La tratta da Roma a Tirana, nel 94’, era un volo di circa un’ora e venti minuti circa. Si atterrava attorno a mezzogiorno e, il tempo di imbarcare i passeggeri ed eseguire i controlli di transito, si ridecollava subito alla volta di Roma.
Dal punto di vista delle difficoltà del volo … beh, non ce n’erano granché, salvo le radioassistenze piuttosto scarsine che si limitavano ad un semplicissimo ADF. Fortunatamente l’aeroporto di Tirana godeva sempre di ottima visibilità ed era facile individuarlo già da molto lontano.
Anche quel giorno era stata semplice routine portare a terra il DC9-30 della compagnia di bandiera e, a parte un caldo afoso che ci aveva asfissiato a Roma, durante l’imbarco passeggeri, il volo era scivolato tranquillo.
Il tempo di rullare in pista, percorrere il raccordo e recarci davanti alla piccola aerostazione, che l’apertura del portellone ci confermò una calura albanese ben più rovente di quella romana. Pensare di trovare ristoro nella minuscola aerostazione del piccolo aeroporto di Tirana era pressoché impensabile: le infrastrutture erano rimaste quelle dell’epoca fascista e modernità come l’aria condizionata, nel ’94, a Tirana … erano troppo progressiste. Tanto valeva rimanere in cabina. Ma il mio I ufficiale fece svanire ogni dubbio sul da farsi quando mi pregò di scendere per mostrarmi un “piccolo problema” ai carrelli.
Piccolo problema? pensai … a Tirana avevamo solo pochi tecnici che si occupavano dei controlli di transito, non avevamo un’area tecnica e ogni più piccola avaria avrebbe comportato solo “grossi problemi”. Altro che piccolo problema!
“Speriamo bene” sussurrai a denti stretti, scendendo a terra.
Un capannello di tecnici, compreso il caposcalo – lo conoscevo da anni -, erano attorno alle grandi ruote dell’aeroplano e, per un istante, non capii quale potesse essere l’avaria. Poi, osservando meglio, mi venne naturale esclamare un sincero: “Porca paletta!”
I pneumatici del povero DC9 sembravano la pelle dell’Uomo Roccia, quello dei Fantastici 4, per intenderci. Erano costellati di ciottoli di piccole e medie dimensioni, una specie di cingolo formato da sassi che ricopriva buona parte del battistrada.
Non so perché … ma nella mia mente si visualizzò l’immagine di un croccantino, il gelato che aveva contrassegnato tutte le estati della mia infanzia: il tipico stecco di legno, il ripieno di crema con il cuore di amarena e soprattutto la superficie, anziché liscia, costellata da una miriade di micropalline di zucchero e nocciole sminuzzate. Volendo lo stelo dei carrelli poteva costituire lo stecco di un enorme croccantino tondo mentre i sassi non avrebbero sfigurato come copertura …
Da adulto assennato, sentenziai che la presenza dei sassi addosso al pneumatico, contrastava le leggi della gravità. Dunque, istintivamente, provai a staccarne uno.
“Fossi in lei, non li toccherei, comandante” mi apostrofò il caposcalo. Prima che potessi abbozzare una replica mi mostrò le sue dita nere e cosparse di un fluido vischioso. Poi aggiunse: “Si è sciolto l’asfalto della pista!”
In effetti la calura era davvero insopportabile. Mi resi conto che la mia camicia, seppure di cotone leggero, si era letteralmente attaccata alla mia pelle. In pochi istanti. Era bagnata ovunque da un sudore copioso. Benché fossimo all’ombra sotto la pancia dell’aeroplano, la temperatura era torrida, complice le vampate di calore che venivano dall’asfalto, appunto, e dall’aria rovente e immobile.
Sapevo che il fondo della piste degli aeroporti è in grado di resistere ai forti carichi localizzati delle ruote degli aeroplani mentre le piste vengono asfaltate con catrame speciale resistente alle alte temperature … ma, probabilmente, il primo era ancora quello realizzato dagli italiani nell’epoca fascista mentre il secondo, era tutto fuorché resistente al calore.
Certo, la temperatura era altissima … ma i sassi? Da dove provenivano?
Sapevo altrettanto bene che le piste, i raccordi e anche i parcheggi degli aeroporti vengono regolarmente “spazzati” per evitare che corpi estranei possano essere ingeriti dai motori dei velivoli … un po’ come nelle portaerei quando, al mattino, tutto l’equipaggio addetto al ponte di volo lo percorre da un capo all’altro alla ricerca anche del più minuzioso oggetto pericoloso.
A ripensarci bene, lì a Tirana, non avevo mai visto delle macchine spazzatrici all’opera, né potevo immaginare che il personale aeroportuale – poco a dire il vero – percorresse la pista al mattino come nelle portaerei. Ma allora il mistero dei sassi?
Il caposcalo sembrò leggermi i pensieri e dipanò il mistero: “E’ il raccordo che si sta sgranando!”.
In effetti, a ripensarci bene, rullando fuori dalla pista, avevo notato che il cemento del raccordo era irregolare, fratturato da crepe a chiazze e stranamente rugoso. Era molto probabile che le elevate temperature avessero in parte liquefatto l’asfalto della pista e che i pneumatici, come un enorme rullo compressore – ma impregnato di colla moschicida – avessero raccolto i piccoli sassi che formavano il fondo del raccordo. Ecco come era andata!
Ora erano lì, attaccati al nostro DC-9. Anzi, il tempo di elaborare tutte queste elucubrazioni che i bravi tecnici avevano già staccato una buona metà dei ciottoli. Purtroppo il catrame dell’asfalto, nonostante tutti i loro sforzi, rimaneva caparbiamente attaccato al battistrada dei pneumatici.
“Fermi tutti!” esclamai, quasi folgorato dalla soluzione del problema. Il caposcalo e i tecnici, madidi di sudore, mi guardarono speranzosi. Spiegai loro la mia idea e, presi dall’entusiasmo, per poco non mi abbracciarono con le mani sporche di catrame misto a solvente.
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Atterrammo felicemente a Fiumicino. La temperatura era leggermente più fresca di quella di Tirana. Forse era una mia impressione … ma la leggera brezza del mare mitigava la calura romana cosicché l’asfalto del Leonardo da Vinci era ancora lì dove doveva rimanere: sulla pista.
Appena terminate le operazioni a bordo, mi recai in tutta fretta nella sala equipaggi per stendere un rapporto del’accaduto. Trovai il capo pilota indaffaratissimo: era in riunione con altri due colleghi, il cellulare in mano e la cornetta del fisso all’orecchio. Quando mi vide mise tutti in attesa e ascoltò il mio racconto senza dire nulla.
Uomo di poche parole e ottimo pilota, il capo pilota era assai pragmatico. Appoggiò il cellulare sul tavolo mentre ricominciava a trillare e mi chiese: “Avvisi tu i colleghi?”
“Veramente …”
“ … l’idea è tua. Così spieghi loro come devono comportarsi” replicò asciutto.
Mi rassegnai all’istante e, agguantato il telefono della segreteria equipaggi, cominciai a chiamare il primo della lista dei colleghi che avrebbero coperto la tratta nei tre giorni successivi, il quarto giorno ci sarei tornato io …
“Sì, esatto” replicai con tono convincente, “una volta imbarcati i passeggeri sul piazzale dell’aerostazione, dovrai portare il velivolo oltre il raccordo e lì i tecnici ti ripuliranno i pneumatici dai ciottoli … motori al minimo, certo … a quel punto, per evitare ingestione di eventuali sassetti o di catrame, abbasserai i flap al MAXIMUM TAKE-OFF FLAPS, entrerai in pista e poi normale decollo … alla peggio si sporcheranno i flap ma ai motori non arriverà niente”
Dall’altro capo del telefono avvertii l’incredulità e la sorpresa del mio collega. La stessa che avevo provato io quando il catrame di Tirana si era sciolto sotto le ruote del mio DC9 e il cemento del raccordo aveva deciso di sgranarsi.
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L’ondata di calore durò per una altra decina di giorni poi una violenta perturbazione atlantica irruppe nel Mediterraneo e allentò la morsa dell’anticiclone africano che aveva attanagliato l’Europa meridionale per tutto il mese di agosto.
A casa mia, sopra il camino, conservo un ciottolo di Tirana. E’ il ricordo di un enorme croccantino che non ho mai avuto il tempo di addentare.
Fotografie del Com.te Antonino Desti
Testo liberamente tratto dal racconto
del Com.te Antonino Desti
e scritto dalla Redazione di Voci di hangar