Archivi categoria: Le Voci

Racconti degli autori

Condividere il dolore

E’ notte fonda mi chiamo Franco e mi trovo in sala operativa a svolgere le mie mansioni di “Duty Controller” (responsabile della Difesa dello Spazio Aereo Nazionale) e poiché l’orario lo consente, visto che il traffico aereo di notte diminuisce sensibilmente, scambio qualche parola con i colleghi che come me, anche se con mansioni diverse, vegliano sulla sicurezza della nostra bella nazione.

La sala è in penombra e viene illuminata da una luce soffusa e dai monitor della varie postazioni di lavoro dove viene visualizzata la RAP (Recognized Air Picture) cioè il traffico aereo significativo ai fini della Difesa Aerea che i reparti dipendenti trasmettono.

La nostra attenzione è così abituata a osservare quei piccoli monitor con quei simboletti strani che anche se chiacchieriamo, siamo sempre in grado di tenere la situazione sotto controllo: è la forza dell’abitudine. Nel giro di pochi secondi, infatti, possiamo riconoscere una situazione di traffico regolare da una situazione anomala; basta solo guardare la forma del simbolo della traccia e leggerne i parametri di volo.

Così, tra un’interruzione ed un’altra, iniziamo a scambiarci delle confidenze.

Luigi, così si chiama il mio “Fighter Coordinator” (coordinatore degli intercettori d’allarme), comincia a parlare di sé e della sua vita, passando con semplicità logica da un discorso relativo all’attività faticosa da noi svolta alle problematiche che ne derivano per la famiglia e per i figli.

E’ alto, magro, capelli brizzolati con una parlata tipica romana: infatti è originario di Rieti. Trasferitosi per lavoro in Emilia si è sposato con una ragazza del posto. Poi, si sa come vanno certe cose, col passare degli anni, finisce la passione e si rientra nell’abitudine quotidiana. Ci si rispetta fino a quando un nuovo incontro, per l’uno o per l’altro, non accende una nuova fiamma di passione. Forse è una definizione riduttiva della vita di coppia, ma il valore della famiglia ha subito (e ancora subisce) attacchi sociali pesanti ed incontrollabili in un mondo dove ormai tutto viene vissuto secondo un criterio di “usa e getta”, purtroppo.

Così è successo a lui quando si è invaghito di un’altra donna che aveva conosciuto durante una lunga missione all’estero. A seguito di tale relazione, ha deciso di separarsi e di andare a convivere, rientrato in Italia, con la nuova compagna abbastanza lontano dalla sua prima famiglia.

Questo fatto, ovviamente, gli ha impedito di mantenere dei rapporti regolari con le figlie. Inizialmente, a dire il vero, le incontrava spesso e sembrava che non ci sarebbero stati problemi di sorta. Un po’ alla volta, però, la situazione è degenerata. Per vari motivi, ed in particolare per il fatto che le figlie vivevano con la mamma, non è più riuscito ad avere un regolare rapporto con loro. Gradualmente le ragazze, tutte maggiorenni, hanno finito per schierarsi dalla parte della mamma.

Tale cosa gli ha procurato e ancora gli procura un grande dolore.

La situazione, all’improvviso, è precipitata quando l’anno scorso una delle figlie, quella che più aveva sofferto per la sua lontananza, è morta. Questo tragico evento lo ha fatto quasi impazzire per il dolore. Non è riuscito a farsene una ragione ed è ancora convinto che la colpa dell’accaduto sia tutta sua e che se fosse rimasto vicino alla figlia forse lei ora sarebbe ancora in vita.

Spesso, mentre si chiacchiera tra colleghi, sembra che la sua mente sia lontana e, chiaramente, si capisce che annuisce senza aver capito niente di quello che si sta dicendo.

Dopo i funerali, non è più riuscito ad andare, per vari motivi, al paese dove è sepolta la figlia e questo fatto l’ha condotto in una profonda situazione di tristezza e, ormai, è molto raro vederlo sorridere. Da qualche turno lo vedo molto depresso e mi sembra che con questo suo atteggiamento mi stia comunicando il desiderio di parlare con me.

Tra un’interruzione ed un’altra, mentre rispondiamo ai reparti dipendenti o riceviamo le condizioni  meteo delle basi aeree, finalmente si apre.

Viene fuori tutto il suo dispiacere e il suo senso di colpa che non lo lascia un attimo.

Continuando mi dice: “Sai la settimana scorsa, finalmente, sono riuscito ad andare a pregare sulla tomba di mia figlia, ho provato un po’ di sollievo e l’ho sentita, finalmente, vicino a me”.

A questo punto tira fuori dalla tasca della tuta di volo un foglietto piegato dove aveva scritto alcuni versi a seguito della visita alla tomba della figlia.

Luigi, infatti, si diletta a scrivere poesie, che gli danno molta soddisfazione interiore, con le quali riesce a tirare fuori dal suo animo i suoi sentimenti migliori.

In preda ad una forte emozione, quasi come se vedesse la figlia davanti a lui, comincia a recitare:

“E’ quasi un anno

da quando l’ultimo saluto ti lasciai

e d’allora solo la mente mia e il tuo spirito

quotidianamente han ragionato.

Ora, finalmente, il fato m’ha concesso

di sostar sul tuo sarcofago

ove il tuo corpo giace immobile.

Quel corpo che tante volte ho difeso,

a cui non diedi la forza vitale,

insita nella natura umana,

che a te fu negata.

Breve e pur sofferta la vita tua,

quando, pur volendo, non riuscivi a fare

ciò che era semplice per altri della tua età.

Eppure con tenacia e costanza

sei riuscita a raggiungere ambìti traguardi

senza il mio aiuto, senza di me,

lontano per sempre in altri lidi dove il destino

aveva indirizzato il mio futuro.

Padre spezzato, padre a metà per te sono stato,

anche se il tuo spirito, più vivo che mai

ben sa quanto t’ho amata e quanto ancora io t’ami”.

L’emozione gli blocca in gola le ultime parole mentre una timida lacrima, appena visibile nella penombra della Sala Operativa, gli solca lentamente il viso. Cerca di riprendere il suo normale atteggiamento, ma si vede chiaramente che soffre per quella sua figlia che il destino prematuramente ha voluto. Faccio finta di non accorgermi della sua profonda emozione per non imbarazzarlo ulteriormente.

“Luigi, Luigi” – dico intanto tra me e me – “se non ti conoscessi così determinato nello svolgimento della tua attività, non crederei a quello che i miei occhi stanno vedendo”.

Giunge improvvisa, a rompere l’incantesimo di quel momento d’emozione, la chiamata di un reparto dipendente che ci pre-allerta in merito ad un velivolo di linea non autorizzato che da piano di volo dovrebbe entrare nello Spazio Aereo Nato.

Di colpo, il suo volto cambia aspetto e riprende la professionalità che gli è solita mentre parla al telefono con le basi d’allarme per acquisire gli ultimi dati meteo in previsione di un possibile “scramble  (decollo rapido) degli intercettori teso a  verificare l’identità di quel velivolo.

Le telefonate cominciano ad intrecciarsi a vari livelli per risolvere la situazione operativa.

Il Controllore del Traffico Aereo conferma che il velivolo, pur non autorizzato intende passare sul nostro territorio. Lo scramble è inevitabile e in qualità di Duty ordino lo scramble agli intercettori della base più idonea per il riconoscimento del velivolo non autorizzato.

Ormai i pensieri di Luigi sono lontani dall’emozione di pochi minuti prima e il suo unico obiettivo è quello di metter gli intercettori nella condizione più idonea per intercettare e riconoscere il velivolo non autorizzato.

Appena decollati li affida al sito radar più vicino per un controllo corretto. All’improvviso, però, succede una cosa inaspettata: il velivolo non autorizzato cambia rotta e decide di circumnavigare il nostro territorio (la Sicilia) rendendo quasi inutile lo scramble. Cosa fare? Poche parole tra Luigi e me e, sapendo che il velivolo doveva dirigere comunque verso est, decido di far dirigere gli intercettori verso Malta da dove doveva passare il velivolo.

La situazione è quasi al limite.

Luigi decide per l’Hand Over (passaggio di controllo) al Centro di Controllo più vicino all’area di possibile intercettazione.

Gli intercettori hanno ormai lasciata la Sicilia e stanno per entrare nella FIR (Flight Information Region) di Malta che, allertata, autorizza l’ingresso dei nostri intercettori.

Il contatto radio comincia a diventare difficoltoso e a tratti intermittente. Luigi mantiene il collegamento con il centro radar che conduce la missione e, quando gli viene riferito che il Controllore d’intercettazione ha perso il contatto radio con gli intercettori, subito me lo riferisce e si concentra sui segnali radar in arrivo che mostrano gli intercettori in avvicinamento al velivolo sconosciuto.

Passano i minuti (solo pochi, ma sembrano interminabili) senza alcuna notizia di contatto radio del guida caccia con gli intercettori.

Sono momenti terribili. Sapendo di essere responsabili dell’Azione Tattica sia Io che Luigi ci guardiamo dalle rispettive posizioni esterrefatti.

Continuiamo a guardare la RAP e sembra che gli intercettori (riconoscibili dai loro codici) stiano dirigendo verso la Sicilia. Il contatto radio però è ancora negativo.

Pur essendo bassa la temperatura, Luigi sente caldo ed è vistosamente impallidito.

All’improvviso, finalmente, la comunicazione dal Centro Radar che il contatto radio con gli intercettori è positivo porta un po’ di serenità in lui.

Subito chiede il carburante rimanente degli intercettori e fa comunicare loro le informazioni necessarie per un sicuro rientro.

Il velivolo è stato riconosciuto e sarà posta in essere la prevista procedura per il suo comportamento contrario alle norme vigenti.

Gli intercettori sono al limite con il carburante per fare rientro alla base e, nonostante le meteo sulla base di partenza siano buone, Io e Luigi rimaniamo in apprensione fino al loro atterraggio.

Che sospiro di sollievo in quel momento.

Di colpo, noto che Luigi si siede e tiene la testa tra le mani segno che sta cercando di ritornare almeno per un attimo all’emozione precedente.

Quel breve momento di forte emozione, però, ormai è andato via nel cielo scuro di quella notte insieme ai sogni di buona parte delle persone che stanno riposando le stanche membra mentre il loro subconscio  puntualmente proietta, come in un film, in modo indecifrabile e caotico la somma delle loro esperienze e dei loro sentimenti.

Incrociamo per un attimo i nostri sguardi e mi rendo conto che il suo volto è più sereno e rilassato e forse contento di aver condiviso con me questa sua terribile angoscia e di essersi liberato del senso di solitudine che attanagliava la sua anima.

L’indomani mattina dopo il passaggio di consegne con il turno montante, recandoci lentamente verso il parcheggio delle auto, Luigi mi dice: “Grazie, Franco per avermi ascoltato”.

Accenno un timido sorriso, mentre il caldo sole di giugno illumina i nostri volti stanchi: siamo già proiettati con la mente verso casa


§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§

# proprietà letteraria riservata #

Dirigibile
Raffaele Carlino

Tiberio

Erano trascorsi già quattro anni da quando Tiberio aveva inaugurato la sua base per elicotteri e di velivoli da allora ne erano atterrati tanti.

Tempo addietro, quando gli capitò l’occasione di acquistare la casetta dove abitava, era rimasto entusiasta nel sapere che con essa sarebbe diventato proprietario anche dell’appezzamento di terra antistante: avrebbe potuto coltivarvi un magnifico orto!

Dopo aver dissodato finemente il terreno vi aveva tracciato i solchi che avrebbero ospitato semenze di ogni varietà: pomodori, lattuga, rucola, ravanelli … nulla sarebbe mancato. Ogni giorno con reiterata solerzia innaffiava la sua terra e strappava le erbacce, sbirciando con impazienza i germogli spuntare.

Le piante sembravano ripagare le attese del loro padrone; senonché dopo appena una decina di giorni Tiberio le trovò tutte appassite. Riprovò più e più volte. Inizialmente i semi sembravano intraprendere un florido rigoglio, ma dopo pochi giorni non restava che terra brulla. Fu così che dopo ripetuti e vani tentativi si risolse ad abbandonare il suo intento.

Fu un suo vecchio amico a suggerirgli un uso più attuale di quel terreno: “Perché non ne fai un’aviosuperficie? È meno laborioso e ne ricaveresti un discreto guadagno”.

Dopo molti dubbi e ripensamenti abbracciò il consiglio disinteressato e in poco meno di due mesi la pista fu pronta. Le voci della sua apertura si diffusero velocemente e Tiberio scoprì che esisteva un traffico aereo non indifferente. Casa sua divenne presto approdo e punto di riferimento per tutti i  velivoli della provincia e non passava giorno che l’aria non venisse attraversata dal rumore delle eliche.

L’atteggiamento riluttante dei primi tempi si tramutò presto in una lieta attesa dei viaggiatori del cielo: ognuno di loro aveva una storia da raccontare, e se talvolta qualcuno si chiudeva in un avverso silenzio, era bello poter anche solo immaginare gli accadimenti celesti che aveva vissuto.

“Da tali altezze si perde la percezione dei piani … acqua terra e aria appaiono come un unico strato”, gli era stato detto più volte. Tiberio ascoltava affascinato quei racconti sul cielo, ma nonostante gli inviti dei piloti, aveva sempre rifiutato di volare, preferendo la sicurezza di quella terra che seppur a tratti sterile, gli dava gioia e lo rassicurava.

                                                            ***

Un’altra giornata era quasi giunta al termine e  non erano previsti altri arrivi.

Tiberio si sedette sulla terrazza più alta del vigneto che ormai non produceva che qualche stringa d’uva, e si mise a guardare il cielo, su cui di lì a mezz’ora avrebbe dominato il rossore del tramonto. L’aria autunnale aveva già lasciato il posto ad un venticello nevoso, e questo gli riportò alla mente il resoconto di uno scrittore che l’anno prima era atterrato alla sua base.

Il sole iniziava a nascondersi e gli ultimi tralci di luce colpirono l’orizzonte dei suoi occhi.

 “Esiste veramente”, aveva esordito lo scrittore, “non farti incantare dal mio modo romanzato di raccontare. E’ realtà. “Una grande montagna svetta sul lato orientale di un’isola” e il fiato gli si interruppe per l’emozione del ricordo.

 “Ha le sembianze di un volto disteso, sguardo intenso rivolto al cielo… vi si distingue il naso longilineo e la guancia tonda che digradando si unisce alla linea della fronte.  Quel giorno la superficie era innevata e percorsa da scie di nero lavico che in prossimità delle cavità degli occhi disegnavano righe quasi di pianto”

La sera era giunta e con essa un’umidità penetrante.

“Una faccia muta intenta in ogni tempo a guardare il cielo. Attorno ad essa si estende un paesaggio che l’occhio non riesce ad abbracciare per intero se non sfocatamente… fichi d’india, ginestre, i resti di un acquedotto romano, case sparse”.

Tiberio abbandonò il suo posto sul monte. L’aria umida aveva ormai coperto d’acqua ogni filo d’erba, e il pensiero di un camino frigolante lo invitava a rientrare in casa.

 “Il giorno della partenza l’isola fu scossa da boati che attraversavano le viscere della terra  –‘A Muntagna iè’- mi disse il pilota- ‘c’avi quarchi cosa ra rire’-. Avrei finalmente potuto osservare il gigante montuoso dall’alto, abbracciarlo nella sua pienezza e fissare i miei occhi nei suoi.

Quando decollammo era già l’imbrunire, mi sentivo agitato, impaziente. La Montagna stendeva il proprio manto roccioso come un’ampia gonna spiega le sue balze. Ad un certo punto vi fu un boato più forte ed il vetro si colorò di una sabbia nerastra; potevo intravvedere ancora i fiotti di lava uscire dalla bocca centrale di quel gigante, il fiume caldo raggiungere le pareti concave degli occhi e da questi colare lentamente lungo le rughe dei fianchi”.

Tiberio mise le scorze del mandarino sulla brace del camino: l’odore agrodolce unito al calore gli fece lacrimare gli occhi e gli riportò alla mente quelli altrettanto lucidi dello scrittore, che a quel punto aveva interrotto il racconto ed alzato lo sguardo nello sforzo di contenere la commozione.

La mattina dopo Tiberio comunicò che per quel giorno la base sarebbe rimasta chiusa. Solo un elicottero atterrò. Respirò a fondo, pensò al Gigante e salì.

Quei racconti che aveva ascoltato per anni, divennero ad un tratto i suoi stessi pensieri.

Ti chiedi se sei ancora in vita…

 Il bianco si accalcava sul finestrino e diradandosi si apriva su una distesa di nuvole su cui torreggiavano morbidi iceberg.

Gli occhi mi si chiudevano e un torpore accompagnava la mia morte indolore.

Cercavo di restare vigile per non perder nulla di quel biancicoreo mondo. Le nubi più leggiadre sorvolavano i banchi di nuvole che galleggiavano compatti sul mare celeste.

Il senso di stanchezza aumentava all’innalzarsi dell’altitudine. Sentivo le palpebre diventare sempre più pesanti.

Respirai profondamente e chiusi gli occhi.

 

 


§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§

# proprietà letteraria riservata #


Elena Cantarella

Manca poco

Ci siamo.

Sta avvenendo tutto esattamente come avevo previsto.

La decisione l’avevo maturata già da qualche mese. Non avrei potuto sopportare che tutto potesse finire in modo diverso.

Avevo sognato fin da bambino di percorrere la strada che avrei intrapreso. Ogni Natale e ogni compleanno erano per me una festa soltanto se i miei genitori mi regalavano un aereoplanino.

Quando qualche anno fa me ne sono andato a vivere da solo, ho portato con me soltanto tutti i modellini, lasciando nella mia vecchia camera gli altri regali che avevo ricevuto con gli anni.

Regali che mi avevano sempre lasciato contrariato quando, per una qualsiasi ragione, li avevo ricevuti in sostituzione del nuovo modello che avevo desiderato. Fino ai dieci anni avevo sempre dato in escandescenze. Il più delle volte distruggendoli. Dopo, in quelle due o tre volte che è capitato, sono riuscito a reprimere il furore, mi sono limitato a ringraziare formalmente e prendendo spunto dal doverli riporre mi chiudevo nella mia camera senza più uscirne fino al giorno successivo.

Hai voglia per mio padre a bussare alla porta pregandomi di aprire perché partecipassi alla festa. Una volta ha anche tentato di buttarla giù, la porta, ma io non ho mai ceduto, rinunciando anche a quei dolci e a quella torta al cioccolato che mia madre preparava e che mi piacevano tanto.

Ciao mamma! Ti voglio bene.

Quando ho detto alla mia ragazza che sarei diventato famoso, in verità non sapevo ancora neanch’io in che modo.

Ero riuscito, è vero, a ottenere ciò che volevo: il brevetto da pilota. Ma pilotando non si diventa famosi. A meno che…

E’ vero anche che avevo nascosto le tremende depressioni a cui ero soggetto e la conquista del brevetto era frutto della mia abilità a pilotare, certamente, ma anche a dissimulare i miei malesseri.

Che sensazioni meravigliose quando ai miei esordi in cielo mi misi ai comandi dell’aliante! Silenzio assoluto rotto soltanto dal fruscio dell’aria sulla fusoliera. Mi pareva di essere il nuovo Icaro. Io, ali  e sole. Viti al posto della cera, però.

La cera invece si sta sciogliendo, ora. La cera del mio cervello. Perché l’ho voluto io, d’accordo con quell’altro che mi parla nel cervello quando sono solo e depresso. O no?

Ogni tanto, quando la depressione non se ne andava neanche con il Lorazepam, sentivo la voce di quell’altro che mi incitava a fare un gesto, un gesto per cui sarei diventato famoso. L’hai  promesso alla tua ragazza!

Un sacco di giovani in tante parti del mondo fanno gesti irreversibili e disastrosi. Ma chi ricorda il loro nome per più di cinque minuti? Di certuni non lo si sa nemmeno, come quello di quei ragazzini che si lasciano esplodere in un mercato. Credono davvero che li aspettano 100 vergini nel paradiso? O sono 1000? Boh!

E poi che fatica con tutte quelle vergini!

Non credo a queste ricompense. Ma veramente non credo a nulla, se non alla grandezza di ciò che sto facendo. State pur certi che non sarò dimenticato.

Porca miseria! Il fumo che avevo nella testa ero riuscito a nasconderlo bene, anche perché ho sempre contato sulla superficialità dei controlli ufficiali. I miei medici privati sono tenuti al riserbo e quindi non hanno mai detto niente. Che coglioni!

Ma quando mi hanno diagnosticato i problemi alla vista non ci ho visto più. Ahahah! che bel gioco di parole. Sono stato sempre bravo a farli e questo è perfetto.

Dicevo che tutto è nato da quella diagnosi. La depressione sapevo come nasconderla, ma i disturbi agli occhi non sarebbero passati inosservati alla visita che avrei dovuto fare con i medici della Compagnia. E quindi via brevetto, fine dei voli come pilota, anonimato e nulla più.

E allora mi sono deciso: avrei fatto il “gesto”, così la mia ragazza sarebbe stata orgogliosa di me.

Ho avuto un gran culo quando sono riuscito a sciogliere il Lasix nel caffè del primo pilota. Se non ci fossi riuscito avrei dovuto sopraffarlo, ma non ero certo di riuscirci. E così è andato tutto liscio.

Appena è uscito mi sono barricato dentro la cabina, ho scollegato tutti i contatti con i controllori di volo e finalmente ho innestato il comando per l’atterraggio. Non sarebbe stato un atterraggio morbido!

Eravamo a dieci minuti delle Alpi francesi.

Mi direte: ma non hai pensato a tutti quei passeggeri. Loro non avrebbero voluto che finisse così! Ci sono un sacco di ragazzi di ritorno da una vacanza! Cazzo! Non ci hai pensato?

Beh si, quando li ho visti salire allegri e spensierati, per un momento ci ho pensato. Ma non c’era più tempo per i ripensamenti e poi più orrore avessi provocato più indelebile sarebbe stato il mio nome. Era questo che volevo, no? E questo sta per succedere.

Appena dato il comando per l’anomalo atterraggio mi sono tolto la cuffia collegata alla radio e mi sono messo i miei auricolari e ora sto ascoltando a pieno volume Jimi Hendrix in una versione speciale di Little Wing. Dura più di nove minuti, più di quanto servirà per troncarla prima della fine.

Già Jimi Hendrix! Anche lui come me uno del club dei 27. Avrei potuto ascoltare The End di Jim Morrison (anche lui del Club), sarebbe stato più attinente alla situazione, ma Jimi Hendrix fa più casino e mi copre le urla dei passeggeri che sicuramente saranno già iniziate. Sento soltanto qualche colpo sordo alla porta come quelli di mio padre.

Papà è inutile che bussi, non apro!

Ecco le montagne.

Mi viene da ridere perché ho in mente la scena del Dottor Stranamore in cui il comandante dell’unico aereo rimasto in missione si immola cavalcando la Bomba. Che buffo con quel cappello da cowboy!

Ci siamo.

Chiudo gli occhi e: tre, due, uno.

Bum!

Signore, signore! Si ricorda come si chiamava quel secondo pilota che l’anno scorso ha provocato quel disastro aereo sulle Alpi Francesi?

Boh! Era tedesco, mi pare, ma il nome proprio non lo ricordo!

Non è servito neanche a questo.



§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§

# proprietà letteraria riservata #


Alessandro Berardelli

 

Da grande farò il pilota

Da grande farò il pilota perché è un lavoro divertente e facile. Ecco perché ci sono tanti piloti in giro.

I piloti non devono studiare molto, devono imparare a leggere i numeri per poter leggere gli strumenti. Credo però che debbano imparare a leggere le carte stradali, per ritrovare la strada se si perdono.

I piloti devono essere coraggiosi, in modo da non spaventarsi se c’è nebbia e non vedono niente, e se perdono un’ala o il motore devono mantenere la calma.

I piloti devono avere occhi buoni per vedere attraverso le nuvole e non possono avere paura dei fulmini e tuoni, perché loro ci vanno più vicino di noi.

Anche gli stipendi dei piloti sono una cosa che mi piace. Fanno più soldi di quanti riescono a spenderne, perché molti credono che volare con gli aeroplani sia un mestiere pericoloso, tranne i piloti che sanno quanto sia facile.

Non c’è un gran che che non mi piaccia, tranne il fatto che i piloti piacciono a tutte le ragazze e le hostess vogliono sposare un pilota cosi loro devono tenerle lontane per non farsi sfinire.

Spero di non soffrire di mal d’aria, visto che soffro di mal d’auto.

Se soffro di mal d’aria non potrò fare il pilota e mi toccherà andare a lavorare.



# dal compito in classe di un bambino inglese di 10 anni #

§§§ racconto disponibile nel web §§§


Anonimo

I francesi la sanno lunga

E’ strano come da un bivio possano dipanarsi strade tanto diverse. Come dallo stesso cuneo, dalla stessa origine, possano generarsi percorsi così divergenti. Come se l’asfalto ad un tratto si fosse alzato e diventato cielo.

Questo pensava Mameli. Con la testa tra le nuvole. In silenzio. In mezzo all’incrocio. Davanti al corpo. Non aveva nulla in mano se non un indizio: una sciarpa gialla da aviatore.

La parola italiana “sciarpa” deriva dal francese echarpe. Grazie alla sua conoscenza delle lingue aveva dunque raccattato in pochi attimi sulla scena del crimine un indizio e una definizione: meglio di pochi secondi prima – quando aveva solo una morta – ma niente di che per iniziare una indagine con la certezza di concluderla con successo.

Non sapeva perchè, ma sentiva però che qualcosa con la Francia quel delitto avrebbe avuto a che fare, i francesi notoriamente la sanno lunga. Come c’entrava qualcosa Barcellona, la città dove viveva da due anni.

Mameli sceglieva da tempo le sue mete girovaghe in base al colore degli aeroporti. Vi spiego.

Firenze era un aeroporto color erba: un aeroporto verde. Malpensa – Terminal 2 – è un aeroporto arancione, intriso come è in ogni dove di insegne Easy Jet. Tra questi due poli, uno romantico e uno pragmatico, c’è stata una gran confusione.

Per tanti anni a Mameli risultò difficile una così netta immagine di colore associata ad un aeroporto, forse perché nei maggiori scali vi è una multiforme presenza di compagnie aeree, di loghi e code colorate. Ma quella sensazione, che si era attutita col passare del tempo, gli tornò immediatamente alla mente una volta atterrato qui, alle porte del Mediterraneo.

Barcelona “El Prat de Llobregat”: l’aeroporto giallo. Avete presente gli aerei della Vueling? Giallo ovunque. Barcellona è il loro hub e la fanno veramente da padrone.

In questo aeroporto transitano ogni giorno, e molti con funzioni di feederaggio, alcune centinaia dei 1.000 voli giornalieri della compagnia che, l’anno passato, ha trasportato più di 114 milioni di passeggeri.

104 sono i velivoli della famiglia Airbus, e per non fare “ingiustizie”, 105 quelli della Boeing. Interessante è vedere la composizione della flotta: dieci sono gli A-330 (più 8 in ordine e tre cargo), altri tre cargo sono A-310, sette invece gli A-340, trentasei A-321, ventotto A-320, e quattordici A-319. Dalla Boeing invece arrivano dodici B-777 e novantatre B-737, dei quali dieci ER, sessantasei -800, quattordici -700 e tre -400. Potete quindi capire perché l’aeroporto potesse a Mameli sembrare giallo.

C’era un solo uomo in città famoso per indossare sciarpe gialle da aviatore: era Gonzalo Alverà, detto Mister Boqueria, lo chef più amato e apprezzato in Spagna e nel mondo per la sua cucina elastica.

Mameli trasse le sue informazioni sul tema da un giornale locale dove veniva ripreso uno stralcio di intervista: “L’unico strumento certo del mio lavoro è l’immaginazione di volare. La mia cucina condensa accumulazione del passato e vertigine del vuoto, compresenza continua d’ironia e angoscia: insomma una fusione in cui il perseguimento d’un progetto strutturale e l’imponderabile senza gravità diventano una cosa sola”.

Il soprannome di Mister Boqueria gli derivava dalla leggenda secondo cui ogni giorno reinventava il menù del suo ristorante dopo aver percorso in lungo e in largo lo splendido mercato a metà della Rambla.

Questa cosa della cucina volante a Mameli proprio non andava giù. Non la capiva. Gli sembrava una cosa troppo intellettuale, per palati fini, per bocche non italiane.

E poi tutta questa meditazione sul cucinare lo sfiancava: lui che non sapeva resistere, che quando gli veniva il trip di cucinare doveva farlo nel primo posto dove trovava un fornello. Lui che quando aveva fame doveva mangiare. E basta. Senza fronzoli.

Da buon italiano, Mameli amava la cucina semplice e genuina. Col lavoro che faceva gli risultava difficile mangiare bene e quindi quando poteva, riuscendo a sganciarsi prima alla sera da una indagine o da un sopraluogo, amava mettere le gambe sotto ad un tavolo e cenare a rotazione nelle diverse trattorie italiane di Barcellona: al Made in Italy, alle Tre Venezie, al Mercante, al Cucina. Ogni tanto inframmezzava una pizza da Gusto.

Niente di particolare, se non che da qualche tempo, a ventiquattrore di distanza esatte dal momento in cui si gustava l’ultimo boccone tricolore, nello stesso posto in cui aveva mangiato, la polizia avrebbe trovato una donna morta.

Con la bocca piena di spaghetti e bendata da una sciarpa gialla da aviatore. Le ragazze erano tutte spagnole, cosa quantomeno bizzarra in una città che pullula di belle ragazze da tutto il mondo.

Se dopo il primo omicidio pensò al caso, al secondo alle coincidenze, al terzo alla sfortuna, al quarto delitto Mameli fu costretto a porsi delle domande, e non semplicemente a darsi risposte ovvie e inutili. Tanto più che il suo superiore, l’ispettore capo Grancan, voleva qualcosa di più concreto di semplici menzogne contraffatte spacciate per ipotesi investigative.

A Mameli questo concetto che un detective dovesse portare dei fatti e non delle argomentazioni non era mai andato a genio. Per lui gli indizi erano fatti di materia setosa. Come le nuvole.

Qualche volta aveva pensato che sarebbe stato perfetto nel suo ruolo al tempo dei Greci. Nel diritto antico il crimine, anche l’omicidio, non è pensato come una minaccia contro la società, che infatti non lo persegue d’ufficio: dunque il detective non agisce in nome della società o della verità, ma su iniziativa, e spesso per un interesse, personale. In questo senso, Mameli sarebbe stato un ottimo detective assente, un formidabile investigatore potenziale. Un imbattibile detective giallo, colore che nell’antica Grecia rimandava proverbialmente alla stupidità e alla follia. Secondo Grancan, invece, il detective era colui che assume su di sé un compito che sarebbe proprio di tutta la società: quello, cioè, di rappresentare la richiesta di giustizia della vittima, che è impossibilitata ad agire di persona in quanto il delitto l’ha soppressa.

Grancan era invasato dei libri di Chandler e voleva un poliziotto. Di un qualunque colore possibile, magari senza onore, ma che fosse un poliziotto. Certo.

Obbligato dal suo capo decise dunque di dare inizio all’indagine leggendo il rotocalco e interessandosi di Mister Boqueria. Il passo successivo fu fare un salto al regno della cucina volante.

Il ristorante era un vecchio hangar poco lontano dalla Rambla completamente ristrutturato; un palazzo di cui era stata sventrata la facciata in modo che, dal pianterreno alle soffitte, tutte le stanze che sulla parte anteriore dell’edificio fossero immediatamente e simultaneamente visibili.

Dai grandi oblò si mostravano quindi la cucina, il magazzino delle cibarie, la stanza dell’occhio (dove il vate seguiva personalmente l’estetica di ogni piatto nella sua presentazione finale), e le zone dei tavoli, distribuiti su tre piani con quello più in alto adornato a mò di suite culinaria.

Data la sua proverbiale pigrizia Mameli non prenotò.

Appena varcata la porta, gli parve di essere piombato al Camp Nou prima della mitica sfida col Real Madrid, tanta era la gente che attendeva il proprio turno.

Non presentandosi per quello che era – uno sbirro improbabile – gli venne regalata una anticamera di un’ora, sul modello della coda al controllo passaporti all’aeroporto di Tel Aviv. C’è da dire che, se si fosse dichiarato, probabilmente l’avrebbero cacciato in malo modo.

Comunque era martedi, il giorno del menù giallo; decise di ingannare l’attesa riflettendo tra sé e sé sui vari significati del colore. Gli sarebbe sicuramente servito.

Quando si sedette – tavolo rigorosamente da uno – gli presentarono nell’ordine: un timballino di cueso affumicato in salsa di zafferano; un merluzzo marinato protetto in una carlinga di peperone giallo; dei mini trolley di pollo annegati in una julienne di cipolle aromatizzata alla curcuma; e per finire uno zabaione caldo profumato al limone.

Non poté scegliere. Il menù era imposto.

Avrebbe voluto uscire pensando con leggerezza orientale che il giallo era il colore del sole, della fertilità, della regalità … invece aveva mangiato poco, e aveva ancora fame, per cui la sua mente italica si accese su una immagine da immediato dopoguerra, in cui il giallo era la tinta di alcune malattie quali l’itterizia, le manifestazioni d’avvelenamento o le nausee.

Avrebbe dovuto scoprire qualcosa di più. Qualcosa di significativo. Se non altro perchè non avrebbe sopportato un altro pranzo più inutile e avvilente.

Mister Boqueria cominciava dunque a stargli veramente antipatico: la cucina in volo perenne – invece che un sottile miracolo di equilibrio – gli sembrava un modo per riprendersi il sapore indietro prima che l’avventore avesse la soddisfazione di gustarlo. Insomma: una arte disonesta.

Se avesse avuto solo un po’ di coraggio – e di orgoglio nazionalistico – quello che avrebbe dovuto fare sarebbe stato sabotare il ristorante esponendo all’esterno una bandiera gialla d’avvertimento per i malcapitati adepti dello chef, come si faceva nelle città dove era scoppiata una epidemia o sulle navi che avevano a bordo gli appestati. Oppure avrebbe dovuto prendere a prestito la segnaletica gialla delle piste di atterraggio, per indicare al popolo ignaro, di non andare a quel ristorante.

Ingrugnito dal languore, decise che il modo migliore per pensare al da farsi sarebbe stato una bella passeggiata di metà pomeriggio sul lungomare che porta a Barceloneta.

Al limite, se proprio non gli fosse venuta nessuna idea, poteva almeno ritemprarsi gli occhi sbirciando qualche schiena femminile intenta a fare jogging. Era inizio aprile, una stagione magnifica a quelle latitudini: temperatura incerta tra venti e venticinque gradi, brezza delicata in viso. Il sole era talmente bello e forte che pareva in grado di sfumare di giallo tutto il cielo: la sua illuminazione radiante, il suo uscire da una sorgente centrale per sfaldarsi in tutte le direzioni, spostandosi dal centro verso l’esterno, disegnava un impulso centrifugo di apertura, liberazione e fuga.

Un senso di estroversione, un aspetto gioioso e vivace, sereno e leggero, che Mameli invidiava tantissimo.

Mentre era davanti al Mare Nostrum, guardando la statua di Cristofolo Colombo pensò che, nonostante il fastidio comportatogli dalla sola idea, era necessario fare un’altra visita a Mister Boqueria: stavolta non per assaggiare i suoi furti culinari, ma per fargli le fatidiche domande che aveva imparato dai film americani un vero detective non può derogare.

Si preparò al colloquio di tutto punto, stavolta: indossò il suo completo migliore, estrasse dall’armadio delle scarpe italiane di marca (una delle poche prove rimaste del fatto che anche lui avesse avuto anni fa un matrimonio) e – come fanno i guerrieri Masai – dipinse il suo corpo e il suo distintivo di giallo ocra per prepararsi alla battaglia. Lo fece con un pennarello delebile.

Dopo una breve indecisione, e molte prove davanti allo specchio, optò alla fine per non indossare un gilet da apemaia copiato da alcune tribù degli Indiani d’America, che con questo stratagemma ritengono di poter ipnotizzare il nemico.

Forse un avvertimento sul fatto che anche lui, come le vespe, nascondeva sotto la buccia un pericoloso veleno non sarebbe stato del tutto inopportuno, visto il risultato dell’interrogatorio.

Il profeta della cucina per finta si presentò attorniato da tre servi sciocchi: una addetta stampa vestita da hostess ma col canino in evidenza, cinquantenne ex franchista con evidente sindrome da menopausa aggressiva; uno steward del marketing, con troppo gel e troppi capelli per non risultare antipatico; e un guru spirituale con saio damascato e sandali post francescani, una sorta di Demis Roussos senza la precedente gloriosa carriera negli Aphrodite’s Childs tale da giustificarne la presenza in scena.

Vi risparmio i dettagli. In definitiva, il succo è che Mister Boqueria, affossato coi suoi 140kg in una poltrona da sovrano tipo Diamond Luxury First Class di Etihad, non mi disse nulla, se non chiedermi se mi era piaciuto il pranzo di due giorni prima, e a seguire pontificare la superiorità della sua cucina su quella italiana, capace secondo lui solo di rienventare sino alla noia la stessa pastasciutta, lo stesso spaghetto al pomodoro.

Ah dimenticavo: c’era pure l’avvocato – un principe del foro catalano conosciuto soprattutto come famoso puttaniere ma con amicizie molto in alto – che dopo la mia prima domanda mi bloccò violentemente ogni possibilità di procedere citando a caso articoli del codice civile, penale e aereonautico che non conoscevo, ma che sembravano perfetti a salvaguardare il suo assistito da ogni accusa anche solo velata o pensata.

Uscii se possibile più incarognito di quando ero entrato, quasi che il pennarello mi avessse creato istantaneamente una allergia diffusa tale da costringermi a grattarmi ovunque.

Decisi di annegare la tristezza e la rabbia sparandomi un pane&tomato alla prima taperia dietro l’angolo, con un piattino di jamon serrano e un bicchiere proletario di Torres. Non mancai di sporcarmi la camicia, mi succedeva sempre quando ero nervoso, oppure quando facevo le cose soprapensiero o in trance musicale.

Amavo Paolo Conte alla follia, la sua musica mi permetteva di sentirmi italiano e internazionale allo stesso tempo. Un italiano vero. Umile ma eccellente. Legato a poche parole bofonchiate ma capaci di tradurre attimi, donne, immagini, palpiti. Quando lo ascoltavo deambulavo saltando per la casa come un bambino, e alcune mie compagne casuali mi hanno confessato che lo cantavo pure di notte nel sonno e a volte mi alzavo sonnambulando e facendo cose che non avrebbero potuto descrivere nè ricordare. Mi faceva sentire meno straniero, nella appartenenza e nel linguaggio: io che non parlavo ancora bene il catalano dopo due anni di Barcelona.

A volte mi sembrava addirittura di non possedere un corpo, o perlomeno di una sembianza fisica codificabile dai catalani come tale: mi sembravo fatto di solo pensiero e nuvole. Ma allora: perché avrei dovuto combattere il crimine per una società che non mi aveva dato mai vera cittadinanza? Per un capo che odiava il mio modo di esprimermi, i miei borbottii da balbuziente ai limiti della crisi del linguaggio?

Il problema era capirsi. Non mi capiva Barcelona. Non mi capiva Grancan. Non mi capiva Mister Boqueria. Non mi capivano le donne.

Così, senza contatti sociali se non quelli creati dai miracoli della musica nella mia testa, regredivo praticamente all’età della pietra. Dialogavo solo con gli uccelli, e peraltro anch’essi molte volte non mi rispondevano, frustrando l’amore che ad essi rovesciavo addosso.

Da qualunque parte guardassi, mi trovavo immerso in una costante idea di incertezza, nell’intestino turbolento di un sistema instabile nel quale il mio minimo errore si amplificava.

Questa indagine, nella sua natura inafferrabile, riaffermava l’impossibilità di confinare il mondo – e ciò che in esso accade – entro i limiti della conoscenza umana.

Era tutto troppo ingarbugliato, non poteva esistere un metodo: se non quello di interrogare gli alieni col telescopio e chiedere loro consiglio. Dallo spazio, direttamente dalla loro astronave, mi restituirono prontamente la risposta che mi serviva. Molto terrena: pagai un testimone che incastrò Mister Boqueria. Lo fece sbattere in prigione e il giorno dopo i giornali erano pieni della notizia strillata in prima pagina. Rimase in carcere tre mesi, nel corso dei quali dimagrì 45 chili.

Nel frattempo – a dimostrazione che il mondo degli chef è un mondo di squali – i messaggi di delazione si erano moltiplicati e quindi Alverà, incarcerato senza alcun motivo e solo grazie ad architetture tipiche della retorica aristotelica o dei kamikaze giapponesi più che dell’investigazione moderna, piano piano stava diventando il perfetto colpevole.

Decisi di festeggiare la vittoria tornando trionfalmente al mio ristorante italiano preferito. Era tanto che non lo facevo, se non ricordo male dall’ultimo omicidio. Fu una serata memorabile, alla fine estasiato dalla sensazione di essere riuscito nella mia impresa arrivai addirittura a brindare con me stesso.

Senonchè ci fu un nuovo delitto. Inatteso. Ventiquattr’ore dopo.

Alverà fu scarcerato immediatamente grazie alla sagacia violenta del suo avvocato (e per amor di giustizia ed etica santiddio): era un uomo nuovo. Dimagrito, sobriamente elegante, innamorato della vita e di una nuova donna (una secondina con l’hobby della poesia) che aveva conosciuto in carcere. Mi scrisse pure una lettera di ringraziamento, che era dolce e priva di acrimonia.

Non avrei voluto essere Mameli quel giorno davanti a quella lettera. E non vorrei essere stato Mameli quel giorno davanti a Grancan: invece lo ero, e mi spaccò la faccia di insulti. Dovevo farmi venire un’idea. Dovevo escogitare un piano di volo per uscire dalla turbolenza dove mi aveva ben relegato la realtà dei fatti.

Mi serviva il giallo come una sorta di lampadina che si accende, un insight, una presa di coscienza finalmente chiarificatrice. Mi convinsi che il colpevole doveva per forza provenire da quella stanza dove avevo incontrato Alverà.

Andai per esclusione: il guru non poteva essere: troppo laido e ben pagato per le sue conoscenze esoteriche per sporcarsi le mani nei vicoli del barrio a ficcare spaghetti in gola alle donne. Al limite poteva servirmi se avessi deciso di farmi aprire il chakra giallo, corrispondente al plesso solare e alle funzioni legate all’attività dell’intelletto. Ma non mi conveniva capire troppo.

Meglio puntare sugli altri due e decisi di torchiare per primo quello più debole: lo steward con troppo gel e troppi capelli. Per compiacere Grancan, da buon marlove dei poveri lo feci sequestrare mentre era in sauna e lo feci tradurre nel mio squallido ufficio vicino a Santa Maria del Pì. Mi preparai sul retro di un sacchetto per il vomito di Air France la frase di benvenuto: “questa lampada che ti pianto in faccia può illuminare o accecare, riscaldare o bruciare; può essere annuncio di decadenza e dell’approssimarsi della morte, il colore dell’Ovest e del declino”.

Ero verde di cattiveria. Avevo le tonalità luride dello zolfo e della bile. Ero diventato il polo negativo del giallo: aspro, pungente, acido. Ma lo zolfo è un minerale che brucia senza fiamma, una falsa fiamma dunque. E anch’io alla fine mi accorsi di far paura solo a me stesso.

Il malcapitato mantenne invece – nonostante lo shock – una certa buona educazione, e con ottima sintassi – gesticolando come ad indicare le uscite di sicurezza – mi confermò la sua innocenza e il suo alibi di ferro per tutti gli omicidi. Era sempre da qualche parte in compagnia di qualcuno che avrebbe potuto testimoniare a suo favore.

Passai allora con decisione a spremere la addetta stampa pseudo gestapo. Con lei cambiai strategia, decisi di sorprenderla a casa dove magari avrei potuto pizzicarla nel bel mezzo di un gioco erotico sadomaso. Era così, avevo fatto centro.

Sfondando la porta come avrebbe fatto Robert Mitchum mi trovai nel bel mezzo di un sabba impazzito: lei vestita di lattice nero e appesa con anelli medievali ad una trave del soffitto, veniva frustata da un giovane pilota barbuto e capellone ancora in divisa.

Lei era ciò che di peggio poteva esistere: falsa, carica di invidia e rancore. E aveva un chiaro movente: ex starlette del cinema vicino alla dittatura, aveva dovuto subire un rapido e lacerante oblio per non essere imprigionata all’arrivo della democrazia.

Si era reciclata, cambiando identità e look, nel mondo delle agenzie di comunicazione e delle pr giungendo poi al dorato esilio di Mister Boqueria. Inoltre, come aggravante decisiva, da giovane aveva avuto esperienze di spettacolo nel tradizionale Teatro di Pechino, dove il trucco giallo degli attori indica la crudeltà, la dissimulazione ed il cinismo.

Era perfetta come colpevole. Ideale anche per la società che in quel modo avrebbe finalmente sconfitto non solo una pericolosa pervertita, ma anche lo spettro della dittatura franchista di cui era stata la pin up più odiata.

Era malata della sua trasgressione, non poteva farne a meno, nemmeno per una sola sera … e questo la salvò. Infatti a suo discarico snocciolò la lista dei suoi persecutori – tutti piloti giovani, capelloni e anarchici appartenenti a varie compagnie di bandiera – da cui si faceva picchiare, a volte in orge di gruppo.

Ogni dannata notte, un festino con annesso gatto a nove code ratificava un diverso check-in fetish e quindi la sua assoluzione.

Cazzo, pensò Mameli, possibile che tutti sono sempre con qualcuno quando avvengono i delitti? Possibile che l’unico ad essere solo e senza alibi sono io? Se il giallo è il colore dell’olfatto, cominciava seriamente a sentire puzza di sconfitta.

Ne ebbe ancor di più la certezza dopo i miliardi di calci in culo che gli dedicò amorevolmente Grancan alzandolo letteralmente dal suolo.

L’ispettore capo, pur ascoltando i racconti di Mameli, pur amando il modo col quale aveva compiuto gli interrogatori e sfondato le porte, ormai non credeva più alle sue parole, o meglio ai suoi mugugni. Che assomigliavano sempre più alle comunicazioni sbrecciate di una scatola nera.

Persino i fonemi elementari in catalano scarso li catalogava automaticamente come pura invenzione.

C’erano stati cinque delitti. Tutti uguali. E non c’era lo straccio di una prova per arrivare al colpevole. Ma se decollare è facoltativo, atterrare è obbligatorio: non solo per un pilota, anche per un detective.

Evidentemente, ormai era chiaro che Mameli viveva nel suo mondo e non riusciva a far partecipare nessun altro dei suoi pensieri. Quando ci provava, i risultati erano quantomeno disastrosi. Con Grancan terrificanti. Decise allora che era meglio tagliare la corda: meglio un’altra città, altre persone, altre solitudini. Altri aeroporti con un colore più rassicurante e meno appuntito.

Il giallo che si sentiva ora sulla pelle era infatti il pigmento dell’emarginazione e di quanti venivano ripudiati, fossero essi mendicanti o eretici, prostitute o traditori: come Giuda Iscariota.

Diede le dimissioni, e in meno di un quarto d’ora liberò il suo monolocale delle cose misere che in due anni vi aveva raccolto. Aprendo l’armadio rivide cinque camicie che senza saperlo aveva accantonato in un angolo, tutte con delle macchie di rosso. Non era tomate. Non era pomodoro.

I francesi in questi casi dicono: rire jaune, ridere giallo, quando si reputa uno scherzo non divertente. Paolo Conte lo sa. Lui conosce i francesi. I francesi la sanno lunga.

Passo e chiudo.



§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§

# proprietà letteraria riservata #


Emanuele Finardi