Archivi categoria: Le Voci

Racconti degli autori

Alta velocità


Fin dalle prime luci dell’alba il sibilo dei velivoli TF-104G e il fragore dei loro post-bruciatori avevano lacerato il cielo della Maremma.

La sfera rossastra del sole, declinando all’orizzonte dietro un alone di foschia, cedeva lentamente spazio alle ombre della sera, illuminando di luce surreale le sagome affusolate degli Spilloni parcheggiati sulla oramai silenziosa linea di volo della base grossetana.

Poco più a Ovest le onde del mare, sospinte da un freddo vento di libeccio, rotolavano spumeggiando sull’immensa distesa color cobalto per poi infrangersi sulla spiaggia, a quell’ora deserta.

Roberto, un giovane pilota in addestramento presso il XX Gruppo, era uscito dalla base a bordo della propria auto, girovagando lungo la costa senza una meta. Raggiunta Marina di Grosseto, stava passeggiando sul lungomare, a quell’ora semibuio. L’aria fresca e l’intenso profumo della salsedine solleticavano le sue narici.

Provava molta tristezza per la perdita di un caro amico, un ragazzo come lui. Alcune settimane prima, Edoardo, compagno di studi in Accademia, al quale era molto legato, aveva perso la vita in un tragico incidente. Il suo F-104, durante la fase di atterraggio, a pochi metri di quota e non molto distante dalla recinzione aeroportuale, si era improvvisamente rovesciato, impedendogli il lancio con il seggiolino eiettabile.

Roberto si soffermò a pensare nella solitudine di quel paesaggio mentre gli ultimi riflessi del tramonto brillavano nei suoi occhi.

– Non è giusto morire così! Rischiare la vita per una passione … ne vale proprio la pena? … mah! – questi i dubbi e gli interrogativi che affollavano la sua mente mentre osservava i fantasiosi disegni descritti dalla schiuma sulla sabbia.  

Alzò il bavero del giubbotto prima di risalire infreddolito in auto:

– Le condizioni meteo stanno cambiando. – disse tra sé e sé. Tornava spesso alla sua mente il ricordo di quella triste mattina.

Si trovava sulla linea di volo, scambiando due chiacchiere con il crew chief poco prima di recarsi in volo, senza far caso al continuo susseguirsi di atterraggi e decolli. Proprio Lorenzo, il Capo velivolo, si era accorto che qualcosa di terribile stava accadendo:

– Acc … guarda! – urlò strattonandolo per un gomito e indicando l’aereo che inesorabilmente si avvitava per poi schiantarsi al suolo.

– Noo … ma … è l’aereo di Edoardo! – urlò Roberto, portando disperatamente le mani sulla testa.

Molte le ipotesi su quel terribile incidente ma solo una fu la più attendibile. Si suppose che il pilota, giunto in finale con eccessiva velocità, avesse ridotto la potenza del turbogetto. Scendendo sotto il regime minimo che avrebbe consentito l’efficienza del jet flap, si era generata una forte dissimmetria di portanza sulle corte semi-ali, tanto da imprimere la rotazione del velivolo sull’asse longitudinale.

A quell’agghiacciante scena seguirono alcuni giorni più tardi i solenni funerali, cerimonie alle quali nessuno vorrebbe mai partecipare!

Squilli di tromba, onori militari e tante lacrime, salate come quel mare che brontolava là, sulla costa.

Terminato il rito funebre, tra la folla ancora presente nella piazza davanti alla chiesa, Roberto notò una ragazza, il cui viso minuto sembrò familiare. La sua figura longilinea e i lunghi capelli neri non passavano certo inosservati.

– … ma quella è Stefania, la figlia del mio amico Capo tecnico! … certo, che sciocco … l’ho conosciuta al circolo della base proprio una sera assieme al povero Edoardo! – ripeté tra sé e sé, sicuro che le avrebbe fatto piacere scambiare due chiacchiere.

Si era avvicinato per salutarla.

– Ciao Roberto! Come stai … mi dispiace! – gli aveva sussurrato Stefania stringendogli la mano. I suoi occhi da cerbiatta erano velati da una profonda tristezza per la prematura e inspiegabile scomparsa del loro amico. Avevano parlato a lungo quella sera, davanti a una tazza di cioccolata calda per scaldarsi e cercare di scacciare il dolore che gravava come un macigno dentro di loro.

– Da vari anni frequento con la mia famiglia il circolo della base e ho conosciuto molti di voi. Sono affascinata ma al tempo stesso timorosa per l’attività che svolgete. Anche mio padre, che rimane per ore sulla linea di volo, prova ansia e preoccupazione quando qualche pilota tarda all’atterraggio o purtroppo non rientra! – gli confidò la ragazza.

– Capisco e ti ringrazio per la considerazione che provi nei nostri confronti! E’ il nostro lavoro, purtroppo … ma lo amiamo! – le rispose Roberto appoggiando la tazza sul tavolo e guardandola negli occhi, azzurri come il cielo.

Avrebbero continuato a parlare per tutta la sera. Si lasciarono con un semplice – a presto – senza fissare alcun appuntamento.

###

L’attività di volo proseguiva senza soste, contribuendo a sollevare il morale del giovane pilota, sempre più conquistato dall’esuberante velocità dello Spillone.

Le missioni ad alta quota lo inebriavano, offrendo alla sua vista incantevoli scenari, riservati a pochi privilegiati e che inevitabilmente lo portavano a riflettere sulla natura del creato. I voli a bassa quota, dove era richiesta una forte rapidità decisionale, invece, gli offrivano una notevole carica di adrenalina.

Volare tra le valli a oltre quattrocento nodi, mentre il paesaggio scorreva veloce poco al di sotto, era elettrizzante.

Ogni volta che si apprestava all’atterraggio, non poteva certo dimenticare quanto accaduto al povero Edoardo:

– Maledetto testone … non ricordavi quante volte gli istruttori ci avevano raccomandato di mantenere i giri della turbina sopra l’ottantatré per cento? – si era trovato spesso a ripetere ad alta voce sotto la maschera dell’ossigeno, quasi come l’amico fosse presente.

Il programma per la transizione sul leggendario Starfighter prevedeva anche l’esecuzione di alcune missioni d’intercettazione.                 L’allievo, sotto la guida di un operatore “guida caccia”, eseguendo le procedure previste, avrebbe dovuto identificare un altro velivolo, decollato in precedenza.  

Mario, un anziano e baffuto istruttore, lo attendeva quella mattina presso la Sala Operativa del Reparto. Non vi era una grande simpatia tra i due. Lui, un omaccione con migliaia di ore di volo su quel missile con le ali, si gongolava davanti agli allievi. Roberto aveva volato con lui un paio di volte, ma non gradiva la sua arroganza.

– Oggi giocheremo a nascondino tra le nubi … vedremo se riuscirai a beccarmi! – gli aveva detto, sfidandolo con atteggiamento spavaldo.

– Vedremo … – aveva subito ribattuto il giovane pilota, visibilmente infastidito.

 Prima di recarsi alla sala equipaggiamenti per la vestizione Mario, sempre tracotante, si rivolse a lui:

– Allievo, non conosci le buone maniere? Non vuoi offrire un caffè al tuo anziano istruttore? –

Roberto cercò per quanto possibile, di essere accomodante:

– Ci mancherebbe … certo, andiamo pure! –

Si avviarono verso il circolo del Gruppo attraversando alcuni vialetti ai lati dei quali la natura si stava risvegliando con i colori e i profumi intensi della primavera. Sorseggiarono rapidamente un caffè senza ulteriori commenti e si recarono quindi in sala vestizione.

La base aveva abbandonato il torpore notturno ed era iniziato il frenetico via vai di uomini e mezzi. Il ruggito di alcuni caccia che si stavano levando in volo lacerava l’aria fresca del primo mattino.

Infagottati nella tuta anti-g e nel giubbotto Secumar, presero i caschi e si avviarono al mezzo che li avrebbe condotti sulla linea di volo.

L’aviere autista, molto loquace, aveva una certa confidenza con il vecchio pilota e iniziò lo scambio di qualche battuta tra loro. Roberto rimase silenzioso, concentrato sulla missione che stava per intraprendere, mentre Mario non smetteva di far battutacce nei confronti dei “pivelli”, come lui etichettava gli allievi. Giunti in prossimità dei velivoli assegnati, l’istruttore scese dalla navetta:

– Ci vedremo lassù … ammesso che tu riesca a trovarmi, pivello! – e dopo aver sbattuto la porta del pulmino, si avviò al proprio Spillone per eseguire i controlli pre-volo.

L’allievo lo guardò senza proferire parola. Cercò di rimanere calmo, senza accettare altre provocazioni. Vicino all’aereo lo accolse sorridendo Lorenzo, l’anziano crew-chief che aveva assistito alla scena:

– Non se la prenda … è il solito sbruffone! – commentò, cercando di sminuire l’accaduto per tirar su il morale del ragazzo e proseguì:

– La saluta mia figlia Stefania! Mi ha riferito di averla incontrata! Venga a trovarci … sarò lieto di averla a cena una di queste sere! –

– Grazie per l’invito, Maresciallo. Verrò con piacere! – rispose il giovane pilota con un certo interesse, dando un amichevole colpetto sulla spalla del Sottufficiale.

Mario nel frattempo era decollato, sparendo immediatamente nell’immensità del cielo e lasciandosi alle spalle il fragore del post-bruciatore.

Roberto salì i gradini della scaletta sistemandosi nell’angusta cabina dello Spillone, coadiuvato dal tecnico che con cura meticolosa lo assicurò alle cinghie del seggiolino Martin Baker.

Si sentiva sicuro, per nulla intimorito dalle provocazioni dell’anziano istruttore. Calzato il casco e i guanti, dopo i consueti controlli interni, facendo ruotare l’indice destro alzato, attivò con la mano sinistra il pulsante di avviamento.

Il brontolio del gruppo elettrogeno Atlas, che di lì a poco avrebbe pompato aria nella turbina dello Spillone, divenne un rumore forte e persistente. Portata la manetta su idle, la lancetta del contagiri prese vita.

Il pilota scandiva con le cinque dita il raggiungimento dei vari parametri fino al fatidico regime del cinquanta per cento, momento in cui con un rapido gesto della mano verso il basso, ordinò di “tagliare” l’aria.

Dopo il guizzo iniziale della temperatura, l’EGT si stabilizzò sui normali valori attorno ai quattrocento gradi.

Roberto accese gli apparati, la piattaforma inerziale e una volta allineata, portò il selettore su NAV. Tutto era pronto … poteva andare!

– Grosseto torre da Leo due-nove … chiede autorizzazione al rullaggio … passo! – proferì con voce squillante sotto la maschera.

– Leo due-nove da Grosseto torre, è autorizzato al rullaggio e al successivo decollo … pista in uso due-uno … calma di vento, passo! –

Il pilota scoccò due colpi di mike per accusare la ricevuta comunicazione e spinse in avanti dolcemente la manetta.

Il sibilo del “104” divenne sempre più lacerante mentre si muoveva sulle vie di raccordo della base.

Giunto al punto attesa, eseguì gli ultimi controlli, quindi dopo un rapido sguardo al di fuori, lentamente si allineò sulla testata del lungo nastro d’asfalto.

Freni tirati, manetta su military quindi all’idle per eseguire lo slam motore, poi di nuovo su military.

Immobile come un felino prima di lanciarsi sulla preda, così il jet, schiacciato sotto la spinta del J79, sembrava attendere impaziente il rilascio dei freni.

Alcuni secondi dopo lo Spillone, sobbalzando con un guizzo, iniziò la rapida corsa. Roberto portò la manetta a sinistra e tutta in avanti per raggiungere la posizione di AB e Full.

Il poderoso “calcio nel sedere” ancora una volta si fece sentire, incollando il pilota allo schienale. I tabelloni indicanti le distanze, posti ai lati della pista, sfilavano sempre più veloci. Il nastro d’asfalto, all’apparenza sempre più stretto, stava sparendo come fosse inghiottito dalle prese d’aria: 150 … 160 … 180 nodi … la sua mano destra tirò dolcemente la cloche alzando così il muso dell’aereo.

Era in volo e la velocità in rapido aumento. Portò rapidamente la leva del carrello e quella dei flap in posizione up.

Roberto lasciò quella terra, un tempo regno dei butteri, dirigendo verso l’azzurro.

Eseguita un’ampia virata sul mare, la torre lo invitò a prendere  contatto con il radar “guida caccia” di Poggio Ballone.

– Leo due-nove da Quercia radar, salga al livello di volo due-sette-zero con prua zero-sei-zero! – lo istruì la metallica voce dell’operatore.

Lui, quel giovane pilota, stava sfrecciando a oltre quattrocento nodi lassù, inebriandosi dell’azzurro sempre più intenso.

La curvatura della terra divenne nettamente percettibile a tal punto da poter distinguere le due coste della penisola.

Sull’Appennino alcune formazioni nuvolose si stagliavano verso l’alto, mentre sopra il canopy, il cielo color indaco si mostrava nella sua immensità.

Roberto seguiva le costanti indicazioni dell’operatore “guida caccia” che lo avrebbero condotto fino a intercettare il velivolo di Mario.

Quanti pensieri gli frullavano per la testa!

– Sarà così semplice beccarlo o s’inventerà qualche stratagemma? – mormorò ad alta voce nella solitudine della cabina.

L’operatore “guida caccia” continuava a fornirgli le indicazioni di prua. A un tratto, volgendo lo sguardo sullo schermo del radar di bordo, Roberto notò una macchia: era il suo obiettivo. Alcune decine di miglia li separavano e iniziò a scrutare l’orizzonte davanti a lui.

Cercò di ridurre la velocità con qualche colpo di aerofreno proprio mentre gli sembrò di scorgere un piccolo punto in lontananza:

– Eccolo laggiù … si è proprio lui! – sbottò.

Stava per schiacciare il mike sulla cloche per comunicare all’operatore radar il famoso tally-ho, come sono soliti gli inglesi nella caccia alla volpe e che in gergo significa “l’ho in vista”, quando quel punto improvvisamente svanì tra alcuni batuffoli biancastri.

Roberto ebbe un sussulto, sgranò gli occhi scrutando il cielo attorno a lui.

– Dov’è finito quel figlio di … si sta prendendo gioco di me! – urlò sotto la maschera. Frazioni di secondo!

L’allievo inconsciamente aveva capito la manovra evasiva di Mario e con coraggio spinse la cloche tutta a destra, facendo rovesciare lo Spillone. Si lanciò in picchiata, descrivendo mezzo looping verso quel manto biancastro di nubi all’apparenza impenetrabile!

– Ho capito il tuo tranello, ma ti farò vedere chi sono … non un pivello come credi! – mormorò.

Mario era sparito alla sua visuale forando il manto di nubi al di sotto e magari sarebbe riapparso alle sue spalle.

La tuta anti-g si era gonfiata sotto l’effetto dell’accelerazione, mentre le lancette dell’altimetro roteavano vertiginosamente indicando la quota sempre più bassa.

Il mare lattescente delle nubi lo inghiottì e un chiarore biancastro circondò il plexiglass della cabina.

Inchiodato al seggiolino dall’accelerazione, Roberto esercitava una continua pressione sulla cloche per portarsi in volo orizzontale sotto quel manto immacolato. Si rese conto che stava rischiando molto.

Via radio dopo qualche attimo di silenzio, fu transitato sulla frequenza di Bracco radar, competente in quella zona di territorio.

Attimi interminabili. Poi il paesaggio tosco-romagnolo apparve alla sua vista. I rilievi montuosi, cosparsi di foreste e di fitta vegetazione, scorrevano laggiù ma fortunatamente era ancora a quota di sicurezza.

Ancora una volta il suo sguardo scrutò il terreno sottostante:

– Dove sei? – urlò rabbiosamente mentre con la mano sinistra spingeva la manetta tutta in avanti per sfruttare la potenza del post-bruciatore.

Un rapido sguardo agli specchietti ma del rivale nessuna traccia. Trascorsero alcuni minuti che sembrarono un’eternità.

Roberto stava percorrendo inconsciamente la stessa rotta di Mario a qualche migliaio di piedi dai rilievi. Improvvisamente scorse la sagoma dello Spillone antagonista.

Era a poche miglia, alcune centinaia di piedi sotto di lui. Si portò rapidamente alla sua quota, inquadrandolo sul collimatore e urlando:

Tally-ho … Bracco radar dal Leo due-nove … tally-ho!  –

Mario continuava a tacere in frequenza. La voce dell’operatore si fece sentire:

– Leo due-nove e Leo tre-quattro da Bracco radar missione terminata, proseguite per rotta … quota seimila piedi! –

Roberto aveva affiancato l’aereo dell’astuto istruttore che meravigliato, lo stava osservando.

Il giovane pilota adesso sorrideva sotto la maschera:

– Chissà che cosa starà pensando? Sarà livido di collera! – mormorò.

– Ci vediamo a terra! – gli disse Mario via radio, abbozzando un saluto con un cenno della mano.

Le verdi colline toscane, punteggiate dalle tonalità scure dei cipressi, sfilarono sotto la fusoliera dei due caccia per far posto ben presto alla pianeggiante Maremma.

Continuarono l’avvicinamento sotto un tiepido sole mentre il monte Amiata, alla loro sinistra, svettava nell’azzurro del cielo come un silente spettatore. La torre li autorizzò all’atterraggio sulla pista due-uno. Dopo l’apertura sul cielo campo, Mario fu il primo a porsi in finale, seguito a pochi secondi da Roberto.

Lo sbocciare dei due para-freno, seguiti dal consueto strattone delle cinghie, segnò la fine della missione. Sulla linea di volo li attendevano i rispettivi crew chief. Il sibilo lacerante dei turbogetti prima dell’arresto echeggiò nell’aria, pervasa dall’effluvio di cherosene. I due piloti scesero rapidamente la scaletta mentre le palette delle turbine, tintinnando, compivano gli ultimi giri.

Lorenzo vedendoli rientrare assieme, aveva intuito che la missione era terminata con esito positivo e, accostando la scaletta, gli disse:

– Bravo Comandante, gli ha dato una bella lezione! –

– Ho fatto del mio meglio! – rispose, togliendosi i guanti.

Madidi di sudore e con il volto segnato dalla maschera, i due piloti si soffermarono tra i loro jet.

– Oggi ho capito che non sei più un pivello! – esclamò Mario porgendo la mano a Roberto. E aggiunse:

– Da domani … sarò io a doverti offrire il caffè! –

La lezione era servita e da quel giorno l’anziano istruttore non si rivolse più al giovane pilota con i suoi epiteti.

Roberto non solo aveva fornito prova di coraggio, ma aveva dimostrato di avere gli attributi per diventare un ottimo intercettore!

###

Si avvicinava il termine del periodo di addestramento sul velivolo F-104 e di lì a poco gli allievi avrebbero raggiunto i Reparti operativi.

Un pomeriggio, rientrato dall’ennesima missione, mentre Lorenzo era indaffarato attorno al suo velivolo, si soffermò a guardare quell’uomo umile e laborioso.

Pensò di mantener fede alla promessa fatta.

– Salve, Lorenzo … prima di partire, una di queste sere verrò a trovarla e rimarrò a cena da Lei! –

– Con vero piacere … per me va bene anche stasera … se è d’accordo, avviso mia moglie! – e si salutarono dopo aver scambiato due chiacchiere come vecchi amici.

Poco prima di cena Roberto si presentò a casa del Maresciallo con un mazzo di fiori e da buon veneto, non dimenticò di portare con sé dell’ottimo prosecco.

Fu accolto sulla porta di casa da Stefania, ben curata e in abbigliamento elegante. Non sembrava più la ragazzina che lui aveva visto un paio di volte, ma una vera donna, sensuale e intrigante. I loro sguardi s’incrociarono per qualche istante e il suo sorriso ammaliò il giovane pilota.

Anche Anna, la moglie di Lorenzo, era molto cordiale e di bella presenza tanto da sembrare la sorella maggiore di Stefania. L’ottima tavola e la gradevole compagnia fecero volare le poche ore durante le quali i due ragazzi continuarono a lanciarsi degli sguardi.

Si era fatto tardi e Roberto salutò gli astanti.

– Ti accompagno fino all’auto! – disse la ragazza, cogliendolo di sorpresa. Rimasero più di un’ora a parlare vicini al portone d’ingresso della palazzina e si scambiarono i numeri di telefono.

Poco prima di salire in auto, stava per salutarla quando si lasciò andare, abbracciandola. Lei gli cinse le braccia al collo baciandolo con passione. Roberto rimase per qualche istante colpito e un po’ titubante, ma non si sottrasse a quel bacio passionale che li coinvolse per alcuni minuti.

S’incontrarono nei giorni seguenti e capirono che tra loro c’era una forte intesa.

###

Giunse purtroppo il giorno della partenza. Roberto era stato assegnato al XXI Gruppo Caccia del 53° Stormo di Cameri.

Accolse la notizia con un velo di tristezza. Adesso che aveva trovato l’amore sarebbe dovuto partire! Aveva comunque raggiunto il suo scopo: era finalmente abilitato al “104”! Avrebbe gradito rimanere al 4° Stormo per essere così, vicino alla ragazza.

Anche Stefania era triste, seppur consapevole fin dall’inizio che non sarebbe stata una relazione facile.

Lorenzo, sorridente come sempre, lo salutò al termine dell’ultima missione, abbracciandolo come fosse stato un figlio: aveva capito che tra la sua Stefania e quel giovane pilota c’era del tenero.

Roberto raggiunse la sua nuova sede in una giornata nebbiosa, percorrendo la pianura novarese costellata di canali, tra filari di pioppi e ampi campi di risaie.

Fraternizzò subito con i colleghi del nuovo Reparto che lo accolsero con molta cordialità. Il Comandante, un giovane Colonnello, si mostrò essere una persona affabile, molto gentile e scherzoso, un vero padre di famiglia.

Il giorno successivo al suo arrivo si trovò assegnato a una missione di addestramento proprio con lui nel ruolo di leader. Lo attese con ansia nella Sala Operativa, aspettando le sue istruzioni per pianificare la missione.

Impegnato tra le pratiche e il telefono che squillava in continuazione, il Capo si fece attendere a lungo. Si presentò infine scusandosi per il ritardo, fornendogli le indicazioni sull’attività che avrebbero svolto. Roberto pianificò scrupolosamente il volo non volendo certo far brutta figura con il proprio Comandante.

Dopo la vestizione si avviarono verso la linea di volo ove le due “Tigri”, così il loro nominativo radio, erano allineate e pronte per essere domate.

La giornata era tiepida e il cielo pulito da una leggera bava di vento.

Eseguita la procedura di avviamento, chiusero i canopy e seguendo le istruzioni della torre, diressero lentamente verso la testata pista tre-cinque. Ottenuta l’autorizzazione, avvenne il decollo, a pochi secondi di distanza l’uno dall’altro. Il Comandante ridusse la velocità per consentire al gregario di eseguire il ricongiungimento.

A oltre quattrocento nodi la verde campagna sfilava al di sotto. Avanti a loro le acque del lago Maggiore scintillavano sotto i raggi del sole mentre in lontananza le granitiche Alpi, ammantate di nevi perenni e immacolate, svettando sopra una leggera foschia, formavano una barriera apparentemente insormontabile.

Non c’era il tempo per soffermarsi a osservare quella meraviglia della natura e Roberto stava “mordendo” l’ala del suo leader. Seguiva con lo sguardo il sottile profilo di quella semi-ala che non stava ferma, a pochi metri dal suo velivolo.

Il Capo formazione via radio scandiva gli ordini delle varie manovre che avrebbero compiuto:

– Andiamo su ed eseguiamo alcune virate! –

Salirono in quota, lassù dove il cielo assume i colori più accesi e l’aria è più rarefatta, lontani dall’impercettibile alone di foschia che di solito avvolge la terra.

Un sottile rivolo di sudore, scendendo da sotto il casco inumidì le sue guance, facendo scivolare la maschera che prontamente aggiustò.

Compiute alcune virate con vari assetti, il Colonnello si spinse in affondata per poi pennellare un looping.

Roberto lo seguì e, sotto la potente spinta del post-bruciatore, puntò verso il cielo sempre più blu. Guadagnarono rapidamente oltre diecimila piedi. La sua mano destra eseguiva continui movimenti con la cloche per rimanere incollato all’altro Spillone.

Sotto la maschera il respiro divenne affannoso per lo sforzo e la concentrazione.

All’apice della figura scesero sempre più veloci verso la terra che si stava ingrandendo a vista d’occhio mentre la tuta anti-g faceva sentire i suoi effetti sull’addome e sulle gambe.

Livellarono le ali a circa diecimila piedi per poi cimentarsi in un tonneau. Laggiù, fuori dal canopy, la terra e il cielo si stavano rincorrendo velocemente.

– Bravo … niente male … rientriamo! – echeggiò in cuffia la voce calma del leader, restituendogli un po’ di tranquillità.

Poco dopo seguì il dolce contatto sull’asfalto della pista, segnata dagli infiniti graffi neri degli pneumatici.

– Complimenti, un ottimo inizio, vieni al bar … ti offro il caffè – esordì sorridendo il leader, appena sceso dalla scaletta!

– Grazie Comandante! – rispose, felice per aver conquistato la sua fiducia.

###

Se pur distante dalla sua Stefania, l’ambiente sereno che aveva trovato, contribuì a mitigare la lontananza dalla ragazza che comunque raggiungeva durante i fine settimana.

Una maledetta sera Roberto stava svolgendo il proprio turno d’allarme assieme a Carlo, un giovane pilota giunto al Reparto alcuni mesi dopo il suo arrivo e con il quale aveva stabilito un sincero rapporto di amicizia.

Le condizioni meteo non erano ottimali. La base e la pianura Padana erano avvolte da una densa foschia mentre un’estesa e spessa coltre nuvolosa gravava a quote relativamente basse.

In quel periodo erano in atto alcune simulazioni di scramble, esercitazioni che sono svolte periodicamente per valutare i tempi di reazione dei vari Reparti in ambito NATO.

Le possenti volte degli shelter custodivano nella loro penombra i velivoli F-104 d’allarme, illuminati dalla flebile luce delle lampade alogene. Nel silenzio che regnava all’interno, si respirava profumo di cielo, di avventure ad alta quota … un frammisto di vapori di cherosene e di olio.

 Gli equipaggi di turno, piloti e tecnici, stavano preparando una frugale cena nei locali attigui.

– Con una serata così non c’è di meglio che una buona pastasciutta … matriciana o carbonara? – chiese Roberto.

– Vada per la carbonara! – aveva subito replicato Carlo.

Non avevano terminato di cenare che scattò il segnale di allarme.

Si precipitarono correndo verso gli shelter, raggiunti i quali i piloti indossarono le tute anti-g e i Secumar, lasciati appesi ai tubi di Pitot dei rispettivi velivoli. Salirono rapidamente a bordo, mentre gli specialisti portavano a regime i gruppi elettrogeni Atlas.

Il sibilo dei potenti J79 lacerò l’aria fino a divenire un ruggito allo scoccare del semaforo verde che ne autorizzava l’uscita dai ricoveri.

Scomparvero alla vista, inghiottiti dalla foschia, tra le minute luci delle vie di raccordo che conducevano alla pista. Qualche attimo di silenzio. Poi il fragore delle turbine al massimo dei giri.

Riapparvero mentre correvano veloci su quel manto d’asfalto tra le risaie, lasciandosi dietro il frastuono e la lunga scia di fuoco dei loro post-bruciatori. A bordo dei due missili con le ali la concentrazione era massima. In sequenza tirarono all’indietro la cloche.

Le luci della pista svanirono, ingoiate dal buio della notte. Anche il mondo era sparito, non vi erano più le luci delle case e delle città. Erano soli in quell’aria infida e lattescente.

Il verde flash intermittente della luce di navigazione, posta sulla semi-ala destra del jet di Roberto costituiva l’unico riferimento per Carlo che stava “mordendo” l’ala del leader.

Lasciate le comunicazioni con la torre, stavano volando verso l’ignoto. Di lì a poco la voce dell’operatore radar fornì loro la prua da seguire e il livello di volo da raggiungere.

I minuti all’interno delle nubi stavano diventando interminabili.

– Tra poco saremo fuori … vedremo le stelle! – esclamò pensieroso Roberto.

Non finì di dire quella frase che udì un forte colpo scuotere il suo Spillone. Subito dopo il cockpit s’illuminò di luci rosse e color ambra lampeggianti mentre il persistente segnale acustico d’allarme echeggiava in cuffia.

– Acc … che sta accadendo? – sbottò sotto la maschera.

Il velivolo vibrava, si scuoteva come un animale ferito, variava continuamente l’assetto, facendogli sbattere la testa ai lati della cabina. A nulla valsero i tentativi per contrastare i movimenti incontrollati dell’aereo. Erano entrati in collisione e stava precipitando.

Attimi terribili! In frazioni di secondo rivide tanti flash della sua vita, le persone care. Stefania!

Cercò di alzare le mani per afferrare le due maniglie di espulsione poste sopra la testa, ma una forza invisibile glielo impedì. Sotto l’effetto dell’accelerazione erano ben pochi i movimenti che riusciva a compiere.

Fissò la leva di espulsione, giallo-nera, posta tra le sue gambe, quella leva che tutti i piloti guardano e a volte accarezzano ma che nessuno vorrebbe mai tirare.

Era uscito dalle nubi ed ebbe la percezione di vedere qualche luce sul terreno sottostante ma … doveva lanciarsi.

Abbassata la visiera del casco, con fare deciso tirò la leva di espulsione.

In sequenza esplosero le cariche di rilascio del canopy e quella posta sotto il sedile. Nello stesso istante le giarrettiere e i cavi di retrazione delle gambe incollarono i suoi polpacci al sedile per evitare che queste fossero amputate durante l’uscita dalla cabina.

Una forte spinta lo scaraventò verso l’alto mentre un mostro invisibile sembrava volergli strappare il casco e la maschera. Poi più nulla: era svenuto!

Il fruscio e lo schiocco del paracadute che si apriva riempiendosi d’aria, seguiti da un brusco strattone, lo fecero riprendere. Alzò gli occhi al cielo e sopra di lui intravide la calotta di seta completamente estesa. La velocità di caduta era molto più rallentata.

Guardò verso terra: tutto era buio.

– Mio Dio … dove andrò a finire? – si chiese. Volse lo sguardo alla sua destra e in lontananza scorse le fiamme altissime che si levavano da quello che probabilmente era il suo jet. Pensò al collega con il quale non era riuscito a comunicare:

– Carlo … dove sarà … si sarà lanciato? –

Riuscì a scorgere non molto lontano alcune luci soffuse.

– Una casa … sembrano le luci di un’abitazione … speriamo che sotto non vi siano alberi! – ripeté ad alta voce.

Il seggiolino si era sganciato automaticamente mentre il pacco di sopravvivenza era rimasto agganciato poco sotto i suoi glutei. A breve avrebbe toccato terra ma non riusciva a percepire la reale distanza che lo separava dal suolo. Si preparò comunque all’impatto unendo i piedi.

L’acqua stagnante di un’ampia risaia attutì la sua caduta e si trovò a terra, completamente bagnato. Fortunatamente non spirava un alito di vento e la calotta del paracadute subito si afflosciò evitando così di essere trascinato. Attese alcuni secondi per essere certo di non aver subito lesioni agli arti e alla schiena.

– Per fortuna … non mi sono rotto nulla! – esclamò sganciando l’imbracatura ed estraendo da una tasca della tuta una piccola torcia d’emergenza.

A fatica riuscì a uscire da quel pantano, raggiungendo un piccolo viottolo tra le risaie. Volse lo sguardo in direzione dell’unica luce più vicina nel buio della notte.

– Sì … è una casa colonica, non mi ero sbagliato! – mormorò dirigendo verso il cascinale per chiedere aiuto.

Un anziano agricoltore venne ad aprirgli la porta, rimanendo sorpreso. Vedendolo bagnato e infangato con quella strana tuta addosso, non sapeva se avesse di fronte un essere umano o un marziano.

Roberto dopo essersi presentato, spiegò quanto gli era accaduto e chiese di poter utilizzare il telefono per avvisare la base.

L’umile e premurosa moglie del contadino, udendo quanto occorso, nel frattempo tolse una bottiglia dalla madia:

– Beva, si riprenda … le farà bene! – lo invitò, porgendogli un bicchierino di grappa.

– Grazie, signora … gradirei un po’ d’acqua! – rispose declinando gentilmente l’offerta. Telefonò alla base comunicando di star bene e chiese notizie di Carlo.

– Sappiamo che il suo velivolo è precipitato ad alcune miglia dal tuo ma del pilota non abbiamo alcuna notizia. – rispose la gelida voce dell’Ufficiale di turno alla Sala Operativa.

Roberto fu pervaso da una profonda angoscia.

All’arrivo dell’autoambulanza che lo avrebbe trasportato per accertamenti al più vicino ospedale, ebbe parole di ringraziamento per la famiglia che lo aveva ospitato. La rude e callosa mano del contadino strinse la sua con un gesto di genuina amicizia.

Fortunatamente per lui i controlli medici non evidenziarono alcun trauma e fu dimesso il giorno seguente, raggiunto da Stefania che nel frattempo si era precipitata con l’auto verso la base.

La sorte fu crudele per il povero Carlo che non era riuscito a eiettarsi. Il suo corpo fu trovato straziato sotto i rottami del proprio caccia.

– … nel nostro lavoro può accadere di tutto! – ripeteva alla sua Stefania che amorevolmente gli aveva proposto di cambiare attività.

Una breve convalescenza trascorsa sull’Argentario in compagnia della ragazza, lo rinfrancò nel corpo e nello spirito.

Rientrato al Reparto, l’indomani era di nuovo sulla linea di volo in procinto d’intraprendere una nuova missione. Per nulla intimorito, si avvicinò allo Spillone assegnato. Esaminò il libretto del velivolo e dopo i controlli vi appose la firma. Appoggiò le mani sull’affusolato muso del jet sussurrando:

                – Ti tratterò bene come sempre, ma tu … non mi farai più brutti scherzi … vero? – e salì la scaletta.


§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§

# proprietà letteraria riservata #


Claudio di Blasio

Nuvole elettriche


Non riesci a vedermi, vero? Eppure io sono davanti a te.

Sono ore che state lì di guardia, con le vostre mimetiche ed i vostri fucili, ma noi di qui non possiamo andare via. Chissà cosa pensi. Ho visto il tuo sguardo velarsi di commozione quando portavano via i nostri corpi, ma la compassione non è una caratteristica di un buon soldato, hai celato quella leggera lacrima con uno starnuto impacciato.

Siamo gli ultimi pensieri dei passeggeri del volo MH17, cristallizzati in nuvole elettriche, che vaghiamo tra i resti del nostro aereo in attesa che arrivi la “chiamata”.

Tutti e 298 eravamo qui quando l’aereo, ormai diventato una palla di fuoco, si è schiantato al suolo. Molti erano già morti soffocati dal fumo o stroncati dalla paura. Ma qualcuno, come me, ha visto la terra avvicinarsi nel suo abbraccio mortale. Io ero il secondo pilota.

Buffo come, sebbene tra di noi ci fossero Musulmani, Cristiani, Indù, Atei ed Agnostici, tutti, al momento del trapasso, sapessimo benissimo cosa sarebbe successo dopo.

Come se si fosse innescato un nastro sepolto nella nostra anima che si sarebbe attivato solo al momento del distacco col corpo.

Il nostro ultimo pensiero si sarebbe cristallizzato lì, nel luogo dove il corpo si era posato, finché i guardiani non lo avessero compiuto. Allora saremmo stati mandati “di là”.

Vicino al motore c’è il pensiero di una mamma che vorrebbe salutare il suo ragazzo. Stava andando a trovarlo. Lui aveva iniziato a lavorare e l’aveva invitata a venire in Malesia. Sarebbe stata la prima volta che il figlio si sarebbe preso cura della madre.

Dietro la deriva c’è un uomo che pensa alla sua donna. Viaggiava per lavoro, era un medico invitato al convegno per l’Aids. Il suo ultimo pensiero è stato di poterla abbracciare ancora una volta.

Forse quel brivido di freddo che senti è il vociare di questi pensieri spezzati. Chissà di chi era la mano che ha premuto il pulsante di sparo. Era fatta di carne e sangue come la mia quando cercavo di riportare in assetto questo aereo ferito a morte. Era come la tua che scorre sul tuo anello nuziale come fosse un rosario.

Forse mi riesci a sentire, vedo che sei turbato, cerchi di non guardare verso i rottami, sicuramente avverti qualcosa.

Se potessi vedere, ora, gruppi di nuvole elettriche svaniscono. I guardiani stanno accompagnando le anime nel loro ultimo pensiero e poi li avrebbero portati di là. La mamma è appena andata. Sicuramente ora sta guardando il suo figlio e gli sta facendo l’ultima carezza; anche l’uomo è partito: lo immagino sfiorare il viso della sua donna mentre lei piange di nascosto.

Tocca a me. Vuoi sapere qual è stato il mio ultimo pensiero?

Io non ho nessuno da salutare. Volare era la mia passione ed ho pensato che avrei voluto vedere la Terra dallo spazio. Vado, fai buona guardia alla nostra ultima dimora. 

 

“Da quassù la Terra è bellissima, senza frontiere né confini” (Yurji Alexeievich Gagarin)


§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§

# proprietà letteraria riservata #


Roberto Paradiso

 

La voce di Badger

Il caldo era soffocante e quasi tutti i presenti si erano rifugiati sotto il grande gelso che sembrava essere il punto più fresco dell’aviosuperficie grazie ad un filo d’aria quasi sempre presente.

“Guarda guarda”, dissi arrivando, “è una riunione del Club del Gelso o dei Sunday Pilots?”

“Visto che ci sei anche tu”, mi venne risposto, “saranno i Sunday Pilots”.

Avuta la risposta che meritavo, mi unii a quella pigra brigata.

Si stava discutendo di eliche a passo variabile e dell’incremento della corsa di decollo causata dalla temperatura quando il mio vicino mi disse che non aveva ancora visto il mio nuovo aereo e mi chiese di dargli un’occhiata.

“Ma non è nuovo”, mi schernii, “lo ho acquistato usato, ha 130 ore”.

“Beh, quasi nuovo”, mi rispose, “e lo vedrei volentieri”.

Con un pizzico di riluttanza abbandonai quell’oasi ombrosa e ci ritrovammo nella penombra dell’hangar a togliere la copertura dal velivolo.

L’amico lo guardò non ben convinto; “Bella bestia”, disse, “ma è un ultraleggero?”

Lo rassicurai facendogli vedere la targhetta di coda con peso a vuoto e quant’altro.

“Beh, beh”, commentò, “meglio comunque che tu voli con un copilota snello, soprattutto se riempi quei due serbatoi, 130 litri di benzina sono un centinaio di Kg”.

Non aveva tutti i torti e cercai di distrarlo accendendo il glass cockpit che sembrò suscitare il suo interesse. Mi lanciai allora in una esposizione dei vantaggi che il passaggio al digitale offre, concentrando in un solo strumento la visualizzazione ed il controllo di una serie di accessori neppure immaginabili con una strumentazione tradizionale, dalla visione sintetica, all’autostrada nel cielo (Highway in the sky) che, se non hai voglia di inserire l’autopilota, ti guida dove sei diretto infilando una serie di porte come in un videogame, all’ADSB, al FLARM ed al PCAS che ti avverte quando hai qualcuno nelle vicinanze (“con il transponder acceso”, aggiunse, con una punta di malizia, il mio ospite).

Alcune sigle non gli erano del tutto familiari e sembrò un po’ confuso poi disse: “Sarà, ma io preferisco gli strumenti tradizionali, quelli almeno sono semplici da usare”.

Leggermente piccato (ma come, la mia esposizione mi sembrava così convincente!) risposi: “Beh, se sei affezionato agli “orologi”, non è un problema, premi un tasto e…”

Così dicendo, feci comparire sul PFD i sei strumenti tradizionali evitando, per non infierire, di lasciare la visione sintetica sullo sfondo.

“Eh, così sì che va meglio”, disse soddisfatto, “gli manca giusto la parola”.

Non era vero neppure questo, scegliendo il livello di “loquacità” poteva diventare anche troppo ciarliero e, comunque, non c’era verso di evitare che strillasse disperato ‘Terrain! Terrain!’ quando riteneva che un finale fosse criticabile (e colorava anche di giallo, perfidamente, la zona dove riteneva possibile un contatto improprio con la madre terra). Altra inquietante ma ineliminabile fissazione il grido, egualmente disperato, ‘Traffic! Traffic!’ quando qualche altro aereo passava, a suo avviso, ad una distanza poco rispettosa. Ma non avevo alcuna voglia di raccontargli l’effetto un tantino lassativo di questi messaggi su alcuni passeggeri, così mi limitai ad un sorriso di assenso.

Mentre ritornavamo sotto il gelso mi chiese, sapendo che dò sempre un nome ai miei aerei, come lo avessi chiamato.

“Badger”, risposi. Mi aspettavo una richiesta di spiegazioni e non mancò.

“Sai”, gli dissi, “di notte il mio giardino è frequentato da una famiglia di tassi e, pur essendo animali un po’ schivi, siamo entrati in buoni rapporti; gradiscono molto gli spicchi di mela che preparo per loro, in particolare quelli di Golden Delicious. Ecco, mi sembra che il musetto del mio aereo assomigli un po’ al loro e per questo lo ho chiamato Badger cioè tasso in inglese”.

“Ah” , disse, poi mi guardò in maniera un po’ strana e non fece altre domande.

Quella domenica non volai, più per pigrizia che per il caldo, ma mentre ritornavo a casa, pensavo che, con ogni probabilità, non sarebbe stato difficile prelevare un certo numero di dati dallo SkyView che faceva bella mostra di sé sul cruscotto e dare a Badger, attraverso un sintetizzatore vocale, la possibilità di interagire con il pilota al di là dello schema, esteso ma prefissato, previsto dal suo Audio Advisory System.

Una volta arrivato sfogliai il corposo manuale di installazione e trovai rapidamente quanto cercavo. Tra i numerosi canali di comunicazione presenti nello SkyView vi erano anche quattro porte seriali, due delle quali, nel mio caso, ancora libere e rapidamente attivabili dal menù di configurazione. Decisamente sorprendente poi scoprire che il numero totale di misure che potevano venire prelevate era di alcune centinaia; fortunatamente era possibile selezionare, sempre da menù, solo quelle che interessavano. 

A questo punto era possibile disegnare uno schema a blocchi del piccolo sistema che avrei potuto realizzare e pensai ai seguenti moduli:

1) Un microcontrollore per leggere le misure inviate dallo SkyView, elaborarle, gestire i comandi inseriti dal pilota, predisporre le sequenze di controllo del sintetizzatore vocale ed inviarle;

2) Un sintetizzatore vocale;

3) Una unità di alimentazione;

4) Una logica di supervisione della priorità dei segnali audio (comunicazioni, sintetizzatore, musica) da inviare al pilota.

Nella configurazione mi sembrò poi opportuno inserire anche un amplificatore stereo di qualità elevata dato che l’impianto presente sull’aereo era monofonico e non prevedeva l’ingresso di una sorgente musicale esterna tipo lettore MP3, cellulare o altro.

Valutai che il costo totale dei componenti potesse aggirarsi sui 150 Euro e posi tra gli obiettivi progettuali quello di non effettuare un solo foro sull’aereo e di non modificare in nulla l’impianto di bordo se non per l’inserzione di due prese stereo al posto di quelle mono per le cuffie. Considerai anche che sarebbe stato quasi impossibile o, comunque, estremamente scomodo, effettuare la messa a punto del sistema in hangar quindi sarebbe stato opportuno mettere in conto anche la preparazione di un simulatore che fornisse, durante le prove, le sequenze di dati che avrei poi prelevato dallo SkyView. Un lavoretto in più che, tuttavia, mi avrebbe fatto risparmiare tempo e fatica.

Vario materiale era già disponibile e, in pratica, mi restava da scegliere il sintetizzatore e poco altro. Per il vero, ne avevo uno nel cassetto ma, vecchio di dieci anni, era poco flessibile e decisamente scomodo da controllare. Quello sul quale misi gli occhi si presentava invece come un piccolo gioiello in grado di pronunciare correttamente frasi sia in inglese che in lingue neolatine, già dotato di sei profili vocali diversi, peraltro ampiamente modificabili, della possibilità di variare accenti, toni e volume persino all’interno di una stessa frase e, dulcis in fundo, stando alle specifiche, molto facile da controllare.

Mi sembrò assolutamente straordinario, lo ordinai immediatamente e in un paio di giorni la Fedex suonava il mio campanello.

Scelsi poi un Burr-Brown high-end per i canali audio e mi chiesi per chi mai fosse stato progettato un oggetto con distorsione totale e rumore inferiore allo 0,00008%, forse per gli alieni visto che un orecchio umano addestrato non avverte granché oltre lo 0,1%.

Con tutte queste meraviglie tecnologiche a disposizione preparai un progettino ed assemblai un prototipo che mi consentì di restare sorpreso dalla qualità della riproduzione musicale ma … anche da qualche problemino non proprio previsto nella gestione del sintetizzatore dato che non lo avevano dotato di alcun modo di segnalare il termine della pronuncia delle frasi ma solo della segnalazione della acquisizione (praticamente istantanea) delle stringhe dei relativi comandi. Ad ogni buon conto, superato questo problema e testata la logica di controllo delle priorità, mi ritrovai con una ubbidiente scatoletta destinata a prendere posto, fissata con il velcro, sotto il sedile del pilota, collegata ad una unità di controllo a sua volta sistemata nel vano portaoggetti presente tra i due sedili. Avevo rispettato il proposito di non fare alcun foro.

L’unica messa a punto riguardò il settaggio del volume del sintetizzatore e, a questo punto, il giocattolone era pronto per essere programmato in modo da svolgere le funzioni desiderate. Non potei fare a meno di pensare a Mastro Geppetto con il Pinnocchietto appena terminato tra le mani e incrociai le dita; questo almeno aveva bisogno di corrente e nel caso, togliendola, non avrebbe potuto combinare troppi danni.

Iniziai scrivendo le piccole routine che intercettano le stringhe spedite dallo SkyView decodificando le misure di mio interesse, convertendo nodi in km/h ed altre bagatelle di questo genere. Avendo sottomano il simulatore che avevo costruito (in pratica solo un microcontrollore opportunamente programmato ed interfacciato) questo lavoretto fu rapido ed indolore. Ora, divertente o meno che fosse, dovevo scegliere le funzioni da implementare e scrivere i relativi software.

Mi sembrò logico partire dai controlli pre-volo senza tralasciare una breve frase di benvenuto e presentazione (Welcome on board. My name is India Bravo ecc.). Scordavo; la scelta era caduta in maniera naturale sull’inglese per la maggiore compattezza lessicale, per l’eccellente pronuncia di ‘perfect Paul’ (il profilo vocale scelto) e per il fatto che, volenti o nolenti, ce la ritroviamo come lingua ufficiale nel mondo dell’aviazione.

Dopo questi convenevoli inizia, con teutonica precisione, una lista di richieste (es. Arm emergency parachute). Al termine di ognuna il pulsante di conferma sull’unità di controllo si illumina di un blu intenso ed occorre premerlo per avere la conferma dell’operazione eseguita ed una nuova richiesta.

Alla fine della litania un beneaugurante “Ready for departure” gratifica, se tutti i controlli sono stati superati, la diligenza del pilota. Ovviamente un foglietto o la checklist caricata sullo stesso SkyView può svolgere la stessa funzione; questa però è più efficace e veloce e vale decisamente il modesto sforzo della sua preparazione. In pratica svolge compiti normalmente gestiti dal secondo pilota ma senza alcuno spiraglio per dimenticanze.

Al secondo modulo (attivato dalla posizione successiva del selettore) affidai una funzione di supporto nella fase di decollo che inizia con la lettura continua della velocità fino a raggiungere quella di rotazione, alla quale arriva il deciso suggerimento: “Rotation!”. Segue la lettura continua di velocità e quota fino al momento di ritrarre i flap al quale, come è facile immaginare, si è raggiunti da un “Retract flaps” che non ammette repliche e si è anche tenuti a confermare questa operazione.

Per la verità, pur non avendo difetti formali o necessità di modifiche, non apprezzo particolarmente questo modulo e non lo attivo quasi mai; a quale velocità effettuare la rotazione preferisco sentirmelo comunicare direttamente dall’aereo e non dal grillo parlante.

Il modulo successivo, dedicato alla crociera, ha un compito di tutto riposo; si limita infatti a ricordare, con la frequenza impostata dal pilota, prua magnetica, velocità indicata e quota barometrica.

Arriviamo così al modulo più delicato ed indaffarato, dedicato alla preparazione dell’aereo per l’atterraggio ed allo stesso atterraggio. E’ piuttosto improbabile che un pilota scordi qualche passaggio in questa fase; in ogni caso la sequenza delle istruzioni specifiche (quota e velocità nelle varie fasi, flap, passo dell’elica, luci e quant’altro) vengono ricordate chiedendo anche conferma per alcune delle operazioni (es. effettiva inserzione dei gradi di flap previsti). Durante il finale l’unica informazione ripetuta (con frequenza elevata) è la velocità.

L’ultimo modulo è dedicato ai controlli post volo, da quelli più ovvi come la ritrazione dei flap a quelli talvolta trascurati come il confronto tra il carburante presente nei serbatoi e quello indicato dal Fuel computer.

Il grillo parlante, come ho battezzato questo oggetto, svolge in maniera accurata il compito che gli è stato affidato, restando in paziente attesa per il tempo necessario ogni volta che una comunicazione interrompe l’operazione che sta svolgendo. Ha però un lessico un po’ limitato e non fa mai osservazioni inattese; magari, quando troverò un momento, gli darò un briciolo di autonomia consentendogli di fare qualche commento tutto suo in maniera non inopportuna ma nemmeno prevedibile. A dire il vero, qualcosa gli avevo già concesso, provvisoriamente, durante la scrittura del software, lasciandogli assemblare, in alcune circostanze, frasette diverse di significato analogo. Lo avevo però rapidamente epurato dopo che, per un modesto ritardo nel ritrarre i flap mi sono sentito apostrofare da un “Would you please retract those bloody flaps?”, più o meno “Ti vuoi decidere a metter dentro quei fo**uti flap?”.

Certamente colorito, magari anche efficace, ma non è quello il modo!


§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§

# proprietà letteraria riservata #


Roberto Giudorzi

Un volo indimenticabile

Dopo un lungo e noioso inverno era grande la voglia di sgranchirsi le ali ed i 300 cavalli racchiusi nel cofano motore del mio F15E “Picchio” scalpitavano, ansiosi di galoppare.

Per quel weekend di fine maggio 2003 mettemmo a punto un programma turistico, addestrativo e culinario molto interessante: partenza dall’aeroporto di Viterbo e, dopo un veloce scalo a Perugia per espletare le allora previste formalità di dogana e polizia, di nuovo in volo diretti a Pola con piano di volo IFR per mantenere “current” la mia arrugginita abilitazione al volo strumentale. Una volta arrivati in Croazia la giornata sarebbe proseguita con la visita della città ed allietata da una buona cena a base di pesce.

Il programma prevedeva di tornare a casa il giorno seguente dopo aver riempito fino all’orlo i quattro serbatoi dell’aereo con dell’ottima benzina avio pagata la metà di quanto costava in Italia.

In questa occasione i quattro posti disponibili erano tutti occupati. L’equipaggio, infatti, era composto oltre che da Alessia, che abitualmente riveste il ruolo di navigatore durante i nostri viaggi, e da Iulia, il fedelissimo cane corso che ci seguiva in ogni spostamento, da mio figlio Giulio che, allenato pilota militare ed istruttore di volo, svolgeva la funzione di pilota di sicurezza.

Decollammo da Viterbo alle 10.15 ed alle 11.40 eravamo pronti a partire di nuovo da Perugia per atterrare a Pola alle 13.00. Tutto si svolse come programmato e la mattina del giorno seguente, abbandonati i panni del turista, andammo all’ufficio meteo dove ci confermarono che il tempo lungo la rotta era buono. Presentato nuovamente un piano di volo strumentale, rifornito l’aereo e fatti i controlli prevolo, staccammo le ruote da terra alle 11.50.

Il Controllo ci autorizzò a salire e mantenere il livello di volo 90 come da me richiesto; era la quota più bassa prevista per quell’aerovia e 3.000 metri erano più che sufficienti per scavalcare l’Appennino. Ormai sembrava di assistere ad un film già visto; il Picchio con i suoi 320 litri di carburante ed il suo carico prezioso in cabina correva veloce verso il VOR di Ancona per poi accostare a destra puntando il VOR di Bolsena con destinazione finale, questa volta, l’aeroporto di Roma-Urbe.

Lasciata la costa, le montagne erano nascoste da una densa coltre lattiginosa apparentemente innocua ma con il passare dei minuti il suo chiarore quasi abbagliante cominciò ad attenuarsi. Il Picchio sobbalzava come un’auto che corre su una strada sconnessa, all’improvviso il parabrezza ci apparve come una lastra di piombo ed in cabina si riusciva a stento a leggere le carte. Da lì a poco iniziò a piovere con violenza e mantenere la quota divenne molto impegnativo.

Niente di grave se la situazione fosse rimasta tale ma il peggio doveva ancora venire: le condizioni meteo continuarono a deteriorarsi e a noi non rimase altro da fare che accendere il riscaldamento al tubo di pitot, per evitare che il ghiaccio lo ostruisse, e ridurre la velocità per attenuare le sollecitazioni all’aereo, non avendo l’F15E altri sistemi antighiaccio né un radar meteo. Nel frattempo la grandine aveva preso il posto della pioggia investendoci a 140 nodi, smerigliando il bordo d’attacco delle ali e ammaccando le alette di raffreddamento del radiatore dell’olio. All’interno il rumore era assordante e, nonostante avessimo le cuffie, per me e Giulio era impossibile comunicare. La turbolenza rendeva il Picchio quasi ingovernabile mentre alcuni fulmini, ignorandoci, ci sfioravano per proseguire verso terra.

Speravo ardentemente che il plexiglass del parabrezza spesso 5 millimetri non si rompesse quando mi voltai per un attimo verso il sedile posteriore. Nella penombra vidi quattro occhi sbarrati che mi puntavano desiderosi di una immediata conferma che tutto andava bene e che saremo subito usciti da quella tempesta; poi vidi che Iulia, nonostante i suoi 40 chili, si era fatta piccola piccola e si era attaccata ad Alessia la quale a sua volta la stringeva tra le braccia. Entrambe tremavano…  non si saprà mai chi delle due trasmettesse il tremore all’altra né se la causa del tremore fosse il freddo, dovuto al brusco abbassamento della temperatura nell’abitacolo, o  qualcos’altro! In quella situazione nessuno aveva pensato di aprire le bocchette dell’aria calda per riscaldare la cabina.

Non sono in grado di dire quanto durò quell’inferno: il tempo si era dilato ed i minuti erano lunghissimi, interminabili. Ricordo soltanto che, attraversata la cellula temporalesca, ci fu un miglioramento repentino ed il cielo tornò sereno.

Alle 13.40 atterrammo all’Urbe dove splendeva lo stesso sole che avevamo lasciato due ore prima a Pola.

A terra, un ultimo sguardo pieno di amore e riconoscenza all’F15E, inconfondibilmente elegante, ed il pensiero corse veloce all’insuperabile genio italiano suo ideatore: grazie Ingegner Frati!


§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§

# proprietà letteraria riservata #


Sandro Rosati

In volo tra le nuvole … e nello spazio

Ero con gli occhi chiusi alla ricerca della concentrazione e per mitigare la tensione. Sentivo solo il rimbombo ritmico del motore e nessun altro suono. Aprii gli occhi: ero seduto su una lunga panca metallica insieme ai miei commilitoni e di fronte a me, sull’altro lato della carlinga, si trovavano altrettanti compagni. Eravamo tutti con la stessa tenuta scura, giubbotto antiproiettile, guanti termici e uno stock di armi disseminato in tutto il corpo, compreso il pratico fucile laser e le granate ad onda d’urto. Il casco integrale mi impediva di vederli in viso e di incrociarne gli occhi, ma forse era meglio così: in quei momenti è preferibile stare da soli con i propri pensieri e non condividerli con nessuno, nemmeno attraverso uno sguardo.

All’improvviso il graduato segnalò con il pollice verso l’alto che dovevamo alzarci. In fila indiana ci accostammo alla parete dell’aereo per dirigerci verso il portellone già aperto. Fuori era buio pesto e percepivo solo il freddo glaciale che proveniva dall’esterno. Ricordavo che il lancio era previsto da alta quota, per impedire di intercettare l’aereo o vanificare la nostra discesa e le condizioni climatiche a quella altitudine non sono gradevoli: anche il respirare diventa un problema se non lo fai correttamente.

Una lieve esitazione quando fu il mio turno e poi il salto nel vuoto.

Istintivamente controllai subito l’altimetro, mentre mi coordinavo per trovare il corretto assetto in volo. Non mi ricordavo di aver mai usato quello strumento, eppure riuscivo a leggerlo perfettamente e interpretarne le indicazioni.

Arrivato all’altezza prefissata tirai la cordicella per liberare il paracadute. Maledizione, imprecai; non si era aperto. All’istante i battiti del cuore si impennarono ma cercai di mantenere la calma. Sentii il sudore freddo scorrere sotto i vestiti, mentre faticavo a deglutire e sentivo la gola secca.

Azionai il paracadute di emergenza, ma nemmeno quello si aprì. Ero nel panico. Iniziai a guardarmi intorno alla ricerca di aiuto da qualche compagno, ma con un lancio notturno sapevo di non poter scorgere nessuno. Guardai nuovamente l’altimetro e dall’altitudine segnalata capii che gli altri avevano già aperto i loro paracadute e si trovavano tutti al di sopra di me, in planata lenta.

Le tempie pulsavano all’impazzata contro il casco e la testa era in fiamme per la pressione. Cercai il microfono per chiedere aiuto, ma era inutile, non c’era più tempo per niente, solo per la disperazione. Urlai con tutta la voce che avevo in gola ma non riuscivo a sentirla. E la terra si avvicinava velocemente a me e alla mia fine.

Riuscii a fatica ad aprire gli occhi e provai ad orientarmi alla luce soffusa della cabina. Giacevo sdraiato nel letto, in una posizione scomposta; ed ero dannatamente sudato.

Mi avvicinai al frigo e sorseggiai una bevanda fresca. Non ero mai stato preda di un sogno di tale intensità e ne ero scosso.

Camminai intorno alla cabina, tentando di stimolare nuovamente il sonno, ma un po’ per timore di chiudere nuovamente gli occhi e un po’ per la sensazione di disagio che provavo, decisi presto di rinunciare.

Che strano incubo, pensai: non sono certo io che dovrei avere certe visioni notturne.

Non ho mai voluto provare l’ebrezza del volo, se non dentro a una sicura e affidabile astronave. Al lancio dall’esito imprevedibile con il paracadute avevo sempre preferito la meno adrenalinica  rampa di lancio. Eppure era stato tutto troppo realistico, soprattutto il terrore provato, e i particolari sembrava li avessi vissuti di persona, ma probabilmente erano frutto di qualche racconto sentito in famiglia che mi era rimasto in memoria. 

Guardai dall’oblò per ammirare Titano, una delle lune di Giove, la nostra prossima tappa del lungo viaggio che ci attendeva.

Mi venne in mente “Dalla Terra alla Luna” di Jules Verne e pensai a quanta strada aveva fatto l’uomo rispetto a quanto narrato in quelle pagine. Ci chiamavano viaggiatori, esploratori, colonizzatori alla ricerca di altri possibili mondi, ma c’erano anche mercenari, fuggitivi e commercianti. Chi lasciava la Terra lo faceva con un biglietto di sola andata, e la motivazione doveva essere forte. Il cosmo offriva spazi e opportunità infinite ed era al tempo stesso attraente ma denso di incognite, quindi non adatto a tutti.  

All’improvviso suonò l’interfono. Aprii il microfono e vidi che la chiamata proveniva dalla sede dell’Ammiragliato. Indicava una comunicazione diretta, senza possibilità di risposta: una cosa piuttosto inconsueta.

Sfiorai lo schermo trasparente per avviare la trasmissione.

“Capitano Travis, a nome delle alte cariche militari, con sommo dispiacere le comunico il decesso di suo fratello.

Durante una missione notturna di sabotaggio, che prevedeva il lancio con il paracadute, si è verificato un problema al sistema di apertura.

Purtroppo non si è potuto intervenire in nessun modo per evitare la tragedia e …”


§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§

# proprietà letteraria riservata #


Massimiliano Murgia