Icaro

– Paolo! Rientra, per favore – urlava nonna Carmela. Lui sarebbe pure rientrato. Stare su un cornicione al settimo piano e soffrire di vertigini non è il massimo della vita. Solo che c’era un problema. Nonna Carmela era morta da un mese d’infarto e l’aveva vista coi suoi occhi quando l’avevano chiusa nella bara. Scosse la testa, riflettendo, poi con un’alzata di spalle decise che forse questo non era così importante, e che sarebbe rimasto fuori ancora per un po’. Certo che tirava un bel venticello, lassù, e le antenne della TV oscillavano a destra e a sinistra chiamandosi l’una con l’altra nel loro linguaggio misterioso e segreto fatto di vibrazioni e cigolii metallici. La più alta era quella della famiglia Rossitti: una volta fatto l’abbonamento a Telepiù il sig. Paolo (il tizio pieno di tic che quando c’erano le riunioni di condominio tirava sempre fuori un lavoro nuovo da fare, perché lui era geometra e queste cose le sapeva, e suo cognato aveva un’impresina che con poca spesa …) non si era voluto rassegnare al fatto di abitare in una zona disgraziata, dal punto di vista televisivo, e pur di poter vedere almeno le ombre dei calciatori, al posticipo della domenica sera, piano piano aveva tirato su un traliccio che per forma e dimensioni ricordava in modo inquietante la Tour Eiffel. A parte il freddo, e la paura del vuoto, ciò che più dava fastidio a Paolo era d’essere a piedi nudi, soprattutto per la circostanza che i cornicioni sono posti molto frequentati dai piccioni, e si sa che quelli sono bestie insolenti e maleducate, quando gli scappa gli scappa, e non vanno tanto per il sottile. – Allora, Paolo! Ho già messo la cena in tavola! – provò ancora la nonna, e stavolta Paolo fu tentato davvero di rientrare, anche se più dei richiami, ad agganciarlo era stato il delizioso profumo della parmigiana di patate. Capì che se avesse esitato ancora alla fine avrebbe finito per rinunciare, e sarebbe ritornato mestamente al davanzale della finestra e, dal davanzale, in casa. Così, tirato un profondo respiro e preso il coraggio per i capelli, spiccò il salto nel vuoto. Doveva battere le braccia, con movimenti ampi e profondi, ma non frenetici, accompagnando il gesto con la ritmica spinta delle gambe, un po’ come quando stai nuotando, ma con la differenza che per volare è necessario che tu senta dentro di te d’essere diventato davvero più leggero dell’aria … Ma che tu non abbia mai, mai, e poi mai paura di cadere! Era un po’ di tempo che non lo faceva, cosicché all’inizio Paolo faticò alquanto a governare le traiettorie aeree, e ci mancò meno d’un pelo che non finisse con l’impigliarsi nei fili stesi tra le finestre ad angolo della signorina Milvia. Non che gli sarebbe dispiaciuto moltissimo, per dir la verità, perdersi in quella moltitudine di mutandine e reggiseni di pizzo, di calze e sottovesti trasparenti, dove avrebbe respirato, lo sapeva bene, il profumo di gelsomino e di femmina che con così poca parsimonia effondeva intorno a sé quella splendida donna in fiore … Ma il pensiero della professoressa Bruni che si affacciava dal balcone del soggiorno sorprendendolo così combinato, scrutandolo di traverso con lo sguardo riservato in classe agli alunni che scopriva impreparati alla lavagna, lo convinse rapidamente a esibirsi in una plastica virata e a puntare in alto, verso l’attico dell’avvocato Pedroli. Eccolo lì, il principe del foro, intento a godersi beato il fresco della sera in terrazzo, circondato dai suoi fiori, in calzoncini hawaiani e Lacoste celeste, regalmente affondato in una elegante e comoda sdraio ergonomica. Sorseggiando con voluttà un cocktail talmente guarnito da ricordare un angolo di foresta tropicale, sfogliava pigramente una rivista illustrata tenuta aperta in grembo. Paolo si fermò, appeso al parapetto come se fosse il bordo di una piscina: aveva sempre ammirato la classe dell’avvocato, i suoi vestiti fatti su misura, le cravatte di Gucci, le morbide scarpe d’alce e la Mercedes grigia metallizzata. Insomma, un bell’uomo abbronzato d’estate e d’inverno, illuminato da dentro dalla nobiltà della cultura, del potere e dei soldi. Ma la luce rossastra e obliqua di quell’interminabile tramonto era ancora sufficiente perché Paolo, che aveva sempre avuto dieci decimi, potesse distinguere la copertina di ciò che stava leggendo l’eminente signor Pedroli. KIDS era il nome della rivista, e sotto la testata, stampate su costosa carta patinata, spiccavano foto di ragazzini nudi ritratti in pose oscene e … Un incombente conato di vomito gli fece perdere l’equilibrio, precipitandolo nel nulla, e solo all’ultimo istante, poco prima di spaccarsi il cranio contro la ringhiera del balcone del secondo piano, Paolo ricordò di conoscere l’arte di volare, raddrizzandosi con un abile giravolta e planando dolcemente verso la strada. Solo che non era proprio la serata giusta, evidentemente, perché giù c’era il ragionier Tajani, che passeggiava con il walkman sulle orecchie, sparandosi in vena rap a tutto volume, e chissà cosa avrebbe detto vedendolo atterrare così sul marciapiede. E fosse stato da solo, almeno! Invece no: i suoi cani, due dobermann muscolosi e feroci, neri come le ore di mezzo di una notte nuvolosa e senza luna, trotterellavano intorno annusando qua e là per stabilire quali fossero gli angoli più adatti per marcare il territorio. Lo sentirono subito, alzando verso l’alto occhi tanto brillanti da forare l’oscurità incipiente della sera e zanne incredibilmente bianche e appuntite. Lo aspettavano senza abbaiare (quegli assassini non gradiscono irritarsi la gola, prima di uccidere), ma accompagnando la lenta discesa di quel succulento boccone con un ringhio sordo frammezzato da guaiti acuti e impazienti. – Eilà, non sono mica la vostra bistecca! – protestò Paolo, scalciando furiosamente e riuscendo infine a frenare a neppure un metro dalle fauci spalancate. Riprese lentamente quota, esausto, e improvvisamente il richiamo della parmigiana di patate si fece irresistibile: rientrò dalla finestra del bagno, che aveva lasciata accostata. Tirò lo sciacquone, tanto per dare un tocco di classe a tutta la storia, lavò diligentemente le mani con una delle saponette alla rosa comprate alla Standa, nei sacchetti da dieci, poi girò la chiave nella toppa e come se niente fosse si incamminò lungo il corridoio. – Sono qui, nonna. – annunciò, facendo il suo ingresso trionfale in sala da pranzo. La tavola era apparecchiata con la tovaglia azzurra dei giorni di festa e il servizio di porcellana con i fiorellini lillà che piaceva tanto a Paolo. – Buon compleanno, tesoro. Mangia tutto tu, io non ho appetito, stasera. – lo accolse con la cara dolce voce sdentata nonna Carmela, sollevando il busto dalla cassa di mogano foderata di velluto rosso adagiata sui cavalletti accanto al divano. Paolo trovò la cena effettivamente deliziosa.

Il soffio continuo e monotono del respiratore artificiale si accompagnava benissimo al ronzio elettrico delle altre apparecchiature che, attraverso gli aghi infilati un po’ dappertutto nel corpo di Paolo, lo mantenevano in vita da quasi dieci anni. I medici avevano detto che era stato un miracolo che fosse sopravvissuto a un incidente del genere: lo scontro frontale di un motorino contro una betoniera pesante parecchie tonnellate, una sfida che di solito non lascia speranze. Era successo il giorno in cui la Signora Maria, la donna che tre volte a settimana andava a fare le pulizie, aveva trovato sul tappeto finto persiano dell’ingresso la vecchia Carmela, fulminata dallo scoppio dell’aorta. Il padre e la madre di Paolo se n’erano andati quando lui frequentava ancora le scuole medie, visitati e fagocitati a un anno di distanza l’uno dall’altra dallo stesso indesiderato ospite: un carcinoma allo stomaco, piuttosto aggressivo e fetente. Quindi, poiché la nonna era l’unica parente che gli era rimasta al mondo, com’era logico che fosse il ragazzo era andato a vivere a casa sua: affezionandosi a lei sempre di più, scoprendo nell’anziana donna, giorno dopo giorno, una creatura energica e tenera allo stesso tempo, in possesso, al di là dell’enorme differenza d’età, della sensibilità necessaria per comprendere e condividere i suoi problemi d’adolescente. Ci sono diversi modi di dare una brutta notizia, e quel mattino piovoso, che puzzava prematuramente d’inverno, era stato scelto il peggiore: durante l’ora di geografia era entrato in classe il bidello che, con aria circospetta, aveva sussurrato alcune parole all’orecchio dell’insegnante, svignandosela il più in fretta possibile dalla porta lasciata socchiusa. Il professor Grimaldi si era passata la mano sulla fronte, poi, gravemente, con lo sguardo diretto al pavimento, si era rivolto agli alunni: – Ragazzi, è successa una cosa molto triste, per la quale vi chiedo di stare vicini al vostro compagno. Pasini, ascolta … – “ Pasini? Sono io, Pasini! “ era stata l’unica cosa che aveva pensato Paolo prima di alzarsi, comprendendo ogni cosa all’istante, sgusciando in fretta dal banco senza nemmeno raccogliere lo zainetto, correndo via schivando le braccia protese del professore, verso il cortile, verso il suo Ciao incatenato ai tralicci del canestro nel campo di basket.

Si era risvegliato sei mesi dopo l’incidente. La prima cosa che aveva visto era stato il volto di un’infermiera bionda, bello come quello di un angelo. Ma non aveva creduto di essere in paradiso: nello stesso momento in cui aveva ripreso conoscenza aveva lampeggiato, nitidissimo, il ricordo del mostro d’acciaio che usciva dalla curva, proprio sulla sua direttrice di marcia. Aveva stretto i freni così forte da capire,prima dell’impatto, d’essersi slogato invano un polso. – Che ore sono? – avrebbe voluto chiedere all’angelo. – Quanto tempo ho dormito? – ed era stato lì che si era accorto di non riuscire a parlare, e che, quando aveva tentato di sollevare il capo, aveva verificato per la prima volta che non succedeva proprio niente. Ma si sa che le creature celesti, siano serafini o cherubini, hanno il potere di leggere nel pensiero, perché, stando a quel che si dice, ne ricevono la delega direttamente da Dio.

– Non posso crederci, ti sei svegliato, alla fine! E’ un evento prodigioso, un miracolo! Ricordati bene la data di oggi: ore 10 del mattino del 17 marzo 1987 … – aveva quasi gridato lei, incredula. Ma più incredulo di lei era rimasto Paolo, visto che l’incidente era capitato il 26 settembre dell’anno prima. – Certo che ti sei fatto un bel sonnellino. Aspetta qui, caro, e non muoverti … – Le mani a schermare il volto improvvisamente imporporato dalla gaffe piramidale. – … ehm, scusami, non so più neanch’io quello che dico. Vado subito a chiamare un dottore. – E prima che si allontanasse, Paolo aveva fatto in tempo a notare due lacrime affacciarsi dagli occhioni lucidi.

Quando i medici gli avevano detto quali erano e quali sarebbero state, fino alla morte, le sue condizioni, Paolo l’aveva già capito da un pezzo: spina dorsale spezzata, paralisi totale e irreversibile. L’unica cosa che da allora l’aveva tenuto attaccato a quella specie di vita era stata l’estrema risorsa di potere flippare via con le sue fantasie oniriche ogni volta che lo desiderasse. C’era il sogno di guerra, in cui lui era il comandante di un esercito invincibile che con imprese mirabolanti sistemava tutte le ingiustizie del mondo, punendo dittatori e politicanti malvagi e corrotti. Poi c’era il sogno d’amore, naturalmente con Angela (per ironia della sorte, si chiamava proprio così!), la dolce infermiera: mille passioni travolgenti, mille vite felici vissute insieme, in ogni epoca e sotto ogni latitudine. E l’esploratore, l’investigatore, l’astronauta, il grande maestro di scacchi … Ma era il sogno del volo, quello che lo prendeva di più.

Che cominciasse sul cornicione di casa, sulla cima di un monte, sulla sommità di una torre … era sempre il più affascinante, perché poi non era Paolo a governarlo, come le altre fantasie, ma, sempre diverso, andava avanti ogni volta secondo un disegno che sembrava sfuggire completamente al controllo della volontà: spesso assolutamente surreale, talvolta triste, talvolta persino angoscioso, ma proprio per questo più simile alla vita vera. Un moscone nero e carnoso ronzava più forte delle macchine che da tremilacinquecento giorni si sostituivano a reni, cuore e polmoni. Stava arrivando la primavera, e l’insetto era molto indaffarato nelle sue faccende, così come vuole natura. Passò e ripassò a pochi centimetri dalle pupille sempre aperte dell’uomo immobile nel letto. Poi gli si posò sulla punta del naso. “ Tutti i miei sogni darei. “ pensò Paolo. “ Tutti. Solo per poter muovere le labbra una sola volta e scacciarlo via di lì con un soffio. “ Ma non poteva farlo, naturalmente. Poi il moscone spiccò ancora il volo. Paolo lo seguì con lo sguardo, finché fu nel suo campo visivo. Per ritrovarsi alla fine, ancora una volta, a fissare l’intonaco bianco del soffitto. “ Sono io, quel moscone. “ decise. E ripartì l’antico mito di Icaro.

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Patrizio Pacioni

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