“Che cosa hai pescato?” chiese Everest brusco. Lo guardava fisso attendendo una risposta soddisfacente che tardava a venire.
Hancor non poteva far altro che rispondere, la voce mal ferma “Due cavoli e …”
Sentiva le risate attorno a lui. “… una bottiglia di latte”. Finì la frase deglutendo, la gola secca.
Everest lo metteva in soggezione. Ogni volta che andava a pescare si ripeteva la stessa scena. Hancor e la sua pesca scarna, Everest e i suoi occhi che si facevano piccoli piccoli, Hancor e la sua voce che tremava, Everest e la sua pazienza che veniva meno.
“E cosa ce ne facciamo di due cavoli?” chiese ancora Everest salendo di un paio di toni nella voce, l’ira che montava.
I ragazzi radunati attorno alla pesca avevano smesso di ridire. Lo sguardo di Hancor fissava la terra sperando che si aprisse per inghiottirlo.
“A me piacciono i cavoli”. Basilea aveva tredici anni, una lunga treccia e uno sguardo che non la tradiva mai.
Everest l’avrebbe presa a calci se non fosse stata l’unica ragazza del gruppo. Basilea lo sapeva e senza scomporsi restava fissa su Everest che di rimando sputò per terra.
“Cile che cosa hai pescato?” Everest era passato a un altro ignorando Hancor rimasto in piedi come un palo in mezzo alla radura.
Dopo un momento di esitazione si sedette impacciato senza dire altro. Doveva ringraziare Basilea. Se non fosse stato per lei Everest l’avrebbe di certo punito. Patate da pelare, stoviglie da pulire, letti da rifare. La ricompensa dopo ogni volo.
L’avrebbe anche accettato comprendendo come dipendesse il loro sopravvivere dai suoi goffi tentativi di procurare un pasto decente ai compagni. L’avrebbe anche accettato, se non fosse stato che ogni volta alle punizioni di Everest si aggiungevano scherzi di ogni tipo giocati dai suoi compagni che mal lo sopportavano.
Era già da un anno che volava e ancora non era riuscito a procurare nulla di buono al gruppo più di qualche pesce scarno e di una manciata di frutti maturi. Era questo che più non sopportava, Everest aveva ragione. I pirati come loro solcavano ormai da anni i cieli per racimolare ogni sorta di oggetto che avesse un’utilità al loro vivere: mele, coperte, pane, acqua, parti meccaniche, libri, giacche, piatti, freni, bulloni, pistoni, caramelle, calzettoni …
Il gruppo di cui faceva parte Hancor era il più giovane che il cielo conoscesse. Si muovevano sopra minuti aerei giocattolo monoposto, riadattati con motore ed eliche che loro stessi avevano più volte smontato, ricostruito, rimontato, rattoppato. Erano i retaggi del passato della Città Ventosa, il luogo in cui erano nati e in cui erano cresciuti come bambini, e che ora da adulti, quali si consideravano a quindici anni, gli restituiva dopo la guerra qualche briciola di misericordia e il ricordo dei voli tra le pale dei mulini lungo il fiume.
Alla fine della raccolta del pescato il gruppo iniziò a sparpagliarsi, per tutto il tempo Hancor aveva cercato di diventare trasparente come il vento che gli soffiava addosso ma non ci era riuscito. Si era limitato a restare in silenzio e sempre in silenzio si apprestava ad andare verso la sua tenda per sprofondare in un sonno che gli avrebbe restituito forse un po’ di pace.
“Hancor” si sentì chiamare. Era Pacifico.
“Hancor” chiamò ancora il ragazzo che lo stava raggiungendo correndo.
Pacifico si era scelto un nome bellissimo, pensava Hancor.
I pirati del cielo quando si erano riuniti in gruppo, senza patria e senza famiglia, desideravano per loro un nuovo inizio, e il punto da cui erano partiti dopo il recupero degli aerei, era stato darsi un nuovo nome sperando così di cambiare un po’ anche il loro destino. Avevano scelto il nome dei luoghi che avrebbero voluto sorvolare. Cile, Minnesota, Singapore, Grand Lake …
Everest che era il capo aveva scelto il nome della montagna più alta su cui era stato con suo padre. Basilea si chiamava come la città in cui era nata. Hancor aveva scelto i templi della Thailandia che tanto l’avevano affascinato da piccolo con l’oro che luccicava fin fuori dai libri di storia. E poi c’era Pacifico, che era il suo migliore amico.
Lui aveva scelto il nome più bello, pensava Hancor, quello dell’Oceano.
Erano in quattordici a volare, tredici ragazzi e una ragazza. Tutti tra i dodici e i quindici anni ad eccezione di Polonio il fratello minore di Pacifico che di anni ne aveva dieci.
“Hancor” ripeté Pacifico mezzo ansimante una volta raggiunto il ragazzo, le mani sulle ginocchia a riprendere fiato, la testa alzata verso di lui e un sorriso aperto. “Voli con me domani?”.
“Cosa?” rispose Hancor con fare quasi indignato “Domani? Ma sei diventato matto? Il giorno della grande pesca e tu vuoi fare la figura dell’uccello morto?”.
Domani era il giorno della festa dell’anno che i ragazzi celebravano con una gara di volo a coppie, una sorta di staffetta per raccogliere quanto più materiale possibile. “Più raccogli, più guadagni” continuò Pacifico senza distogliere il sorriso come leggendogli nel pensiero.
“Appunto” rispose Hancor “Ti mancano due aquile d’oro per sfidare Everest, potresti essere tu il nostro nuovo capo e vorresti gettare al vento questa possibilità per metterti in coppia con me che ho pescato due cavoli oggi?”.
“Anche a me piacciono i cavoli” rispose tranquillo Pacifico “facci un pensiero amico” e senza aspettare risposta corse via.
Hancor entrò nella tenda e quasi non chiuse occhio rimuginando su ciò che gli aveva detto. Erano cresciuti insieme, Pacifico per lui era come un fratello, non voleva essergli di peso né tanto meno deluderlo. Perso nei suoi pensieri scivolò nel buio mentre la luce iniziava a farsi strada nel cielo.
La mattina seguente di buon ora i ragazzi erano già tutti schierati pronti a partire, sprezzanti e fieri. Eliche brillanti, cofani luccicanti, motori vibranti. Hancor sospirò. Pacifico gli corse incontro, “Hancor sei arrivato, pensavo non venissi più”.
“Stavo per farlo” voleva dire, ma rispose annuendo.
“Allora voliamo assieme” disse Pacifico, non era una domanda. Hancor annuì ancora.
“Ehilà!” gridò da lontano Basilea, sventolando una mano mentre l’altra teneva un grosso cappello di paglia “il vento è forte oggi!”.
“Non voli Basilea?” chiese Pacifico quando la ragazza gli fu vicino.
“No oggi no, ho il plano in riparazione”.
Pacifico rise di gusto. “E da quando due bulloni che saltano sono un problema per te?”.
“Infatti non lo sono” sorrise sorniona Basilea “lo sono il carburatore fuso e il braccio meccanico bloccato, quello che un certo “ci penso io” aveva promesso di aiutarmi a riparare un mese fa”.
“Mi arrendo, sono colpevole” disse Pacifico con un sorriso disteso “ti regalerò una delle mie aquile vinte oggi”.
“Siamo sicuri di noi!” rispose gioviale Basilea.
“Abbiamo le nostre armi” Pacifico batté la spalla a Hancor che altro proprio non riuscì a fare se non un forzato sorriso tanto la sua preoccupazione stava crescendo.
“Sbrighiamoci, stiamo partendo” fu la frase pronunciata in modo deciso dall’amico a scuoterlo.
“Buona fortuna” sentì Basilea da lontano.
Il vento soffiava maestoso, i plani lucidi e brillanti erano allineati per partire, un rumore di eliche che vorticavano.
Hancor si avvicinò a Pacifico. “Allora” iniziò l’amico “Io vado per primo, mi dirigo a est, andranno tutti verso la città, non ci conviene andare di là, troppa gente uguale meno cibo, a est ci sono i campi, distese di campi, seguirò il fiume. Una volta arrivato al confine, in fondo alle piantagioni di patate, troverò un punto adatto per pescare. Quando tornerò indietro ti dirò dove planare. Dobbiamo essere veloci”.
Hancor non capiva perché non potevano fare come gli altri, andare in città, sorvolare qualche vecchio magazzino, arraffare quanto più potevano e andare via. Ma si limitò a dire un semplice “come vuoi”.
Pacifico, strizzando gli occhi per il vento, con un piccolo salto salì a bordo del suo plano mentre Hancor si strascicava poco convinto verso il suo, posto alcuni metri più in là, dietro al velivolo dell’amico.
Il ragazzo addetto a far iniziare la gara alzò un fazzoletto rosso.
“Allora come detto?” urlò Pacifico rivolto ancora a Hancor e si abbassò il casco dopo che il ragazzo alto e mingherlino disse “Pronti!”.
Subito il fazzoletto si abbassò. Poco dopo fu solo un forte rumore di motori e di ruote stridenti e in breve Pacifico volava nel cielo come un grande uccello metallico.
L’eco dei rumorosi plani rimbombava ancora in lontananza mentre la maggior parte dei ragazzi si dirigeva a ovest verso la città con le sproporzionate reti che penzolavano dagli abitacoli. I plani brillavano sotto i riflessi del sole, piccoli ma sufficientemente veloci, le ali sostenute dal vento che li accompagnava. I ragazzi più grandi salutavano lo sparuto pubblico raccolto con qualche acrobazia, disegnando grandi cerchi verticali nel cielo e facendo muovere le spighe dei campi di grano lì accanto.
Hancor osservava e quando non vide più nessuno all’orizzonte si sedette strappando un filo d’erba.
“Hancor quanti cavoli prevedi di pescare oggi?” Sentiva gli altri come lui rimasti a terra che lo schermivano ma fingeva di non dargli ascolto, ripetendo a mente il percorso che Pacifico gli aveva dato.
Dopo una buona ora un luccichio apparve nel cielo. Era Pacifico con una rete talmente piena che quasi strascicava al suolo. Conteneva parti di mulino, grandi viti che tornavano utili per gli aerei, e pale, ma anche pentole di rame, stoviglie varie, abiti, sacchi e sacchi di graniglia che poteva essere ancora buona per uno stufato, e, se gli occhi non lo traevano in inganno, grossi, anzi grossissimi pesci che quasi saltavano fuori dalla rete.
I ragazzi seduti nella radura in attesa dell’arrivo del primo plano presero ad alzarsi e a sventolare vecchi fazzoletti. Chi fischiava, chi gridava in segno di saluto.
Hancor che era rimasto a bocca aperta di fronte all’arrivo del compagno così carico di provviste si fece coraggio, si mise in piedi in fretta e a pugni stretti si diresse verso il suo plano. Se Pacifico ce l’aveva fatta lui non voleva essere da meno. Il suo amico che era arrivato primo con un carico che mai si era visto contava su di lui. E lui non lo avrebbe deluso. Si sistemò nell’abitacolo, abbassò il casco, avviò il motore e attese l’atterraggio di Pacifico che fu bravissimo a mantenere l’equilibrio con la grande rete che pendeva dietro.
Appena il plano si affiancò a quello di Hancor l’amico si sfilò veloce il casco e gli urlò “Il mulino rosso!”.
Hancor decollò. Non perse tempo. Si alzò veloce nel cielo. Il suo tra tutti era il plano più leggero e per questo anche il più veloce. In breve tempo raggiunse la quota necessaria sostenuto dal vento fresco che continuava a soffiare. Aveva capito il punto indicato da Pacifico. Si trattava di una fila di vecchi mulini di diverso colore disposti lungo il fiume a est, dopo i campi di riso.
Hancor filava dritto con il suo plano e aveva ormai raggiunto metà della strada necessaria per arrivare al luogo indicatogli da Pacifico quando all’altezza di una grande quercia, che segnava l’inizio della periferia della città, dove lui avrebbe dovuto virare ad est, qualcosa attirò la sua attenzione.
C’era una massa grigia, grossa, dall’aspetto metallico incastrata tra i rami degli alberi cresciuti vicino alla recinzione di una vecchia industria tessile. Poteva trattarsi di qualche rottame rimasto lì nel tempo se non fosse che quella strada l’aveva già fatta diverse volte e che, seppur in parte nascosto dalle fronde, quel velivolo si vedeva bene ma lui non l’aveva mai notato.
Iniziò ad abbassarsi, facendo un cerchio largo per valutare meglio la situazione.
Un’ala era spezzata e doveva essere caduta a terra, il resto del plano era incastrato tra gli alberi a testa in giù, abitacolo compreso. Hancor volò in cerchio ancora più vicino. Riconosceva quel plano, apparteneva a Pago, un ragazzo con i capelli rossi sempre arruffati che non lesinava di rovesciargli qualche secchio quando toccava a lui pulire.
Trattenne il fiato e mentre si abbassava ancora notò che dal veicolo qualcuno agitava un maglione per attirare l’attenzione. “Pago!” gridò Hancor “stai bene?”.
Rispose una voce piagnucolante ma viva. “Hancor sei tu? Tirami fuori di qui!”.
Hancor sospirò per il sollievo. “Cerca di arrampicarti fuori dal plano, io faccio calare la rete”.
Pago rispose con un tremolante sì e dal finestrino rotto, dove aveva sventolato il maglione, iniziò a strisciare fuori con non poca fatica attaccandosi al robusto ramo dell’albero.
Il ragazzo appariva agli occhi di Hancor, che adesso poteva vederlo bene, impaurito e malconcio per la caduta e per i segni lasciati dal vetro dell’aereo. “Non preoccuparti!” gridò Hancor “ora calo la rete così ti ci puoi aggrappare. Ce la fai?” chiese al ragazzo.
“Si” rispose di nuovo il suo compagno.
Hancor in cuor suo invece, non era sicuro di farcela, pescare cavoli era un discorso mentre pescare un ragazzo ferito era un altro. Si fece coraggio aspettando il momento giusto per non incagliarsi tra gli alberi. Volò quanto più lentamente e vicino potesse e quando fu sufficientemente certo che il ragazzo potesse farcela, abbassò la rete. Non sbagliò. Il compagno ci si buttò rovinosamente dentro e Hancor iniziò a salire. “Tutto bene?” chiese a Pago.
“Sì, grazie al cielo!” si sentì rispondere.
Hancor volava piano, talmente piano che non era sicuro di rientrare prima del tramonto.
“Di certo a terra saranno tutti preoccupati per il nostro ritardo” pensava. Quanto alla sua gara ormai era andata così, gli dispiaceva solo per Pacifico. La rete sotto il plano dondolava lenta cullata dal vento.
Alla fine arrivò che il cielo iniziava a imbrunirsi. Quando fu sufficientemente vicino vide una piccola folla che agitava mani e cappelli in segno di festa.
Stranito da così tanto entusiasmo iniziò concentrato l’atterraggio, attento a non far strascicare rovinosamente la rete con il compagno a terra. Riuscì bene nell’intento e quando il plano finalmente si fermò si sfilò accaldato il casco e tirò un sospiro di sollievo trattenuto fino a quel momento.
Ce l’aveva fatta.
In breve fu attorniato da un gruppo urlante che lo incitava. Con la coda dell’occhio, mentre veniva trascinato dai festanti ai bordi della radura, vide Pago soccorso da altri ragazzi. Stava bene.
Arrivato ancora stordito in fondo al campo dove c’era una piccola collinetta vide prima Pacifico e poi Everest. Il sorriso che si era stampato sulla faccia sparì in breve.
Everest stava eretto, le braccia incrociate, lo sguardo imperturbabile che lo fissava. “Hancor” esordì duro Everest “sei arrivato fuori da ogni qualsiasi plausibile tempo”.
Hancor non sapeva cosa dire. Non lo sapeva mai, tanto meno in quel momento. Abbassò le spalle, pronto a ricevere un altro duro colpo al suo orgoglio già tante volte ferito. Mai come in quel momento avrebbe voluto essere soffiato via dalla terra come uno di quei fiori di campo.
“Ma sei tornato con la più grande pesca che si sia mai vista. E per questo io ti premio con una menzione d’onore e ti ringrazio per quello che hai fatto. Grazie Hancor. Oggi hai salvato un compagno. Non c’è pesca che valga più di questo”.
Hancor non credeva alle sue orecchie. Il viso di Everest si era disteso in sorriso che mai avrebbe pensato a lui rivolto e gli occhi brillanti del ragazzo sembravano perfino diventare lucidi. Anche Hancor si commosse. Tirò su col naso e si asciugò con la manica della camicia. Non fece altro.
Attorno a lui i ragazzi radunati saltavano e fischiavano ancora. Pacifico gli si avvicinò e gli diede una vigorosa pacca sulla spalla.
“Quando ti ho chiesto di partecipare con me ero certo che avresti fatto grandi cose. Solo un cuore leggero può volare in alto” e così lo lasciò, solo, ai suoi festeggiamenti e ai suoi pensieri mentre le prime stelle della sera accedevano un cielo ormai spento.
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Elisa Trettene |