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Ritorno dall’Islanda

Si passò una mano sul viso, lo sentì bagnato di sudore e l’asciugò meccanicamente con la manica della camicia. Faceva caldo, un caldo insolito, perché il giardino era sempre fresco, anche d’estate. Qualche goccia gli scivolò sulla camicia e sul collo, alzò la testa e si accorse che cominciava a piovere. Proprio in quel momento la sua attenzione fu attratta dal rumore di un aereo in atterraggio presso la vicina base aerea dove aveva prestato servizio per tanti anni: era un “AWACS” (Airborne Warning And Control System).

L’inconfondibile rombo dei motori del Boeing 707 lo portò di colpo a quel lontano 1989 quando fu assegnato per un breve periodo in Islanda per svolgere attività operativa presso la base aerea di Keflavik. Carlo – maggiore dell’Aeronautica Militare Italiana assegnato alla Nato – vi trascorse ben quindici giorni tra attività di volo e momenti di diporto che gli consentirono di visitare parte di quella fantastica isola dove tutto è strano e tutto sembra anormale anche ciò che non lo è.

Il giorno prima dell’effettiva attività di volo – otto/nove ore continuative -, preparava il piano di volo e pianificava la missione operativa nei minimi dettagli in stretto coordinamento con tutti i membri dell’equipaggio del velivolo suddiviso in due grosse branche: il “flight crew” ed il “mission crew”.

La prima branca si prendeva cura di portare il velivolo nell’area di orbita e mantenerlo ad una quota costante per tutto il tempo necessario: era costituita da due piloti, un navigatore ed un “flight engineer” (FE) – supervisore di tutta la parte tecnica del velivolo.

La seconda branca, diretta dal Tactical Director (responsabile dell’esecuzione della Missione Operativa) era suddivisa, a sua volta, in tecnici ed operativi che avevano il compito di far funzionare i sistemi radar di bordo e di utilizzarli per l’avvistamento ed il controllo del traffico aereo nell’area di competenza in coordinamento con i siti radar terrestri. L’incarico di Carlo era appunto quello di garantire l’efficace esecuzione della missione operativa.

Nei momenti di riposo tra un volo ed un altro Carlo con il suo collega Miguel – un ufficiale dell’Aeronautica Militare Portoghese – visitò le aree più accessibili dell’Islanda vicino alla loro base aerea. Era il periodo in cui in Italia i fiori vivono la loro stagione migliore, il cielo diventa sempre più azzurro e il mare invita con maggior insistenza i timidi bagnanti a tuffarsi nelle acque calme e calde. In Islanda, invece, la temperatura in maggio è tutt’altro che gradevole. Il più grande parco nazionale dell’Islanda (Skaftafell), sito vicino Reykiavik, presenta un panorama molto simile a una veduta alpina con la terra desolata e sabbiosa, è di una tristezza indescrivibile; di erba neanche a parlarne.

Mentre passeggiavano vedendo alcuni cavalli chiusi in un recinto, Carlo disse a Miguel: “Vedi come sono tutti infreddoliti e con gli occhi pieni di tristezza”.

“E’ vero” rispose Miguel, “sembrano senza vitalità. La loro espressione denota un senso di rassegnazione alla vita in una stalla sapendo che per loro non sarà mai possibile scorrazzare liberi nelle pianure piene di erba verde, fresca e dal profumo inebriante”.

Finito il periodo di rischieramento, iniziò il volo di ritorno verso la base aerea di provenienza: la missione era di solo trasferimento e non operativa, quindi doveva essere semplice e senza alcun problema.

L’imprevisto, però, a volte è in agguato. Stavano sorvolando il tratto di Oceano Atlantico compreso tra l’Islanda e la Gran Bretagna, quando cominciarono ad avvertire un forte odore di bruciato.

Subito i tecnici avviarono i previsti controlli delle apparecchiature radar accese per normale manutenzione. Intanto, Carlo diede l’ordine di indossare la maschera di ossigeno ed effettuò il previsto appello (“roll call”) per verificare che tutto il personale l’avesse indossata.

Completata positivamente tale verifica, il primo pilota (Aircraft Commander – AC) diede l’ordine ai tecnici di spegnere tutti gli apparati non necessari alla navigazione e al FE di avviare la procedura per far defluire l’odore di bruciato aprendo le valvole all’uopo preposte.

Nel giro di pochi minuti tutto ritornò normale e fu dato l’ordine dall’AC di togliere le maschere d’ossigeno essendo rientrata la situazione di emergenza.

Tutto ormai sembrava risolto ed il volo si stava avviando verso una tranquilla soluzione, quando scattò, come un fulmine a ciel sereno, il segnale di emergenza per depressurizzazione del velivolo. Tale situazione, di norma, richiede di indossare la maschera di ossigeno entro quaranta secondi per evitare situazioni di mancanza di ossigeno (anossia).

Carlo avviò, quindi, nuovamente la procedura per affrontare la nuova emergenza: tutti su ossigeno e “roll call” del personale.

“Possibile che il destino ha deciso che questo debba essere il mio ultimo volo”? pensava Carlo.

Tutti si guardavano senza riuscire a trovare la forza di parlare, anzi, lo facevano con gli occhi che mostravano di non essere ancora rassegnati ad una fine prematura.

Presi da tali funesti pensieri, la comunicazione da parte dell’AC di emergenza rientrata fece tirare un sospiro di sollievo a tutti e riportò il naturale colore su quei volti segnati da un pallore improvviso dovuto ad un inconscio senso di paura che, come una spada di Damocle, alberga nella mente di chi ben conosce i rischi derivanti dal proprio lavoro

. Cosa era successo? Il FE, per una mera dimenticanza, aveva lasciato aperte le valvole, utilizzate per far defluire l’odore bruciato della precedente emergenza, oltre il dovuto. Tanto era bastato per far scattare la nuova emergenza.

La pioggia, sempre più insistente, risvegliò Carlo che nel frattempo si era riparato sotto il gazebo godendo il profumo della terra appena bagnata e rallegrandosi alla vista delle gocce d’acqua che dissetavano i petali dei fiori rendendoli più luminosi e più puliti E mentre era ancora assorto nei suoi remoti pensieri, accarezzò con la mano il capo del nipotino più piccolo che stava giocando con un piccolo aereo simulando una situazione d’emergenza.


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Dirigibile
Raffaele Carlino

Odore di kerosene

Era lì, davanti a me, con l’aria di chi volesse interrogarmi. Un metro d’altezza, due grandi occhi neri che sprizzavano furbizia. Una mattina frizzante di fine inverno, il cielo è meraviglioso, poca gente che passeggia nel parco. Sto seduto sulla panchina, il capo chino, fra le mani stringo il basco rosso, ho ancora in dosso la tuta da lancio e le insegne del battaglione avio-trasportato. Il ragazzino tira un bel fiato, si fa coraggio e con voce insicura mi domanda: “Perché piangi?” resta qualche istante in silenzio e poi esclama: “I veri soldati non piangono!” Senza aspettare la mia risposta si gira di scatto e corre via. Dalla collina del parco si domina una bella vista della campagna Toscana, il sole è alto e scalda annunciando l’arrivo della primavera.

Le pale dell’elicottero spingono l’aria violentemente sull’erba della campagna Senese, l’odore di kerosene è forte, piacevole, seduto con il paracadute imbracato, aspetto che arrivi il mio turno d’imbarco sull’elicottero da carico CH47 Chinouk, è il mio quarto lancio, il primo con la Brigata. Sono un ufficiale della Folgore, non posso non essere un duro. Sono qui per provare a me stesso che posso vincere la paura, che posso affrontare la morte a viso aperto, ma il cuore è come un pezzo di burro tolto dal frigo, piano piano s’ammolla. Oggi potrebbe essere il mio ultimo giorno su questo pianeta, i miei ultimi preziosi minuti, eppure non noto nessuna differenza con i giorni precedenti. Oggi potrei morire, potrebbe accadermi quello che prima o poi comunque gusterò. Forse sarà un bel funerale! Importante! Tutti i militari ben inquadrati, un bel discorso solenne del Generale di Brigata, molta emozione. Tutti diranno bene di me, ora che sono morto, diranno che ero un bravo ragazzo, onesto. Si sa che basta morire per possedere tutte le doti. Vent’anni di vita oggi mi sembrano un soffio! Che ne sarà dei miei affanni? … Del mio esibizionismo? … Della mia delusione per non aver conquistato quella ragazza? … Del non aver straguadagnato dei soldi? … Dei progetti sul futuro? Che ne sarà di tutte quelle cose che mi hanno fatto stare male per non averle ottenute? Mi rendo conto che non ho fretta di andarmene, non ha importanza quanti giorni abbia vissuto, oggi è comunque troppo presto. E’ strana la vita! L’apprezzi solo quando sai di poterla perdere. Quando mancano pochi minuti alla fine confronti le tue ansie e quelle del mondo, tutte diventano piccole piccole. Ti rendi conto che il mondo sarebbe migliore se tutte le persone vivessero con la consapevolezza della precarietà dell’esistenza. Ma non c’è tempo per spiegare queste cose, il grande elicottero bipala dolcemente si appoggia sull’erba a pochi metri da noi, le turbine fanno un rumore assordante, tale che a mezzo metro di distanza bisogna urlare per parlarsi. L’aria ha un odore particolare, frizzante, in bocca sento uno strano sapore, deve essere l’adrenalina nel sangue. Sono il primo della fila, primo del primo passaggio, prendo posto sul seggiolino più vicino al portellone, tutti i parà mi sfilano davanti e prendono ognuno il proprio posto, giovani, con espressioni serie, visi silenziosi, facce italiane. Il lancio militare è diverso dagli altri, si effettua a bassa quota, mille e cento piedi, neanche quattrocento metri, in caso di malfunzionamento del paracadute è quasi impossibile aprire l’emergenza, specie ai primi lanci. Si è bardati con zainetto e fucile. Dentro l’elicottero c’è un’atmosfera forte, seria, che trasmette potenza, la potenza che deriva dall’incoscienza di sfidare la morte. La morte. L’avversario più grande e potente dell’uomo! Sfidarla dà la sensazione di essere potenti quanto lei. Ma in fondo, nella realtà, è lei a decidere il come ed il quando. Le turbine aumentano il numero di giri, l’elicottero si alza prima con la parte posteriore e poi con quella anteriore, prende quota, all’interno è impossibile parlare tanto il rumore è forte. Il portellone lascia uno spazio aperto dal quale è possibile vedere le colline del Chianti, il cherosene bruciato rende il panorama come appannato. Mi rendo conto che siamo arrivati alla quota di lancio perché l’elicottero rallenta, si stabilizza, procede a velocità costante. Il direttore di lancio sta in piedi di fronte, mi fa un cenno con la mano facendo capire che dobbiamo alzarci, il portellone lentamente si abbassa, ai lati della carlinga le luci sono rosse, una mia mano regge la fune di vincolo agganciata al cavo di acciaio, l’altra cerca un appiglio sul lato della carlinga. Il direttore di lancio ora è accucciato, tiene stretta la mia tuta da lancio, si balla molto, in cuffia gli viene annunciato che mancano sei secondi al lancio. Mezzo metro dall’uscita, emozioni al massimo, sguardo fisso sulle luci rosse, pochi istanti, poi la luce verde, una pacca sulla coscia, uno scatto nel vuoto. Testa bassa, gambe tese e unite, mani compatte sull’emergenza. Silenzio immediato, totale. Milleuno, milledue, milletre, millequattro, millecinque, sguardo a destra, sguardo a sinistra, dico tutto ok ma vado veloce, troppo veloce. Non capisco perché. Il terrore mi assale, mi pizzica la testa, la velocità aumenta vertiginosamente, non m’importa di alzare lo sguardo per capirne la causa, capisco che devo aprire l’emergenza, ma le mani non rispondono ai comandi del cervello. Il panico è il padrone della situazione. La morte, l’avversario di sempre, sta vincendo la partita. Quindici secondi, tanti ne mancano alla fine. Ultimi attimi per contemplare l’esistenza. Davanti agli occhi come in una realtà parallela il paesaggio sembra fermo a testimoniare della meraviglia della creazione, stridente confronto con la realtà umana piena di odio, di lotte inutili e meschine, ricca di miserabili tristi. La mente è attraversata da pensieri come traccianti di mitra, in un lampo salgono pensieri legati agli amici, alla famiglia. Mi rendo conto che per me è finita, proprio per me è giunto il momento della fine. Certo, fino ad oggi non ero mai morto, era sempre toccato agli altri! Cos’ho fatto di buono sulla terra? Cosa scriveranno sulla mia lapide? Che segno resterà della mia poca acqua versata in terra? Quando il sole l’avrà asciugata chi la ricorderà? Fra poco urterò la terra, un impatto violento, mai vissuto prima, Dio mio aiutami! Ti prego ascoltami! Perdonami se mi ricordo di te solo quando il terrore mi assale! Ora mi schianterò al suolo! Avrò male, molto male! Ma perché proprio a me? Dio mio salvami! Pochi secondi sono passati ma sembrano un’eternità, per chi deve morire anche un secondo vale una vita. Vedo gli alberi ed il prato sempre più vicini e non posso farci niente se non cercare di prendere quella maledetta maniglia dell’emergenza sulla pancia. Finalmente l’afferro, la stringo forte con la mano destra e con tutta la forza che ho la tiro. E’ un lampo, il pilotino con la molla scatta in avanti portandosi dietro il paracadute di emergenza che si gonfia in un attimo. Pochi istanti e sono a terra, sbatto con violenza, ma senza danni. Il fiato è ancora nei polmoni, non credo ai miei occhi, sono ancora vivo.

Grazie Dio! Grazie terra per esistere! Grazie vita per avermi fatto gustare la tua essenza! Grazie morte, avversaria leale! So che un giorno farò la tua conoscenza, ma per ora fretta non ne ho! Ed ancora di nuovo ringrazio Dio perché ora posso guardare in faccia la morte sapendo che la mia esistenza è per sempre con Lui. Avere conosciuto Dio, averlo fatto entrare nella vita di tutti i giorni mi ha reso capace di affrontare questa vita in modo semplice e lineare, con una serenità di fondo che spetta ad un figlio di Dio. La morte è l’arma, è il ricatto più potente, che il nostro avversario, Satana, possiede contro l’uomo. Ma la salvezza di Cristo mi ha permesso di scavalcare questo ostacolo. La consapevolezza che il mio spirito, la mia essenza, io come persona, trascorrerò con Dio tutta l’eternità, la profonda certezza di sapere che Dio mi è costantemente accanto e lo sarà ancor di più nei momenti difficili mi dà una forza ed un senso di beatitudine che nulla al mondo può darmi. Quando mi lanciavo col paracadute non conoscevo ancora Dio e gli sono riconoscente perché si è sempre aperto, permettendomi così di dare una svolta alla mia vita prima che fosse troppo tardi. Ma spesso sono triste perché vivo fra tante persone che ignorano che un giorno il loro paracadute potrebbe non aprirsi, senza perciò aver dato quella svolta alla propria vita, la fede in Cristo, che salva la vita avendo diritto alla vita eterna.

Al Paracadutista Vegro, caduto al lancio a 20 anni e membro del plotone che ho comandato nella 15^ cp 5^ Btg Paracadutista El Alamein della Folgore.


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Giulio Credazzi

La vite piatta

Ero nei guai! Beh … sì … questa volta ero proprio nei guai. L’aliante girava … girava … ma, invece di veder scorrere davanti al muso le case, i campi, le strade tutto ciò che normalmente sta a terra e che normalmente ruota come una giostra, quando si fa una “vite normale”a muso in giù, io vedevo scorrere davanti alla capottina l’orizzonte con i contorni delle montagne come se fossi in una virata stretta ma con l’orizzonte perfettamente “piatto” anziché inclinato e l’aliante non ne voleva sapere di “mettere giù il muso”. Il mio generoso “Libelle Standard” non mi aveva tradito, no! In quella condizione anomala per il volo ce lo avevo messo io di proposito per via … dell’Amintore!!!

Già, l’Amintore e quella mia dannata mania di volerne sapere sempre una pagina più del libro e di soddisfare sempre la mia eterna curiosità. Al bar dell’aeroporto da un po’ di tempo si discorreva con l’Amintore sulla questione di come fa la vite il Libelle, simpatico aliantino in vetroresina, io sostenevo che era normale come descritto nel manuale di volo, cioè con un po’ di pazienza dando tutto piede e cloche al centro, se la distribuzione dei pesi è corretta, si ritrova il giusto assetto di volo. Certo che con un timone di direzione piccolo non si può pretendere che esca dalla vite subito come fa il Blanik che ha un direzionale grande come le orecchie di “Dumbo”. Ma lui, l’Amintore, no! Secondo lui non esce e ci si ammazza!

Beh! Dico…si fa presto a vedere quale è il margine di sicurezza. Basta mettere della zavorra sul tronco di coda per spostare il centro di gravità e si vede se esce dalla vite. Basta che questa zavorra sia realizzata con un sacchetto di sabbia sganciabile, se l’aliante non esce dalla vite ci si libera del sacchetto e … voilà tutto torna a posto. Facile no?

Occorre fare in modo che quando vuoi liberarti della zavorra tiri una funicella che sfila il perno che trattiene il sacchetto questo cade … barra al centro tutto piede esterno e ci si rimette dalla vite.

All’Amintore l’idea piacque un sacco! Preparammo un sistema empirico, semplice ma geniale che provammo svariate volte a terra, e si dimostrò affidabile.

Venne il giorno dell’esperimento, e andai in volo con il marchingegno, mi piazzai bello tranquillo ad una quota di 1.000 m. sopra dei campi arati e puntualmente innescai la vite. Cacchio! Aveva ragione l’Amintore, l’aliante si inserì in una frenetica vite piatta ed iniziò a ruotare come una foglia secca strappata del vento autunnale. Tutti i miei sforzi di metterlo in picchiata risultarono vani. Sorpreso ma non preoccupato mi preparai a tirare la funicella come programmato. Semplice, basta tirare la … funicell … la … funicell … Caspita! Ma perché non viene??? L’ho provata decine di volte con l’Amintore! Vuoi vedere che quel Amintore mi porta sfiga? E io … che scemo che sono a dar retta ai suoi chiodi fissi! Il vorticare dell’aliante innescava strani vortici anche nella mia mente. Potevo starmene al bar davanti ad una birra a disquisire sulla filosofia del volo ed invece sono qui come un deficiente a rischiare di rompermi l’osso del collo per chi? Per … l’Amintore!

La lancetta dell’altimetro spezzò improvvisamente le mie divagazioni mentali indicandomi che la mia quota ora era di 600 metri. Il mio “investimento” in termini di altitudine si stava rapidamente corrodendo al pari delle quotazioni di Borsa che in quel tempo stava riducendo sul lastrico milioni di risparmiatori. Dovevo agire, ma come? Tutto dipendeva da quella dannata funicella! Altimetro a 500 metri! Accidenti qui non si scherza, se aspetto ancora un po’ sono per terra. La mente come in una “moviola” accelerata richiama fatti e misfatti dovuti alla vite e alla moltitudine di piloti incappati in una simile trappola. Ma ora dovevo decidere non c’era più tempo … una sola cosa potevo fare … LANCIARMI ! Porca vacca … e poi chi và a raccontare al capo che gli ho sfasciato l’aliante … magari in testa a qualcuno perché volevo fare gli esperimenti? Beh! Però … non sarà mai come morire da stupido, così oltre all’aliante perde anche il pilota, nooooooooooo! Meglio lanciarsi! 450 metri. L’aliante gira, l’orizzonte gira e non la smette di girare l’unica cosa ferma e tesa era la mia mano che tendeva la funicella fino a ferirmi. Basta … decido … SALTO. Con rapida mossa afferrai le due levette laterali del blocco della capottina e questa immediatamente schizzò via sopra la testa in un fragore di cardini strappati dalla vetroresina. Uno schiaffo di aria gelida mi colpì il viso, mi aspettai di udire la capottina colpire il piano di coda ma per fortuna l’impatto non ci fu. La mano destra cercò rapida la leva di sblocco della cintura mentre la sinistra che ancora avvolgeva la funicella si estese per raggiungere l’intelaiatura del velivolo in un ultimo disperato tentativo di aggrapparmi prima di buttarmi di sotto.

Ma che succede??? L’aliante mette giù il muso … prende velocità … Cristo riesco a riprenderlo!!! Dai … svelto! Cloche e piede. Devo riagganciare la cintura alla svelta altrimenti volo fuori davvero ora che … non serve più! Ero salvo. Con gli occhi bagnati di lacrime per effetto del vento in faccia a 130 km/h filavo con il velivolo in mano perfettamente controllato. Cosa diavolo era successo? Ho capito! Nel prepararmi al decollo con l’Amintore che mi starnazzava nelle orecchie, non controllai che la funicella passasse nella gola apposita che avevo praticato per l’occasione era così rimasta “pizzicata” nella cerniera della capottina. Ora che questa era volata via, frantumandosi chissà dove, la funicella fece il suo dovere di liberare la zavorra. Come tutti i “lieto fine” vi lascio immaginare i commenti dell’Amintore al bar, ma non ho il coraggio di raccontare la ramanzina ricevuta dal “Capo”. Comunque per due mesi mi relegò a fare voli turistici in cielo campo, per ripagare il danno arrecato e riscattare la mia reputazione.

Ps: L’avventura qui descritta non mi appartiene, ma è un libero adattamento per il puro piacere narrativo di una situazione realmente accaduta ad un famoso pilota Polacco, Stanislaw Wielgus, amatissimo da tutti noi, durante un collaudo di un aliante, e che da pochi giorni ha compiuto i suoi primi ottant’anni!

Tanti auguri Stany!!!


 

#proprietà letteraria riservata#


Claudio Cavolla

Le confessioni di un italiano

E’ andata bene, c’è mancato poco, ma è andata bene!! Il mio nome poteva essere inciso su una croce di legno conficcata tra le pietre delle Alpi Svizzere, ed invece fortunatamente sono qui a scrivere queste righe a tentare di dare un contributo alla sicurezza.

No, non si tratta della prima pagina di un romanzo di guerra. Mi sono solo deciso a tirare fuori dal cassetto un vecchio appunto e descrivere quanto mi è capitato, alla luce di molti dolorosi incidenti capitati a Piloti di grande fama e di indubbia capacità; vedi Konstantino, Holighaus, Alain Delylle e tanti altri anche ai giorni nostri come il Bob Monti. Vengo al fatto.

Qualche anno fa mi capitò di passare per lavoro in una linda località Svizzera, l’aria frizzante di una soleggiata mattina di aprile metteva in risalto l’orografia che si stagliava in un cielo limpidissimo privo di nubi. Vidi che l’attività volovelistica nel vicino aeroporto era già iniziata. Quale migliore occasione per andare a dare un’occhiata! Giunto in campo, fatte le dovute presentazioni venni immediatamente invitato ad andare in volo con un pilota locale molto esperto ( proprietario di un Nimbus-3 ) che stava già preparando lo Janus del Club. Quindici minuti dopo mi godevo il traino come tranquillo passeggero del posto posteriore. Notai che il mio Pilota seguiva il traino in modo un po’ impreciso, a volte si distraeva mi parlava e quindi poi doveva riallinearsi. Poco male, è capitato anche a me con degli ospiti. Allo sgancio in prossimità dei costoni a nord del campo, iniziò la normale ricerca delle ascendenze.

Volo da 15 anni ed ho acquisito un’esperienza sufficiente da capire che quel giorno le condizioni non erano delle più generose, pur essendoci una radiazione notevole erano presenti temperature a terra piuttosto rigide e una confluenza di venti sia da nord che dal passo di un massiccio imponente, disturbavano molto le prime termiche che si generavano.

Mi rilassai e cercai di godere dello splendido panorama che scorreva davanti alla capottina. Nonostante tutti gli sforzi che il mio pilota faceva per centrare una termica, dopo un quarto d’ora era più quello che avevamo perso che non quello che si era guadagnato. Lui allora, conoscendo il posto, non ebbe dubbi ” andiamo sul passo, lì becchiamo la dinamica!” esclamò. Mi fidai perché in effetti le termiche erano molto irregolari e scarrocciate dal vento, solo che in cuor mio a quei costoni mi sarei avvicinato più serenamente con un po’ più di quota. Bah! L’esperto era lui! Cominciò a ravanare come al solito con la cloche a mo’ di bastone da polenta scarponando un pò troppo all’interno con il filo di lana mai bene al centro e vidi che, contrariamente a quello che per me è ormai diventato istinto, che con più sono basso più cerco di essere veloce, lui si manteneva mediamente tra gli 80 e i 90 Km/h. L’iniziale godimento cominciava a trasformarsi in disagio. Avvertii chiaramente irrigidirsi la muscolatura dello stomaco, per prudenza tirai le cinture o gli occhi anziché sul panorama erano sempre più fissi sull’anemometro. Il disagio aumentò allorché giunti sul passo sentii che il vento spirava in raffiche, e l’aliante volava a meno di cento metri dai sassi. D’istinto allungai per la prima volta la mano sulla barra senza interferire sulle manovre che il mio ardimentoso stava facendo.

Si iniziò un 360°, poi un secondo, sempre più stretto, per non finire in sottovento e con preoccupazione vidi la velocità costantemente bassa. Sentivo le azioni del vento sulla traiettoria dell’aliante e continuavo a vedere che l’amico non accennava minimamente a regolare la velocità in modo da poter “infilare” le raffiche con un buon margine di sicurezza. Mi vennero alla mente le lezioni di aerodinamica – gli aneddoti – gli articoli di cronaca e pensai: “… ecco, è così che ci si ammazza!”

Ed ecco che arrivò quello che temevo; a metà di una virata in “tiro”, a velocità ridotta, con il filo di lana sempre all’interno e l’aliante costantemente in derapata verso l’esterno della virata, con il muso sempre troppo alto, come passammo nella fase di vento in coda si verificò l’inevitabile. Il vento si fece padrone dell’aliante accentuando in modo brusco la derapata. Il muso guardava il cielo, salivamo si, ma come una foglia sollevata dal vento. Per la prima volta vidi con terrore la lancetta dell’anemometro oscillare e poi vibrare non sapendo se stare a 65 o 70 Km/h! Il sibilo del vento era quasi cessato, la nostra velocità era creata più dal vento che dalla forza peso dell’aliante, il filo di lana era scomposto ed avvertii chiaramente la sensazione di essere “appeso” come all’apice di un fiesler ad attendere quella sensazione di leggerezza, quasi inebriante, seguita da un risucchio in cui l’aliante comincia a sprofondare. In animo mio mai provai così distintamente la certezza di una prossima fine. Come una macchina sospinta dal vento su un lago ghiacciato con le gomme che non fanno più presa, non potevamo più fare nulla, non avevamo più vie d’uscita: qualsiasi manovra per tentare di chiudere la virata e riportare l’aliante in velocità, sia con il piede che con la barra, avrebbe portato ad una traiettoria di collisione o innescato un’inevitabile vite, a pochi metri dal costone. Aprire la virata e affondare, con il vento in coda ed i costoni a pochi metri, era ormai impossibile. Mi sentii morto. Non fu così ! Non so cosa abbia tenuto su il generoso Janus che fu in grado di completare quella disgraziata virata.

Ci allontanavamo dal costone. Di getto quasi con rabbia afferrai la barra e strappandola di mano al mio compagno buttai in una ripida affondata il candido veleggiatore. Ora sì, a dieci metri dai sassi, ma a 140 all’ora! E gli gridai “… se vuoi fare viti e tonneau, fai pure, che mi piacciono anche tanto, ma con almeno 1000 metri sotto!” Solo allora il mio compagno si rese conto del pericolo corso e silenziosamente si pose in posizione di rientro asserendo “… se le termiche sono deboli bisogna volare lenti altrimenti le perdi.” Al che risposi “meglio perdere una termica che lasciarci la pelle!” Al ritorno a terra ci congedammo; non volle neanche che contribuissi al costo del traino. Potevo morire “gratis”.

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Si può morire per inesperienza ma anche per troppa esperienza. Mi spiego; chi ha volato con molti mezzi, in molti luoghi, assume un atteggiamento di acquisita sicurezza scontata , in quanto in fondo sono cose che ha fatto centinaia di volte ed è scontato che l’aliante stia su, ci mancherebbe … ERRORE !! Quante volte abbiamo perso dei compagni misteriosamente e non sappiamo capacitarci di cosa possa essere successo lassù?  Amici, OCCHIO! Non abbassiamo mai la guardia!   Risalgo nella storia dell’aviazione con il ricordo del grande Arturo Ferrarin, che dopo aver sfidato elementi – uomini – e macchine, aver toccato con il suo traballante biplano la Cina e con lo sperimentale SIAI S-64 anche il Brasile, il 18 luglio 1941 rimase vittima di una banale distrazione: sull’aeroporto davanti a casa in volo a bassa quota per controllare la spia del carrello … entrò in vite!      


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Claudio Cavolla

La birichinata

(il naso e le orecchie mi hanno tradito)

Ero vestito impeccabilmente, giacca e cravatta con un paio di scarpe lucidissime che mi stavano anche un po’ strette, il battere dei tacchi sul marciapiede di corso Venezia a Milano, mi facevano sentire a disagio, ma il ruolo del tecnico commerciale che ricoprivo in quegli anni in cui mi occupavo di strumenti scientifici, me lo imponeva. Eravamo agli inizi di una di quelle primavere lombarde, quando ancora si avvertiva che l’aria stava cambiando e recepivo una carica elettrica eccitante in quel cielo profondamente azzurro e imponente che mi sovrastava. Erano le nove del mattino, mi fermai un istante di fronte ad una vetrina non ancora illuminata e lì, oltre a vedere la mia immagine riflessa, l’effetto specchio ritornato dal vetro mi mostrava uno sfondo di cui non mi ero accorto. In fondo alla panoramica del corso si stagliava verso nord, netta ed imponente, la sagoma della Grigna e del Resegone, le familiari palestre di roccia degli alpinisti lombardi. La Grigna, quando le condizioni meteo sono favorevoli, è notoriamente generosa, a regalare potenti termiche sognate ed amate dai piloti di aliante. Un blocco allo stomaco misto ad un senso di rabbia mi pervase al pensiero di sprecare una giornata di tali caratteristiche per dedicarmi ad estenuanti attese in corridoi angusti e bui per ottenere udienza dal funzionario di turno preposto ad ascoltare le mie proposte professionali. Combattuto tra istinto e raziocinio analizzai rapidamente tutte le opzioni. Un giro di telefonate, un elenco di menzogne, attribuzione di mille motivi e difficoltà insormontabili come … traffico in blocco, influenza … mancanza del software, etc … mi ritrovai a invertire la direzione dell’auto e muovermi a razzo con prua N–NE.

Alle nove e trentacinque varcai il cancello dell’aeroporto volovelistico Prealpi Orobiche di Valbrembo. Erano da poco stati aperti gli hangar ed il pilota trainatore vedendomi esclamò: “Potta, cosa ci fai conciato così ?” riferendosi all’abito.

Un quarto d’ora dopo chiusi la cappottina del mio fedele Hornet, stupendo aliante monoposto in vetroresina con 15 metri di apertura alare e mi accinsi al decollo con il paracadute addosso e la cravatta in tasca. Quel giorno non era ancora venuto nessuno in campo, trattandosi di un giorno lavorativo, a Milano si lavorava ancora e non c’erano tutti i “pensionati quarantacinquenni” di oggi, perciò nessuno poteva tenermi l’ala livellata per il decollo. Il trainatore mi chiese … Te la senti di decollare da solo? Un’occhiata alla manica a vento che mi indicava una bavetta d’aria da cinque nodi proprio sul naso e perfettamente in asse pista mi fece rispondere alla radio: “Potta … dò un po’ di piede e lo tiro sù!”

Traino allineato per pista 02, chiamata radio “cavo – teso” e “flaps – tutto motore” … si va!!

L’ala ruggiva strisciando sull’asfalto della pista macadam e faticava a sollevarsi poi il mio contrasto sul direzionale ed il vento relativo riuscirono a farla pigramente scollare da terra. L’aliante si scompose per qualche metro assumendo una prua ed un assetto scorretti ma poi sotto l’effetto dei comandi coordinati si allineò ed iniziò a correre sul suo unico ruotino centrale fino al distacco dalla pista. Il rumore della ruota si smorzò ed io …volavo!!!!! Il filare di alberi della soglia pista 20 mi passò come per magia sotto la pancia del mio candido aliante.

Comunicazione radio sulla 122.60 MHz dal pilota dello Stinson da 180 HP… “Il tuo decollo ai ’ 55” … rispondo … “Ricevuto … passati i 60 metri QFE !”

Rispetto volentieri questa mia abitudine di dichiarare il superamento della quota critica per un eventuale aborto del decollo al fine di consentire, vento permettendo, di effettuare un 180 ° e rientrare in campo; molti sono gli incidenti che ancora oggi funestano il nostro mondo per un inadeguato rispetto dei parametri di sicurezza in caso di rottura cavo o piantata motore.

Rapido sguardo all’orizzonte intanto che il traino mi faceva salire di quota e … lo spettacolo era inebriante … l’aria fresca e secca che mi penetrava dalla presa di ventilazione mi rivelava i profumi della primavera incipiente e la potenza della giornata si stava materializzando ai miei sensi con l’apparizione dei primi segnali di condensazione in prossimità delle cime più alte dei monti circostanti; Canto Alto Ubione Albenza Pertus Resegone questi i nomi delle montagne prossime a Valbrembo da dove nei giorni volabili arriva la voce qualificata dei piloti in volo sulla 123.375 MHz.

Raggiunta la quota abituale di 700 mt tirai con decisione il pomello giallo di sgancio e guardai con tenerezza la sagoma dell’aereo da traino che si separava dolcemente a sinistra mentre la voce amica del pilota mi augura buon volo. Contribuii alla separazione accennando una virata a destra, ricambiai il saluto e con energia azionai la leva di rientro del carrello. Ero solo !!!

Ora tutto dipendeva da me, dalle mie scelte, le mie intuizioni e dalla capacità di analisi dei segnali che la natura mi offriva. Lo scenario che mi si proponeva era incantevole, la quota raggiunta mi consentiva di spingere lo sguardo in grande lontananza e con piacere scorsi che in Valtellina le formazioni cumuliformi cominciavano a diventare evidenti.

Già, i “cumuli” sono loro i nostri motori, o meglio ci indicano dove l’atmosfera possiede quell’energia termica che con il cambio di densità lascia gli strati bassi del suolo per salire prepotentemente verso l’alto portando con sé polvere moscerini falchi e perché no, noi piloti di aliante che nella nostra goffa emulazione cerchiamo di imitare i grandi veleggiatori come poiane ed aquile.

La mia decisione di “tradire” il lavoro si stava rivelando un’ ottima scelta poiché via via che il tempo trascorreva io cercavo di galleggiare nella fluida massa d’aria quasi calma, e di tanto in tanto avvertivo distintamente degli scuotimenti alla cellula del velivolo. Era una conferma che l’aria diventava instabile e si muoveva. Infatti ecco che di lì a poco, scivolando a 95 km/h sul fianco di un costone di roccia che aveva già ricevuto il sole del primo mattino, un potente sobbalzo mi indicava la partenza di una buona termica. Impugnai la cloche con decisione e dopo aver fatto scorrere lo sguardo nello spazio circostante detti inizio alla danza. Disegnando degli otto sul fianco della montagna aprendo le virate sempre verso valle per non trovarmi mai con il muso verso la parete, iniziai a salire con un rateo di 1,5 metri al secondo: in cinque minuti avevo già raggiunto una quota di 1.200 mt. Potevo già pensare di osare ad ispezionare pareti più lontane. E così fu… nel breve spazio di 30 minuti ero già aggrappato alle pareti del Resegone sovrastanti Lecco ed il variometro mi indicava una costante salita. La bellezza del lago si spalancava sempre più ai miei occhi che ora alla quota di 2.500 mt QNH mi faceva intravedere il lago di Lugano.

Spiralai con decisione con una inclinazione di 45° la cloche quasi alla pancia, l’assetto dell’aliante era decisamente a cabrare e le ali vibravano spinte da una termica rotonda e potente che con pochi giri mi portò a vedere la cima della Grigna più bassa del mio livello. Sotto il rifugio scorsi degli scalatori che mi salutavano e che probabilmente pensavano: “Guarda quel matto !” non immaginando che pure io esprimevo lo stesso pensiero verso di loro.

Ero ricco!!!! La gioia ed il piacere erano tali che il mio fisico non recepiva che la temperatura esterna era diventata –15 °C . Il mio corpo era tutt’uno con l’aliante. Era una delle prime volte in cui provavo la sensazione che le semiali fossero parte di me in una sorta di prolunga delle mie scapole. Sentivo solo il sibilo dell’aria il segnale acustico del variometro elettronico e le comunicazioni radio di altri amici che nel frattempo si erano accorti della giornata ed avevano iniziato a popolare lo spazio aereo del nord Italia. Sentivo Biella – Calcinate – Caiolo e un amico in Val d’Aosta ! L’unica cosa che non sentivo più erano i miei piedi !!!!

Eh sì! Perché il corpo bene o male, si espone al sole nell’ampio volteggiare tra una termica e l’altra, ma i piedi no loro sono segregati nell’angusto cono di prua della cellula all’ombra, a soli 5 centimetri dal mondo esterno con l’unico ingrato compito di azionare con vigore la pedaliera che governa il timone. Cosa importante questa perché per consentire all’aliante di non sprecare nulla dell’energia acquisita, sia cinetica che potenziale, bisogna volare perfettamente coordinati in massima efficienza, quindi ogni virata deve essere tassativamente controllata con precisa interazione dei comandi.

Orbene, avevo acquisito la quota e se volevo pensare di spostarmi nell’arco prealpino dovevo conservarla: perché la quota è un po’ come i soldi, se è vero che la si guadagna facilmente è altrettanto vero che a mangiarsela ci si mette un attimo. Basta distrarsi o sottovalutare un traversone oppure non aver capito bene il vento, per lasciare la termica sicura e imbattersi in “buchi” paurosi ed allora bisogna “filare” via veloci incassando una perdita di quota andando subito alla ricerca di un punto dell’orografia dove “tira” Quel giorno fui abile ma anche molto fortunato in quanto arrivai a “girare” il Legnone poi il pizzo di Coca poi ad accarezzare il Disgrazia a quota 3500 QNH. Ricordo che per radio mi raggiunse il grande amico Emilio Pastorelli che cito volentieri in quanto grande figura del volo a vela italiano, che mi disse: “Claudio cosa fai lassù ..l’astronauta ?” Lui era verso il Tonale ma essendo partito tardi aveva più difficoltà a guadagnare quota.

In quel momento però anche per me cominciarono i problemi: il freddo iniziava ad impossessarsi di me, le mani erano intirizzite e le sentivo dure sulla cloche, mi accorsi che le dita non rispondevano quando andai per cambiare frequenza radio per portarmi su quella di Caiolo, i commutatori erano diventati durissimi e faticai a ruotarli. Il desiderio e la possibilità di conquistare il Bernina erano a portata di mano e la maestosità della grande montagna era invitante, ma le quattro ore e mezza di volo che avevo addosso cominciavano a farsi sentire. Per fortuna prevalse il buon senso e con dispiacere invertii la rotta.

Prua verso casa !!

Data la posizione assunta a nord della Valtellina pensai che era bene prendere la via più breve attraversando il passo San Marco a 2000 mt e poi dentro in Val Brembana sfruttando il supporto orografico del Cancervo a 1.800 e il Castel Regina con 1.400. E la scelta si rivelò corretta ma avevo sottostimato i limiti fisici… il freddo e l’urina.

Una cosa che non ho detto è che durante il volo in inverno si deve sempre tenere aperta la ventilazione in cabina, per evitare che la traspirazione provochi l’appannamento (come in auto) ma stavo esattamente al centro della Valtellina con Caiolo in vista,quando avvertii un freddo penetrante che mi prendeva il collo e la gola, senza riflettere troppo misi mano al comando di chiusura della ventilazione. Mi trovavo a 3.200 mt con temperatura esterna di -22 °C appena il flusso d’aria cessò: una cortina bianca si parò tra me e il mondo esterno. Non vedevo più niente !!!!! Cercai di tenere l’aliante livellato e alla pendenza giusta per conservare la velocità, sapevo di essere ancora lontano dalle montagne e con una quota considerevole, ma non vedere nulla è terribilmente sgradevole. Passai una mano sul plexiglas della cappottina e mi venne un accidente! Era ghiaccio !!

Con le unghie arrivavo a scalfirlo ma la traccia che lasciavo era ben poca cosa per vedere fuori. Non mi rimaneva che una cosa da fare, riaprire la ventilazione! Lentamente il cristallo riprese la sua trasparenza ma il freddo mi stava attanagliando. Mi ricordai della cravatta e così me la misi al collo arrotolata a mo’ di sciarpa. Ripresi il controllo della situazione quando ero ormai sulla verticale del Passo San Marco.

Stimavo circa ancora un’ora di volo perché la giornata “teneva” e scivolando a zig zag tra le montagne della Val Brembana la quota per il rientro era quasi certa.

Ma non avevo fatto i conti con un altro “nemico”: LA PIPI’ Ero giovane e la mia prostata era quasi nuova, però quando pianificavo i voli lunghi prevedevo di portare a bordo la sacca per l’urina assieme alla tuta di volo imbottita. Quel giorno no! Era stato tutto così imprevisto che la tuta e la sacca erano al calduccio nell’armadio di casa.

La vescica era sensibilmente gonfia e avvertivo la necessità di battere e piedi e stringere le gambe nel tentativo di procrastinare lo stimolo di orinare.

Volavo male, il mio pilotaggio stava scadendo, e invece di preoccuparmi a ricercare l’appoggio orografico più adatto a consentirmi di trovare le termiche che mi avrebbero riportato a casa, il mio sguardo si protendeva con impazienza verso sud per identificare la via più breve per raggiungere l’aeroporto. Ormai non avevo scelta, la possibilità di atterrare a Caiolo l’avevo alle spalle e con la quota che avevo perso non era più attuabile, potevo solo proseguire e la Val Brembana è noto che è inatterrabile. Il mio aliante procedeva come se fosse pilotato da un ubriaco. La mia fortuna fu che nel volo precedente avevo guadagnato una notevole quota. Decisi di impostare la rotta ortodromica cioè quella più diretta a Valbrembo, confidando di poter scavalcare l’ultima piccola catena di colline della Val Brembilla e Valle Imagna prima di affacciarmi sulla accogliente pianura con il sottostante aeroporto. Ero percorso da un fremito continuo, quegli ultimi chilometri furono eterni. Avrei desiderato in quel momento avere in mano un caccia per poter dare tutta manetta motore e passare a volo radente l’ultimo crinale. Fu proprio così; lo passai proprio a volo radente, ma non per scelta; di quota ormai non ne avevo più. Ero stato un uomo ricco e mi ero mangiato tutto il capitale!!! Scollinai passando a cinque metri sopra le piante della Roncola a 110 Km all’ora. Avevo la rassicurante visione della pista erbosa di Valbrembo pronta ad accogliermi, dovevo riuscire a rimanere in volo ancora per tre minuti!!!

–         Valbrembo radio da India Alfa Victor Bravo Charlie … –         India Bravo Charlie da Valbrembo…avanti… –         Valbrembo da India Bravo Charlie … in avvicinamento da nord col carrello estratto e bloccato … – India Bravo Charlie da Valbrembo … ricevuto … la pista in uso è la 20 erbosa … nessun traffico .. il vento è calmo … riportate sottovento per 20. – Valbrembo da India Bravo Charlie … NEGATIVO chiedo un diretto perhé mi sta esplodendo la vescica !!!!!!!!!!!!!!!!!

Non ne potevo più, faticavo a tenere sia la velocità che la prua per il tremore che mi percorreva il corpo. Finalmente superavo la tanto attesa soglia pista 20 con solo cinque metri di quota sugli alberi, non dovetti nemmeno estrarre i diruttori, gli aerofreni mi sono serviti solo nell’ultimo tratto prima di toccare il prato.

Non fu un bell’atterraggio … arrivai troppo veloce e rimbalzai sulla ruota che mi scagliò nell’aria ancora per tre secondi poi finalmente l’aliante perse energia e rullò fino a due terzi di pista sobbalzando. Saltai giù tremante e senza nemmeno raggiungere gli alberi attivai la procedura di “svuotamento dei ballast” , avevo le surrenali sature !! Erano passate quasi sei ore.

Altri piloti quel giorno avevano fatto degli splendidi voli alcuni Domodossola altri il Tonale e uno addirittura Merano con una Val di Sole tutta portante, ma nessuno in giacca e cravatta !!

Il futuro mi avrebbe donato altre “grandi giornate” gratificate da meravigliosi voli, ma tutti debitamente preparati.

Davanti ad un bicchiere di latte caldo ritrovai la mia lucidità e potei narrare del mio particolare volo prima di rientrare a casa.

Al mio ritorno mia moglie che non sapeva nulla, mi chiese: “Come è andata oggi ?

E io: ” Normale … come al solito … una barba … un traffico …! “…ma non mi ero ancora guardato allo specchio: Ero paonazzo! Il naso la fronte e gli zigomi viola bruciati dal sole … le orecchie bianche con riflessi blu prossime alla cancrena, la giacca e la cravatta stropicciate …un disastro!!!!!

Non l’ha bevuta … ho dovuto confessare !!!!!!!!!

Polpenazze del Garda 18/12/2003


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Claudio Cavolla