offensivi o comunque spiacevoli nei confronti di razze, colore, peso e caratteristiche fisiche in genere. Insomma, a detta dell’editore, i testi di Dahl erano troppo razzisti, sessisti, insensibili nei confronti dei grassi, dei brutti, delle streghe e dei cattivi in genere e dunque andavano addolciti, resi più educativi più inclini al clima di tolleranza civile contemporaneo. La notizia ha riempito i media britannici e, fortunatamente, è a malapena apparsa in quelli nostrani. In effetti mettere mano a testi scritti da una persona geniale nata nel 1916 e vissuta in un mondo completamente diverso da quello attuale (benché guerre e miseria siano perduranti) lascia molto perplessi e semmai è questo aspetto che scandalizza davvero. Che poi i britannici siano sempre stati dei sciovinisti egocentrici con la puzzetta sotto il naso non è una novità e che cadano talvolta nel ridicolo non stupisce affatto; dunque riallinearsi al resto del continente non è del tutto fuori luogo … anzi, era ora! … è pur vero che val bene addolcire certe espressioni del linguaggio corrente per attribuire una maggiore dignità alle persone (lo spazzino che diventa collaboratore ecologico, ad esempio) ma sostenere che il salvifico bacio dato dal principe azzurro alla signorina Biancaneve non è consensuale e dunque si tratta di una forma di abuso sessuale, beh … ce ne corre! D’altra parte cosa dovremmo fare noi italiani? Revisionare secoli di letteratura per non indispettire la sensibilità altrui? E, nel caso specifico, dovremmo censurare le favole di Gianni Rodari o quelle di Italo Calvino o il Pinocchio di Collodi, tanto per citarne alcuni? Stendiamo un velo pietoso e leggiamo la narrativa per l’infanzia con gli stessi occhi innocenti dei bambini per i quali gli orchi non sono mai affascinanti e Cappuccetto Rosso è semplicemente una bambina indifesa. La malizia di vedere nel Gatto e la Volpe due omosessuali inveterati ce l’hanno solo gli adulti. Allo stesso modo prendiamo Roald Dahl quello che fu, nel bene e nel male; noi lo ricordiamo  specie come il pilota che divenne scrittore (foto proveniente da www.flickr.com)

Era il classico gentleman inglese, somigliava un po’ a Lawrence d’Arabia, il volto lungo e i capelli con una perfetta riga a lato. Per tutta la sua vita Roald Dahl rappresentò la quintessenza del suddito devoto e orgoglioso della grandezza dell’impero Britannico, pronto a sacrificarsi affinché sua maestà potesse regnare ancora per secoli sui suoi vasti possedimenti. Solo quando prese servizio nella RAF, in volo sul suo aereo da caccia, in Grecia e in Medio Oriente, si rese conto che l’epoca d’oro dell’impero stava finendo, travolto dall’immane tragedia della Seconda Guerra Mondiale:

“Ora, quindi, ci erano rimasti in Grecia sette Hurricane in grado di volare, e con questi avremmo dovuto fornire copertura aerea all’intero corpo di spedizione britannico che stava per essere evacuato lungo la costa. Tutta la faccenda era una ridicola farsa”,

 scrisse.

Risale a quel periodo, infatti, uno dei primi racconti di Dahl, Un gioco da ragazzi, poi pubblicato sulla rivista americana Saturday Evening Post con il titolo più eroico e bellicista di “Abbattuto in Libia”.

Ma come c’era finito lì, lui che solo un anno e mezzo prima non era mai salito su un aeroplano e non aveva mai manifestato alcuna passione per il volo? Spirito di servizio, dedizione alla causa e forse la voglia di avventura che da sempre aveva guidato le sue scelte di vita.

Scrive alla madre, il 4 dicembre 1939, in un telegramma inviato da Nairobi:

“Cara mamma, sto passando un periodo bellissimo, non mi sono mai divertito tanto. Ho prestato giuramento alla RAF e adesso ci resterò fino alla fine della guerra. Il mio grado è di Leading Aircraftman (aviere scelto) con buone possibilità di diventare sottotenente in pochi mesi, se non mi dimostro una schiappa”.

Roald Dahl ha ventitré anni e da poco ha chiesto alla compagnia per cui lavora in Africa, la Shell Oil Company, un periodo di congedo pagato, per andare a servire la patria combattendo “e dare una mano contro bwana Hitler”, come ricorda nella sua autobiografia, In solitario. Diario di volo. Manca dall’Inghilterra da un anno esatto e vende benzina e gasolio in Africa per conto della compagnia petrolifera con la conchiglia.

“Troppo alto per volare?” E’ questa la domanda che pone ai visitatori la figura cartonata di Roal Dahl ritratto a misura reale quando, giovanissimo, militava tra le file della RAF. E in effetti, a giudicare dal confronto con il bambino alla sua sinistra, il pilota Roald Dahl era effettivamente altissimo … ma all’epoca occorrevano tutti i piloti disponibili per difendere i cieli patri e, benché curvo sui comandi o rannicchiato nella cabina, purché potesse pilotare e sparare al nemico, anche un fuori misura andava bene! Evidentemente l’ergonomia e in comfort di pilotaggio all’epoca erano dettagli davvero insignificanti. La foto riporta un angolo molto frequentato del museo dedicato allo scrittore; si trova in terra britannica presso la località di Great Missenden, nella contea del Buckinghamshire, non lontano da Londra. Lì visse fino all’ultimo dei suoi giorni e lì è sepolto nel cimitero dove una semplice lastra di marmo scuro riporta il suo nome, la sua data di nascita e quella della sua dipartita. Tornando all’immagine, sono da notare le numerose targhette che indicano le misure antropometriche degli svariati personaggi ideati dalla mente visionaria di Dahl (foto proveniente da www.flickr.com)

Chi si fosse imbattuto in lui, nelle strade di Londra o sulla metropolitana, lo avrebbe certo notato: un giovane alto quasi due metri – troppo per un aspirante pilota; alla prima visita medica a Nairobi lo volevano scartare – con bombetta e ombrello di ordinanza, come conveniva allora a tutti i gentleman della city. Tempo prima ha inoltrato domanda alla Shell, perché il suo desiderio più grande è viaggiare in terre esotiche, al contatto con la natura primitiva.

Inaspettatamente, molti sono i candidati, Roald Dahl ottiene un posto; ne è orgoglioso ma un po’ stupefatto. Dopo un lungo periodo di tirocinio, prima nella City poi in giro per l’Inghilterra come venditore di carburante, la Shell gli propone di rappresentare gli interessi della compagnia in Africa Orientale.

Per il futuro scrittore, andare a osservare da vicino i grandi animali della savana è l’avverarsi di un sogno, che ha colmato di affascinanti immagini le sue notti fin da bambino, di un desiderio che si realizza.

I genitori di Roald sono entrambi di origine norvegese, di Oslo. Il padre, Harald, e suo fratello sono due tipi molto intraprendenti. Capiscono che la Norvegia offre poche prospettive e opportunità di lavoro, così emigrano prima in Francia poi in Inghilterra, dove fanno fortuna nel commercio.

Roald ha due anni quando la famiglia Dahl si trasferisce in una lussuosa villa di campagna, poco lontano da Cardiff: è il 1918 e Roald ha due anni. Nei tre anni successivi la cattiva sorte piove sui Dahl come una grandinata: muoiono la piccola Astri e, pochi mesi dopo, il capofamiglia che non regge al dolore e si lascia morire.

Il Gloster Gladiator fu il velivolo con cui Roald Dahl compì un rocambolesco quanto rovinoso atterraggio nel deserto. E’ ricordato anche come l’ultimo caccia biplano in forza alla RAF e alla Royal Navy ma, a differenza del famoso Fiat CR-42 Falco italiano che rimase in servizio durante tutta la II Guerra Mondiale, il Gladiator fu ritirato rapidamente dalle prime linee per lasciare posto a ben più moderni Hawker Hurricane. (foto proveniente da www.flickr.com)

La madre di Roald, incinta, si ritrova così sola con cinque figli da sfamare. Ma Sofie Magdalene, è una donna forte e si appresta ad affrontare questa nuova fase della vita con determinazione e coraggio. Vende la grande casa, che non sarebbe riuscita più a gestire da sola, e lei e i bambini si trasferiscono in una più piccola. Dentro un baule porta con sé parecchie decine di taccuini che il marito aveva riempito, ogni singolo giorno, durante la Prima Guerra Mondiale. Roald, che disse di averne conservato uno, considerava il padre “uno straordinario scrittore di diari”.

Dopo aver frequentato la Scuola della Cattedrale dl Llandaff, da dove si fa quasi cacciare, la vedova Dahl iscrive il figlio alla St Peter’s School: considera le scuole inglesi – loro vivono poco distanti però nel Galles – come le migliori al mondo e mai avrebbe rinunciato ad assicurare al giovane Roald un’istruzione di alto livello, degna della loro famiglia.

Boy, così in famiglia l’hanno sopranominato, inizia una fitta corrispondenza con la madre, una lettera la settimana, che continuerà fino alla sua morte, nel 1957; le scriverà da scuola, dai luoghi di lavoro in Gran Bretagna e in Africa, e durante la guerra in Medio Oriente, mentre sul suo Hurricane cerca di contrastare i caccia della Luftwaffe: seicento lettere, che lei aveva scrupolosamente conservato, all’insaputa di tutti, e che lui ritroverà in seguito.

Sulla pagella di Boy, del III trimestre del 4° anno, figurano un “ottimo” in lingua inglese e voti poco più che sufficienti o discreti nelle altre materie, con un “molto buono” in condotta. Per far fronte ai lunghi mesi invernali di reclusione dentro i muri della St Peter’s School – “il manicomio” – lo chiama Roald, Boy ripensa alle sue vacanze estive che trascorre in una piccola e sperduta isola norvegese.

Roald Dahl è stato un prolifico autore di romanzi, racconti, sceneggiature, poesie e addirittura un’opera teatrale. Quelli ritratti in questo scatto sono solo una minima parte dei suoi volumi, molti di grandissimo successo editoriale e quasi tutti tradotti in innumerevoli lingue a testimonianza della bontà delle notevoli capacità letterarie di Dahl.

Puntualmente con l’arrivo della bella stagione, per dodici anni consecutivi, parte, assieme alla madre e ai fratelli, per raggiungere, dopo un avventuroso viaggio per mare e per terra di quattro giorni, la terra dei suoi avi. Per lui è una gioia immensa immergersi nella natura di “quell’isola magica” in un paese cui si sente profondamente legato, pur non essendovi mai vissuto se non per i brevi periodi di quelle “idilliache vacanze”. 

Vestito di tutto punto, indossando la divisa d’ordinanza, camicia bianca con colletto rigido, calzoni neri solcati da sottili righe grigie, bretelle, panciotto e infine una marsina, anch’essa di color nero, a coda di rondine, Roald entra a Repton: – Mi sentivo come “un apprendista di un impresario di pompe funebri” – scrisse nella sua autobiografia.

Il famoso collegio privato si trova nelle Midlands, a circa tre ore di treno da casa: è la fine estate del 1929 e Boy ha compiuto tredici anni. Nel primo trimestre, quasi schiavizzato dagli studenti più grandi, è obbligato da questi a scaldargli, durante i rigidi inverni inglesi, la ciambella del water, prima che questi ci si siedano. Per passare il tempo, seduto sulla tazza del cesso, in quei primi freddi mesi a Repton, legge l’opera completa di Dickens, l’autore che influenzerà molto i libri per bambini di Roald Dahl.

Il giovane Dahl però matura, durante quegli anni di collegio, due passioni che saranno per lui una sorta di riscatto: la fotografia ma, soprattutto lo sport: il gioco della pelota; è promosso, grazie alla sua abilità di calciatore a capitano, il che significa, nelle rigide istituzioni scolastiche private inglesi, essere degno del massimo rispetto e oggetto di ammirazione.

Con la pelota, la sua noiosa vita a Repton cambiò di punto in bianco e la prospettiva di trascorrere ancora altri anni in quella polverosa scuola divenne più tollerabile, anche perché il suo professore d’arte gli aveva fatto nel frattempo scoprire la fotografia e la pittura. Diventa così abile con la macchina fotografica che inizia a vincere premi; diverse illustri e blasonate organizzazioni, come la Royal Photographic Society o la Photographic Society of Holland lo premiano.

Al momento di scegliere l’Università, era destinato a Oxford o Cambridge, Roald però rinuncia e confessa alla madre di voler:

“andare dritto a lavorare per qualche compagnia che mi mandi in meravigliosi paesi lontani, come l’Africa o la Cina”.

E la Shell, dove è assunto nel 1933, qualche anno dopo lo accontenterà.

Il cognome Dahl è divenuto famoso anche per un’invenzione che nulla ha a che fare con la letteratura o l’aviazione: è la valvola Wade-Dahl-Till. Andò così: uno dei figli di Roald, Theo, era affetto da idrocefalia a causa di un disastroso incidente automobilistico. Per risolvere il suo grave problema di salute gli fu impiantata una speciale valvola che però tendeva ad incepparsi in quanto incapace di funzionare a causa dei detriti del liquido cerebrale, specialmente in pazienti in cui era presente sanguinamento e danno cerebrale come in Theo. Quando avveniva i disturbi provocati erano terribili (dolore, cecità e rischio di danni cerebrali permanenti) e talvolta richiedevano un intervento chirurgico d’urgenza. Dahl catalizzò le capacità del neurochirurgo infantile Till dell’ospedale pediatrico presso cui era in cura Theo e dell’ingegner Wade, ingegnere specializzato in idraulica di precisione con il quale condivideva la passione per l’aeromodellismo dinamico. Assieme misero a punto una nuova rivoluzionaria valvola che porta il loro nome: Wade-Dahl-Till, appunto. (foto proveniente da www.flickr.com)

Agli inizi degli anni trenta l’Europa è in preda ad una grave crisi economica e sociale, dopo il crollo di Wall Street del ’29. Mussolini è al potere da ormai un decennio e Hitler si appresta a edificare il Terzo Reich e a occupare e soggiogare quasi l’intero continente, mentre in Unione Sovietica Stalin è saldamente al potere. È l’inizio della fine per l’Impero Britannico.

Un’altra bella immagine di Roald Dahl che deve il suo nome di battesimo alla scelta operata dei suoi genitori in onore dell’esploratore norvegese Roald Amundsen, considerato in Norvegia un vero e proprio eroe nazionale e tragicamente scomparso tra i ghiacci nel vano tentativo di prestare soccorso al suo amico-nemico italiano Umberto Nobile, precipitato sul pack nel 1928 con una parte del suo equipaggio del dirigibile Italia … ma questa è un’altra storia. (foto proveniente da www.flickr.com)

Al momento dello scoppio della guerra, Roald si trova a Dar es Salaam, ed è in partenza per Nairobi, dove ha sede un centro di addestramento della RAF, l’aviazione inglese.

Dedicherà a questo periodo della sua vita africana il libro autobiografico In solitaria, che uscirà, con il titolo originale Going solo, nel 1986. Preso il brevetto di volo, con ottimi voti, è pronto ad andare a combattere. Durante però uno dei primi voli di trasferimento, a causa di errate indicazioni di rotta avute da un comandante di una base aerea, sorpreso dal buio, deve atterrare a bordo del suo biplano da guerra Gloster Gladiator in pieno deserto, in una zona accidentata: sceglie un tratto di terreno meno sassoso degli altri e posa le ruote a terra sobbalzando, incrociando le dita; non ha fortuna. A più di cento chilometri l’ora il muso del biplano si conficca nel terreno e la testa di Roald urta violentemente contro l’abitacolo. Il colpo gli causa un trauma cranico, la perdita della vista e denti rotti, e solo il suo istinto di sopravvivenza gli consente di uscire dal posto di pilotaggio già avvolto dalle fiamme. Una pattuglia di soldati inglesi lo recuperano in fin di vita.

l giovane pilota e futuro scrittore passa molti mesi in ospedale, con le bende sugli occhi e il volto attraversato da cicatrici, i segni degli interventi chirurgici, che gli avevano restituito la parvenza di un viso normale, cui i medici dell’ospedale anglo-svizzero di Alessandria d’Egitto lo avevano sottoposto.

Il 20 novembre del 1940 scrive alla madre dall’ospedale:

“Sono arrivato qui otto settimane e mezzo fa, e sono rimasto steso sulla schiena per sette settimane senza far niente. (…) Quando sono entrato ero conciato un po’ male (…) ma quaggiù hanno i più portentosi specialisti di Harley Street che sono entrati in servizio con la guerra. (…) Mi dolgono ancora gli occhi se leggo o scrivo molto, ma dicono che torneranno normali, e che sarò di nuovo pronto a volare più o meno fra tre mesi”.

Nel marzo del 1941, dopo cinque mesi di ospedale e uno di convalescenza che passa in un lussuoso hotel del Cairo, una commissione medica della RAF lo giudica di nuovo idoneo a pilotare, in zona di guerra, un caccia. Roald stenta a crederci quando gli restituiscono il suo libretto di volo: solo pochi mesi prima i medici gli avevano prospettato la possibilità di dichiararlo invalido e di rispedirlo in patria. Così si ritrova a bordo pista, pronto a decollare per il fronte greco, su di un aereo mai visto prima:

La splendida linea dell’Hawker Hurricane che, assieme ai Supermarine Spitfire, arginarono gli attacchi della Luftwaffe nel corso della Battaglia d’Inghilterra. Ancora oggi ne volano diversi esemplari, specie in Gran Bretagna. Chissà che questo possa indispettire i tedeschi del XI secolo?! (foto proveniente da www.flickr.com)

“Ero sbalordito quando mi allacciai per la prima volta le cinture nell’abitacolo dell’Hurricane. Era la prima volta che volavo su un monoplano. Era senza dubbio il primo aereo moderno su cui volavo. Era infinitamente più potente e veloce e complicato di tutti quelli che avevo visto. (…) Non avevo mai pilotato niente di simile. (…) L’idea di tuffarmi nel Mediterraneo mi preoccupava infinitamente meno del pensiero di rimanere per quattro ore e mezzo in quella minuscola cabina di pilotaggio. Ero alto un metro e novantotto centimetri, e quando ero seduto in un Hurricane assumevo la posizione di un feto nel grembo materno”.

Arrivò a destinazione, la base aerea di Eleusi, a pochi chilometri da Atene, dopo quattro ore e mezzo di volo. Le gambe erano così rattrappite che gli avieri, a terra, dovettero estrarlo a peso morto dall’abitacolo. 

Forse è durante quel volo che partorì l’idea della storia dei Gremlin, una sorta di spiritelli dispettosi che, secondo i piloti, si intrufolavano negli aeroplani della RAF smontando pezzi e causando danni: gnomi dispettosi e pericolosi.

Dahl proporrà il racconto qualche anno dopo alla Disney che affidò ai Gremlin un ruolo in un fumetto, pubblicato dalla Random House da titolo, The Gremlins. Una storia ambientata nella RAF, del tenente pilota Roald Dahl, dove, durante la Battaglia d’Inghilterra, un pilota da caccia incontra un gremlin:

Come testimonia la copertina di questo consunto libro, il romanzo “The Gremlins” ha come protagonista un Hawker Hurrican e le piccole creature dispettose divenute poi celeberrime grazie allo stravolgimento cinematografico operato dallo sceneggiatore Chris Columbus e realizzato visivamente dal regista Joe Dante, tuttavia l’idea di base – originalissima, non c’è che dire – è e rimane del pilota Roald Dahl (foto proveniente da www.flickr.com) 

“Un pilota di nome Gus, pattugliando con il suo Hurricane a 18.000 piedi (600 metri, N.d.T.) sopra Dover, stava inseguendo uno Junkers 88 e lo stava innaffiando con le sue mitragliatrici con corte e precise raffiche. Poteva vedere un sacco di piccoli sbuffi che si alzavano dal muso dello Junkers mentre il mitragliere di coda tedesco rispondeva al fuoco. Gus diede un’occhiata a dritta, e là, in piedi sull’ala del suo Hurricane vide un piccolo uomo, non più alto di sei pollici ( 15 cm. N.d.T.), con una grande faccia rotonda e un paio di piccole corna che spuntavano dalla testa. Indossava un paio di stivali neri a ventosa che gli permettevano di rimanere in piedi sull’ala a 300 miglia (480 km, N.d.T.) all’ora.”

Il soggetto di The Gremlins fu poi ripreso e stravolto, nel 1984, trasformato in un film horror, commedia tinta di nero di grande di successo diretto da Joe Dante, e che ebbe con numerosi seguiti.

Il giovane pilota Roald si accorge subito che dovrà affrontare l’aviazione tedesca, che schiera molti più aerei e meglio armati: la Luftwaffe ha il pieno controllo dei cieli greci; non passa giorno che il capopattuglia, al ritorno dalle missioni di caccia, segnali delle perdite. Solo la spregiudicatezza e lo sprezzo del pericolo, tipico dei giovani, irrora coraggio nelle vene a piloti come Dahl e la determinatezza di alzarsi ogni volta in volo, sapendo di andare incontro alla morte.

In occasione del centenario delle sua nascita e dopo aver dedicato la deriva dei propri velivoli a grandi personaggi del mondo scandinavo come Christian Andersen e Edvard Munch, nel 2016 la compagnia aera low cost Norwegian ha ritenuto opportuno e doveroso riservare la deriva di questo suo Boeing 737-800 al suo celebre connazionale Roald Dahl. Considerato uno dei più grandi scrittori per l’infanzia del mondo anglosassone e, ovviamente norvegese, Dahl ha vissuto buona parte della sua esistenza in Gran Bretagna divenendo britannico per antonomasia ma il suo viso che pare osservare il muso del jet commerciale sta a testimoniare le sue chiare origini norvegesi. (foto proveniente da www.flickr.com)

Tra il 17 e il 20 aprile del ‘41, Roald affronta i caccia nemici in dodici missioni: tre al giorno. I suoi compagni di squadriglia continuano a morire sotto i suoi occhi. Lui se la cava solo per fortuna: al rientro dalle sortite contro i Messerschmitt e gli Junker 88 tedeschi, il suo Hurricane è spesso sforacchiato come un colabrodo, ma integro e meccanici e avieri riescono sempre a rattoppare in qualche modo i fori dei proiettili nemici.

Poi nel maggio successivo la RAF collassa. Roald e la sua squadriglia sono costretti a rifugiarsi prima in Egitto poi in Palestina; da Haifa invia una lettera alla famiglia e non sa ancora che quella sarà l’ultima dal fronte di guerra:

“Cara mamma, ultimamente abbiamo volato piuttosto intensamente. (…) A volte ho fatto anche sette ore il giorno, che un bel po’ su un caccia. Però la mia testa non l’ha presa affatto bene e gli ultimi tre giorni sono rimasto a terra. (…) Ho cinque abbattimenti confermati, quattro tedeschi e uno francese (dell’aviazione del governo collaborazionista di Vichy, N.d.R.). Il gruppo ha perso quattro piloti nelle ultime due settimane. (…) Per il resto questo paese è una bellezza, e indubbiamente vi scorre il latte e il miele…”

Il telegramma successivo annuncia ai familiari il suo ritorno in patria, congedato, per non essere più idoneo al volo. E lui in fondo ne è contento, anche se è un po’ rammaricato perché solo ora, dopo quei lunghi mesi di guerra aerea, si sente un vero pilota. La vecchia ferita alla testa si è rifatta viva e il cervello sottoposto alle forti sollecitazioni causate dalle acrobazie del volo, risponde provocandogli pericolosi capogiri e annebbiamento della vista. Il responso medico della commissione è impietoso e insindacabile: riformato e non più in grado di pilotare un aereo.

Per Roald Dahl è l’inizio di una nuova vita: da giovane pilota a scrittore. Sette mesi più tardi, dopo l’attacco giapponese alla base navale americana del Pacifico di Pearl Harbour, gli Stati Uniti d’America, escono dall’isolazionismo correndo in aiuto delle democrazie occidentali ed entrano in guerra a fianco dell’Inghilterra.

Il governo guidato da Winston Churchill affida a Roald Dahl l’incarico di consulente aeronautico, come comandante di stormo, presso l’ambasciata inglese negli Stati Uniti. Così Boy, dopo un periodo di riposo trascorso in patria, fa le valige e si trasferisce a Washington.

Forte è il sospetto che, come altri intellettuali inglesi dell’epoca, il suo compito fosse procacciarsi informazioni e dati sensibili per conto del suo governo e svolgere azioni di propaganda: è il 1942.

Nella capitale degli USA fa la conoscenza dello scrittore Cecil Scott Forester: inglese come Dahl, era un romanziere diventato famoso per la saga letteraria incentrata sull’eroe dei mari il capitano Hornblower.

Ancora una bella immagine di un Gloster Gladiator scattata ai giorni nostri sebbene il velivolo sia chiaramente originale della fine degli anni ’30. Su una questione occorre riconoscere che i britannici sono davvero encomiabili: conservano egregiamente la loro storia, specie quella aviatoria, tenendo in vita e mostrando in volo – anziché solo nei musei – macchine davvero storiche come questa. In Italia se non ci fosse l’HAG – Historical Aircraft group, a restaurare e a mantenere in attività volativa gli aeromobili d’epoca, a malapena ci rimarrebbero i musei – pochi – a ricordarci la nostra storia in termini di Aviazione (foto proveniente da www.flickr.com)

Forester, intravede in Dahl la stoffa del narratore ed è grazie proprio a lui che l’ex pilota di Hurricane scrive e pubblica Shot Down Over LibyaAbbattuto in Libia, cui seguirà, nel 1946, Over to you: Ten stories of flyers and flying, una raccolta dei suoi primissimi racconti, ispirate alla sua esperienza di guerra, che segnano l’inizio della sua brillante carriera di scrittore di libri per l’infanzia: James e la pesca gigante, Gli Sporcelli, Il GGG, Matilde, La fabbrica di cioccolato, quest’ultimo divenne anche un grande film di successo e tanti altri. Ma Boy trova anche il tempo per scrivere sceneggiature, come, per esempio, quelle di Chitty Chitty Bang Bang e Agente 007- Si vive solo due volte.  

Roald Dahl si dedica alla scrittura con lo stesso impegno e dedizione che aveva profuso per ottenere il brevetto di pilota, ed è molto severo verso sé stesso e critico verso quello che scrive, fino a rivedere un suo testo anche 150 volte. Prima di vergare anche una sola parola, seduto al tavolo rinchiuso nel suo nido, una casetta di legno zeppa di oggetti e ninnoli, segue un preciso rituale, finché si butta a capofitto sulle pagine bianche scrivendo, in modo disciplinato, però non più di due ore. Ma il lavoro più impegnativo per lui è la riscrittura del testo che deve essere fatta “a freddo”, per lasciare che le parole e le frasi trovino il loro posto esatto all’interno della trama, sedimentandosi e imprimendo la loro indelebile impronta sulla carta.

Ormai anziano e malato, dopo aver divorziato dalla prima moglie Patricia Neal, colpita da un ictus, aver perduto due figlie, Olivia di soli sette anni, e con il loro fratello Theo affetto da idrocefalia, Roald Dahl, in un’intervista a un giornale inglese si scaglia contro Israele e gli ebrei, accusandoli:

“di  mancanza di generosità verso i non ebrei. Voglio dire che c’è sempre un motivo se un sentimento contro qualcosa spunta ovunque”

e, ancor più grave, rilascia, sempre in quell’occasione, una dichiarazione che suona quanto meno fuori luogo:

“Anche una carogna come Hitler non se l’è presa con loro senza alcun motivo”.

Ancora una bellissima immagine che ritrae un Gloster Gladiatore e un Sea Hurricane in volo in formazione. Sembra quasi che il biplano ceda idealmente il testimone al moderno monoplano come peraltro storicamente avvenne. La presente nota biografica, a cura di Massimo Conti, è una gradita quanto inedita anticipazione dell’immane lavoro che sta svolgendo in termini giornalistici: 50 biografie dedicate agli scrittori-aviatori di tutte le nazionalità e di tutti i tempi. Lodevole iniziativa! Auguriamo a Massimo di concludere al più presto la sua opera, certi che divoreremo il suo volume per darvene conto in una doverosa recensione. Buon lavoro, Massimo! (foto proveniente da www.flickr.com)

Ciò sorprende in un uno come lui che si è sempre circondato d’intellettuali di origine ebraica, come Amelia Foster, direttrice del Roald Dahl Museum and Story Centre a Great Missenden.

Ed è proprio nel cimitero del piccolo villaggio nella contea del Buckinghamshire, a un’ora e mezza di strada a nord di Londra, che lo scrittore pilota inglese è sepolto, dal 1990, nell’amata Inghilterra tanto stimata dai suoi adorati genitori norvegesi.

Trent’anni dopo la sua morte, la famiglia di Dahl si è dovuta scusare pubblicamente per le esternazioni fatte a suo tempo da chi da pilota volle diventare uno scrittore.


Testo a cura di Massimo Conti, didascalie della Redazione di VOCI DI HANGAR



Articolo giornalistico / Medio – lungo

Inedito

§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§

# proprietà letteraria riservata #


Massimo Conti

Nachthexen


Una palla infuocata in cielo, era il luglio del Sessantadue.

Tutto era normale.

Lena era abbandonata su di una poltrona di vimini. Il sole bruciava le ante chiuse di una finestra arsa da anni di irradiazione, dietro alla quale lei si riparava durante una inutile ricerca di fresco.

Ovvio, non erano gli Stati Uniti: inutile pretendere un sistema di condizionamento. Un sogno irraggiungibile e impensabile nella calura agreste norditaliana degli Anni Sessanta.

Era uno di quei pomeriggi dove era solita cedere all’ozio, alla ricerca di un barlume di fresco e di una motivazione per il prosieguo della giornata.

Lei poteva: era figlia di possidenti terrieri. Poteva permettersi di oziare nella ricerca di un po’ di refrigerio, all’ombra proiettata dalle persiane arroventate dal sole. Un minimo sollievo le era concesso dalla sensazione di frescura dovuta alle folate di aria calda, capaci di generare improbabili momenti di ristoro rispetto alla totale immobilità aerea.

Lena rimpiangeva l’alba, quando la nascente rugiada si mischia ai rimasugli del fresco notturno e quest’ultimo si riversa poi nelle lande bruciate da un sole implacabile; palliativo poco utile a mitigare la calura giornaliera di un’estate che si preannuncia rovente.

Combatteva a modo suo la sua guerra con il caldo: una vestaglietta era la sua uniforme, leggera e bianca a celare una sottoveste nera appena visibile.

Tutto ciò racchiudeva una chiara lotta tra pudore adolescenziale e conformità contro la seduzione sognata e percepita di una ragazzina. Una lotta coi canoni della società, ancor prima che col caldo di quella giornata. Il ricordo andava ai Clark Gable e i Roger Moore visti al cinema.

Pensieri che scorrevano al ritmo del lento sorseggiare di una bibita fresca attraverso una cannuccia stretta tra le labbra, sottili acerbe e senza rossetto a indicarne la reale età di Lena. Il ricordo di Audrey Hepburn in quel film: Colazione da Tiffany, altra eroina del grande schermo che alimentava i suoi ideali di seduzione. Le sembrava così sensuale e adulto quel bere sbarazzino e seducente da una cannuccia, quasi la promessa di un avvenire nuovo ed elettrizzante, come nella Lolita di Kubrik.

Era evidente la freschezza di una maturità non ancora raggiunta, immaginata più che vista, attraverso gli ideali del grande schermo. Una sorta di emulazione del mondo dei grandi, quel periodo carico di sogni e aspettative che è una fase di passaggio verso la maggior età. Un tempo di confusione, dove tanti ideali si mischiano tra di loro e il risultato non è così certo.

Ciò che Lena non voleva vedere né accettare era il suo destino già scritto. Cruccio di un’adolescenza non ancora proiettata verso un futuro troppo stretto.

Negli anni Sessanta del profondo Nord Italia, lei era pervasa da quel desiderio di emanciparsi più che ovvio per una sedicenne con la vita già scritta: diploma, marito, figli, Messa alla domenica e una sorta di rispettabilità sociale.

Nessuna emozione, nessuno scossone. Un futuro già scritto per lei in cui non avrebbe trovato posto la ragazzina con quel rivolo di sudore che le scende dai capelli, con in sé il gioco e il desiderio della donna che ha il destino nelle proprie mani e i sogni di avventura in giro per il mondo.

I progetti troppo statici che non facevano per lei: il sogno di avventure di altri tempi la perseguitava. Voleva scrivere il suo nome nella storia del mondo e con la sua mente si perdeva in avventure e gesta di donne del passato, che avevano avuto la motivazione e il coraggio di farlo.

Un altro pensiero le frullava nella testa: quello di donne vere e rudi, come Hanna Reitsch e Marina Mikhailovna Raskova. Un tipo diverso di donna, sicuramente non la esile e ingenua casalinga americana, ma le rudi combattenti di 20 anni prima.

La diatriba tra i due tipi di donna si stagliava anche sul suo futuro: queste erano vere guerriere, non ingenue casalinghe. Un dualismo tra neo-amazzoni verso la figura riverente e sottomessa della donna di casa.

Da una parte merletti e ciglia curate, dall’altra giubbotti di pelle e occhialoni sporchi d’olio di chi va in aria a rischiare la vita.

“Le donne non volano, stanno a casa a cucinare!”

Immaginava sarebbe stata questa l’accoglienza alle sue idee di gloria da parte dei genitori. Era più auspicabile Il modello casalinga del midwest, con tutta la rispettabile tranquillità che sognavano per lei.

Ma forse quella noiosa, rispettabile tranquillità non era quello che Lena voleva per sé stessa.

Le donne avevano lasciato un segno nella storia, rompendo le convenzioni. E le donne nell’aviazione si ricordavano poco, ma erano state così incisive… Fondamentali, vien da dire.

Sognava le gesta delle Nachthexen, come venivano chiamate dai loro nemici tedeschi. Le Streghe della Notte, sue eroine fin dalla tenera età. Era venuta recentemente in possesso di un albo che ne narrava le gesta e quindi fantasticava di far parte di un terzetto di biplani Policarpov, arrivare di notte e colpire i tedeschi invasori. Avventure eroiche create dalla sua mente di adolescente per estraniarsi ai doveri che da lì a poco le sarebbero stati richiesti.

Lena si impossessava pian piano di questo sogno ad occhi aperti: gesta eroiche e record di volo, la spregiudicatezza di chi vuole scrivere il proprio nome nella storia e lasciare un ricordo di sé.

Tutto questo turbinio di decisioni e sogni si sviluppava dietro a una persiana, al primo piano di una casa colonica di architettura post bellica, con attigua un’aia cementificata e bruciata dal sole di un pomeriggio di luglio.

Ma nei suoi sogni ad occhi aperti lei era nelle pianure russe.

 “Irina, è la tua prima missione, stai tranquilla e non strafare. D’accordo che non sei una novellina e vieni da un’altra unità, ma un morto non ci serve.”

Mi dice così Polina, mentre siamo sedute nel campo di volo accanto al fuoco acceso, l’unico rimedio per combattere l’umidità e il buio incombente di un crepuscolo estivo.

Ci troviamo vicino al Dnepr ed è risaputo: l’acqua genera quella frescura, che diventa via via più densa, ad annunciare l’arrivo della notte.

Io, Irina, la tenera ragazza e la temibile pilota strega. Quanti campi distrutti, per non parlare dei “Fritz” uccisi. La mia mutazione è stata così rapida…

L’aria fresca porta gli ultimi momenti di tranquillità prima della consueta azione notturna. Come sempre, le Streghe arrivano di notte. Magari lo sanno anche i camerati tedeschi qui ad invaderci e che ci apprestiamo a visitare.

Polina è diversa da me. Maschile, rude e sicura di sé. Il prototipo della “donna nuova”: schietta e decisa, così è il nostro comandante. Provo un senso di ammirazione e una flebile e inconscia attrazione verso la sua persona. Se fosse un uomo parlerei di desiderio. Ricorda un ragazzo che avevo conosciuto e che mi era piaciuto. Tutto questo prima della guerra.

“Può darsi che ci guadagneremo un altro Ordine dell’Armata Rossa!” Sbotta Polina; per lei esistono solo il bombardare e distruggere l’invasore.

I miei dubbi si fanno sentire, perplessità di una giovane ragazza che bilancia la sua nuova vita con la vecchia. Ricordi di un passato ormai lontano.

È la prima uscita di guerra con quel nuovo reggimento e non sarà una passeggiata, ma le ragazze si sono dimostrate subito buone compagne e piloti di qualità. Non fanno rimpiangere le colleghe di sempre.

Le Streghe si muovono all’unisono, non importa a quale reggimento appartengano. Buio, incertezza, spari della contraerea. Due di noi a fare da bersaglio ai loro colpi, distrarli per sgombrare il campo. La terza a colpire le camerate tedesche con le FAB.

Non sono preoccupata: confido nelle donne al mio fianco. Di lì a poco sarà solo oscurità e fiducia. Il conflitto generato dalla mia ambivalente, figura: quella di esile e dolce vergine, calata nel ruolo di amazzone assassina e senza pietà.

È difficile stabilire cosa resti del passato e cosa sboccerà nel mio futuro: quale strada prenderò. La dacia sul Volga, l’essere una casalinga e una buona madre. Tutti sogni di un passato che non trovano posto nella crudeltà di questa guerra. Sembra che la tenera me stessa sia sparita, per lasciare il posto alla disillusa aviatrice. Ma il ricordo della “dolce ragazza” resta come un barlume di attaccamento a un tempo che ormai sta scomparendo.

“Le Streghe della Notte non volano per piacere, ma per uccidere o per essere uccise”.

Lo sappiamo bene: questo è il nostro presente; questo è l’ingiusto baratto col nostro passato.

Tra piloti, anche di opposte fazioni, c’è una sorta di filosofia cavalleresca e rispetto. La stessa però non si trova tra i serventi della contraerea nei confronti degli uomini volanti. Ogni storia ha due figure a incarnare il bene e il male: ma in questo caso sono io, una Strega, a portare il peso di entrambe.

Anche stanotte non sarà un duello alla pari, ma quello di un cavaliere contro un gruppo di arcieri.

Ma non è il tempo della filosofia e dell’etica: addosso non ci sono né armature né armi da taglio, ma solo la spessa pelle dei giubbotti e dei calzoni da volo.

“Pronta Irina?” Chiede Polina, già proiettata all’azione.

Rispondo con un cenno affermativo.

Ci avviciniamo agli aerei a bordo pista. La formazione è composta da me, Polina e Nina. Io e il capo abbiamo il compito di distrarre la contraerea, in pratica saremo a tiro. Saremo noi i bersagli, mentre Nina colpirà con le FAB 100, le fugasnyye aviabomby, bombe aeree ad alto potenziale esplosivo.

I nostri Po-2, tre vecchi biplani Policarpov, ci attendono. Le Streghe della Notte agiscono in formazione da tre aerei: silenziose, lente e letali.

In cuor mio spero che questa guerra abbia fine rapidamente: sono stanca di morte e distruzione. Voglio credere al miraggio di una vita più ordinaria: un matrimonio, dei figli e un lavoro. Sicuramente un’esistenza pregna di monotonia, meno pericolosa del bombardare i campi tedeschi; una vita meno appagante, ma più sicura. Un sogno di normalità a cui mi aggrappo per tollerare la brutalità di questa guerra.

Il discorso è ben presente nella mia testa: pagare la sicurezza con la moneta della monotonia; la mitezza e la tranquillità con noia e banale sussistenza.

La vita pericolosa ed incerta da belligerante non durerà per sempre: una scelta andrà fatta, ma l’esperienza militare sembra irreversibile, non sono sicura di poter tornare l’ingenua ragazza vissuta fino a prima della guerra.

La mia famiglia ora è composta dalle Streghe: quel gruppo di aviatrici che vivono con me, che condividono morte e vita, freddo e paura. Tutto in comune: pasti frugali, il pericolo dell’azione, la ferocia e quella costante presenza di morte. Per loro farei di tutto, anche uccidere… se questa non fosse la prassi.

La cosa più sensata sarebbe stata il restare l’adolescente senza pensieri, ma il richiamo della Patria e la prospettiva di una vita avventurosa sono state irresistibili.  È stata una scelta onerosa, ma il compito da svolgere è ben presente: tre donne, nell’ombra, che si apprestano a passare il Dnepr ed a scaricare un po’ di morte sull’invasore. Tre Streghe moderne.

Era questa la fantasia ad occhi aperti di Lena: pensieri di chi in fondo ignorava la brutalità della guerra ma sapeva che in futuro questi sogni di gloria sarebbero morti. Si rese conto all’improvviso che anche per le sue eroine gli argomenti ricorrenti erano gli stessi di lei: stabilità e sicurezza contro incertezza e soddisfazione.

Il sortilegio è pronto.

Un cenno di intesa e poi nessuna comunicazione da parte di Polina fino al ritorno dalla missione: un biplano aperto non facilita le comunicazioni radio né il buio semplifica le cose, rendendo poco visibili i gesti della capo formazione.

Sole coi nostri pensieri e le nostre paure. Questa è l’anteprima alla concitazione del bombardamento. L’addestramento ci porta a effettuare i controlli pre-decollo in modo automatico, senza dubbi.

Infilata nella carlinga, legata a un salvifico paracadute, stretta dalle cinture effettuo un ulteriore breve controllo: motore acceso, giri costanti, prova magneti, temperature dell’olio. Strumentazione visibile grazie alla flebile luce di bordo che presto sarà spenta: non vogliamo certo farci individuare dai Fritz.

Tutto a posto: un cenno di conferma alla capo formazione. Lei è il nostro mentore, noi seguiremo e replicheremo le sue manovre. Sempre a una decina di metri dall’ala di Polina: le sue decisioni saranno legge per il tempo dell’attacco. Questa la filosofia del volo in formazione.

Un continuo controllo di posizione e strumenti. Altimetro regolato, anemometro a zero, giri regolari e temperatura dei cilindri corretta. Luce spenta. Allineate alla pista, pronte al decollo e via per aria.

La consueta ora di volo: ecco cosa ci aspetta prima di agire. Un’ora passata con i propri pensieri e i propri demoni interiori. Questo non può accadere in un frenetico attacco: lo spirito di sopravvivenza annulla ogni pensiero, ogni riflessione. A volte il viaggio è più doloroso e sconvolgente dello scontro diretto, ma è il prezzo da pagare alla congrega delle Streghe.

Si fa lontano il tempo di merletti, dei chioschi di dolci, del civettare e conoscere gente nuova. Sbiadito è il ricordo del ragazzo coi baffetti che mi piaceva: chissà dove è adesso; magari a combattere nel fango per la gloriosa Unione Sovietica.

Sono lontani i tempi in cui esisteva una ragazza giovane e spensierata, dove il problema più grosso era il colore dello smalto. Quella ragazza è il passato.

Non esiste più quel tempo, ma è un ricordo a cui restare ancorata nel buio della pianura russa, un ricordo che mi aiuta a tollerare l’angelo della morte che sono diventa in questa guerra.

Lena si chiedeva se avrebbe mai avuto il coraggio di farlo. Lasciare tutto per combattere su di un vecchio biplano?

Ammirava quelle donne, la loro sagacia e il loro coraggio nel fare qualcosa di più grande di loro. Non per abnegazione o senso del dovere, ma per un ideale; per la fede in qualcosa di più importante della loro stessa vita.

Era tutto così romantico, così accattivante. Le ricordava la figura dei patrioti ottocenteschi studiati a scuola e letti per diletto: Mazzini, Micca, Pellico e tante altre figure magari minori ma non meno importanti.

Occhialoni e olio in faccia. Questo è quanto offre la Russia alle proprie combattenti; altro che cipria e vestiti alla moda! Certo quella dell’aviazione è una vita migliore di quella della fanteria: anzi, si combatte proprio per i compagni laggiù. Tutte hanno un marito, un fratello o un amante nel fango.

Una luce in lontananza mi distoglie dai pensieri e richiama al presente, il ritorno alla realtà è repentino: un campo avanzato della Wehrmacht. Un tremito al cuore, il sangue che fluisce alla testa e quel fresco, quella sensazione di onnipotenza.

Tutti gli strumenti a posto, nessuna luce accesa e visibile. La sagoma della capo formazione ci indica col pollice di scendere e colpire. Si preannuncia un’azione magica.

Chissà se saremmo amiche in un contesto non bellico. Una domanda innocua, forse, ma necessaria a spezzare la tensione. Così rude e schietta, fatico a immaginare Polina in un abito primaverile a passeggio mano nella mano di un giovane funzionario. Nella sua rude mascolinità, lei mi ricorda di quell’amico che mi piaceva: anche lui brusco e dinamico nel compiere il suo dovere.

Il passato mi segue anche qua. Anche se ho messo migliaia di chilometri tra me e quel mondo ormai lontano, chiuso. Se sopravviveremo, ci spetta il dovere di costruire un avvenire nuovo, a misura delle persone che conosciamo e a cui dobbiamo qualcosa. Questo sarà il nostro compito dopo la guerra.

Penso a Marija, la mia amica di San Pietroburgo. All’assedio che là infuria ed al suo sogno di maternità. Mi diceva che uno dei suoi figli si chiamerà Vladimir.

Ma penso anche a quei poveri ragazzi tedeschi: avranno qualcuno che li aspetta a casa. Ma sono nemici, ci hanno attaccato. Mi spiace per Fritz, non rivedrà la sua Helga. Le Streghe stanno arrivando.

Il pollice di Polina continua a indicare il basso, il da farsi era semplice: io e lei distrarremo la contraerea con la danza dei nostri aerei, mentre Nina colpirà con le sue bombe da 100 kg.

La discesa è vorticosa, costellata dai colpi delle mitragliatrici che ci grandinano addosso. I traccianti brillano come gemme, e mi ricordano quelle di una collana ereditata da ragazzina

Quei maledetti non stanno usando gli 88, sembrano piuttosto 20 mm. Lo deduco dalla velocità e dalla densità delle raffiche. La conferma arriva dalla poca illuminazione che rende ben visibili i traccianti. Gli 88 infatti sono cortesia riservata ai bombardieri d’alta quota.

Un’accoglienza per nulla galante per delle ragazze che vengono a far visita. Tre giovani donzelle appaiono all’improvviso e l’accoglienza è a suon di proiettili. Che gente questi tedeschi!

Polina e io richiamiamo con successo l’attenzione della contraerea, mentre le bombe di Nina creano l’inferno nelle camerate teutoniche.

L’azione è completata con successo, e questo ci rende fiere di lei e del nostro lavoro.

Nina, la nostra consorella più giovane, quella con meno esperienza, ha fatto un lavoro perfetto. Penso a lei e provo un sofferto senso di ambivalenza: da un lato protezione, a ricordo di un passato che non c’è più e a cui però istintivamente noi tutte tendiamo; dall’altro disillusione perché un giorno anche lei diventerà cinica come noi. Che peccato.

Ma…Polina!

Che succede? Non capisco.

Aumento di quota per guadagnare luminosità: devo individuare il problema.

Una raffica di AA le ha staccato un pezzo d’ala sinistra e forse colpito il motore, a stento riesce ad allontanarsi. Deve metterlo giù in sicurezza, ora. Non ha tempo. Ovunque, ma lontano da quel campo bombardato e dal fronte.  Il problema è l’oscurità: un covone, un fosso sono sempre in agguato.

Polina arranca, seguita da noi due con gli aerei fortunatamente in salute. Non segnala ferite o bisogno di un aiuto immediato, solo mi spaventa quel fumo nerastro che esce dal motore. Ha tutta l’idea di essere olio.

Passati dieci minuti, quindi circa venti km dal fronte: un cedimento all’aereo di Polina, fumo consistente dal motore, ce la farà il suo aereo a portarla a terra sana e salva?

È la speranza di tutte noi. Lei è una nostra sorella, la nostra capo formazione, e ad unirci è la danza notturna delle Streghe.

La prua del suo aereo punta finalmente verso uno di quei campi sterminati, tipici della pianura Russa occidentale, ai quali non mi abituerò mai. Non credo abbia molto tempo per decidere cosa fare.

Dalla nostra posizione in alto nel cielo, la luce del sole nascente è flebile, appena sufficiente a rischiarare l’ambiente, ma ancora nulla al suolo.

La decisione di Polina è per quel campo, ma prima di atterrare ci fa segno di sloggiare: ora per lei metterlo giù è una nuova battaglia, e due sono un po’ troppe per una sola notte di guerra. Purtroppo non possiamo aiutarla, quel combattimento è solo suo. A me e a Nina non resta che seguire gli ordini e puntare verso il nostro aerodromo.

Ma non si lascia indietro nessuno, specie le amiche. Questo è il pensiero della nuova Irina, non della ragazzina di anni fa.

Una virata di 180° e via verso quel campo immenso, alla ricerca di Polina. Questa è la mia scelta: forse illogica, non da militare, ma quella che sento più giusta.

Anche Nina mi segue. Deve aver intuito la cosa, una sorta di comunicazione telepatica tra me e lei: ci chiamano Streghe per qualcosa. Nina ha tutta la mia stima: benché abbia poca esperienza, è pronta a giocarsi la vita con noi.

Raggiunto il campo, le luci dell’aereo di Polina sono fioche ma visibili, accese per rendersi individuabile dagli alleati. Un breve circuito e il finale. Non si vede niente: atterrare a una certa velocità nel buio più assoluto è da folli, specie con un aereo integro ed efficiente e poi in un campo non preparato.

Anche nella Russia atea, in cuor mio la preghiera è verso quel Dio così lontano e osteggiato dai nostri governanti. Un Dio che fortunatamente vede di buon occhio i piloti; l’atterraggio avviene a regola d’arte: nessun ribaltamento, nessun danno apparente. Anche per Nina tutto bene.

Scendiamo e ci precipitiamo a raggiungere Polina.

“Ma siete pazze, vi avevo fatto segno di rientrare!”, ci grida lei.

Proprio un’accoglienza riconoscente, degna della sua ben nota mansuetudine. Mi piace questo suo aspetto. “Non si lasciano indietro le amiche, proprio no.” Le rispondo di rimando. È tutta intera, nervosa come sempre. “Stai bene?”

“Tutto a posto. Sono stata colpita: non erano le solite 20 mm. Ci ho rimesso un pezzo d’ala, ma devono aver preso anche il motore perché i giri hanno iniziato a diminuire all’improvviso. Alla fine l’aereo faceva un po’ di bizze: la soluzione più ovvia era metterlo giù in un campo, non ci arrivavo in aerodromo.”

Tiro fiato. La spiegazione ci calma, ma lo sguardo di Polina mi fa capire che sta per arrivare anche la ramanzina.

“Ma voi perché siete venute qua? Vi avevo ordinato di rientrare! Avete messo a repentaglio la vostra vita di aviatrici e i mezzi della gloriosa VVS!”

L’unica risposta che mi viene in mente è: “Vero, tutto vero, ma dimentichi una cosa. Non si abbandona un’amica e la nostra amicizia si vede perché abbiamo rischiato la vita per te. Io e la povera Nina, che sta in silenzio perché scossa oltre misura: è inesperta e tu lo sai, poteva rientrare, ma ha preferito giocarsi la vita per te.”

Polina non aggiunge altro e ci abbraccia: “Streghe per sempre…”

In lontananza, sentiamo le voci della nostra fanteria, mandata a vedere cosa è successo. Sicuramente vengono da un campo avanzato.

“Ci recupereranno, ma ci aspetteranno 200km di camion… Che sulle strade russe non sono così agevoli.” Detto da chi ha appena rischiato un paio di volte la morte. La solita visione positiva di Polina, che poi però puntualizza: “Però è bello rivedervi!”

Nel caldo di luglio, nella Pianura Padana, Lena sognava questo. Un mondo di eroismi, di azioni memorabili, la messa a repentaglio della propria vita per la Patria. Sognava di essere nell’abitacolo di quel biplano, sentiva cloche e manetta nelle sue mani. In Italia, negli anni Sessanta le donne non avevano accesso alla carriera in aeronautica militare, ma potevano formarsi a livello sportivo. Dare lustro e orgoglio al proprio Paese.

Sì, quello sarebbe stato il suo destino.

La prima missione? Convincere i genitori.

Giusto parlarne subito, ma con la coda dell’occhio vide per un attimo tre giovani aviatrici che la guardavano compiaciute.


Nota dell’autore:

Esistono due versioni che vogliono le “nachthexen” in equipaggi da 1 o 2 persone, con differenti modalità di attacco. Non essendo le due versioni concordanti e il racconto di fantasia, l’autore ha scelto quella di equipaggi singoli.



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Diego Mascherpa

Nonno canarino


Lassù gli uccellini volano liberi, spensierati e… uniti.

Quaggiù, invece, c’è mio nonno che ha volato tanto.

Io ho un nonno che faceva l’ingegnere aeronautico e costruiva aerei. Quando me ne parla, chiudo gli occhi e mi sembra di essere lassù, nel cielo azzurro, a volare su un aereo giallo, come Canarino, l’aereo della coraggiosissima Amelia Earhart, che è stata la prima donna aviatrice.

Lui ora non può più volare, perché è molto anziano, però fa volare me con i suoi racconti. Io, per ringraziarlo, gli faccio tanti disegni di aerei e lui li conserva tutti. Ha anche alcuni modellini e tante foto degli aeroplani che ha costruito o revisionato durante la sua carriera, come il BR1150 Atlantic, il G222, l’ATR42, l’ATR72, l’F104, il G91 e tanti altri.

Il nonno è stato davvero un po’ un uccellino: anche se prima era un ingegnere, in vista della pensione ha preso il volo. Quando è andato all’Accademia Aeronautica di Pozzuoli è diventato G.A.R.I. (Genio Aeronautico Ruolo Ingegnere). Pilota lo è diventato solo più tardi.

Lo ha desiderato tantissimo, il suo sogno si è avverato e ha messo le ali.

A me piace volare e sono già andata su qualche aereo, ma mai insieme al nonno.

Avrei tanto voluto fare una volatina con lui, e lui mi fa volare… con la fantasia.

«Nonno, raccontami di quando volavi con gli aerei!» gli dico spesso. E lui, paziente, racconta.

Il primo volo mio nonno l’ha fatto con un famoso collaudatore di volo, il Capitano Peracchi. Il nonno era emozionato, perché era il suo primo volo. Il collaudatore gli aveva spiegato cosa si doveva fare in volo e gli aveva affidato il compito di tenere le comunicazioni con la radio. Ad un certo punto il collaudatore iniziò una tirata a sessanta gradi e gli chiese di comunicare alla radio. Quando mio nonno cercò di premere il bottone per parlare, si accorse che doveva fare uno sforzo per muovere la mano e in quel momento capì che cosa era effettivamente l’accelerazione di gravità, anche se in teoria l’aveva ampiamente studiata all’università. E, anche se sapeva cosa succedeva in volo, si emozionò tantissimo.

Ma questa fu soltanto la prima delle sue avventure…

Dopo che il nonno prese il brevetto di volo, fece molti altri voli, e tra questi mi ha raccontato di quando fece per la prima volta la manovra che si chiama “la vite”. È decollato, è salito a duemilacinquecento metri, ha ridotto pian piano la velocità fino a quando l’aereo non si reggeva più in volo orizzontale. Allora il nonno mosse col piede il timone di direzione tutto da una parte e il velivolo iniziò ad avvitarsi su sé stesso, puntando il muso verso il terreno che si vedeva avvicinare velocemente. Dopo tre giri, il nonno azionò il timone di direzione in senso contrario alla rotazione, che si fermò, e il velivolo ritornò a volare orizzontalmente. Alla fine il nonno, che si era sentito lo stomaco risalire in gola, contento che la manovra fosse andata bene, portò l’aeroplano ad atterrare e tutto si concluse felicemente. L’aereo si chiamava CAP 10 ed era giallo e rosso. E io penso a Canarino, che però era un biplano tutto giallo.

Anche il mio bisnonno paterno era un aviatore e pilotava i biplani. Volava in Cina, negli anni Trenta del secolo scorso, su aerei con la carlinga aperta e ciò gli procurò l’asma da fieno, malattia tipica dei piloti di questo tipo di aeroplani.

Mio zio, il fratello di mia mamma, è pure lui un ingegnere aeronautico e un ufficiale dell’Aeronautica, come suo papà, mio nonno.

Mia mamma, invece, è un’archeologa e non pilota gli aerei, però ha volato anche lei con mio nonno su un P-68, per scattare delle foto aeree ai siti archeologici per la sua tesi di laurea. E alla fine l’istruttore di volo che li accompagnava le ha fatto eseguire la manovra di atterraggio assieme a lui.

Anche io vorrei imparare a volare, ma ci proverò da grande perché ora ho solo dieci anni. Farò la naturalista e userò gli aerei per i miei documentari dall’alto. Non sarò aviatrice per lavoro, ma volerò lo stesso.

Perché il volo non è solo un lavoro ma libertà, secondo me, e la libertà unisce tutti.

Il volo unisce, basta pensare all’associazione aeronautica delle “Novantanove”, la prima unione di donne pilota in un tempo in cui le donne non erano considerate tanto brave quanto gli uomini in molte cose, come pilotare un aereo. Il volo le ha rese uguali agli uomini.

Il volo unisce me, la mamma, lo zio, il nonno, il bisnonno, Amelia Earhart e uomini e donne di tutti i tempi, di tutte le generazioni e di tutti i luoghi. Tutti abbiamo le ali, basta saperle aprire. Come se fossimo tutti una grande famiglia e noi tutti fratelli e sorelle.

Quanti uccellini ci sono nella mia vita!



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Nota della Redazione: in copertina un North American T6 Texan che, con una livrea completamente gialla, fu soprannominato dagli allievi piloti militari italiani: “Giallone”. Assieme al famosissimo Piper J3 pure tutto di colore giallo (ma con il fulmine nero, che ne attraversa la fusoliera)  sono gli equivalenti moderni del biplano Kinner Airster  “Canary” (canarino, appunto) della trasvolatrice statunitense  Amelia Earhart.


Casilda CHIARA Cevoli

Il sogno di Alice


Al risveglio o poco dopo, vieni accolto dal Sole e spinto di nuovo in alto, galleggi fluttuante nell’aria e poi … eccomi qua; sono Alice e ho deciso di raccontarvi la mia storia … naturalmente … sono una goccia!!!!

Abito a Pioggiandìa, un piccolo paese tra le nuvole di Catinelle e quelle di Rovesci, dove frequento l’istituto Tito Dritto, una scuola di volo nel vuoto per giovani gocce.

La mia vita era un circolo “noioso”: andavo a scuola, volavo a casa, giocavo con gli amici … le solite cose che accadono tutti i giorni in tutte famiglie di gocce del mondo. Fortuna che, una volta l’anno, c’è un giorno molto speciale che tutte noi gocce aspettiamo: il cielo diventa plumbeo, le nuvole si gonfiano e noi gocce veniamo lanciate giù in picchiata a vedere posti del mondo in cui non siamo mai state prima!

E’ il Giorno della Caduta, così lo chiamiamo, e può diventare il momento più bello della vita di una goccia perché in quel giorno i nostri sogni nel cassetto, con un po’ di fortuna, possono realizzarsi.

Una mattina arrivò a scuola a bordo di una foglia rossa scintillante la nuova maestra, la Signora Margherita, e chiese a tutte noi gocce quale fosse il nostro sogno e dove saremmo volute atterrare. La mia amica Cielcilia fu la prima ad alzare la mano e rispose: “Nel mare o nell’Oceano, maestra!”.

Poi toccò a Diego che disse che gli sarebbe piaciuto cadere sul tergicristallo di un aereo … Diego è così pigro che, se potesse, prenderebbe un aereo anche per andare dal banco alla cattedra. Arrivò il mio turno e alzandomi in piedi a gran voce dissi: “Vorrei volare nell’Arcobalenooooo!!!”.

Tutti si misero a ridere e a commentare: “Impossibile!”, “Non succederà mai”.

Decisi di ignorarli e finita la scuola cominciai ad andare ogni giorno alla pista dove si allenavano le Nuvole, per provare a convincerle a sganciarmi  sull’ Arcobaleno. Il primo giorno… un disastro totale: la Grande Nuvola mi urlò: “ Vattene, tu sei minorenne”.

Il secondo giorno l’istruttore Medina, il Vice Grande Nuvola, mi disse:“ Tuuuuuuu?!? Mi spiace, sei cicciottella, non hai il fisico per l’Arcobaleno”.

Tornai a casa ma ci riprovai il giorno seguente e quello dopo e dopo ancora …

Passarono gli anni e non avevo ancora raggiunto il mio sogno, ero molto scoraggiata ma non volevo mollare. Avevo già affrontato tre Cadute ed erano andate malino: ero atterrata in una pozzanghera, dentro l’occhio di un signore che stava guardando il cielo e l’ultima volta sopra il tetto di un auto appena lavata, assieme a Diego. Dell’Arcobaleno ancora nessuna traccia: lo vedevo solo lì, su un poster che avevo appeso nella mia cameretta.

Era l’estate del 2016 e mentre passeggiavo assorta nei miei pensieri, udii dietro ad un cespuglio uno strano rumore. Molto timorosa mi avvicinai ma non riuscivo a capire cosa fosse finché iniziarono a delinearsi i suoi tratti … era una stella. Le chiesi perché stava piangendo e cosa le fosse successo.

“Qui non ho nessuna amica e le stelle nel cielo non mi vogliono con loro perché sono troppo poco luminosa” mi rispose.

“Non è vero sei bellissima!!” esclamai e le chiesi di diventare mia amica.

Nei giorni seguenti diventammo inseparabili: si trasferì a casa mia e diventò la mia amica del cuore!

Ogni giorno che passava Stella diventava più luminosa e una sera mi prese le mani e disse:  “Grazie Alice ti voglio molto bene. Mi hai fatto capire che nel cielo siamo in tanti e diversi, che ognuno è unico e speciale, con i propri difetti e pregi. Tu hai creduto in me come nessun altro aveva fatto. Devo ritornare da dove sono venuta, sento che devo ancora compiere qualcosa di importante per qualcuno di speciale”.

Non riuscivo a capire molto per le emozioni che provavo in quel momento e con le gocce agli occhi la lasciai andare, sicura che un giorno ci saremmo ritrovate.

Finalmente anche il Giorno della Caduta 2016 era alle porte; la mia amicizia con Stella non mi ci aveva fatto pensare per un po’. Come tutte le sere dal balcone della finestra espressi il mio desiderio di diventare parte dell’Arcobaleno ma quella sera successe una cosa strana … Stella, era proprio lei, la riconobbi … era quella più luminosa di tutto il firmamento … era lei, non ci credevo … man mano che la guardavo capivo … tutti i tasselli iniziarono a comporsi come in un grande puzzle!

Ora capivo perché era dietro un cespuglio, perché era poco luminosa, perché doveva tornare indietro: lei era una stella cadente!!

Lei aveva scelto me e per ringraziarmi decise di aiutarmi.

Che altro dire? … secondo voi come sarà andata a finire? Il giorno dopo ero la più bella goccia rossa del più luminoso arcobaleno.



§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§

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Emma Lucietto