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Racconti degli autori

Cronache interplanetarie


Ormai qui è diventata una mania a livello planetario. Su tutto il nostro pianeta che noi chiamiamo UNO, tramite i canali telematici ed i Social Network non si fa altro che parlare del pianeta TERRA.

Da qualche millennio stavamo cercando un pianeta grande come il nostro, con un’atmosfera come la nostra, distante dalla sua stella come il nostro e finalmente, ecco la Terra.

Finora abbiamo trovato centinaia di pianeti, generalmente senza alcuna forma di vita, oppure con forme di vita elementari, muffe, organismi monocellula. Ma la Terra è un’altra cosa. La Terra è un pianeta con vita intelligente, ha una natura bellissima, animali grandi e piccoli diversi dai nostri. L’ambiente non è dissimile dal nostro, ma ci sembra che le foreste siano più folte, le cascate più imponenti, i fiumi più impetuosi, gli oceani più vasti, le montagne più alte ed impervie, ma soprattutto l’Uomo, che spinto dalle sue passioni ha domato gli elementi, e ne conquista cime, abissi, copre distanze, mosso da un fuoco a noi sconosciuto.

Il nostro governo – c’è solo una nazione che occupa tutto il pianeta UNO – ha deciso che non avremmo interferito con i terrestri, non saremmo scesi sulla superficie della Terra, non avremmo preso contatto con nessuno. Abbiamo invece una grande attività di studio sul pianeta e sui suoi abitanti. Ci sono migliaia di sonde nostre che orbitano attorno alla Terra, ed altre che penetrano a livello del suolo, invisibili agli strumenti terrestri.

Le sonde sono in grado di rilevare immagini a tutti i livelli, riusciamo a vedere la signora che accarezza il gatto e che questo inarca la schiena dal piacere; il bimbo che fa tardi a scuola e la mamma che teneramente lo sollecita, i dettagli della vita lavorativa, dei momenti di svago e, quello che appassiona i nostri sociologi; le infinite liti, le faide ed ogni sorta di divisioni che si hanno tra gli abitanti della Terra.

Io sono uno dei co-piloti della nave spaziale che si è lanciata alla velocità della luce moltiplicata venti milioni verso la Terra.

Aziono l’acceleratore. E’ un complesso meccanismo costituito da ruote montate in serie: l’unità minima di lunghezza, poi, la decina, il centinaio, ecc. fino ad arrivare alla velocità della luce; poi il moltiplicatore; per due, per tre, ecc.

Aziono il puntatore direzionale, una sfera grande come la mano, e ne seguo le rotte sullo schermo.

Il viaggio è durato due anni, durante i quali aggirammo gli ostacoli, pianeti, asteroidi ed una grande varietà di corpi celesti.

Ora che siamo “arrivati”, cioè stiamo orbitando a duecentomila chilometri di distanza dal Pianeta Azzurro, in teoria, dovrei essere disoccupato, quindi il comandante della nave spaziale mi ha aggregato alla squadra Sonde cioè quella che si occupa di dirigere il volo di invisibili droni, ovvero le sonde scese sulla superficie della Terra. A ciascuno è affidato un centinaio di sonde, che vanno pilotate abilmente seguendo alcuni avvenimenti prescelti, e non la funzione di sorveglianza territoriale. Il gruppo di sonde affidate a me, sono scese sulla zona geografica chiamata Italia, un luogo grazioso con la forma curiosa di uno stivale.

Le sonde mandano il loro segnali alla nostra centrale di bordo, ed un team di analisti le invia alle nostre agenzie spaziali che ne traggono le informazioni  necessarie agli scienziati del governo di UNO, mentre alcuni filmati  sono invece canalizzati sui canali telematici, e trasmessi dai televisori degli abitanti del nostro pianeta. Ormai su UNO si guarda solo quello.

Ci sono canali sulla natura, gli animali. Nei periodi di pausa, anch’io mi godo questi filmati. Mi piacciono quei canali che trasmettono i comportamenti degli abitanti della Terra.

Gli umani terrestri sono simili a noi, a parte naso e bocca più grandi, e poi la curiosità: i maschi  hanno i capezzoli.

Ma la cosa che incuriosisce di più, è la passione con la quale i terrestri conducono la loro vita. Su UNO non è così. 8.500 anni fa (siamo infatti nell’anno 8500) sul pianeta UNO si decise di atrofizzare la passione. Eravamo stanchi di guerre, di lotte, di soprusi di ogni tipo, di prevaricazioni. I nostri scienziati comportamentali avevano capito che è la passione a portare l’uomo a commettere ogni sorta di nefandezze. E quindi ci fu tolta. Noi non abbiamo più la passione, di conseguenza non ci sono più tutti gli eventi tragici che sa creare l’uomo quando è pervaso da essa. Abbiamo avuto da subito più risorse ed abbiamo creato uno standard di vita decisamente superiore a quello della Terra. Però la vita con la passione, vista dal nostro pianeta, dove non corriamo alcun pericolo, è più divertente, più interessante.

Da alcune settimane una delle mie sonde  si sta muovendo su uno speciale campo di volo. Ai margini del campo, in un grosso hangar sono rimessati alcuni velivoli storici, ad attorno a questi si sviluppa un’attività quasi frenetica inerente la manutenzione di questi velivoli, vecchi anche di cento anni, costruiti con una tecnologia antiquata, elementare, ma di certo ingegnosa.

E’ un’attività questa che non è capita su UNO, ed uno speciale commentatore deve spiegare che non essendo facile mantenere in funzione questi velivoli, tutto il lavoro sembrerebbe noioso, se non rappresentasse una sfida continua nel reperire i ricambi che non esistono più, nello studio di soluzioni tecniche che non alterino l’originalità del velivolo e poi il reperimento di fondi che sembra non bastino mai. Ma alla fine c’è il premio. Questi aviatori amatoriali, dopo aver lavorato parecchie ore, in modo gratuito, finalmente possono far uscire il velivolo dall’hangar, e lo fanno con una cura tale, che sembrano giovanotti che accompagnano il nonno in un luogo dove ritorna giovane ed aitante.

La sonda registra dati quali il battito cardiaco del pilota, la produzione di adrenalina, la pressione sanguigna, e ne deduciamo che il godimento è altissimo.

L’aereo viene fatto rullare su una vecchia pista in erba, il motore emana un rumore assordante, ma fa parte anche questo del godimento, e poi via, si lancia in cielo.

Il pilota ha ben pochi strumenti che lo aiutano. Le semiali vengono governate ad occhio, secondo l’esperienza e la sensibilità. Le correnti aeree sbattacchiano il leggero velivolo come un fuscello, ma il pilota non perde il controllo, anzi, alcuni si lanciano in voli acrobatici; inanellano looping, tonneau, si lanciano in Schneider azzardate, si gettano in basso verso la pista per acquistare velocità, e per risalire poi in un volo verticale, fino a cercare la posizione di stallo.

All’atterraggio il pilota viene accolto, salutato e complimentato; si beve vino buono, per aggiungere ebrezza all’ebrezza.

Un altro gruppo di sonde, delle quali sono pilota, segue alcuni eventi lavorativi meno ludici.

Una delle mie sonde segue la vita di un uomo in particolare, in modo che noi del nostro pianeta riusciamo a capire la vita sulla Terra e ad imparare che quegli sono esempi che non vanno imitati.

Il tipo in questione si chiama Danilo Bianchi. E’ un quarantenne, sposato, ha una bella moglie, spiritosa e sensuale, un figlio. Danilo Bianchi lavora al comparto vendite di una fabbrica di mobili. Lavora dieci ore con una resa molto al di sotto di quella del pianeta UNO. Su UNO si lavora per quattro ore e si produce molto di più.

Le vicende di Danilo Bianchi sono seguite mediamente da seicentomila persone del mio pianeta.

Danilo a volte va a giocare a calcetto, a bere una birra con gli amici, ma per il resto fa vita di casa, così tutti possono vedere le liti, che da noi non avvengono, però si vedono anche i baci, gli abbracci, tutti gli atteggiamenti amorosi che da noi sono ridotti al minimo. Ma quello che ha combinato ieri sera Danilo Bianchi resterà memorabile per tutti i suoi fans. Danilo è stato invitato ad una cena tra impiegati della sua azienda.

In quelle cene i maschi non si portano le mogli né le femmine i mariti, e già per questo, a noi, abitanti di UNO, cominciano a scorrere brividi sulla schiena.

Danilo si sedette vicino alla signora Ileana-dell’ufficio-Acquisti. Una bella mora procace, elegante, più attraente della moglie di Danilo. Tutti i seguaci della rete cominciarono a mandarsi messaggi dicendo che qualcosa di interessante stava succedendo a Danilo.

La scena sopra la tavola era abbastanza noiosa, ma io inviai la sonda a spiare  quello che accadeva sotto la tavola: Ileana-dell’Ufficio-Acquisti, che aveva delle belle gambe inguantate in calze scure, cominciò a strusciare il ginocchio contro quello di Danilo.

Danilo non si spostò, né la rimproverò, anzi, prese anche lui a massaggiare il ginocchio di Ileana in su ed in giù. Infine le due gambe si accavallarono l’una sull’altra. La rete era stracarica di spettatori. Quanto accadeva sopra il tavolo non aveva niente a che fare con le manovre sotto di esso. Discutevano di politica, di sport, ed immancabilmente del lavoro.

La cena finì, ed eravamo tutti curiosi di vedere come sarebbe evoluta la situazione tra Danilo ed Ileana.

I due lasciarono che tutti partissero. Danilo salì in macchina, ma invece di uscire dal parcheggio del ristorante, andò a posteggiare dietro ad un grosso cespuglio. Dopo un attimo arrivò anche Ileana aprì la portiera dell’auto di Danilo e si accomodò.

Chi si aspettava un discorso d’amore rimase deluso. L’unica parola che disse Ileana fu: “Finalmente!” iniziarono presto a spogliarsi di alcuni indumenti ed a baciarsi freneticamente, poi ebbero un amplesso. Una specie di ginnastica erotica nella quale Ileana-dell’ufficio-acquisti si dimostrò più sfrenata e disinibita della moglie di Danilo.

Sul pianeta UNO esplosero letteralmente le reazioni nella rete. Il che significa che qualche milione di persone postò dei simboli di mani che battevano. Su UNO questo corrisponde a quanto accade sulla Terra quando una squadra di calcio porta a casa la Coppa Continentale.

Ma non finì qui. Il nostro eroe, finito l’amplesso, stette ancora un poco a godersi gli abbracci della bella Ileana, poi aprì il cruscotto della macchina, ne trasse due arance, le sbucciò e prese a strofinarsi i vestiti con le bucce.

Noi del pianeta UNO non capivamo un accidente, ma anche Ileana si trovò a chiedere: “Ma cosa fai?”

Danilo, il nostro eroe, disse che così la moglie non avrebbe rilevato l’odore di Ileana sui suoi vestiti.

Una trovata così geniale non l’avrebbe avuta nessuno sul pianeta UNO. Danilo Terrestre aveva messo in ombra gli scienziati di UNO!

Piovvero i consensi in rete, ancor più che per la bella performance dei due amanti.

Ma non finì così. I terrestri non finiscono di stupirci: Danilo rientrò a casa. Fu accolto dalla moglie in vestaglia, lei gli buttò le braccia al collo, fece aderire tutto il suo corpo a quello di Danilo (immaginatevi l’eccitazione su tutto il pianeta: qui da noi ci si unisce in amplesso solo per procreare ed è un atto meramente meccanico).

L’eroe terrestre si trovò a spiegare alla moglie che i colleghi a cena lo avevano spruzzato per scherzo con le bucce d’arancia. La scusa fu ritenuta debole e la reazione della rete dimostrò la delusione degli spettatori remoti. La signora Bianchi però non considerava conclusa la serata; in breve si liberò della vestaglia, apparve in tutta la sua bellezza con un completino nero di pizzo, e parlando sottovoce strascicando le parole, pretese quanto le era dovuto in materia di coccole.

Il nostro eroe indossò la sua maschera di faccia-di-tolla e con un sorriso poco convincente rispose alla moglie. :”Ma certo amore! Non aspettavo altro che questo momento” e tolse le coperte dal letto con fare invitante.

A questo punto il canale telematico che segue Danilo Bianchi registrò numerose domande di adesione. Pare che il trenta percento degli  spettatori  del pianeta fosse collegato.

Si spensero le luci della stanza, la sonda dedicata a Danilo passò alla visione notturna e potemmo, tutti noi del pianeta UNO, sapere che alcuni terrestri hanno potenzialità sessuali decisamente avanzate, dato che Danilo Bianchi, esibendosi in un’altra sessione di ginnastica erotica, fu in grado di far credere alla moglie che quella serata era stato innocente.

A noi del pianeta UNO queste cose sono sconosciute, inibite, vengono considerate pericolose. Come poi spiegò il responsabile dell’emittente, invariabilmente queste scene finiscono male. Prima o poi il colpevole viene scoperto e si aprono tutti gli scenari più orribili: fallimento dell’unione, figli senza più i due genitori, ultimamente sulla Terra sono perfino in aumento i femminicidi. E poi noi del pianeta UNO non abbiamo neppure questi desideri, o almeno non dovremmo averli. Da 8.500 anni ci hanno tolto la passione, così come si toglie l’appendice, ed ormai genitori con sentimenti atrofizzati generano figli uguali a loro. Abbiamo l’obbligo di unione e di procreazione. Sfoghiamo i nostri istinti con il lavoro e con l’inventiva, ma mi sembra che non arriviamo mai agli apici di gioia che raggiungono i terrestri, e questo, appunto per non raggiungere gli abissi di dolore, terrore, paure di cui sono preda gli abitanti della Terra.

Su questo argomento le discussioni tra di noi sono infinite, anche nelle aule universitarie si dibatte il tema della passionalità dei terrestri, e dei suoi effetti positivi e negativi. Per ordine del governo, gli effetti negativi sono ingigantiti e quelli positivi minimizzati.

Ma a me però piace sognare. Vorrei essere inviato sulla Terra, rischiare di rimanere ucciso in Congo, o in una favela brasiliana, rimanere magari vittima di quelle incomprensibili guerre di religione. E se rimango vivo? Allora mi può capitare di essere vittima dei soprusi del mio capo o dei colleghi sul lavoro, del bullismo, posso cadere nelle innumerevoli truffe astute che ci sono sulla Terra. Ma forse no, potrei uscirne indenne, trovarmi una ragazza come la moglie di Danilo Bianchi, provare ad essere tutto per lei, e lei tutto per me, e la sera, quando rientro a casa, lei mi bacia, e se è solo un bacetto, io che sono a credito di baci da infinite  generazioni, la stringo a me, voglio sentire il suo corpo che aderisce al mio, provare ad approfondire il bacio. Chissà cosa si prova. Ma non solo quello; quando lei è in difficoltà, sollevarla, alleviare la sua pena, essere per lei la soluzione, per guadagnarsi quell’occhiata carica d’amore che sanno lanciarti solo le donne terrestri.


§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§

# proprietà letteraria riservata #


Vito Grisoni

 

Scacchi e volo a vela

Il titolo di questa breve serie di riflessioni potrà sorprendere, destare perplessità, sembrare solo un titolo ad effetto o, semplicemente, incuriosire.

In considerazione del numero degli scacchisti e di quello dei volovelisti, instaurare un simile rapporto, probabilmente, non sarebbe potuto venire in mente a nessuno che non si trovasse nella singolare condizione di praticare (o di aver praticato), abbastanza seriamente, sia l’una che l’altra disciplina; una condizione – sottolineo – privilegiata, per la bellezza e la ricchezza di entrambe, che ti ammettono a mondi ben lontani dalla comune esperienza quotidiana.

Un aliante in volo così come potremmo vederlo da terra. Anche l’osservatore più sprovveduto noterà le semiali lunghissime … che, tra tutte le macchine volanti costruiti dal genere umano – ad oggi – , sono una prerogativa tipica solo degli alianti

Gli amici volovelisti mi perdoneranno ma, in estrema e molto approssimativa sintesi, utile solo per capire quanto sto per esporre, il volo a vela (detto anche volo veleggiato), è quello condotto a bordo di una macchina volante sprovvista di motore e dalle speciali caratteristiche aerodinamiche che le conferiscono eccezionale efficienza: l’aliante. Gli scopi di un simile tipo di volo, esclusivamente sportivi, sono:

  • restare in aria numerose ore,
  • guadagnare più quota possibile,

e, per i più esperti,

  • percorrere varie centinaia di chilometri di distanza libera o secondo un percorso prefissato prima del decollo.

Ecco lo stesso aliante della foto precedente ritratto stavolta a terra. La prospettiva dell’obiettivo fotografico deforma notevolmente le proporzioni in quanto la fusoliera appare molto più lunga delle semiali ma, in realtà, occorre percorrere ben 18 metri per spostarsi da un’estremità alare all’altra. E questo aspetto – quello dimensionale dei due attrezzi necessari a praticare le due discipline messe a confronto – costituisce una differenza incolmabile. Quante scacchiere occorrono per fare un aliante?

Per far ciò, l’aliante sfrutta le correnti termiche generate dal riscaldamento del terreno e gli effetti del vento in relazione all’orografia. Le principali strategie di volo sono:

  • il volo termico, che consiste nel salire nelle colonne d’aria calda e poi compiere lunghe planate trasformando in distanza la quota acquisita fino a raggiungere la termica successiva e ripetere il ciclo;
  • il volo dinamico, grazie al quale si corre lungo i costoni montani investiti dal vento facendosi sostenere senza perdere quota;
  • il volo d’onda, troppo raro e particolare per considerarlo in questa sede.

Generalmente, in un volo si combinano in diversa misura, a seconda delle condizioni meteorologiche che si incontrano, i tipi 1 e 2.

Ecco cosa può vedere un pilota di aliante mentre vola a mezzo del suo “attrezzo sportivo”, altrimenti definito “aliante”. Senza nulla togliere alla visione dall’alto di una scacchiera adorna di tutti i pezzi (possibilmente i propri e non dell’avversario) quella da 3-4 mila metri d’altezza è tutta un’altra storia! Per dovere d’informazione occorre precisare che i voli a quote così elevate si praticano prevalentemente d’inverno, con temperature che ll’interno dell’abitacolo raggiungono anche diverse decine di gradi sottozero, avvengono dopo aver beccato botte da orbi dovute alla turbolenza feroce tipica dei rotori che precedono la salita e infine che si tratta di voli rari che non sono alla portata di tutti i piloti. Evidentemente non di quel satanasso di Tristano Gargiulo che l’ha scattata.’

Quello che vorrei provare a far notare è che tra scacchi e volo a vela, per strano che possa sembrare, esistono non poche e non piccole analogie, affinità, somiglianze, consonanze o – comunque vogliamo chiamarle – correlazioni. Sono due attività così diverse, eppure hanno tanto in comune. Inoltre, i tratti che ne derivano e che si possono mettere a confronto, sono d’importanza rilevante per entrambe le discipline.

Naturalmente esiste tutta una serie di differenze che è bene elencare subito – giusto per far rilevare come siano, seppure importanti – strutturalmente di minore rilievo. Ebbene, almeno a mio avviso, sono:

  • il giocatore di scacchi opera nel chiuso di una sala da torneo, il pilota en plein air;
  • il primo è indipendente dal tempo atmosferico, il secondo ne dipende totalmente;
  • l’uno, seduto su una sedia, non corre alcun rischio, l’altro, in continuo movimento e in scenari che mutano, è soggetto a un rischio potenziale elevato;
  • l’uno contende con un avversario, l’altro contende con altri suoi simili solo in alcuni tipi di competizioni agonistiche e, per lo più, effettua un tipo di volo solitario in cui si misura con un obiettivo da raggiungere.

Analizziamo, però, meglio queste differenze.

La prima è solo di contorno.

Quando le condizioni meteo o le scelte operate dal pilota di aliante non si rivelano felici, ecco cosa accade: il fuoricampo!

Nella seconda, la situazione meteorologica – come vedremo – è il principale dei fattori che condizionano la strategia del pilota e diventa il contraltare delle forze in gioco sulla scacchiera.

Il termine “fuoricampo”, tipico del mondo del volo a vela, sottintende che l’aliante, decollato da un aeroporto o un’aviosuperficie, è atterrato in un campo diverso da quello di partenza. Quasi sempre si tratta letteralmente di un “campo”, ossia di un appezzamento di terra abbastanza grande e levigato da consentire al malcapitato pilota di effettuare l’atterraggio con un certo margine di sicurezza. Quello ritratto è il campo in cui, alcuni anni orsono, l’autore decise di atterrare con il suo I-CYAO. A guardarlo bene non si trattò di una campo poi così grande, viceversa, al momento dell’atterraggio era fin troppo levigato … davvero troppo se si considera che in fondo al declivio c’era il fiume con una sorta di strapiombo.

La terza è in sé valida, ma si attenua nella sua portata se consideriamo più pertinente – riguardo ai casi che ci interessano – l’accezione non di “rischio per la persona” ma di “rischio sportivo”. In altri termini, per il giocatore, fare una mossa o seguire un piano con una forte componente di azzardo (nel tentativo di forzare il gioco), può comportare la perdita della partita; per il pilota, fare una scelta, altrettanto azzardata, può comportare il mancato completamento del percorso che si era prefisso.

Tutto è bene ciò che finisce bene. Questa è la foto finale che dovrebbe sempre concludere l’evento chiamato “fuoricampo”. La squadra di supporto al pilota ha raggiunto il “campo”, ha provveduto allo smontaggio dell’aliante, lo ha collocato all’interno dell’apposito carrello di trasporto e, trainato dall’auto della squadra, riprende la via per l’aeroporto di partenza. Che è proprio quanto accaduto all’autore in occasione di un fuoricampo di qualche anno fa, sempre a bordo del mitico I-CYAO. In virtù del dovere d’informazione di cui sopra, occorre riportare che, generalmente, la giornata “storta” del pilota “fuoricampo” si conclude con una pantagruelica cena da lui offerta a tutti i membri della squadra di recupero. E questo spiega perchè i piloti di volo a vela evitino come la peste i “fuoricampo”!!!

Anche la quarta si riduce, se concordiamo sul punto che, sia per uno scacchista sia per un volovelista, il principale avversario che deve superare è lui stesso. Anzi, questa è una delle analogie più importanti: sia gli scacchi sia il volo a vela costringono a guardare dentro sé stessi, a imparare a conoscersi, a studiare i propri limiti e i modi che ciascuno individualmente ha di “spingerli un po’ più in là”, per usare le parole di Angelo D’Arrigo. Come? Per esempio, osservando il nostro modo di prendere le decisioni e quale elemento più le caratterizza: rapidità, esitazione, decisione, incertezza, calma,coraggio, ripetitività, inventiva, rinuncia. Basti ricordare che, nel momento della verità – quello delle scelte decisive, per intenderci – sia il giocatore di scacchi che il pilota sono fondamentalmente soli.

Oppure – occorre chiedersi – con che grado di resilienza reagiamo alle frustrazioni? Quali pensieri riusciamo a concepire quando dubitiamo di noi stessi? Quanto conta per noi una motivazione forte rispetto alle difficoltà e ai potenziali rischi? O come gestiamo quei rischiosi momenti in cui ci accade di avere un eccesso di fiducia in noi stessi?

La carriera del pilota di volo a vela – se di carriera si può parlare – è lunga e perigliosa. E’ un continuo apprendere, un incessante miglioramento di quanto si è già appreso, è un frequente confrontarsi con altri piloti più bravi e talentuosi. Capita anche che, andando a volare in luoghi a lui non familiari, il pilota di aliante, seppure provetto, chieda ad un pilota indigeno di mostrargli aree favorevoli e/o sfavorevoli al volo, procedure di decollo e atterraggio. Poi, anche solo in considerazione del fatto che ogni volo è una storia a sé stante, il volo a vela è uno di quelle discipline in cui non si smette mai d’imparare. E in questo – l’autore ce lo concederà – non è affatto dissimile dalla scacchistica.

L’aspetto che accomuna volo a vela e scacchi è che la performance è un continuum che ha una progressione ininterrotta fino all’esito finale; non è – a differenza di molte altre attività sportive e agonistiche individuali – una prova composta di azioni “discrete”, ciascuna delle quali genera un punteggio parziale che contribuisce a quello totale.

Ci sono poi le somiglianze esteriori, o forse solo apparentemente esteriori, come la posizione di virtuale immobilità del pilota, seduto o disteso, e dello scacchista che può rimanere tutta la partita davanti alla scacchiera. La durata del tempo in cui questa situazione statica si prolunga è assolutamente comparabile: è infatti di alcune ore, sia per una partita sia per un volo di un certo impegno agonistico.

Il parallelismo non è così banale: vuol dire che, anche per il volo come per gli scacchi, quello che conta non è tanto un atto fisico, come l’uso dei comandi per governare l’aeromobile (che a un certo punto di esperienza diventa istintivo e automaticamente efficace), quanto l’attività intellettuale, la gestione mentale del tempo e della strategia. Ed è questo che costituisce la specificità del volo a vela rispetto al volo praticato con l’ausilio di un motore (usualmente definito volo a motore).

Lungo quelle ore si distribuisce, sia per il pilota che per il giocatore, un notevole e prolungato dispendio di energie psichiche e nervose. Esse si riflettono sul fisico, che, se non debitamente allenato a quel tipo di sforzo, subisce un calo di prestazioni. E quel calo avverrà proprio in momenti decisivi per entrambi, ossia quando si richiederà loro il massimo di concentrazione e di efficacia delle proprie azioni. Per l’uno potrà pregiudicare il completamento del tema e -ottimisticamente parlando – il ritorno sull’aeroporto di partenza; per l’altro, l’esito infausto della partita.

L’aspetto probabilmente fondamentale che hanno in comune gli scacchi e il volo a vela è che sono discipline fondate entrambe sulle scelte. Sono discipline in cui l’attività fondamentale è prendere decisioni. Esse si basano su:

  • fattori esterni (la valutazione)
  • fattori interni (il carattere della persona, la sua attitudine comportamentale).

L’autore in procinto di decollare con il suo aliante che lo condurrà … forse neanche lui sa esattamente dove … ma di sicuro in volo

Questo fattore è talmente importante che due piloti o due giocatori potrebbero fare scelte anche notevolmente diverse pur partendo da una base di una valutazione analoga. Figuriamoci poi quante volte valuteranno in modo diverso le molteplici possibilità che offre una posizione complessa sulla scacchiera o un cielo da interpretare che si apre davanti a loro.

L’insieme delle nozioni apprese, lo studio delle partite e dei voli effettuati dai campioni o da altri, non sono altro che un bagaglio che deve essere accumulato ma che non è utilizzabile per imitazione, bensì servirà a favorire la ricerca della scelta giusta ogni volta che ne giunga il momento.

Ogni partita e ogni volo sono costruiti su una lunga serie di scelte, alcune più semplici, altre decisive e difficili perché da esse dipende il successo o l’insuccesso dell’intero piano complessivo. E – come dicevo prima – a mano a mano che gli eventi seguiranno il loro corso, nella partita come nel volo, le scelte diventeranno sempre più delicate e irrevocabili.

Che tipo di scelte sono quelle dello scacchista e del volovelista? L’approccio mentale che ad esse presiede – in entrambi i casi – è quello della selezione di un piano; ovvero, prima di tutto, occorre una strategia generale, che per il giocatore di scacchi dipende da:

  • le varianti d’apertura;
  • la personalità dell’avversario;
  • la maggiore o minore aggressività che si vuole conferire al proprio gioco.

Per il pilota dipende da:

  • la stagione (cioè quante ore di sole sono prevedibili);
  • le condizioni meteo del giorno;
  • il tipo e dalla lunghezza del percorso;
  • le caratteristiche di performance dell’aliante con cui vola.

Nel corso dell’attuazione di tale piano ci si troverà, però, quasi di continuo a confrontarsi – stavolta su una scala più piccola – con il vaglio delle possibilità e con il calcolo delle varianti, aspetto ben noto negli scacchi ma presente anche nell’applicazione di una strategia di volo (esempio: Ho bisogno di quota; mi conviene avvicinarmi al costone o dirigermi verso un cumulo più promettente ma più distante? E quale alternativa ho se la scelta che faccio fallisce?).

L’autore mentre si cimenta in una partita all’ultima mossa durante un torneo di scacchi

E’ in special modo interessante notare che, sia negli scacchi che nel volo, a volte ci si basa su una sorta di “teoria dei vantaggi”. Al sacrificio combinativo o posizionale degli scacchi corrisponde nel volo – sempre a titolo di esempio – l’abbandono di un’ascendenza sicura per una migliore (di cui però s’indovina solo l’esistenza secondo i principî generali e l’esperienza), oppure la decisione di continuare a seguire la dinamica del costone a quote più basse, rinunciando a perdere tempo con una deviazione di rotta allo scopo di salire più in alto sotto i cumuli di valle. Scelta quest’ultima che garantirebbe un volo più sicuro ma meno fluido e veloce. In entrambe le discipline si tratta di scelte esposte ai rischi legati alla giustezza del calcolo e all’assenza di imprevisti.

Oltre a questa capacità di valutare le alternative, un buon giocatore e un buon pilota devono sviluppare l’attitudine alle previsioni intuitive, soprattutto sotto quella peculiare forma che chiamiamo senso del pericolo (Non mi fido, quindi questa mossa, seppure attraente, non la faccio / Passare di lì, benché sia la cosa apparentemente più ovvia, non mi convince del tutto, quindi percorrerò un’altra strada).

A questo proposito, si può aggiungere che l’azzardo fine a sé stesso (cioè con una percentuale di rischio inversamente proporzionale alle possibilità di successo) è considerato un errore di prospettiva, e qualcosa di alieno dai sani principî dell’una e dell’altra disciplina, benché occasionalmente sia il giocatore di scacchi sia il volovelista sperimentino l’ebbrezza di mettere alla prova la loro fortuna.

Al tema delle scelte è connesso almeno un corollario che vale per entrambe le discipline. E’ quello secondo il quale“è meglio un cattivo piano che nessun piano” (qui dissento da G. Kasparov, Gli scacchi, la vita, Milano, Mondadori, p. 26). Per un giocatore di scacchi e per un pilota di aliante, infatti, la scelta più grave e sicuramente destinata all’insuccesso è giocare/volare senza idee, senza aver concepito un piano. Un piano, invece, anche se ad una verifica risulta sbagliato, può ispirarne un altro basato su diversi presupposti validi. Magari salvifici o vincenti.

Quello che sia lo scacchista sia il pilota ricercano sono le linee invisibili di energia. La bravura dell’uno e dell’altro risiede spesso nel saper individuare – o, diremo meglio, intuire – le sottili linee non discernibili dall’occhio che collegano, non necessariamente in linea retta, due punti distanti della scacchiera (si pensi alle “triangolazioni” nei finali; con le parole di Y. Averbach: “Un postulato essenziale della geometria della scacchiera è che la linea retta non è sempre la via più breve fra due punti”). Stesso discorso se si tratta due zone del cielo.

In un caso, si tratta dell’energia – anzi, della potenziale sinergia – insita nella posizione reciproca di alcuni pezzi vantaggiosamente collocati dal giocatore e in quella sfavorevole dei pezzi dell’avversario. Occorre prenderne coscienza per concepire il piano giusto e procedere con la sequenza di mosse corretta. Nell’altro, abbiamo a che fare con linee di energia termodinamica derivanti dalle condizioni generali della meteo (documentate da specifiche previsioni meteorologiche applicate al volo a vela) ma combinate – e questo è davvero difficile – con quelle micrometeorologiche del luogo e del momento, che, se colte, ispireranno la scelta dell’opportuna strategia e la conduzione del volo per raggiungere un certo punto del percorso, o per fare ritorno da esso una volta raggiunto.

Gli alianti non fioriscono nei campi. E’ bene precisarlo perché qualcuno, vedendo questa fotografia, potrebbe supporlo. In effetti così come l’incubo peggiore di un pilota di volo a vela è costituito dal fuoricampo, allo stesso modo il sogno più lussurioso che si può concedere è di atterrare in un campo pieno di fiori gialli. All’autore è capitata l’una e l’altra cosa e questo scatto lo testimonia. Della serie: anche l’incubo peggiore può diventare il sogno più lussurioso. Fortunatamente – per quanto ci è dato sapere ad oggi – gli alianti non parlano perché, altrimenti, saremmo curiosi di sapere cosa ne pensano loro a proposito del “fuoricampo”. E, almeno orientativamente, non dovrebbero essere opinioni edificanti.

Anche il concetto della dimensione temporale presenta molte affinità negli scacchi e nel volo. Di solito, sia il giocatore che il pilota hanno sufficiente tempo per riflettere e prendere le decisioni che a loro sembrino configurare le migliori strategie, a breve e a lunga scadenza. Ma questo non vuol dire che ce ne sia sempre abbastanza per elaborare ciascun piano o per sottoporre ad approfondita verifica quello che sembra più promettente. Ci sono casi, non infrequenti, in cui lo scacchista è nella necessità di muovere velocemente (Zeitnot); così pure il volovelista può dover compiere delle scelte rapide, per esempio a causa di un repentino cambiamento delle condizioni meteo (l’arrivo di una copertura, un cambiamento di vento) o di situazioni impreviste (una discendenza prolungata, che sta dissipando la quota), ma anche quando non ha più quota per mantenersi in volo e deve scegliere in pochissimi minuti un campo di fortuna in cui atterrare (cioè effettuare un fuoricampo: un’evenienza che, benché sia sempre da tenere in conto nel volo a vela sportivo, è tuttavia non sempre scevra di pericoli). Ad entrambi è richiesta l’attitudine (che si può consolidare con l’allenamento specifico e soprattutto con l’esperienza), a pensare e decidere in fretta, a volte in poche decine di secondi, anche quando la posta in gioco è davvero alta.

Accade anche il contrario: il giocatore o il pilota possono dover applicare una tattica attendista o di resistenza in una situazione difficile. Per il primo si tratta delle cosiddette “mosse d’aspetto” o del trovarsi in una posizione passiva senza un controgioco. Per il secondo, di una fase di attesa del volo dovuta a particolari situazioni meteo (come quando il passaggio di una copertura non estesa blocca solo temporaneamente l’attività termica e costringe il pilota a cercare di “parcheggiarsi” nel punto meno sfavorevole, dove la perdita di quota sia la minima possibile, in attesa che il cielo sia di nuovo sgombro da nubi alte e rifioriscano le ascendenze; oppure del dover faticosamente risalire da un punto basso in condizioni termodinamiche estremamente deboli).

Esistono, infine, analogie anche nell’evoluzione dei progressi di uno scacchista e di un volovelista in termini di abilità acquisita. Entrambi cominciano mantenendosi nell’ambito di ciò che si vede, di ciò che è evidente agli occhi e alla mente per poi muoversi gradualmente verso territori dove acquista efficacia ciò che non si vede, e che per ciò stesso esercita il fascino del mistero.

Attraverso una serie complessa di fasi, il giocatore passa dalla banalità delle mosse elementari dei pezzi all’universo sconosciuto che si cela in una scacchiera, quando la si sappia guardare. Allo stesso modo, il pilota, dopo che ha raggiunto la padronanza del pilotaggio, procede dai sicuri voli attorno al campo all’avventurarsi in nuovi scenari fuori dalla valle, in luoghi, pur vicini, ma da cui gli appare arduo e incerto il ritorno.

La scoperta di tali nascoste possibilità riempie l’uno e l’altro di gioia, soddisfazione e fiducia nei propri mezzi.

Il volo a vela – come d’altra parte gli scacchi – è uno sport per molti ma non per tutti. Quando un pilota di aliante sarà sufficientemente esperto volerà per lo più da solo: lui, il cielo, il sole, il terreno, il vento, la distanza da percorrere la quota da guadagnare. A volte però, per il piacere d’accompagnare un amico, un pilota novello o un pilota “arrugginito”, egli tornerà a volare in biposto o addirittura in un gruppo di alianti. E siccome la macchina fotografica (ora lo smartphone) non può mancare nella dotazione del bravo pilota … ecco che anche una fotografia come questa non può mancare nell’album dei ricordi dell’autore. Dall’abitacolo di un aliante vicino, ecco l’aliante biposto con a bordo l’autore e una seconda persona. 

Raggiungere simili traguardi di competenza e di esperienza, tuttavia, richiede una speciale dedizione e un grandissimo investimento di tempo: è la ragione per cui molti praticanti di entrambe le discipline si fermano alle soglie di questa fase e rinunciano ad andare oltre. Per chi prosegue nell’ascesa e continua ad impegnarsi con costanza e sacrificio, la migliore fonte di progressi, sia negli scacchi sia nel volo, è l’analisi dei propri processi decisionali, ma soprattutto di quelli viziati da manchevolezze, perché inducono alla ripetizione degli errori. È solo studiando la natura dei propri errori che uno scacchista o un volovelista può far crescere le sue abilità e di conseguenza le sue aspirazioni.

Il modo ottimale di migliorare il proprio modo di giocare o di volare non è, infatti, di concentrarsi sulle competenze acquisite ma di confrontarsi con l’erroneo trattamento di determinate situazioni per capire come e perché si siano insinuate (talora radicate) in noi convinzioni e risposte fallaci. E – magari – per compiere l’operazione – talvolta indispensabile – di reimparare nozioni e procedimenti ad un livello di comprensione più approfondita, giacché potrebbero essere stati appresi superficialmente o su basi meccaniche, come è tipico, per ragioni di semplificazione didattica, nell’insegnamento basico dei fondamenti di una disciplina.

L’autore a bordo dell’aliante con cui spesso e volentieri lascia la dimensione “terra” per concedersi un po’ di dimensione “cielo”. Quando vola non porta con sè la scacchiera.

Qualcuno dei punti che ho trattato potrà apparire forse poco convincente (In fondo – mi obiettò, tra il serio e il faceto, un amico cui avevo chiesto di fare l’avvocato del diavolo – alcune delle cose che hai detto si potrebbero applicare anche ad un analista finanziario), ma credo che sia l’insieme – a mio avviso non trascurabile – di questi fattori a configurare la profonda affinità identitaria che avverto dentro di me quando sono seduto a una scacchiera e quando sono sdraiato nell’abitacolo di un aliante.


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§ § in collaborazione con il sito web Soloscacchi §§

 

 

La fortezza in fondo al mare

L’odore del mirto era aspro, pungente, vivido nelle colline a picco sul mare, strade sterrate e muli, fatica e selvaggia bellezza a Calvi, tempo di fame, tempo di guerra.

Poche case di pescatori allora, a riparare le reti, a guardare il tempo, aria di tempesta nel litorale, i vecchi seduti nel bar bevevano un goccio di vino novello e aspettavano che si fermasse la tempesta, per oggi nulla da portare ai bambini e domani, domani chissà …

“E risorge la passione di la Corsica Nazione”, cantavano, pensavano alla guerra che non finiva mai, correva l’anno 1944, il conflitto tra le forze tedesche e gli Alleati era lungo, estenuante, si vedevano aerei in ricognizione tra le montagne corse, fragore e paura nelle antiche fattorie dell’entroterra, e lutti, tanti, al Col di Teghime, dove i goumiers marocchini stavano aprendo la strada per liberare Bastia, l’inquietudine era palpabile, la speranza, forse, un’illusione.

I corsi amavano la libertà e si arruolavano nella Legione per combattere in Nord Africa nella “campagna del deserto”, presi e sbattuti in qualche carcere tedesco, niente cibo né medicine, solo sabbia.

Liberati alla fine dagli inglesi gli ex prigionieri erano stati portati in Italia, a Palermo oppure a Napoli ed imbarcati verso Bastia, con le scarpe rotte salivano per i ripidi sentieri degli Agriates, vento, bufera, non importa, volevano vedere la Cittadella in lontananza, casa e tepore, ricominciare a vivere finalmente.

Tra quelli c’era Ange Acquaviva. Con una piccola barca pescava pesci e leggende meravigliose per i bambini alla sera, per sorridere e dimenticare la paura, ma adesso che era tornato stentava ad addormentarsi, anche tra le braccia di Marie Jo, la sua compagna.

Le donne sembrano fragili ma sono di roccia, la gente corsa era, ed è ancora così, arcana e indomita e lei non era da meno, non aveva pianto quando lui era partito soldato, una carezza e via, a badare alla casa, a guardare i flutti in tempesta e attendere serena i suoi baci, il suo ritorno.

E vedeva Ange agitarsi nel sonno, tremare sognando gli spari nelle aride dune, gli amici di pattuglia caduti nel deserto, si svegliava senza fiato e si calmava solo vedendo gli occhi ardenti di Marie Jo, le sue carezze lo riportavano alla vita ed ai semplici affetti, si assopiva tranquillo.

Viveva di pesca Ange, nel suo peschereccio riponeva le cime d’ormeggio, issava le vele con esperta sicurezza, era il suo lavoro e la sua passione, andava per mare sempre, di burrasca o di bonaccia.

Quella volta  c’era  tramontana, raffiche impetuose di vento ma cielo terso. “Andiamo a pescare”, pensò e partì, quasi non si vedeva il porto di Calvi, ma vivide erano le cime della Balagna, la cresta del Montegrosso, regina delle nuvole.

“A chi male un face paura un fa”, e sorrise, quando sentì un sibilo sempre più forte, un fragore di tuono, alzò gli occhi e vide un’apocalisse purpurea precipitare nel blu delle onde mosse, fermarsi nelle acque agitate, istintivamente si fece il segno della croce, ma cos’era?

Era un grande aereo, un bombardiere pesante quadrimotore, un Boeing B-17, la “Fortezza Volante”, così era il suo soprannome, impiegato dagli americani durante la Seconda Guerra Mondiale contro gli impianti industriali, civili e militari della Germania nazista.

Uno stormo aveva la consegna di bombardare i raccordi ferroviari di Verona, ma durante l’attacco il bombardiere si ritrovò isolato, inseguito dai caccia tedeschi, colpito più volte, i motori erano in fiamme e alcuni componenti dell’equipaggio feriti o uccisi.

Il comandante Frank Chaplick tentò di atterrare a Calvi, ma la pista di atterraggio era troppo corta, allora si decise per l’ammaraggio.

Il giovane Ange, sgomento, vide il velivolo planare verso il mare, arrestarsi violentemente sulle onde, era questione di attimi, la Fortezza Volante stava per inabissarsi e con essa il resto degli uomini.

Ange non ci pensò un attimo, si tuffò dalla barca, due bracciate ed era già sopra la carlinga che lentamente stava andando a fondo.

Con la forza della disperazione cercò di spalancare la porta bloccata, ma si accorse che dall’altra parte qualcuno disperatamente premeva dall’interno: erano i superstiti che volevano uscire per non morire come topi in gabbia.

Dio volle che il battente si aprisse ed Ange aiutò i militari a rivedere sole e vita.

Ultimo uscì il pilota, era americano, parlava poco e male il francese, d’altra parte il ragazzo corso era nato, amato, perso e ritrovato nella sua terra, non poteva, né voleva dire altro, ma un’occhiata penetrante, un cenno d’intesa ed un sorriso ruvido, questo bastò tra i due uomini, un muto “grazie”.

Così Ange e il pilota tornarono a fare il loro lavoro: pescare, volare e  combattere.

E più di settant’anni dopo la Fortezza Volante è qui che dorme in fondo al mare per proteggere e servire tutti noi, uomini di domani, insieme alla Fortezza di Calvi fiera e gentile, “Civitas Calvi semper Fedelis”.

Fedele. Sempre.

 

 


§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§

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Maria Teresa Limonta

Il senso di Smilla per la neve

L’aliante è una macchina davvero molto strana. Tutti credono di conoscerla, ma in realtà sono pochi quelli che la conoscono davvero. E sono pochissimi a sapere come vola. Il problema sta nel fatto che l’umanità tende sempre a generalizzare, a racchiudere dentro schemi. Provate a chiedere cos’è un aliante e ne scoprirete delle belle. Molti vi descriveranno un deltaplano, altri vi parleranno di quegli aeroplanini di carta che facevamo da bambini. E che molti di noi, me compreso, fanno ancora da adulti. Oggi, grazie alla pubblicità, tanta gente risponderebbe in modo corretto, per aver visto lo spot di un noto amaro. L’aliante in questione è proprio quello che ho utilizzato per anni per fare scuola di volo a Lucca-Tassignano. Ma anche così, in realtà, sono pochi ad aver visto da vicino un club di volo a vela, ad aver toccato quelle macchine meravigliose dalle lunghe ali.

Inoltre, esistono tanti tipi di alianti e non sono certo tutti uguali. In Groenlandia c’è la neve. Tanta. Per tanti mesi dell’anno. Gli abitanti non dicono semplicemente “neve” come facciamo noi. Hanno una dozzina di termini diversi per designare altrettanti tipi di neve. Allo stesso modo, non si può dire semplicemente “uccelli” per designare un animale che vola o che ha le ali. Ciò che la gente non sa, a volte neanche coloro che si dedicano con passione all’osservazione degli uccelli, è che esistono due grandi categorie di uccelli: quelli veleggiatori e quelli non veleggiatori.

Che significa? Per semplificare il concetto al massimo, diciamo che gli uccelli non veleggiatori volano battendo sempre le ali, tranne quando planano per atterrare. Gli altri battono le ali occasionalmente, ma di solito volano ad ali spiegate, ferme, sfruttando le correnti ascendenti dell’atmosfera.

il senso di smilla per la neve - copertina
La copertina del thriller dal quale è stato tratto l’omonimo film in cui Smilla è impersonata dall’attrice britannica Julia Ormond

Ho appena fatto un accenno alla Groenlandia. Nel 1997 uscì nelle sale un film, tratto da un libro del 1992 scritto da Peter Hoeg. La storia, ambientata a Copenhagen, inizia con la scena di un ragazzino che sale su un tetto ricoperto di neve, si avvicina troppo al bordo e cade di sotto, uccidendosi nell’impatto con il suolo. La gente si raduna sul luogo dell’incidente e in quel momento arriva anche una ragazza che abita nella palazzina e conosce il ragazzo. Questa ragazza, Smilla, sale a vedere il tetto insieme ad altra gente, Tutti guardano le tracce sulla neve lasciate dal ragazzino e a tutti appare chiara la dinamica del fatto: il ragazzo è salito imprudentemente sul tetto, è scivolato per la neve ed è caduto. Tutti interpretano così gli scarni elementi che si trovano davanti, tutti tranne Smilla. Lei vede ben altro. Gli elementi che vede non sono solamente dei passi sulla neve. Lei vede un omicidio, non un incidente di gioco.

Perché?

Perché Smilla è una Innuit. E anche il ragazzino è Innuit come lei, sono nati in Groenlandia anche se ora vivono in Danimarca. E gli Innuit non hanno solo un termine per definire la neve, ne hanno moltissimi. Frazil, grease ice, pancake ice, hiku, hikuaq, puktaaq, ivuniq, maniilaq, apuhiniq, agiuppiniq, killaq, ghiaccio permanente, acqua di fusione, banchi blu e neri: per gli abitanti dell’estremo nord sono tanti i nomi del ghiaccio, tanti i suoi colori, tanti i modi di uccidere del freddo che gela il sangue nelle vene.

il senso di smilla per la neve - locandina
La locandina del film tratto dal romanzo dello scrittore danese Peter Hoeg

Quindi il ragazzino non sarebbe mai salito sul tetto per gioco. Mai si sarebbe avvicinato al bordo, con quel tipo di neve che ricopriva il tetto. Doveva esserci un’altra spiegazione, forse era inseguito e in grave pericolo di vita.

Da qui si snoda il resto della trama del film, con le indagini di Smilla e le scoperte che fa. Ma ho preso ad esempio questo film per dire che si fa presto a dire “neve”. Qualcuno potrebbe avere tantissimi altri modi per definire una cosa, di neve possono esserci tantissimi tipi diversi, che noi non distinguiamo.

Si fa presto a dire aria. Si fa presto a dire vento. Noi diciamo “neve” e non sappiamo riconoscerne la dozzina di tipi diversi. Così diciamo “aria” e non ne riconosciamo le decine di caratteristiche diverse. Del vento sappiamo che è aria in movimento orizzontale, tutto qui.

Ma dovremmo avere una trentina di termini diversi per l’aria. E il vento non è sempre orizzontale, anzi. Spesso è obliquo e impatta la superficie delle acque, del mare o dei laghi, generando le onde. Se il vento scorresse parallelo alla superficie del mare, le onde non ci sarebbero.

A volte il vento è verticale. Spesso scende dritto dall’alto verso la terra, ma altre volte sale dalla terra surriscaldata dal sole e si spinge a quote alte, dove l’umidità contenuta al suo interno si condensa e diventa una nube. Allora gli uccelli veleggiatori volano al suo interno ad ali ferme e si fanno portare in alto senza sforzo. La papera non veleggia. Tranne che per brevissimi tratti, quasi per caso. Il gabbiano veleggia quasi sempre e così il condor, la poiana, il falco, il rondone, l’aquila. Il passero, il piccione, il merlo non veleggiano. Pur essendo formidabili volatori. Non conoscono le decine di termini diversi per designare i diversi tipi di aria e di vento. Il pilota di aereo o di elicottero, perfino loro potrebbero non conoscere quei tipi e quei termini. Difatti non veleggiano.

Il pilota di aliante è un veleggiatore puro. Se il pilota di aereo guarda verso l’alto, verso le cime dei monti, verso le nubi, vede aria. L’aliantista vede un gran numero di cose diverse. Vede la dinamica tutta dell’atmosfera, vede i raggi del sole impattare la superficie secondo angoli diversi a seconda dell’orografia del terreno, vede le rocce scaldarsi di più dei boschi, vede l’aria a contatto delle rocce riscaldarsi e dilatarsi per poi iniziare a salire. Vede l’aria calda andare su, quella fresca scorrere a prendere il posto di quella che se ne è andata e scaldarsi a sua volta e poi salire. Vede gli sbuffetti di condensazione apparire e sparire qua e là nel cielo, ad indicare il punto dove il vento ascendente ha portato la propria umidità. Vede i costoni sopravento e sottovento, vede i punti dove poter salire ad ali tese e la strada nel cielo, da un cumulo all’altro, da seguire. Vede anche le aree da evitare, dove sa che il vento verticale, in quei luoghi, sarebbe discendente. Il pilota di aliante, chiamato anche volovelista, conosce l’aria come lo scandinavo conosce la neve. Tanti tipi diversi. Tanti termini.

Non si vede solo con gli occhi fisici, ma anche con gli occhi della mente e la vista è tanto più lunga e nitida quanto maggiore e più accurata è la conoscenza.

Una guida turistica di un paese africano ha detto, una volta, ridendo: “I turisti, qui, vedono solo ciò che conoscono”…

Ho osservato le persone in visita nei vari club di volo a vela. Nel guardare da vicino un aliante rimangono stupiti. Molti lo trovano una macchina fragile, per via delle lunghe ali, goffa e poco maneggevole, perché ci vedono spostarlo a terra con una certa difficoltà. Alcuni lo trovano anche scomodo e stretto, da claustrofobia e si chiedono come si fa a volare dentro quel “coso”. Il paragone con l’aereo è inevitabile. L’aereo è lì, magari il nostro Robin da traino, tozzo e robusto, con le ali corte e forti, ampio, comodo e soprattutto, dotato di motore, simbolo di affidabilità e sicurezza. Le cose non stanno proprio così, ci sarebbero moltissime cose da dire al riguardo.

La gente vede la neve, ma non ne riconosce la dozzina di tipi diversi.

Il traino si allinea, viene agganciato il cavo, tutto motore e si va, le due macchine in fila verso il cielo. Subito dopo la partenza, l’aliante si stacca leggero e si mette a pochi metri da terra, in attesa che anche l’aereo venga su. Poi lo segue con assoluta precisione, rivelando una maneggevolezza estrema. Dei due, il più penalizzato è l’aereo. Ad appena cinquanta metri da terra, se il motore del traino si fermasse, in nessun modo potrebbe riatterrare in pista. L’aliante sì, senza problemi. Potrebbe fare una virata perfetta di centottanta gradi e tornare al suolo in contropista, mentre l’aereo va a cercare fortuna nei campi vicini. Il traino ha circa quattro ore di autonomia, con la benzina contenuta nei suoi serbatoi. L’aliante non ha limiti di autonomia. La sua benzina sono le correnti ascensionali. Il traino può salire poco oltre i quattromila metri. L’aliante potrebbe anche superare i diciassettemila.

E la robustezza? Un aliante di categoria normale è robusto quanto un aereo di categoria acrobatica. Il nostro aliante ha una robustezza più che doppia rispetto al Robin da traino. A dispetto delle sue lunghe ali, dieci metri l’una, le cui punte potrebbero quasi toccarsi prima di rompersi. Il pilota di aereo teme la piantata di motore. L’aliantista no, lui vola sempre senza motore. Il pilota di aereo teme l’incendio. L’aliantista non porta in giro nessun serbatoio di benzina. Nella sua macchina fortissima, che non cade e non si rompe, il volovelista sale con le correnti, osservando il cielo più che la terra, senza rumore, senza paura. Ha tutto, anche il paracadute come estrema risorsa. Guadagna quota, preziosa energia da spendere per fare strada, verso altre ascendenze, altra quota e altra strada. Il suo pilotaggio è praticamente perfetto. Visto di fronte è un punto con due linee, le ali. La pulizia delle sue manovre non è valutata attraverso il rozzo viro-sbandometro dell’aereo, ma attraverso un filo di lana attaccato sopra la cappottina trasparente. Un filo che deve rimanere sempre allineato all’asse longitudinale della macchina, a pena di un terribile scadimento delle prestazioni aerodinamiche della macchina.

L’aliantista non vola mai basso. Motivo per cui l’aliante è meno visibile dell’aereo. A mille piedi, quota che gli aerei mantengono ordinariamente per lunghi tragitti, l’aliante è prossimo all’atterraggio. E alle alte quote, sopra le montagne, sopra le pianure, sotto i cumuli, vola in silenzio, in compagnia, a volte, di altri esseri che, come lui, vedono ben di più che della semplice “aria” intorno a loro: gli uccelli veleggiatori. I quali non si spaventano nel vedere l’aliante. Girano insieme nella termica, senza timore alcuno, anche per parecchio tempo, almeno quanto basta all’uccello veleggiatore, vero padrone degli spazi aerei, per guadagnare quota più in fretta, diventare un puntino, confondersi con il cielo e scomparire. Un aliante ha di solito un’efficienza di circa trentotto. Vale a dire che da mille metri potrebbe percorrere trentotto chilometri, in aria calma, prima di toccare terra. La tecnologia odierna è in grado di fornire macchine con efficienza sessanta, ma presto si raggiungerà quella di cento. Ho detto in aria calma, ma l’aria, abbiamo visto, non è quasi mai calma e contiene sempre, qua e là, le ascendenze che ci permettono di riguadagnare la quota persa in un trasferimento. Per cui, quando infine decide di scendere, il volovelista deve azionare dei dispositivi chiamati “diruttori di portanza”. Sono due “palette” che escono dalle ali per un certo tratto e oppongono al vento relativo la loro superficie. Non sono aerofreni, non servono a frenare, ma propriamente a rompere la forza di portanza di quel tratto di ali, come se le tagliassero letteralmente, accorciandole, riducendone drasticamente l’enorme efficienza, facendo sì che il peso riesca infine a riportare giù una macchina che per sua natura, altrimenti, non scenderebbe più a terra.


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Evandro Detti

 

Mio nonno

Roma, 5 gennaio 2010.

Entro in cucina, saluto mio nonno. Ed è così che comincia la mia intervista: “Nonno, nonno tra due settimane ho l’esame di storia contemporanea e devo presentare una tesina sulla Seconda Guerra Mondiale. Ho scelto di parlare della figura del reduce di guerra. Mi aiuti?

Va bene”, esclama lui tangibilmente felice di aiutarmi. Lo vedo dai suoi occhi.

Molti sono i dubbi, tante le domande da porgli. È un anziano signore come tanti, classe 1919, ma forse sono proprio la sua età e la sua ricca esperienza a renderlo una persona unica: è facile intuire dalla sua data di nascita che ha vissuto, e soprattutto combattuto, durante gli anni della Seconda Guerra Mondiale. Sono proprio seduta di fronte ad un reduce di guerra. Ma in fondo chi sono questi reduci? Sono curiosa di sapere di più sulla sua storia.

La mia prima domanda è di natura psicologica: “Come può aver vissuto un reduce il ritorno alla vita normale col finire della guerra?”.

È un quesito complesso, profondo, ma di certo la risposta la si può trovare solo domandandolo a chi realmente ha vissuto una tale esperienza di vita. Sicuramente è una di quelle sensazioni che si riescono a provare solo vivendole in prima persona, forse anche il racconto di terzi potrebbe essere superfluo, ma io sono di fronte a mio nonno e provo a porgli la mia domanda. Comincia così a raccontarmi la sua importante esperienza, il suo vissuto bellico.

Tutto cominciò in quella piccola realtà, in qual paesino tra Marche ed EmiliaRomagna che probabilmente già gli andava stretto. Era ancora molto giovane quando crebbe in lui una grande passione per gli aerei, vedendoli ogni giorno volare e fare acrobazie, e fu per questo che, quando terminò gli studi all’età di 19 anni, decise di raggiungere Roma per arruolarsi come volontario nella Regia Aeronautica.

Il suo compito era quello di sorvegliare il traffico aereo dal centro comunicazioni. Così, prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale, fu mandato in Africa, dove venne assegnato all’aeroporto di Asmara. Si trovava lì all’inizio del conflitto, e questo primo periodo di guerra fu caratterizzato soprattutto dall’impatto con una dura realtà, nella fattispecie per via delle ripetute incursioni aeree dei nemici.

Decide allora di regalarmi uno degli episodi più importanti della sua vita: durante uno di questi pericolosi momenti, attardatosi nel centro comunicazioni per dare l’allarme, all’uscita del-l’ufficio si ritrovò sulla testa ben tre cacciabombardieri, tipi di aerei progettati per la distruzione in volo di aerei nemici, nonché con lo scopo di annientare gli obiettivi terrestri, sia civili che militari.

Ben tre si lanciarono su di lui in picchiata per mitragliarlo. La morte in faccia, l’ultima cosa che vide nella sua vita. Ma invece no, quando riaprì gli occhi era ancora lì, vivo: per sua gran fortuna, nella manovra, i tre caccia si ritrovarono troppo vicini l’un l’altro e, per sviare al pericoloso impatto tra di loro, dovettero fare manovra di disimpegno riprendendo quota. In tal modo mio nonno poté uscire indenne dall’attacco e tornare dai suoi compagni nel rifugio.

A seguito di questi numerosi bombardamenti il personale superstite dovette evacuare l’aeroporto. Furono così condotti sul monte africano Amba Alagi, luogo nel quale si trovavano le ultime provviste e munizioni utili alla sopravvivenza. Ce l’avrebbero fatta?

Non ci fu tempo per pensare: mio nonno e i suoi compagni furono presi prigionieri dagli inglesi solo poche ore dopo. A lungo viaggiarono via mare, giorni, forse settimane, patendo il freddo e la fame, e sempre con la paura di possibili attacchi da parte di sottomarini tedeschi da un momento all’altro. E soprattutto una domanda sempre ben ancorata in testa: dove stavano andando?

Mio nonno lo scoprì una mattina presto: si risvegliò in India, precisamente a Bhopal. Rimase lì per tre anni, tre lunghissimi anni, costretto ai lavori forzati da coloro che lo tenevano prigioniero insieme ai suoi compagni.

Successivamente la sua esperienza di prigionia continuò in Inghilterra, dove fu portato sempre via mare sbarcando a Liverpool. Da lì furono condotti in un campo a sud di Londra, dove lui e gli altri prigionieri di guerra furono organizzati in squadre per compiere lavori agricoli.

Vi rimasero per due anni, ma stavolta fu diverso rispetto all’esperienza precedente. Si trattava di campi deserti, abbandonati in quanto tutti gli uomini inglesi erano stati chiamati al fronte. Solo poche donne erano rimaste a lavorarvi, e quindi fu molto importante inserire la manodopera dei prigionieri.

Fu lì che mio nonno imparò a realizzare cestini di vimini, piccola attività che con il tempo si rivelò per lui un gustoso passatempo, lontano dal suo mondo, dai suoi aerei, ma pur sempre un gustoso passatempo.

Organizzavano spettacoli teatrali serali mio nonno ed i suoi compagni, ai civili inglesi piacevano. Lo immagino recitare come attore protagonista nell’opera scritta proprio da loro per l’occasione, “The dream of a prisoner”, tutta in inglese poi. In fondo non deve essere stato facile. Ma quelli che sembrarono probabilmente essere per lui gli anni più tranquilli di prigionia arrivarono ad un triste epilogo: nell’ultimo anno di guerra fu nuovamente condotto altrove, stavolta fu portato prigioniero in Francia. Solo nel 1945, col finire del conflitto, fu finalmente liberato, riuscendo a rimpatriare attraverso il Brennero in Italia.

          È da qui che ha inizio la sua “nuova vita”, una vita da reduce di guerra.

Mentre mi parla del suo ritorno in Italia riesco a leggere nei suoi occhi la liberazione, la vita che si accende. Mi sottolinea il fatto di aver provato una gioia immensa nel tornare a casa, come normale che fosse d’altronde. La sua è una storia particolare: i suoi familiari lo credevano ormai morto, non avendo per anni ricevuto più notizie da lui dal fronte, e fu proprio per questo che fu accolto con enorme stupore e felicità da tutti nel suo piccolo paesino tra Marche ed Emilia-Romagna. Mi sembra di immaginarlo tra la sua famiglia il giorno del ritorno a casa, forse irriconoscibile, ma non fisicamente, nella sua anima…

Gli domando del suo stato emotivo in rapporto al ritorno alla vita normale e, fiero, mi dice di essere riuscito a riprendersi subito dall’esperienza della prigionia, grazie ai suoi affetti, nonché all’ambiente ritrovato, definito da lui stesso “ancora molto italiano”, conforme ai suoi sentimenti. Inoltre fu subito reintegrato nella Regia Aeronautica, che da lì a poco avrebbe assunto il nome attuale di Aeronautica Militare, proprio per questo suo stato di reduce e per essere rimasto fedele alla patria.

Fu mandato all’aeroporto di Ciampino, dove si occupò di sorvegliare il traffico aereo internazionale, anche grazie alla sua conoscenza dell’inglese acquisita negli anni di prigionia. Perché in fondo è vero, anche dalle esperienze più dure si può infine ricavare qualcosa di utile, e con questo reintegro lavorativo fu possibile per lui ritornare alla vita normale facilmente.

Inizio allora a pensare tra me e me che purtroppo non fu così per tutti i combattenti, e che molti di loro continuarono invece per anni a vivere nel terribile ricordo della guerra, delle bombe, della morte, senza poter tornare a condurre una vita serena e con difficoltà nel raccontare la propria esperienza.

Pongo un’ultima domanda a mio nonno: “Sei rimasto in contatto con gli altri reduci al termine della guerra?

Mi risponde che all’aeroporto di Ciampino dove lavorava c’erano altri che avevano combattuto la guerra, ma non suoi ex compagni di prigionia, ed inoltre non avvertì mai l’esigenza di prendere parte ad associazioni di reduci o movimenti sindacali, nonostante molti suoi colleghi sentirono il bisogno di ritrovarsi, di rimanere in contatto dopo questa profonda esperienza di vita vissuta insieme.

         §§§

Roma, 19 gennaio 2010. “Simona Rossi sostiene l’esame con il professor Latini”.

Mi avvicino alla cattedra, ho paura delle domande che sta per pormi. Prima di me ha già bocciato tre ragazze, anche Patrizia che sta studiando da novembre per questo esame. E la tesina poi? Gli sarà piaciuta? Ho il cuore in gola e la mente annebbiata.

Mi riconsegna il mio lavoro, recante in alto a destra la nota a penna “Nonno aviatore: ok”. Insieme a questa mi porge anche il verbale d’esame. E le domande? E non mi chiede nulla sui restanti novantacinque anni del Novecento? Sono confusa. Prendo il verbale e leggo: 30 e lode.

Non è possibile, non riesco a trattenere le lacrime.

Grazie a mio nonno anche io ora sto volando in alto, molto in alto…


§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§

# proprietà letteraria riservata #


Valentina Ferrari