Archivi categoria: Le Voci

Racconti degli autori

Di padre in figlio

Come tutti i figli coscienziosi, Gabriele parlava sempre volentieri di suo babbo Giancarlo, bolognese da sei generazioni.

Aveva seguito le orme del padre, assolvendo gli obblighi del servizio militare in Aeronautica.

Ambedue avevano terminato la leva con il grado di Primo Aviere.

Come il babbo, Gabriele amava osservare le nuvole.

Pensava che salendo dalla terra al cielo in quanto gocce terrestri condensate, le nuvole fossero un tramite tra noi e l’ignoto, forse anche tra la vita terrena e quella dello Spirito.

Grazie al servizio militare, sia il padre che il figlio avevano trascorso un periodo di tempo lontano da casa, rispettando i doveri e le gerarchie, imparando un mestiere.

Insomma, erano partiti ragazzi ed erano tornati uomini.

In aeroporto il padre era stato autista, impegnato nel 1953-1954, prima a Como, poi a Vicenza.

Fu una esperienza utilissima perché una volta congedatosi, Giancarlo poté utilizzare l’abilitazione di guida conducendo autocarri per il trasporto merci.

Gabriele invece era stato dattilografo, nel 1980-1981, a Macerata e a Padova.

Anche per lui fu un periodo proficuo, perché per molti anni, dopo il servizio militare, lavorò come impiegato.

Purtroppo, a loro non era consentito di volare, appartenendo al personale impegnato a terra.

Motivi assicurativi, dicevano.

Però, l’amore per l’aviazione, e per il volo in generale, rimase sempre una costante, nella loro vita.

Il babbo Giancarlo, con i suoi modi socievoli, era riuscito a farsi benvolere anche da un paio di piloti che svolgevano servizio sui caccia in dotazione alla base.

Nel tempo libero, si mise a costruire modellini di aeroplani, in ferro pressofuso.

Allora si usava così, tra i militari di leva.

Erano pezzi unici, colati su uno stampo che riproduceva le proporzioni degli aerei allora più conosciuti.

I modelli più riusciti erano un bimotore a elica, il Lightning P38 della Lockeed, e il caccia Vampire, della De Haviland.

Giancarlo era molto giovane e sognava un futuro radioso, come tutti in quel periodo, e come poi accadde per il nostro Paese, cosa che ancora ricordiamo.

Di lì a poco, qualche giorno prima del congedo, la sua ragazza gli confidò di essere in dolce attesa.

Si sposarono immediatamente, come si faceva allora, e il loro fu un matrimonio felicissimo, allietato anche dal secondogenito, Gabriele.

Nella sua infanzia, Gabriele giocava spesso con i soldatini.

In definitiva, l’ultimo conflitto era concluso da poco tempo, e come tutti i bambini dell’epoca, poteva conoscere la storia della Seconda Guerra Mondiale grazie ai film che venivano prodotti in grande quantità.

Il babbo gli permetteva raramente di “usare” i suoi ricordi del militare.

In particolare, gli negava i due aerei di metallo, pesanti e potenzialmente pericolosi con le sporgenze contundenti in ferro battuto.

Quando però Gabriele riusciva ad ottenerne il consenso all’utilizzo, la sua fantasia di scatenava e si ritrovava immediatamente tra le nuvole, nel cielo più azzurro, come cantava una popolare canzone dell’epoca.

Passarono gli anni e venne anche per Gabriele il tempo della “cartolina rosa”, la chiamata alle armi.

Fu fortunatissimo, ricevendo l’invito dall’Aeronautica Militare, come il babbo.

Finita Ragioneria, si era iscritto con poco entusiasmo a Statistica, all’Università di Bologna.

Sapeva che, a breve, avrebbe dovuto partire per il militare.

Non ne aveva molta voglia, come quasi tutti del resto, all’epoca.

Gabriele aveva da poco iniziato a lavorare in banca, dopo aver vinto un concorso, e lasciare il posto gli sembrava una perdita di tempo.

“Vedrai che quando avrai terminato il servizio militare, ti sentirai arricchito dalla esperienza fatta”, disse il babbo per incoraggiarlo.

Furono parole profetiche.

Come per tanti allora, il servizio militare rappresentava la prima vera esperienza lontano da casa.

A Gabriele fu assegnato un ruolo presso l’Ufficio del Personale della 1° Aerobrigata, sezione Statistica.

Si impratichì con le logiche amministrative e gestionali.

Nel tempo libero, grazie all’aiuto dello stesso Ufficio Personale, organizzò per la truppa un “Corso per Quadri Intermedi a livello aziendale”, con il sostegno della Regione Veneto.

Per premio, ottenne un volo in elicottero, da Padova a Ghedi, il suo battesimo dell’aria, su un elicottero Agusta.

Fu lì che si innamorò del cielo, e delle nuvole, in particolare.

Cominciò a fotografarle a ore diverse, con luci e colori mai simili, sempre sorprendenti.

Crescendo, le foto più belle le scattava in volo, durante i numerosi viaggi che Gabriele si concesse, quando la professione intrapresa lo permetteva.

Canada, Cuba, Islanda, Egitto, Australia, Isole Samoa, Nuova Caledonia; in tutti i cieli era il passaggio del giorno la cosa che più lo entusiasmava.

Dalla luce all’oscurità, le nuvole e l’orizzonte assumevano colori imprevedibili, cangianti, con striature degne dei quadri più preziosi mai dipinti da alcuno.

La luce che si fa stupore.

Fu così, pubblicando quelle foto, che Gabriele volle rendere omaggio alla memoria di suo padre Giancarlo.

Ricordando una passione comune.

L’amore per il Cielo, più vicino a noi, grazie al volo.

Un amore da passare di padre in figlio.                                                                 


§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§

# proprietà letteraria riservata #


Davide Gubellini

 

T – meno

 

 

T uguale a 1995 meno 50 anni – Berlino

Io sono il proiettile. Sono stato concepito per straziare e portare dolore, morte e lutti. A voler essere elegiaci e aulici potrei dire che sono il cavaliere verde dell’Apocalisse, cavalcato dalla Morte e seguito dall’Inferno. Ma non è così: sono il frutto dell’ingegno umano.

Vedo davanti a me un uomo con le mani alzate, riesco a percepire l’odore della sua paura, sento anche la mano del soldato serrarsi di più sul grilletto. Ormai ho imparato a riconoscere la febbrile eccitazione che la caccia all’uomo sa instillare in animi stanchi e abbrutiti da questa Guerra, che più sembra agli sgoccioli e più sembra voler stupire con nuove atrocità, quasi che potesse, al pari d’un organismo, rinnovare il suo vigore usando come carburante l’alito dell’odio fine a se stesso.

«Chi comanda qui? Sono Magnus, il fratello di Wernher von Braun.»  Sento dire in un inglese molto, molto stentato.

«E chi sarebbe questo vonnebroun?» chiede l’uomo mentre la pressione sul grilletto aumenta. Mi sento pronto a esplodere, a partire per squarciare, dilaniare e penetrare carne e ossa. Sono pronto a uccidere.

«Mio fratello è l’uomo che insieme al grande Werner Heisenberg poteva far vincere questa guerra alla Germania. Mio fratello vuole consegnarsi a voi.»

«Cosa? Troppo comodo adesso.» Mi sembra quasi di sentire i pensieri assassini dell’uomo che potrebbe dare il là alla mia corsa a oltre mille metri al secondo.

«Alt!» La voce ha il tono e la punteggiatura del comando. Sento l’uomo girarsi un po’, ma tenendo la volata del fucile ancora sul petto dell’uomo. Da qui posso quasi sentire i battiti del suo cuore; un cuore nel quale spero di immergermi. Non sento più nulla, c’è un fitto conciliabolo in un’esperanto tra tedesco e inglese. Non riesco a percepire quasi più nulla, il soldato ha puntato il fucile verso terra.

«Perché noi?» chiede il nuovo arrivato al fratello di vonnebroun.

«Mio fratello non si fida dei francesi, ritiene i russi dei barbari e non può certo chiedere requie agli inglesi dopo che ha quasi contribuito a radere al suolo Londra. Rimanete voi.»

«Suo fratello è un figlio di puttana che mi piacerebbe infilare in un cannone, ma quel signore lì» e indica un uomo mingherlino, in nero, con l’allure del corvo che sembra essere, uno di quelli pronti a banchettare senza esporsi « è qui proprio per aiutarmi a prendere in custodia Wernher von Braun.»

« Ecco, è tutto suo, signor Smith» sibilò l’uomo calcando le parole sul quasi certo fasullo cognome. «Mi creda, non capisco questa scelta, ma obbedisco», concluse l’ufficiale.

«Obbedisco lo disse una volta anche un grande e fortunato generale italiano, capitano Ryan. Magari le porterà fortuna», ribattè l’uomo in nero sbuffando il fumo della sua sigaretta e guardando attentamente von Braun che saliva su una camionetta.  

«Ma è vero quello che si dice? Che è in grado di costruire dei missili in grado di arrivare anche sulla Luna?»

«Necessità di sapere, capitano. Dovrebbe conoscere questa regola. Forse sarebbe meglio per lei dimenticare quello che è accaduto oggi, ma non credo di dirle granché di segreto se le rivelo che la missilistica sarà la nuova frontiera e la nuova arena di guerra, quando questa terminerà, credo tra pochi mesi. Lui è uno dei profeti della missilistica e l’America non può permettersi di perdere terreno.»

«Ma è vero che è responsabile di tanto dolore a Londra?»

«Già, ma anche questo, temo, non possiamo né potremo dirlo: in guerra, la prima vittima è la Verità!» 


 

T uguale a 1995 meno 34 anni – aeroporto di Khodynka e altre parti in CCCP

«In verità io apprezzo il coraggio degli americani.» Quando l’uomo con i lineamenti scavati nella roccia come una maschera totemica parlava, i militari e i burocrati sovietici non facevano altro che tacere, così, semplicemente, come davanti a una teofania. Era l’uomo dello Sputnik e quello che aveva mandato in orbita Laika.

«Apprezzo il loro coraggio, lo dico sul serio. Devono essere più che coraggiosi per anche solo pensare di salire sulle navicelle progettate da von Braun .» Pausa. Risate nervose dei giovani militari e ridanciane, forse per via della Vodka, degli apparatcik di Partito.

«Anni fa provai a dirlo, ma in pochi mi diedero retta. Un conto è far decollare un missile e farlo cadere, ben altro è mandare in orbita un satellite e tenerlo lassù, con qualcuno a bordo. Quando lanciammo lo Sputnik, il loro responsabile venne svegliato per avere un parere, a loro non sembrava possibile che noi li avessimo preceduti. Affrettarono il tutto e il risultato su un fallimento in diretta: un flopnik , come scrisse un giornalista. L’avesse detto del nostro programma, quel simpatico scribacchino si sarebbe ritrovato in Siberia a spaccare pietre congelate. So di cosa parlo: io adesso per voi sono il Capoprogetto, ma ci sono stato in un Gulag. Sapete come mi chiamano a Washington? Korolev, il dottor Missile o il dottor Stranamore.»

Nuova pausa.

«Siamo qui perché tra di voi c’è l’uomo che andrà nello spazio. Parola di Korolev, il Capoprogetto.»

  Quell’uomo sa indubbiamente affascinare e infiammare gli animi. C’è riuscito anche con me, con Arkady Pelevin, reporter di stato per la tecnologia dell’organo di propaganda Pravda. La verità.

In verità, l’uomo che sapeva infiammare qualche volta sbagliava anche: il tenente Valentin Bondarenko bruciò vivo dentro una camera pressurizzata. Era mio amico Valentin, avrei voluto scrivere di quella morte, degli sbagli che la Scienza esige, ma il Partito me lo impedì.

«Ho capito l’errore: l’ossigeno puro non va bene. Una miscela di ossigeno e azoto è più pericolosa nella fase di rientro, ma non dovrebbe incendiarsi» profetizzò Korolev, che brigò per far assurgere il povero Valentin al rango di Eroe dell’Unione Sovietica e me quale principale pennivendolo per magnificare la sua impresa. In più, fotografai il Capoprogetto mentre tendeva la tuta spaziale a un altro tenente: a Jurij Gagarin.

Ero nella sala controllo con quell’uomo portentoso quando fermò tutto e ordinò una nuova verifica della chiusura stagna: non avrebbe rischiato un’altra vita; anche perché non sarebbe sopravvissuto a un flop adesso che il mondo era al corrente del tentativo. Le cose vanno così, in CCCP.

Io, Arkady Pelevin ho visto e sentito cose…

Ho visto il Capoprogetto sudare per la prima volta; ho sentito Gagarin parlare di quel blu così particolare ed emozionarsi mentre sorvolava l’America, sia pure quella del Sud.

Ho sentito i gemiti da cagna come Laika di mia moglie Olga mentre, infiammata di piacere, veniva inchiodata sul nostro talamo da Sergei,il fratello di Valentin.

Loro non mi hanno visto e io non ho fatto scenate.

Oggi è un giorno di festa: Il paradiso dei lavoratori ha portato in orbita e fatto rientrare sano e salvo un uomo.

Dall’altra parte del mondo i giornalisti possono permettersi anche di riportare le parole arrabbiate e assonnate di Shorty Powers, resposabile della comunicazione della Nasa che, raggiunto alle 4 del mattino, non ha trovato di meglio che dire al reporter Quaggiù stiamo dormendo. Nulla è accaduto al giornalista e neppure a Powers.

Da noi invece succede che io debba tacere una morte e scoprire, in un giorno di festa, mia moglie a letto con un altro. Stanno festeggiando, loro, mentre io sono sbronzo e innamorato.

Troppo innamorato.

Salgo sul tetto del dormitorio e mi lascio dondolare.

Ho sentito il Capoprogetto cianciare del fatto che Jurij ha resistito nel rientro a 8 G.

Un passo e sono nel vuoto: adesso tocca a me sperimentare i G.


 

T uguale a 1995 meno 12 anni – Caiazzo (CE)

Pianeta terra chiama squadra G,

segnale di pericolo, allarme! allarme!

La battaglia dei pianeti,

spacca e spazza tutti i cieli,

cinque intrepidi ragazzi,

vanno forte più dei razzi,

han le ali come uccelli,

sono liberi e ribelli,

la famosa squadra G,

cinque eroi uniti qui.

Ken, l’aquila,

Joe, il condor,

Pritijen, il cigno,

Jimpei, la rondine,

Ryu, il gufo.

Parole della sigla del cartone animato Gatchaman – La battaglia dei pianeti.

 

Sono in prima elementare, in una multiclasse con un insegnante molto severo ed esigente. E molto manesco.

Mia mamma non voleva che capitassi con un simile individuo, ma non c’era molta scelta nel piccolo paesino di campagna. Di buono c’era che il pulmino ci portava a scuola una buona mezz’oretta prima dell’inizio delle lezioni. Il tutto per far arrivare in orario, per il secondo giro, quelli che andavano alla scuola del centro.

Dietro la costruzione della scuola di campagna c’era un il tronco di un albero abbattuto e stranamente lasciato là.

Le mie compagne (ah, dimenticavo, ero l’unico maschio dei cinque alunni in prima) avevano paura di quell’albero. A una di loro ricordava, con quei rami tagliati disordinatamente una creatura mostruosa.

Per me invece rappresentava il luogo nel quale diventavo Joe, il Condor.  Solitamente, nei cartoni giapponesi, quando si parla di una cinquina (e ce ne sono di esempi), il secondo uomo è quello forte e coraggioso, ma non abbastanza per essere il leader; è spesso l’ombroso e il tormentato del gruppo.

Io non lo ero: ero il secondo perché, più semplicemente, riuscii ad avere ragione di tutti quelli più grandi tranne che di Pietro, che assunse il comando nel segno dell’Aquila. C’è qualcosa di dantesco in tutto ciò, non trovate?

Prima di entrare in classe ci piccavamo d’ammazzare la nostra bella quota di alieni, i quali, dal canto loro, sembravano trovare irresistibile il terzo pianeta del sistema solare. Contando a partire dal sole, of course.

A un certo punto, io arrivai a proporre un nuovo cartone da imitare, una cosa che adesso in molti chiamano fare Cosplayer, anche se noi non avevamo i costuni.

Il nuovo personaggio spaccava, come la sigla. Come tutte le sigle dei cartoni di quegli anni, a volerla dire tutta.

C’era un giro di basso assurdo, e forse la voglia di fare l’astronauta m’è venuta guardando Capitan Futuro: bello, forte, intelligente, la prova provata che la scienza può essere cool. E il tutto anni prima del successo di The Martian.

Capitan Futuro aveva un problema, pur contando una donna c’era il problema che nessuno dei miei cinque amici voleva essere il cervello volante del dottor Wright.

E dire che il cognome Wright ha una certa importanza nella storia del volo. Più che un combattente, Capitan Futuro era uno scienziato e un’esploratore.

 


T uguale a 1995 meno 69 anni – Italia, Polo Nord, Casa Bianca

«Il mio padrone è un esploratore, ma non uno qualsiasi.»

Ora non sono più Joe il Condor, ma una cagnetta. Adesso vesto bene, ma ricordo ancora quando ero randagia e brutta; e quando, magra, affamata e tutta infreddolita avvertii nitidamente l’usta della bontà in quell’uomo che tutti sembravano temere.

Che sciocchi, gli uomini! Se si lasciassero guidare dall’olfatto capirebbero tante cose in più, comprenderebbero tutto, prima e meglio.

Quell’uomo era buono, ma buono davvero. E infatti si commosse e mi prese con sé.

Come in ogni storia d’amore all’inizio ci furono ed eccome delle incomprensioni. Succede con uomini di genio: i geni sono strambi. Io di padroni geniali ho avuto solo questo, ma la genialità anticonformista ed eclettica degli uomini rappresenta il genere di chiacchiere che ci si racconta intorno ad un osso nelle lunghe e fredde sere invernali.

Ricordo ancora la tremarella che mi prese la prima volta che salì sull’uccello volante di ferro. Poi mi sono abituata a quella cosa di essere la prima a salire sulle aeronavi partorite dalle sue meningi. Il genio a volte sa essere anche incredibilmente superstizioso. Strambo, come detto.

Potessi parlare urlerei al mondo: «Io sono Titina, la cagnetta del grande Umberto Nobile ed ero con lui anche al Polo Nord, dove faceva freddo per davvero e io per scaldarmi scorrazzavo avanti e indietro. Ricordo che in quelle notti mi diceva di tener duro, e mi raccontava delle grandi imprese italiane. Del raid di Aisovizza e del Caproni usato per la prima volta in Libia nella guerra Italo-Turca. Questo ed altro direi di quel grand’uomo, se sapessi parlare.»

Oggi mi ha preso da parte e mi ha parlato dell’incontro con un grande Uomo, il più potente del Mondo: il presidente Calvin Coolidge.

Me ne fotto, avrei voluto rispondergli, ma l’ho fatto a nome mio. Quando mi sono stancata dell’odore dolciastro e prepotente di quell’uomo non ho trovato di meglio che pisciare sul carpet della Casa Bianca.

Così impara a non dare il giusto credito al mio padrone.

Quell’idiota di Coolidge s’è messo anche a ridere pensando che la buffa fossi io.

Gli uomini non impareranno mai perché non usano l’olfatto. Imparano poco anche dagli incidenti. E ne avrei da raccontare di incidenti…

 


T uguale a 1995 meno 21 anni – USA e Gilda degli sceneggiatori di Hollywood 

«Oscar c’è stato un incidente. Il pilota è ancora vivo, ma devi decidere in fretta se procedere o meno con il Progetto.»

Io, Oscar Goldman, dirigente dell’Osi (Office of Strategic intelligence) copro con la mano la cornetta del telefono e penso a cosa fare. Mi decido.

“Steve Austin, astronaut. A man barely alive.”

Richard Anderson, in character as Oscar Goldman, then intones off-camera,

“Gentlemen, we can rebuild him. We have the technology. We have the capability to make the world’s first bionic man. Steve Austin will be that man. Better than he was before. Better…stronger…faster.”

Alla fine l’abbiamo fatto: abbiamo il primo uomo bionico, un progetto da sei milioni di dollari al servizio dell’Umanità contro le barbarie, ovunque esse siano, che minacciano la libertà e i diritti fondamentali.

«Oscar, devo sapere se posso usare Steve per attaccare una centrale nucleare in Asia e smantellarla. Devo sapere se è pronto », mi chiede il Presidente degli Stati Uniti.

I presidenti non si rendono conto dell’effetto che fanno sulle persone comuni, fossero anche burocrati d’alto rango, mandarini di Stato come me.

Come si fa a dire no a un POTUS? Come si fa dire che un progetto così costoso potrebbe avere un qualche intoppo? E l’intoppo non è nella tecnologia, ma nella psiche.

In questi mesi ho visto Steve Austin correre e prendere confidenza con le gambe, il braccio e l’occhio. Certo, c’è quel sound quando le parti bioniche entrano in azione a regime, ma non è certo una cattiva musica.

Tecnicamente è a posto, ma psicologicamente è ancora provato, non al meglio.

«Steve Austin è a posto», dico quel che vuole sentire. E devo averlo detto anche con una certa sicumera.

Steve portò a termine tante missioni, contro dittatori e semplice delinquentelli, contro bigfoot e contro veri e propri robot; con il tempo gli affiancammo anche una sua vecchia fiamma, Jamie, bionica anche lei.

Tornava dalle missioni sempre convinto di aver fatto la cosa giusta, per la Bandiera e la Patria, certo; ma più ancora perché era la cosa giusta da fare.

«Oscar», mi disse una volta, «Non sai come mi arrabbio ogni volta che un politico dice Dio è con noi.»

Scosse la testa e aggiunse: «I nostri Padri Fondatori non hanno mai detto una cosa del genere, bensì Dobbiamo stare dalla parte di Dio. La cosa è diversa».

Detto ciò, tempo un tre mesi e tornò più taciturno da una missione in Brasile. Di solito si torna da quelle parti euforici e con una sorta di sandade, di mal di Brasile. Lui tornò scuro, scontroso e malmostoso.

«Steve, cosa c’è?»

«Non credo di aver fatto la cosa giusta, laggiù. Oscar, l’America foraggia le multinazionali e sfrutta quella povera gente per aver una corsia preferenziale nella grande torta della commercio della gomma», rispose accigliato.

Prima di adirarsi e sputare: «L’uomo che mi avete mandato a neutralizzare offriva una speranza a quella povera gente; certo, andava contro gli interessi dell’America, ma a favore degli ultimi. Io… io credo che mi prenderò una pausa. Devo riflettere.»

«Steve, meglio noi die rossi. Credimi.»

«Perché non meglio loro? Perché non li lasciamo liberi di… sbagliare; ma liberi da ogni giogo?»

«Perché questo è il Grande Gioco. Perché il potere non ammette vuoti e perché… Perché per quanto possa sembrare incredibile, una delle cifre tecnologiche di questo tempo è la gomma.»

 


T uguale a 1995 meno 9 anni – Washington

Sono fatta di gomma.

Sono una guarnizione 0-Ring. Una come tante, e questa mattina me ne stavo bella bella nel contenitore della ferramenta quando la mia vita è cambiata.

Un uomo è arrivato, ha frugato e mi ha presa tra le mani. È come se avesse estratto il numero giusto da una lotteria. Da quel momento la mia vita è cambiata: sono andata in tv e sono diventata una star.

Io conoscevo quell’uomo: era istrionico, buffo anche, ma una rivista molto attendibile una volta lo indicò come L’uomo più intelligente del mondo. Nonostante amasse e suonasse i bongo e in passato fosse stato, tra le altro cose, anche uno scassinatore provetto.

Però tra le altre cose dell’uomo si possono annoverare anche un Nobel Prize e una teoria molto affascinante.

Roba da togliere il fiato, a patto di capirla. E non sono in molti a sfiorare l’abissale bellezza della QED, l’Elettrodinamica quantistica.

Già, perché l’uomo che questa mattina ha cambiato la vita di una semplice guarnizione relagando nell’olimpo delle star altri non è che Dick Feynman. Ed è malato. Molto.

Qualcuno potrebbe obiettare che è per questo che fa di testa sua e non ha paura di nessuno, ma sarebbe riduttivo. Feynman faceva di testa sua anche a Los Alamos, dove era uno dei più giovani e dove c’erano von Neumann e Fermi, Oppenheimer e quel militare scorbutico di Groves. Non era ancora un Nobel, ma era già Feynman nei modi e nei comportamenti.

Mentre parla alla commissione presidenziale messa su da Reagan per indagare sulle cause del disastro dello Space Shuttle Challenger, a un certo punto, come un consumato illusionista (l’ho già detto che si dilettava anche come mago e prestigiatore?), mi tira fuori dalla tasca a mo’ di coniglio dal cilindro e attacca: «Dick Scobee, Michael J. Smith, Judith Resnik, Ellison Onizuka, Ronald McNair, Greg Jarvis e Christa McAuliffe sono morti per colpa di una guarnizione come questa». Ecco, adesso sì che sono immortale.

Mi stanno fotografando e riprendendo. Sono in mondovisione.

«Ma la colpa non della guarnizione O-Ring in sé, ma di chi non ha saputo prevedere che la stessa non avrebbe funzionato bene a basse temperature. Vite umane e milioni di soldi dei contribuenti bruciati perché qualcuno non ha tenuto conto di una elementare legge fisica. Credo che la Nasa d’ora in poi dovrà prestare più attenzione alle selezione die suoi tecnici, che dovrà essere più rigorosa e meno politica. Meno politica e più competenza.»

 


T uguale a 1995 meno 26 anni – Houston e Base della Tranquillità

È perché sono competente, molto, che sono qui. Ho studiato sodo per questo, mi sono sporcato le mani partecipando sin da bambino a concorsi per aerei e razzi amatoriali, ho sognato questo momento, ma adesso, hic et nunc, vorrei essere altrove e non alle dipendenze di Eugene F. Kranz, vale a dire Gene, Volo (ossia il responsabile del volo) dell’Apollo 11.

Stava andando tutto bene, più o meno bene, visto che gli intoppi in programmi del genere non mancano mai, ma quando dall’Apollo 11 in discesa senti chiedere: “Houston, abbiamo un errore di sistema. È il 1202″ e subito dopo Gene ti guarda e tacitamente ti chiede un ok o uno stop allora capisci che in quel momento vorresti stare a vendere granite.

Guardo nel librone, del sudore mi va a imperlare la fronte. Sento gli occhi su di me in un silenzio che sa di piombo. Forse di morte.

“Ci date un riscontro sull’errore 1202?” chiedono da lassù. Venti secondi dopo.

«Allora?» mi chiede Gene. Adesso anche lui è sudato.

Trovo l’errore ed esulto.

«Go Gene, Go. Luce verde» dico, e sembro quasi convincente.

A 900 m un altro alert dall’Apollo ci fece salire la pressione.

“Houston, abbiamo un errore 1201 adesso, cosa facciamo?”

1201… 1201… 1201…

«Stesso tipo di errore, Gene. Luce verde per noi. Go.»

40 secondi dopo un nuovo messaggio.

“Houston, qui Base della Tranquillità. L’Eagle è atterrato.”

Qualcuno mi abbraccia, ma non ricordo chi. Vedo tazze e fogli volare in aria. Ce l’abbiamo fatta.

L’America ha portato un uomo sulla Luna.

E io, altro che gelati, non vorrei mai essere stato altrove.

«Ma poi cos’erano quegli errori?» mi chiede uno degli ingegneri strutturali.

«Credo che Buzz Aldrin possa aver tenuto accesi contemporaneamente il computer dedicato all’atterraggio e quello per il rendez-vous; ergo, la memoria dell’AGC probabilmente è andata in crash e ha segnalato l’errore.»

«Sai una cosa amico, posso spiegarti l’aerodinamica, ma non ho capito un cavolo di quello che hai detto. Però… cazzo! Ti rendi conto di quello che abbiamo fatto? Per dei secondi siamo stati appesi a te. Grande amico, come ti chiami?»

Stavo per dirgli il mio nome, ma lui è volato via ad abbracciare un altro tecnico.

Già, nessuno saprà mai il mio ruolo nell’allunnaggio. È il destino di tanti. Io ho fatto allunare l’Apollo 11, ma alla conferenza stampa andrà Gene Kranz.

Mi siedo, adesso sono come svuotato.

Non c’è più la pressione di qualche minuto fa.

 


T uguale a 1995 meno 243 anni – Basilea

Questa cosa della pressione del sangue è interessante.

Forse riesco a ricavarne una qualche legge, qualcosa che faccia schiattare di rabbia nella tomba quel borioso di Johann Bernoulli, il grande matematico che si schierò con Leibnitz nelle querelle con Newton (uno dei pochi, questo gli va riconosciuto), ma che nondimeno fu invidioso, molto invidioso quando arrivò l’aquila della matematica, il portentoso matematico Leonard Euler ad oscurarlo.

Ma chi non viene oscurato da Eulero? Il quale, bontà sua!, mi pregia della sua amicizia e stima.

E dire che non sono un matematico, non in senso stretto.

E Johann Bernoulli non era solo invidioso di Euler: una volta mi scacciò dalla sua casa perché a un concorso matematico eravamo arrivati in finale insieme. Anziché essere contento del risultato, visto che i rudimenti me li aveva dati lui stesso, non trovò di meglio che offendere me e la commissione che aveva osato paragonarmi a lui. A nulla servì la mediazione di mia madre, già, perchè io…

Sono Daniel Bernouilli, medico e matematico dilettante, figlio di Johann e nipote di Jacob Bernouilli.

Mio padre mi voleva economista, mercante, poi ha deciso per medico. Tutto, fuorché la matematica. Doveva essere lui il gallo dei Bernoulli.

La pressione dicevo, c’è qualche legge fondamentale che aleggia nell’aria, sembra a portata di mano ma diventa sfuggente. Studio il sangue nelle vene, la magia di questa linfa è straniante, non mi stancherei mai di squartare animali per vedere e studiare il flusso sanguigno, ma percepisco in quelle turbolenze qualcosa di più generale.

Devo studiare quello che hanno scritto sull’argomento dei fluidi i grandi del passato, poi, nel caso dovesse venirmi qualche idea più generale e trovarmi in difficoltà potrei sempre chiedere un aiuto alla macchina per teoremi che si chiama Euler, che è ben contento di aiutare gli altri e per nulla invidioso.

Eureka! Ho trovato (anche con qualche aiutino matematico) l’equazione generale dei fluidi; sono senza parole! In una sola equazione c’è la spiegazione tanto al flusso sanguigno quanto al volo degli uccelli.

Forse un giorno la mia equazione sarà utile anche ai novelli Icaro che vorranno staccarsi dal suolo e andare oltre. Anche oltre i nembi. 

Se solo potesse vedermi mio padre!

Io sarò più importante!

Che vendetta!

Che gioia!

Il protervio matematico battuto nella corsa all’eternità dal figlio che riteneva stupido, quello che aveva relegato alla medicina.

 


T meno 0 – Napoli

«Medicina! Domani vado a iscrivermi per i test di medicina», dico a colazione ai miei. Li vedo tirare un sospiro di sollievo.

«Come mai, Domenico? T’è passata la fissa di fare fisica o provare a fare l’ufficiale dell’aeronautica per provare a fare l’astronauta?» Chiede mio padre, che è un medico. Come mia madre, del resto.

«No, è che stanotte ho fatto un sogno buffo», rispondo e subito dopo, con la tazza fumante alla bocca, sfoglio febbrilmente il Focus di Agosto 1995. C’è un articolo su due astronauti italiani selezionati dalla Nasa: Umberto Guidoni e Maurizio Cheli.

«Che sogno?» domanda mia madre, sempre attenta al mio lato onirico.

«Non lo ricordo bene, sai com’è con i sogni, ora sei qui ora sei sulla Luna, ora sei un proiettile ora una guarnizione difettosa. Ma si volava, eccome si volava.» «Mah, questa cosa di medicina all’improvviso ci fa piacere, ovvio, ma è una cosa che devi avere dentro. O sei motivato o lasci alla prima autopsia.»

«Oh, ma io sono motivato! Ecco qua, vedi l’articolo? Qui dice che come riserva nel ruolo di Payload Specialist, che significa specialista del carico, degli esperimenti, è stato selezionato anche un medico italiano. Quindi posso diventare medico e astronauta. Così siamo tutti contenti, no?»

Non rispondono.

 

 

 

Nota dell’autore.

Nel mio racconto c’è più verità di quanta possa sembrare a prima vista.


§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§

# proprietà letteraria riservata #


Massimo Bencivenga

 

Oltre le nuvole il sole


 

Il piccolo Davide attraversò il giardino in un lampo, raggiungendo suo nonno che dondolava beatamente a mezz’aria, cullato dalla sua amaca acquistata tempo fa al mercato galleggiante di Cai Rang, sul delta del fiume Mekong. Il nipotino, con piccoli colpi sopra la pancia, cercava di recidere quel sottile filo di sonno che avvolgeva il nonno come in una sorta di bossolo. E a forza di insistere ci riuscì.

L’uomo, con un tocco del dito sulla tesa, tirò su il cappello di paglia che gli copriva il viso e, dopo aver messo a fuoco quella piccola figura che gli stava accanto, gli chiese quale fosse stato il motivo per cui l’aveva sottratto alla sua consueta, sacrosanta siesta pomeridiana. E il bambino, indicando un punto lontano nel cielo, rispose: “Ehi nonno guarda. Lassù, sopra la cima di quella montagna sta passando un aereo che sta andando chissà dove!”

“Vieni qui pulce. Sono pronto a soddisfare ogni tua curiosità!” disse l’ex comandante rivolgendosi a suo nipote, che attendeva spiegazioni a bocca aperta.

“Chiudi la bocca che ti entrano le mosche e vieni qui sulle ginocchia” proseguì nonno Elvio, indicando la traccia bianca che, mano a mano, tagliava il fazzoletto di cielo sopra la punta spelacchiata di Monte Cormegnolo.

“Vediamo un po’” – proseguì l’uomo – “se riusciamo a indovinare di che aeromobile si tratta; a giudicare dal rombo e dalla scia … si direbbe un bi reattore; potrebbe trattarsi di un Airbus A 319 per il medio raggio”.

Il bambino era ansioso di saperne di più e incalzò il suo comandante con un altro quesito: “Quanto volano in alto nel cielo gli aerei nonno? E perché lasciano righe bianche, come quella, dietro di loro”? 

“Domanda interessante giovanotto, ora vedrò di spiegarti il tutto”, gli rispose il nonno, sfilandosi i suoi inseparabili Ray Ban a goccia.

Anche Fido, il bassotto di casa, si era accodato al piccolo gruppo, marcando la sua presenza con un bau bau. La lezione poteva iniziare: “Dunque devi sapere, anzi dovete sapere, (il cane prese a scodinzolare) che nell’ambito dell’aviazione civile ci sono due categorie principali: gli aerei a lungo raggio, ovvero quelli che trasportano passeggeri o merci tra un continente e l’altro, che viaggiano a quote che possono arrivare a fino 36.000 piedi di altezza e quelli a corto-medio raggio che volano più in basso, a quote intorno ai 33.000 piedi, ovvero a circa 10.000 metri dal suolo. Fin qui è tutto chiaro per l’equipaggio?”

L’animale, con un doppio bau, evidenziava la sua soddisfazione, mentre il ragazzo voleva saperne di scie, di correnti a getto e di altre diavolerie che regolavano il volo.

L’ex comandante riprese dicendo: “Cerchiamo di spiegarlo nella maniera più semplice: le tracce lasciate dagli aviogetti che solcano il cielo sono chiamate scie di condensazione e si formano per il contatto del gas caldo in uscita dai reattori con l’aria fredda che, a quelle altitudini, può raggiungere i trenta, quaranta gradi sotto lo zero; brrr…un bel freddo non vi pare?”

“Così freddo c’è lassù, e i passeggeri dentro l’aeroplano non congelano?”, chiese Davide al nonno con apprensione.

Il narratore, per tranquillizzarlo, passò la sua mano sui capelli biondi del nipotino arruffandoli un po’, poi riprese il tema appena interrotto: “Ma no! Dentro la pancia dell’aereo si sta benissimo; è come viaggiare in una carrozza di un treno. Né caldo, né freddo. Ma torniamo al discorso di prima, …

A quel punto, come dicevamo, il vapore acqueo si trasforma in miliardi e miliardi di minuscoli cristalli di ghiaccio che si attaccano tra loro fino a formare un nastro bianco sospeso nel blu, tanto più lungo se c’è umidità in quota; più corto se l’aria che attraversa è secca. Quello che vedi lassù è abbastanza corto, quindi non pioverà.”.

Il piccolo Davide era entrato a pie’ pari nel mondo aeronautico, tant’è che iniziò a correre per il giardino con le braccia distese a mo’ di ali; dopo alcuni giri sulla pista verde del prato “atterrò” accanto a Fido che, come un missile, si era tuffato dietro la siepe di lauro ceraso, in attesa della cessazione del raid aereo.

Il pomeriggio corse via a velocità di crociera tra le domande a raffica e le risposte; leggi della fisica che permettono ad un bestione come il Boeing 747 da trecentosettanta tonnellate e che imbarca centocinquanta mila chili di kerosene, di volare come un uccello. Poi le differenze tra il volo ad elica e quello a getto che si risolvono in questioni di avvitamento e di fili d’aria, condussero il nonno e suo nipote ad un “atterraggio” in prossimità della veranda, dove ad attenderli c’era una merenda a base di gelato e meringa.  Due merli erano nel frattempo planati sullo steccato pronti a beccare tutto ciò di commestibile, mentre il cane faceva capolino dietro un cespuglio, in attesa di un segnale di via libera.

°

Elvio Bossoli era un tranquillo pensionato che, da qualche tempo, si era ritirato nella sua casa nel paese dove era nato e vissuto fino all’età di diciotto anni. La sua passione, il suo interesse per il volo ebbe inizio alla fine degli anni sessanta, quando era in servizio nel corpo dei paracadutisti nella città di Livorno. La molla gli scattò nella fase di addestramento, tra un lancio e l’altro da uno sgangherato C 119 della Guerra di Corea, condotto, di volta in volta da piloti militari con i galloni ben in vista sui loro giubbotti di cuoio.

Il suo primo brevetto lo acquisì all’Aeroporto dell’Urbe a Roma, al termine di un corso iniziato a cinque mesi dal congedo dal corpo dei Parà. Il primo volo da allievo pilota fu per lui un’esperienza indimenticabile. I’istruttore era un pilota da caccia dall’aspetto asciutto, uno di quelli che: le parole non contano, ma contano i fatti; uno di quelli abituati a stare per aria e a rivoltare a suo piacimento il mondo di sotto, in su e in giù tirando o spingendo semplicemente una cloche.

L’allievo pilota Bossoli Elvio, in quell’occasione, ebbe modo di toccare con mano l’effetto centrifuga dovuto a cabrate e picchiate effettuate dal suo istruttore che, alla fine dei giochi, gli si rivolse dicendo: “Allora ragazzo cosa vogliamo fare? Su prendi tu i comandi e vai, che io me la fumo”! Era stata una grande emozione, grande come il cielo che stava solcando, alla guida di un aeroplano. Il primo.

Si faceva presto a dire: “D’ora in poi voglio stare con i piedi per terra, basta nuvole e vuoti d’aria, basta trasferte continentali, fusi orari: due giorni a Sidney, uno a Dakar, piuttosto che a Oslo. Voglio vivere i miei giorni ben piantato a terra. Ecco cosa voglio. Meglio se al livello del mare, a respirare iodio e mangiare una frittura di pesce in buona compagnia. Beata la pensione!

Ma tra il dire e il fare c’era di mezzo il mare, anzi no: il cielo. E fu così che l’ex comandante pilota Bossoli tornò a volare, ma questa volta come passeggero, per via di un matrimonio di una sua parente che viveva a Bruxelles. Essere passeggero pagante su un aereo di linea, anziché pilotarlo, faceva un certo effetto; intanto, fuori dall’oblo, il mondo si metteva in movimento e il Boeing 737 dalla livrea gialla e blu, già rullava sulla pista 04-R1 dell’Aeroporto di Ancona Falconara, destinazione Bruxelles – Charleroi.

L’aeroplano prendeva a salire di quota rabbiosamente, poi l’ala si alzò e il Mare scomparì. I flaps rientrarono dentro l’ala e anche il carrello. I motori si placarono quando si raggiunse la quota di crociera; Elvio aveva piena consapevolezza di tutte le fasi del decollo; ma preferiva di gran lunga, godere della luce che splendeva in quota e della serenità che essa infondeva nel suo animo libero da ogni responsabilità. Le nubi fuori dal finestrino erano fiocchi di cotone sospesi nel blu. Ora le poteva ammirare in tutta la loro eterea, impalpabile bellezza. La Svizzera, di sotto, era color tabacco; un fiume lanciava riflessi d’argento, mentre nel corridoio gli idiomi si fondevano come all’interno dei mercati del giovedì nella città di Istanbul. Fino all’atterraggio.

°

“Bentornato comandante, hai fatto un buon viaggio? Finalmente sei qui ho tante cose da chiederti, le ho pensate mentre tu eri via. Le vacanze stanno per finire ed io dovrò tornare in città e ricominciare con la scuola. Che barba!”, disse Davide, mentre correva incontro al nonno che armeggiava con degli attrezzi all’interno della casetta di legno. “Allora giovanotto, cos’è che vuoi chiedermi di così urgente”? Il ragazzo trasse un foglietto dalla tasca dei pantaloncini, lo aprì e disse: “Mi sono fatto degli appunti per non tralasciare nulla; mi piacerebbe sapere di quando pilotavi gli aerei grandi, e quante città hai visto e se hai mai incontrati gli UFO? E tante altre cose.”. Elvio aveva capito che doveva interrompere il suo lavoro di restauro di quel vecchio grammofono a tromba degli anni ’20 che aveva acquistato da un rigattiere a Sidney e caricato in stiva, in occasione di una delle sue innumerevoli missioni intorno al globo.

“Dov’è che iniziamo” disse l’ex pilota al nipotino che sedeva sulla cassa panca appena lucidata con il copale, sopra la quale non tardò ad accovacciarsi anche Fido il bassotto di casa. “Bene, ora che l’equipaggio è al completo, possiamo incominciare”, continuò l’uomo. “Signori dell’equipaggio” disse con velata ironia al ragazzo e al cane “Dovete sapere che il sottoscritto, prima di arrivare a pilotare grandi aerei sulle rotte intercontinentali, ha dovuto superare diversi esami per ottenere brevetti intermedi di primo e secondo grado, con i quali si era abilitati a pilotare piccoli aerei con passeggeri paganti. Nel frattempo, per accumulare ore di volo, si lavorava anche per società che gestivano gli aerei antincendio Canadair 215 e 415. Il ragazzo ascoltava con la meraviglia propria dell’età, e nel contempo immaginava il nonno come una sorta di super eroe, che difendeva la natura dagli uomini cattivi che incendiavano boschi e foreste. L’uomo notò, dall’espressione del viso, che Davide stava già fantasticando nel mondo dilatato della fantasia, dentro la quale ogni gesto, ogni situazione si amplificava come sotto una lente di ingrandimento. “Possiamo continuare giovanotto?”, gli si rivolse il nonno, facendo un gesto con la mano davanti ai suoi occhioni blu. “Vai avanti comandante, noi ti seguiamo, vero Fido?” rispose con prontezza il nipote. Il cane annuì alzandosi sulle zampe anteriori.

Il racconto continuava, come dire, tenendosi a bassa quota, nel senso che si parlava di servizi anti grandine effettuati con piccoli velivoli che si gettavano nel bel mezzo dei temporali sparando candelotti di ioduro d’argento sopra i vigneti del Soave in Veneto o del Chianti in Toscana, oppure di come ci si arrangiava, con altri piloti, con gli aereotaxi, piccoli velivoli a quattro e sei posti con i quali si scarrozzavano i vips da un punto all’altro dell’Italia. Tutto questo, pur di volare e acquisire ore di volo.

Per non appesantire il racconto, non era stata descritta la modalità del conseguimento del brevetto di terzo grado professionale tramite un concorso indetto dal Ministero dei Trasporti e dell’aviazione Civile e di conseguenza i due anni di corso per lezioni pratiche di volo strumentale a bordo di un SIAI MARCHETTI S205 e di un Piper 23 bimotore a elica, oltre alle lezioni teoriche riguardanti l’aereodinamica , il volo simulato, la meteorologia, il diritto civile, i codici di navigazione e, naturalmente, lo studio della lingua inglese. Lingua fondamentale per la navigazione aerea globale.

Intanto, in avvicinamento, si profilava l’ora di cena; la narrazione venne rimandata al domani, e l’equipaggio composto da: Elvio, Davide e il bassotto di casa, si fecero guidare dal profumino che proveniva dalla cucina, dove nonna Carla era regina incontrastata. La notte che seguì mise tutti a nanna. Davide, che si sentiva un po’ come il comandante in seconda, pensò bene di appiccicarsi sulle spalline del pigiama due rettangoli di carta sui quali aveva disegnato tre strisce color d’oro. Saltò sotto le coperte e Morfeo se lo prese in carico subito dopo, ancor prima dell’imbarco sull’aeronave dei sogni.

°

“Eppure l’avevo messo qui dentro quest’armadietto; dove può essersi cacciato”, Elvio, già di buon’ora, era all’interno della casetta di legno, alla ricerca di un album fotografico con dentro una serie di fotografie scattate nel corso della sua lunga carriera di pilota commercale.

“Eccolo qua, sapevo che c’era”! Un soffio sulla copertina fece alzare una polvere densa come borotalco che si disperse nell’ambiente circoscritto dello stanzino.

“Vieni pulce, siedimi accanto che ho qualcosa di interessante da farti vedere”, disse l’ex pilota al nipote che, finito di far la sua bella colazione, era appena uscito dalla veranda e si era precipitato al quartier generale per il briefing mattutino. A ruota, un po’ sonnecchiante, lo seguiva l’inseparabile Fido. Nonno Elvio appoggiò il massiccio raccoglitore sul tavolino invitando Davide a prendere visione del contenuto.

Due piccole mani cominciarono a sfogliare pagine e pagine sulle quali suo nonno aveva appiccicato momenti significativi della sua carriera; pezzi di vita ritagliati su una fotografia in bianco e nero, oppure a colori. Pagina sette, in alto a sinistra: Allievo paracadutista Elvio Bossoli, fotografato in assetto di lancio sulla pista di un aeroporto militare; accanto, sempre l’allievo pilota ritratto in primo piano davanti un Piper 23 bianco con delle linee fiammeggianti ai lati della carlinga.

Il ragazzo manifestava molto interesse per quelle fotografie, e si vedeva da come i suoi occhi blu le scrutavano in ogni loro particolare.

“Questa mi piace nonno, ecco ti ho riconosciuto, sei quello con le cuffie che ascolta la radio e dentro la cabina ci sono altri due piloti. Quanti aggeggi e luci colorate”!

Il nipotino rimase col dito piantato sulla fotografia, aspettando che l’ex pilota gli descrivesse il contesto. La risposta non si fece attendere: “Qui tuo nonno aveva acquisito da poco il brevetto di terzo grado e fu una vera svolta nella sua carriera.

La cabina che vedi è quella di un DC-10 Mc Donnell Douglas in rotta su Roma Dakar – Dakar Rio de Janeiro. Io, come terzo ufficiale, controllavo il pannello degli impianti; qualche volta il comandante mi lasciava la cloche dell’aereo, forse gli facevo un po’ di compassione.”.

Sentendo quello che il nonno gli aveva appena detto, la sua faccia si imbronciò, ma il nonno lo rasserenò quando gli disse che la cosa durò circa un anno, dopo di ché diventò co pilota su un DC-9 operante su rotte europee.

Il ragazzo fu colpito da un’altra foto a colori, dove il suo comandante posava davanti la turbina di un aereo gigantesco con la sua bella uniforme con i tre galloni dorati cuciti sulla giacca blu scuro. Davide non tardò a colmare la sua innata curiosità di bambino, commentando la foto sulla quale si era soffermato.

“Stai ammirando il bestione, uno degli aeroplani più grandi mai costruiti al mondo; questo gigante dell’aria si chiama: Boeing 747 Jumbo jet, pesa trecento settanta tonnellate e imbarca cento cinquantamila chilogrammi di carburante. Da quel momento in poi ho messo il mondo nelle mie tasche: Pechino, Sidney, Mosca. E dimenticavo Chicago, che è uno degli aeroporti più trafficati al mondo, dove la torre di controllo non sempre ti capisce…”

“Dimmi di un altro aereo grande che hai pilotato nonno, e che ti è piaciuto!”, chiese ancora il ragazzo.

Elvio aggrottò la fronte per la concentrazione, poi sparò di getto la sua risposta sul viso colmo di curiosità di suo nipote, che ormai era entrato a pieno titolo a fare parte nel suo equipaggio. Insieme a Fido naturalmente.

“Un aeromobile che non si può scordare è l’MD-11 e tu mi chiederai il perché? Facile. Ti rispondo, è velocissimo e nervosissimo, ha tre motori, ognuno dei quali in fase di decollo si beve diciotto mila chili di kerosene e la capacità dei suoi serbatoi è di centoventimila chilogrammi. Il velivolo può ospitare trecento passeggeri e la sua velocità di crociera (tieniti forte) raggiunge tranquillamente i novecento cinquanta chilometri l’ora.

Ricordo, come fosse adesso, quella volta che incontrammo le correnti a getto sull’Oceano Atlantico ad una latitudine di 75°nord, sulla rotta siberiana, che rese necessario il rimescolamento del carburante dentro le ali per evitarne il congelamento.

Un altro cavallo di razza, un altro gigante che ho avuto il piacere di pilotare è stato il Boeing 777, corredato da due motori turbofan, ognuno dei quali sviluppava una potenza pari a cinquanta mila cavalli. Rendo l’idea?”.

Elvio si compiaceva nel raccontare le sue avventure al piccolo Davide e talvolta sul racconto ci metteva un po’ del suo, allo scopo di rendere più accattivanti le avventure di -mister Elvio l’uomo volante-.

Il piccolo Davide era felice e contento e, in cuor suo, sperava di ripercorrere le orme di suo nonno e anche di più ma, vista l’ora tarda, i viaggi interplanetari e gli incontri ravvicinati con gli UFO li rimandò ad un’occasione più propizia.

Fido era saltato sul suo letto, ma il ragazzo non se ne rese conto, preso com’era a ipotizzare rotte ortodromiche e trasvolate intercontinentali magari a bordo di un cargo zeppo di automobili di lusso da consegnare a New York, o di imbarcare una dozzina di cavalli di razza per facoltosi professionisti in attesa all’aeroporto di Detroit.

Ma adesso era giunto il momento di planare: giù i flaps e il carrello, destinazione mondo dei sogni, di quelli colorati che solo i bambini riescono a concepire.

Nonno Elvio gli rimboccò le coperte e con un buffetto salutò il bassotto che lo guardò scodinzolando, senza fiatare.

La notte, con le sue nere ali, avvolse il sonno del piccolo Davide, e lo fece in modo discreto, per non disturbare la sua navigazione nel cielo alto, fin sopra le nuvole dove splende sempre il sole. Una luce bianca, rarefatta. La luce dei sogni.

 


§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§

# proprietà letteraria riservata #


Bruno Bolognesi

Geo Chavez, alata avventura


Storia del grande trasvolatore  (a modo nostro)

 

 

Ciao.

Giacomo mi hai assegnato un bel compito e devo proprio eseguirlo perché ogni promessa va mantenuta.

Fingerò di essere tornata sui banchi di scuola: un maestro un po’ esigente ma simpatico mi assegna un tema (un tema è come un lungo pensierino).

“Geo Chàvez, alata avventura” oh cribbio ! … cosa scrivo ? Devo pensarci un attimo …

Nessun problema … invece di parlare del grande trasvolatore e della sua storia scritta e riscritta, parlerò della “nostra storia” e di tutto ciò che insieme ci siamo inventati per inseguire il mito di quell’ impavido e temerario giovane.

Cominciò tutto per caso; non avevi ancora cinque anni ma amavi già molto le storie: quel giorno la nonna era a corto di eroi, aveva esaurito il suo repertorio: Sandokan, Yanez, Indiana Jones, Ulisse con il suo cavallo di legno, i Ciclopi e il cane Argo. Avevano già ampiamente riempito i sabato mattina di pioggia, ci voleva qualcosa di nuovo da assaporare nel calduccio del lettone, pieno di cuscini e di morbidi piumi, un rituale stravagante ma irrinunciabile.

Così un po’ rannicchiati e al buio mi ricordai di Geo Chàvez, da poco erano terminati i festeggiamenti per il centenario della sua trasvolata delle Alpi.

In pochi minuti entrammo di prepotenza nel personaggio, volevi saperne sempre di più così cercai in ogni modo di ricordare le mie letture e il teatro che gli alunni della mia scuola elementare avevano elaborato e rappresentato, cercai in tutti i modi di enfatizzare il tono del racconto per creare e trasmettere l’atmosfera di quel fatidico giorno di settembre (il caso ha voluto che coincidesse con la data della tua nascita), tu eri rapito, ti sentivi Geo intrappolato nelle gole di Gondo in balia delle raffiche di vento e intirizzito dal freddo, ti sentivi Geo nel superamento degli ostacoli, ti sentivi Geo nell’entusiasmo, perché le montagne minacciose e all’apparenza invalicabili, si erano inchinate al coraggio di un giovane desideroso di confrontarsi con le forze della natura, cavalcando il mito di Icaro e il sogno di Leonardo … un mattino indimenticabile, emozionante.

Tutto però poteva esaurirsi in un semplice racconto, ma non fu così, perché ebbi la buona idea di dirti che potevamo andare insieme a vedere ciò che rimaneva in Ossola dell’aereo e della storia di Geo, così cominciò il nostro peregrinare, avremmo cercato e se necessario saremmo andati anche in Svizzera, quel giovanissimo ed eroico aviatore aveva suscitato le nostre simpatie.

Siamo saliti al Sempione, dovevamo vederle quelle terribili gole di Gondo. Che belli i tuoi numerosi “perché”e le tue stupite incredulità e che fatica la ricerca di risposte, capaci di soddisfare le tue curiosità, piccole forse, ma grandi nel tuo cuore, immense nella tua mente.      

Un sabato pomeriggio andammo all’avio superficie di Masera, salisti su un piccolo aereo e nelle foto si percepisce il tuo meraviglioso stupore e la gioia, stavi vivendo un’ avventura straordinaria e il monumento, dedicato a Geo Chàvez, con quel piccolo aereo che in ampie spirali sembra arrampicarsi nell’immensità del cielo, se avessimo potuto lo avremmo portato a casa. Andammo anche al cippo e lì ci fu il dolore, il rammarico nel ricordare la fragilità di quel piccolo Blériot che non era riuscito a difendere quel simpatico giovane un po’ guascone e spavaldo ma rispettoso e consapevole che i suoi grandi entusiasmi potevano costargli cari.

Continuando il nostro viaggio tra i ricordi di Geo scoprimmo che qualcuno aveva riproposto una ristampa anastatica del fumetto dedicato all’impresa, del lontano 1910; così un pomeriggio andammo al Gal: ti lasciai da solo, entrasti nell’ufficio, salutasti, e chiedesti educatamente il fumetto di Geo: l’impiegato, colto alla sprovvista, non nascose la sua perplessità, non sapeva di cosa tu stessi parlando, poi realizzò e si avviò ad uno scaffale, a quel punto tu specificasti che il fumetto lo volevi in italiano, ti avevo detto infatti che il libriccino era stato ristampato in diverse lingue.

Intanto in casa della nonna Danila, la stanza che era stata di papà Christian si arricchiva di locandine, di fotografie, di modellini di aerei, tutto riconducibile a Geo e il massimo della gioia lo raggiungesti, quando la maestra Nives ti regalò il modello autentico dell’aereo di Chàvez, proprio quello che era servito agli alunni per la rappresentazione teatrale. Il modello, di carta, di polistirolo e di legno è una bella, ma ingombrante riproduzione, in ogni caso riuscimmo a sistemarlo in quella camera che ormai era stata ribattezzata: “La camera di Geo”.

Poi andammo a Bugliaga per vedere da lassù il percorso del leggendario Bleriot (gli alpigiani lo scambiarono per un’ aquila) e ci fermammo nella piazza che ricorda e commemora il trasvolatore.

Andammo a Domodossola al chiosco che ospita i resti dell’ala dello storico aereo e la sua ricostruzione e raggiungemmo la piazza da sempre dedicata a Geo Chàvez, lì c’è una bella pensilina a forma di ala d’aereo. Non poteva mancare la visita all’Ospedale San Biagio dove una lapide, un po’ dimenticata, rende omaggio all’eroe ricordando la sua sfida, la sua temerarietà e le sue ultime drammatiche ore.

Un sabato decidemmo di visitare il Museo Sempioniano, pensavo fosse la ciliegina sulla torta, ma ahimè … che delusione! Lo trovammo chiuso per restauri: il volo simulato della trasvolata non potemmo vederlo, così dovetti promettere solennemente che avrei telefonato all’assessore alla cultura per avere notizie; telefonai più volte, ma non ricevetti mai risposte rassicuranti, quel gioiellino di museo per un cedimento strutturale, non è fruibile, sembra da tutti dimenticato con il suo prezioso contenuto di storia, di emozioni e di ricordi.

Nel giro di qualche mese credevo di aver esaurito il nostro viaggio tra storie, aneddoti e notizie. Geo era entrato prepotentemente nella nostra vita e l’aveva resa interessante e curiosa, così un bel mattino con il nonno Nino e con papà Christian partimmo per Briga e andammo in treno,(un comodo euro city) attraverso la galleria elicoidale e il tunnel del Sempione, per tanto tempo il più lungo del mondo, domande a non finire ed impegnative risposte.

A Briga ci dirigemmo subito al castello Stokalper e lì avemmo di che divertirci, fotografie d’epoca, plastici, gigantografie: occhioni stupiti, sguardi colmi di meraviglia: il viaggio si era rivelato un po’ costoso, ma interessante e proficuo, non poteva andare meglio.

Il ritorno fu allegro e spensierato e la promessa fu che ci saremmo tornati, perché qualcosa poteva esserci sfuggito.

La mia storia sta per finire, credo di aver svolto bene il compito che tu mi hai assegnato, se ho dimenticato qualcosa tu certamente mi dirai di aggiungerla, io però volutamente ho lasciato per ultimo il fatto che noi andiamo spesso a fare la merenda là dove un artista ha immaginato si sia proiettata l’ombra del fragile aereo in transito verso Domodossola; quel monumento realizzato con semplici ciottoli di fiume piace a pochi, ma per te e per la nonna … è un “sacco bello”, prima di tutto perché per raggiungerlo dobbiamo seguire un avventuroso percorso che ci evita i pericoli della vecchia strada del Sempione e poi perché una volta arrivati all’ “ombra”, non solo possiamo fare una bella merenda, ma possiamo inventarci avventure straordinarie, possiamo parlare con Geo, volare con lui e suggerirgli rotte più sicure, lo amiamo troppo questo eroe dell’aria: la nostra fantasia e il nostro gioco lo vogliono ancora accanto a noi con il suo accattivante sorriso e il suo sguardo luminoso, perso nell’immensità di un cielo che per Geo ha rappresentato la gioia, l’entusiasmo e la speranza in un futuro non solo di primati, ma anche e soprattutto di progressi al servizio di un’umanità sempre migliore. 

Passo passo siamo arrivati all’estate duemilasedici, notizia sensazionale! … il regista Fredo Valla verrà a Varzo a proiettare il suo film “Più in alto delle nuvole”, non ci sembra vero: un film tutto dedicato a Geo Chàvez, proiettato sulla scalinata della chiesa, in un angolo di Varzo che ci piace tanto.

Sarà una serata splendida, purtroppo non conoscevamo la data, quando la stabilirono ci disperammo un po’, perché tu saresti stato in vacanza al mare … che disdetta! … questo proprio non ci voleva.

Così altro compito, altra promessa … non dovevo mancare alla proiezione, dovevo cercare di parlare con il regista e soprattutto dovevo procurarmi il dvd.

Ho svolto il compito e quando a casa abbiamo guardato il film ho cercato di comunicarti le emozioni di quella serata, emozioni che erano state mie, ho cercato di sottolineare la suggestione delle immagini e la poesia delle parole sulle note di una bella musica di Giorgio Conte (fratello di Paolo).

Geo Chàvez è sempre tra noi, gli saremo grati, perche la sua avventura di conoscenza, d’amore e di curiosità, per tanti mesi è stata anche la nostra indimenticabile avventura.

Caro Giacomo, la storia è finita e il tema è terminato: a questo punto quel maestro un po’ esigente, ma simpatico dovrà darmi un voto … sto parecchio sulle spine … tuttavia penso che molte cose spesso si fanno per il piacere di farle, senza pensare ad un voto o a una ricompensa .

Per me è stato proprio così, ho potuto regalarti un racconto e ho rivissuto con te la straordinari avventura della trasvolata delle Alpi.

Accanto a noi Geo, in un ricordo colmo di tenerezza e di ammirazione, attimi belli, indimenticabili e, come dico sempre quando mi mancano le parole, attimi “da svenimento”.

Un bacione

La nonna …

 


§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§

# proprietà letteraria riservata #


Rosa Danila Luoni

Catrame


Inspirare. Espirare. Forza. Forza. Un urlo strozzato nella gola, un disperato grido verso il cielo. Mi sollevo di pochi millimetri, poi ricado, pesantemente, sulla sabbia bagnata.

Strizzo gli occhi, ansimando. Riprova, mi dico. Devi farcela. Non puoi lasciare che questo ti incateni, che ti tolga la tua libertà. Raccogli le tue forze e alzati, subito.

Cerco di riprendere il mio respiro regolare. Pochi secondi, poi inizio nuovamente a fare forza. Spingo verso l’alto con tutte le mie energie, alimentate dalla forza della disperazione. Il mio corpo si alza di un millimetro, poi di un altro, di un altro ancora, finché non arriva a un centimetro dal suolo: ma, proprio quando credo di avere compiuto il passo decisivo, ricado ancora una volta, con un impercettibile rumore sordo, sul bagnasciuga.

Abbandono il capo sulla sabbia, a occhi chiusi. So di non avere la minima possibilità di farcela, ma qualcosa, dentro di me, continua a sussurrarmi di non arrendermi, di insistere fino al mio ultimo respiro. Arrendersi significherebbe la fine, lo so bene: anche lottare, probabilmente, finirà per uccidermi, ma, quantomeno, non morirò di rassegnazione.

Le onde salate mi lambiscono, quasi volessero lavarmi: che sciocche. Non sanno che nulla potranno contro questa massa oleosa, dall’odore nauseabondo e dal colore della signora con la falce, che mi ha completamente ricoperto e annientato con il suo peso. Com’è successo? Non riesco a ricordare. So solo che, a un tratto, le mie piume bianche e grigie, delle quali andavo così orgoglioso, si sono parate a lutto, indossando una cappa pesante e soffocante che mi impedisce di alzarmi in volo, di camminare in cerca di aiuto, perfino di respirare.

Sbircio il cielo, inclinando di poco il capo: c’è aria di burrasca, oggi. Le nuvole color petrolio si addensano sopra di me, sbattute dal vento che non cessa di lambirmi, quasi volesse cercare, in una premura inutile quanto quella delle onde, di staccarmi di dosso questo mantello color disperazione. Questo tempo minaccioso tiene ben serrati in casa gli abitanti di questo piccolo borgo di mare: nessuno che si azzardi a muovere due passi su questa spiaggia spazzata dalle raffiche di vento. Non posso neppure sperare aiuto da qualche anima compassionevole, che mi raccolga e tenti di tirare via questa poltiglia dal mio manto.

E’ la fine di tutto? E’ questo il mio capolinea?

§§§

Mi chiamo … No, non ho un nome. Sono solo un gabbiano, io, e, come tutti gli animali nati liberi, non sono stato battezzato con un nome proprio. Un nome lo hanno solo quelli che popolano le favole per bambini, oppure i protagonisti dei best seller. Non abbiamo bisogno di un nome, noi gabbiani comuni, per riconoscerci quando voliamo liberi nel cielo: ci basta individuarci dall’odore e dai suoni che emettiamo, ed essere consci della nostra direzione. Avanti, sempre avanti, nel sole come nella pioggia, fra mare e cielo: questa è la nostra vita, che a molti potrebbe sembrare noiosa, ma per noi rappresenta solo la libertà più pura.

Quella che adesso mi è stata tolta da una massa oleosa.

Il primo ricordo che ho è lo sbriciolarsi di qualcosa di calcareo intorno a me, la luce intensa del sole attraverso le mie palpebre chiuse, e un pigolio sommesso dal retro del mio becco. Gli occhi li ho spalancati subito, ansioso di accogliere in me tutti quei raggi luminosi; mi sono guardato il corpo, e ho scoperto di essere ricoperto da una specie di strana peluria. Stretti intorno a me, altrettanto stupiti e irrequieti, due miei simili pigolavano, come in una gara a chi lo sapesse fare meglio e a voce più alta. Accanto a noi, una figura enorme, pacata, autorevole, ma odorosa di buono, ci guardava con aria attenta e indulgente. Istintivamente, ci siamo protesi verso di lei, che ha aperto le sue penne raccogliendoci sotto di esse, in un gesto protettivo.

Mi sono chiesto spesso se per tutti gli altri volatili l’inizio della vita sia così noioso come lo è per noi gabbiani. Non è divertente passare le ore attaccati gli uni agli altri, a becco costantemente aperto, in attesa che un altro becco più grande arrivi e lasci cadere in uno dei nostri, a turno, un vermetto o un insetto che plachi, almeno momentaneamente, la nostra fame. Ci si domanda se la propria esistenza sarà sempre così, e ci si dice che, se questo è il caso, la vita è davvero poca cosa.

Poi, un giorno, il grande gabbiano odoroso di buono mi ha fatto appoggiare le zampe sul margine della scogliera, e, con un verso acuto e preciso, mi ha detto: “Vai!”

Io ho guardato il cielo. Un’enorme strada azzurra appena velata da sottili lamine di nuvole. Una leggera brezza la percorreva, nell’aria appena spruzzata da occasionali colonie di moscerini. In lontananza, un enorme uccello d’acciaio lasciava una scia bianca, che si disperdeva via via che esso si allontanava. Tutto era così perfetto da farmi pensare di non essere degno di inserirmi in tanta bellezza. Forse il cielo non avrebbe potuto sorreggermi, io così sgraziato e pesante. Forse mi avrebbe rifiutato, scaraventandomi violentemente verso le onde azzurre.

Ho abbassato lo sguardo, e ho guardato il mare. No, mi sono detto, era un errore definirlo semplicemente “azzurro”. Era blu, verde, cobalto, smeraldo, increspato di candida trina ai comandi del vento. La sua trasparenza mi inquietava, poiché la indovinavo ingannevole come il viso innocente del falso amico che nasconde le peggiori intenzioni. Che cosa si celava dentro ai suoi incalcolabili abissi? Guardavo quella distesa infinita e non riuscivo a catalogarla come la riserva di cibo che il mio istinto avrebbe dovuto indicarmi: era piuttosto una voragine senza fondo, sabbie mobili pronte a inghiottirmi e a farmi sprofondare giù, ancora giù, sempre più giù, fino ad annientare il mio essere dentro l’ignoto e l’oblio. Nella mia giovane mente, era un mostro liquido che mi avrebbe inglobato, fagocitato in un solo attimo e per sempre.

Terrorizzato, mi sono ritratto, cercando di saltare nuovamente verso l’interno, al sicuro. In quel preciso attimo ho sentito lo schiaffo di un ventaglio di penne sulla mia schiena, e la stessa forza che avrebbe dovuto riportarmi indietro mi ha spinto in avanti, oltre il limite di quello che fino a quel momento era stato il mio rifugio: nel vuoto.   

Confesso di avere urlato, mentre il peso del mio corpo mi trascinava verso il basso a una velocità inconcepibile. Vedevo quella distesa di acqua e mistero avvicinarsi ogni secondo che passava, e in essa indovinavo già la mia fine, sciolto nel suo liquido ignoto o nelle fauci di chissà quale strana creatura degli abissi, pronta a fagocitarmi.

Poi, a pochi metri dal suo abbraccio, qualcosa è scattato. Ho guardato le creste di spuma, come sorrisi minacciosi che mi attendevano per addentarmi a morte, e mi sono ribellato. No, mi sono detto, non può finire qui. Tu non mi avrai, mare. Io sono una creatura del cielo, ed è il cielo la mia strada.

Con uno sforzo sovrumano e uno scatto repentino, mi sono girato verso l’alto. Le mie ali, fino a quel momento inerti e pesanti, hanno iniziato a muoversi con la forza e la velocità date dalla paura e dalla disperazione. Lentamente, faticosamente, ho guadagnato un centimetro per volta, fino a stabilizzarmi e poi risalire, mirando sempre più in alto, lontano dalle onde assassine. Il mio corpo, che poco prima mi era sembrato tanto pesante, aveva la leggerezza di un velo, di una impalpabile nuvola, e ora planava con grazia, percorrendo la strada del cielo come se non avesse mai fatto altro in tutta la sua breve vita.

L’azzurro un poco sfumato si stendeva davanti a me, ormai a mia completa disposizione. Inclinando tutto il corpo, ho virato per tornare un poco indietro, verso il mio vecchio nido. Il grande gabbiano mi osservava: accanto a lui, uno dei miei fratelli era appollaiato sul bordo, tremante come me pochi minuti prima. Gli ho lanciato un verso rassicurante, dicendogli di non avere paura: stava per assaporare la libertà. Il grande gabbiamo ha annuito impercettibilmente, soddisfatto di me che me ne stavo andando per sempre. Con un altro piccolo verso, ho salutato chi non avrei mai più rivisto, prima di virare nuovamente. Il sole mi stava tendendo le sue braccia: mi sono slanciato verso di lui, con un grido gioioso, il grido della vita.

§§§

Volavo da due ore, ormai, quando ho avvertito quello strano morso allo stomaco che, fino al giorno prima, mi aveva preavvisato l’arrivo di un bocconcino. Sapevo, però, che non avrei più avuto alcun aiuto in quel senso: ero cresciuto ed ero indipendente, e dovevo cavarmela da solo.

Guardare verso il mare: ecco, sì, era quella la soluzione. Ho iniziato a planare, avvicinandomi alla sua superficie, quasi sfiorando le sue increspature che, quel giorno, erano calme, pacifiche come, forse, non le avevo mai viste prima. Scrutavo. A un tratto, ho intravisto, nel bagliore del sole, un piccolo riflesso argenteo: sembrava quasi una stellina che avesse sbagliato strada e orario, finendo, in pieno giorno, fra le onde del mare. Ma era solo un pesciolino, e non chiedetemi di che razza: non ero certo un esperto, ne’, d’altronde, lo sono mai diventato. Tutto ciò che sapevo era che quella piccola scaglia d’argento aveva il potere di placare la mia fame. L’ho fissato per alcuni secondi, mentre lui, del tutto ignaro del mio interesse, guardava tranquillamente da un’altra parte: un’occasione più unica che rara. E’ stato un bene che non mi abbia guardato negli occhi: se l’avesse fatto, non so se sarei stato capace di sacrificarlo al mio appetito. Invece, non ho avuto modo ne’ tempo di provare compassione, ne’ di pensare “mors tua vita mea”. Mi sono buttato su di lui, in picchiata, sapendo di avere un breve attimo a disposizione e nessuna possibilità di sbagliare. Con uno scatto, ho aperto e chiuso il mio becco, e, nel momento in cui ho iniziato a risalire, una piccola, vibrante coda scintillava nel sole, appesa ai miei denti. Il grande gabbiano sarebbe stato fiero di me: adesso ero capace di procacciarmi il cibo da solo. Sazio e soddisfatto di me stesso, ripresi la mia strada attraverso il cielo.

§§§

Non era sempre facile. Non c’era sempre il sole. A volte il cielo si copriva di nuvole spesse, che coloravano il mondo di un’uggia che toglieva la voglia di vivere. A volte arrivava il vento, ma non la leggera brezza che favoriva il cammino: c’erano giorni in cui era impossibile combattere con le violente folate che mi rigettavano indietro e toglievano la voglia di combattere. In quei giorni non restava che trovare un riparo e aspettare, come si faceva quando la pioggia si faceva fitta e violenta. La grandine, poi, era da evitare come la peste: guai a rischiare di essere colpiti sul capo da uno di quei chicchi effimeri, eppure durissimi. Mi era gradita solo la pioggia sottile, che non fermava il mio volo ma lo contornava con quell’odore di mare che lei stessa esaltava con le sue gocce minuscole e ritmate. Il sole, però, era il mio regno. Lo salutavo con gioia al mattino, quando sorgeva da quella distesa di acqua salata, incredibilmente asciutto nel suo magico potere. Lo inseguivo per tutto il giorno, lanciandogli grida gioiose. Lo salutavo tristemente quando, al tramonto, lo vedevo rituffarsi in quel mare che, incredibilmente, non riusciva a spegnerlo. Lo sospiravo per tutta la notte, e, se mancava per qualche giorno, diventavo malinconico e sospiravo solo il suo ritorno.

Una volta, volando sopra la spiaggia, ho sentito l’esigenza di riposarmi un poco, e mi sono posato su di uno scoglio, a poca distanza da un nonno che stava raccontando una storia al suo nipotino. Mi sono messo ad ascoltare, e ho scoperto che gli parlava di un certo Icaro, vissuto secoli prima: uno sventato giovinetto che si era avvicinato troppo al sole con ali fatte di cera, e che era stato tradito dal sole stesso, che aveva sciolto le sue ali facendolo precipitare nel vuoto. “E quindi stai attento, piccolo mio” ha concluso il nonno, “non volare troppo vicino al sole, o ti brucerai!” A sentire quelle parole, io ho scosso la testa: se il giovane Icaro aveva fatto una sciocchezza ad avvicinarsi al sole con ali di cera, io sapevo bene che il sole era mio amico, e che non avrebbe mai potuto fare altro che proteggere ed esaltare il mio volo.

Ma perché, mi chiedo adesso, quello stesso sole che ha potuto sciogliere le ali di Icaro ora non è presente per liberarmi da questa massa nera e oleosa? Perché gli amici ti voltano le spalle quando hai più bisogno di loro? Qualcosa mi dice che, anche se il sole fosse qui, potrebbe fare ben poco contro questo mostro delle tenebre, ma almeno potrebbe provarci, e accompagnarmi nei pochi minuti che mi restano. Invece, questo tempo grigio e arrabbiato non fa che fossilizzare sul mio corpo e sul mio cuore questa corazza che non mi sono scelto.

Sarebbe stato un conforto, andarmene con il sole. Invece, so già che non lo rivedrò mai più.

§§§

Non ricordo quanto siano durati i miei voli spensierati, con l’unico problema di procurarmi, ogni tanto, un poco di cibo: so solo che un giorno, di punto in bianco, la situazione è cambiata, e un’altra prospettiva mi è apparsa davanti.

L’ho riconosciuta dall’odore. Apparentemente, non mi sarebbe mai saltata all’occhio: vederla è stato come guardarmi in uno specchio, o guardare uno qualsiasi dei miei occasionali compagni di volo. Ma, quando mi si è affiancata nella mia strada di cielo, qualcosa di diverso mi ha solleticato le narici, costringendomi a variare la mia rotta. All’inizio mi sono sentito smarrito, poi ho capito: avevo riconosciuto l’odore del grande gabbiano, quell’odore di buono che non avevo più percepito da quando l’avevo salutato, prima di andarmene per sempre.

Ci siamo osservati dapprima da lontano, poi ci siamo avvicinati, inclinando il capo da un lato e dall’altro. Non c’era traccia dell’aggressività che provavo di solito, quando un mio simile mi si accostava troppo: era la prima volta che, al contrario, cercavo la vicinanza, l’interazione. In quel momento, ho sentito che il mio volo non riguardava più solo me stesso, ma che, da allora in poi, sarebbe stato diviso con un’altra entità, che mi avrebbe volato a fianco. Mi sono reso conto che una storia antica stava per ripetersi, una storia che aveva generato anche me e che attraverso di me stava per generare il futuro. Come a un segnale, ci siamo slanciati insieme verso un altopiano roccioso, poco distante: il posto ideale per costruire un nido, il mio primo nido da genitore. Un ciclo vitale stava per ripetersi, e non sarebbe stata l’ultima volta. Ne’ per me, ne’ per il mondo.

§§§

 

Quando vedevamo arrivare i pescherecci, con le loro reti sempre ingarbugliate, sapevamo di dover sostenere una dura lotta con chi veniva a privarci del nostro sostentamento.

Trovavamo umiliante doverci tuffare in picchiata sulla loro pesca, e afferrare con i nostri becchi affamati qualche pesciolino sfuggito alle maglie delle reti. L’emozione del volo sopra le onde, la precisione del planare sul pelo dell’acqua, la rapidità dello scatto con il quale il pesce finiva sotto ai nostri denti erano completamente cancellati. Ma i pescherecci depredavano il nostro mare, costringendoci a trasformare la nostra nobile pesca in un volgare ladrocinio, necessario alla nostra sopravvivenza: come loro rubavano a noi, noi rubavamo a loro, riprendendoci una piccola parte del maltolto che avevano strappato alle onde. Non ci cacciavano neppure: non avevano tempo di pensare al furto di un paio di pescetti. Questo, se possibile, ci umiliava ancora di più. Eravamo un trascurabile fastidio, nient’altro che innocui ladruncoli che non provocavano niente di più di un’alzata di spalle. Che importava, se ogni tanto uno di noi planava sulle loro reti e portava via una minuscola preda? Non era certo quello a creare un problema, per loro.

Prima ancora di vederli, riconoscevamo i pescherecci dall’odore acre che si portavano dietro. All’improvviso, uno di noi lo annusava, e, con un grido acuto, avvisava gli altri. In pochi secondi ci dirigevamo, veloci e leggeri, verso l’origine di quell’odore. Non era possibile sbagliarsi: avremmo riconosciuto ovunque quel tanfo che bruciava nella gola. Solo avvicinandoci, pian piano, sentivamo l’odore del pesce appena pescato che si mescolava a quello del carburante. Era lì che ci scagliavamo sulle nostre prede. Un attimo, e subito risalivamo gioiosi, con il nostro pasto che penzolava dal becco, e con quel sottile senso di rivincita che prova chi si è appena ripreso quello che gli spetta.

§§§

A volte la vita mi ha messo a dura prova. C’è stato un periodo difficile, in cui procurarsi il cibo era diventata una vera e propria impresa. Ci siamo dovuti adattare, e allora, sì, abbiamo ringraziato le nostre ali che ci hanno permesso di spingerci fino alla terraferma.

Abbiamo solcato l’aria spediti, con l’ultima speranza, in cerca di qualcosa, qualsiasi cosa da mettere sotto i denti. La spiaggia si avvicinava a gran velocità, e i tetti delle case iniziavano a distinguersi fra gli alberi frondosi. Sapevamo, per istinto, dove cercare: dentro ai bidoni, ai cassonetti, agli angoli delle strade, ovunque gli uomini abbandonassero i resti dei loro pasti. Se fossimo stati fortunati, avremmo trovato anche quella discarica a cielo aperto di cui favoleggiavano gli anziani. Un pezzetto di pesce ormai stantio sarebbe stato una vera festa, e forse avremmo battibeccato per ore per prenderne possesso, ma qualsiasi elemento commestibile avrebbe significato la salvezza. Eravamo disposti a ingollare qualsiasi cosa gli uomini avessero disdegnato sulla loro tavola: pezzi di pane, avanzi di spaghetti con qualsiasi tipo di condimento, frutta ammuffita, tutto poteva andare bene. La fame è una brutta bestia, ti rende aggressivo e uccide la tua selettività.

Arrivati nella cittadina, abbiamo perlustrato tutte le viuzze in lungo e in largo, ma il nostro bottino è stato magro: i cassonetti erano sigillati, e appena i resti di qualche triste panino e di una porzione di patatine giacevano abbandonati all’angolo di un prato. Ce li siamo contesi con furia, rischiando di accecarci a vicenda con i nostri becchi nervosi, spinti da una fame mai provata prima.

A un tratto, il più giovane di noi ha alzato la testa: aveva sentito un odore diverso. Con un grido, si è staccato da terra, lanciandosi verso l’origine di quella nuova sensazione. Di scatto, l’abbiamo seguito, con tutta la nostra fiducia e la nostra speranza. Ben presto ci siamo accorti che aveva avuto ragione: davanti a noi, enorme, immensa, si stendeva la grande discarica. Eravamo salvi!

All’affamato, si dice, ogni cibo è grato. La gioia per quella inaspettata fortuna ci ha portati a danzare nell’aria, girando in tondo sopra quell’enorme riserva di cibo che sembrava messa lì per noi, per permetterci di vivere. Quando il nostro entusiasmo si è sfogato fino in fondo, ci siamo slanciati verso quella montagna variopinta e caotica, scansando accuratamente tutto quello di non edibile che il nostro becco incontrava. Ci siamo saziati di quel cibo disgustoso, ma che appariva dionisiaco al nostro palato che, ormai da giorni, non ne aveva più incontrato. Al colmo della gioia, ho nuovamente ringraziato le mie ali, veicolo della mia libertà e della mia speranza: se non fosse stato per loro, non avrei avuto la minima possibilità di sopravvivere. Invece, avevo vinto ancora una volta, e lo dovevo solo ed esclusivamente alla mia capacità di volare.

§§§

Perché mai, stamattina, mi sia venuta l’idea di dirigermi nuovamente verso la spiaggia, rimane un mistero per me stesso. Non ne avrei avuto alcun bisogno: il brutto periodo di carestia è passato da tempo, e il cibo, ora come ora, non ci manca. Forse è stata questa brutta giornata a farmi pensare che verso riva sarebbe stato più facile trovare un riparo. Forse è stata solo curiosità, noia, o chissà cosa. Fatto sta che, a un tratto, ho imboccato la mia strada di cielo dirigendomi proprio da questa parte.

Il grigio delle nuvole non mi spaventava: mi divertivo a sfidare il vento che cercava di ricacciarmi indietro, e non potevo sapere che il suo era quasi un avvertimento, come se avesse saputo quello che stava per succedermi e avesse cercato di evitarlo a ogni costo. Spensierato, l’ho bucato con il mio becco, attraversandolo con fare spavaldo. Quasi mi sono preso gioco di lui, che avrebbe voluto fermarmi e invece non ce la faceva, e doveva arrendersi alla potenza e alla velocità del mio volo. Felice, mi sono diretto di nuovo verso la riva, non perché avessi bisogno di tornare alla grande discarica, ma per una sottile voglia di rivedere la spiaggia.

A un tratto, nelle mie narici ho sentito nuovamente l’odore acre, quello che i pescherecci si portavano dietro quando invadevano il nostro spazio, depredandoci dei pesci. Pesci! Immediatamente, il mio pensiero è andato a quelle montagnette lucenti, intricate nelle reti, dalle quali riuscivo sempre a tirare fuori bocconcini prelibati, senza che i pescatori pensassero minimamente a disturbarmi. Nel becco ho sentito la consistenza di quei pescetti gustosi, che finivano in pochi secondi giù per la mia gola, quasi senza neppure il tempo di sentirne il sapore. Al mio pregustare quelle delizie, le mie ali sono state attraversate da un brivido.

Senza guardare ne’ pensare, mi sono lanciato in picchiata verso il punto dal quale proveniva l’odore ben noto. Mi sono buttato giù a occhi chiusi, fidandomi solo del mio istinto. Stranamente, però, l’odore del pesce fresco tardava ad arrivare e a mescolarsi con quello acre del carburante. Man mano che procedevo, quest’ultimo si faceva sempre più nauseabondo, intenso e vicino. A un tratto, mi sono reso conto che qualcosa non andava: ho aperto gli occhi, ma era già troppo tardi. Uno schiaffo nero e maleodorante me li ha richiusi in un attimo, schiantandosi sul mio corpo e trascinandomi giù, dentro al mare. Ho spinto verso l’alto con tutte le mie forze, ma, una volta arrivato in superficie, ho sentito come una tela incerata stesa su di me, appiccicata alle mie penne e alle mie piume, pesante al punto da impedirmi di alzarmi in volo, da tenermi saldamente incollato al pelo dell’acqua, completamente in balia delle onde.

Ho capito presto che dibattermi non mi avrebbe portato a niente altro che ad affondare definitivamente, e mi sono abbandonato al mare: solo lui poteva decidere di me, adesso. Mi avrebbe portato a riva o al largo, secondo il suo capriccio, e la sorte avrebbe disegnato il mio destino. Mi sono lasciato cullare dalle sue onde, sporche come me di quella massa appiccicosa, mentre i miei occhi, spalancati, guardavano il cielo, la mia strada infinita che, già lo sapevo, non sarei mai più riuscito a percorrere.

Quanto tempo è passato? Non lo so, ne ho perso la nozione. So solo che mi è sembrato infinito, fino al momento in cui la mia testa ha toccato una superficie molle e friabile, sulla quale le onde mi hanno sbattuto e ripreso più volte, spingendomi sempre più avanti, fino ad abbandonarmi. E’ stato allora che ho capito di essere arrivato qui, sulla spiaggia. E di essere perduto.

§§§

Cerco di riprendere fiato. Devo sforzarmi un’altra volta: ce la farò, alla fine, saprò rialzarmi. Penso ancora a quel mio primo volo, alla paura che provavo all’idea di lanciarmi nel vuoto. Penso a come sono precipitato finendo quasi dentro le onde, e a come, all’ultimo secondo, ho raccolto tutte le mie forze per risalire, liberando finalmente le mie ali.

L’ho fatto allora, devo farlo adesso. Non ho scuse. Non ho alternativa. Devo solo respirare, e spingere il più possibile verso l’alto. Solo respirare. Respirare. La cosa più naturale del mondo: non ricordavo che fosse così faticosa. Respirare. Solo respirare. Solo…

Apro e chiudo il becco, ma mi manca l’aria. Il mio corpo, completamente ricoperto da questo nero oleoso, non riceve più aria. Le forze mi stanno abbandonando, e solo un filo di coscienza riesce ancora a tenere sveglia una briciola del mio essere. Mi sto arrendendo a questo grande mostro nero, iniziando a contare i secondi che ancora mi restano, immobile qui: un nero relitto che, domani, sarà gettato proprio in quella discarica che, tanto tempo fa, gli ha salvato la vita.

Gli occhi mi si stanno chiudendo: il momento è arrivato. Con un ultimo sforzo, li apro leggermente, guardando per l’ultima volta quel cielo livido che tante volte ho solcato con il mio volo. L’acqua di una lacrima scende, mentre gli dico addio.

E in quel momento, d’improvviso, un varco si apre fra le nuvole, un raggio di sole caldo squarcia il grigio che mi circonda, colpendomi in pieno e inondandomi di luce.

La nera coltre si è sciolta. Le mie piume e le mie penne hanno ritrovato il loro bianco e il loro grigio, e si librano alte, leggere. Dalla mia gola esce un grido forte, acuto.

Sto volando ancora.

 


§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§

# proprietà letteraria riservata #


Cristina Giuntini