In volo tra le nuvole … e nello spazio

Ero con gli occhi chiusi alla ricerca della concentrazione e per mitigare la tensione. Sentivo solo il rimbombo ritmico del motore e nessun altro suono. Aprii gli occhi: ero seduto su una lunga panca metallica insieme ai miei commilitoni e di fronte a me, sull’altro lato della carlinga, si trovavano altrettanti compagni. Eravamo tutti con la stessa tenuta scura, giubbotto antiproiettile, guanti termici e uno stock di armi disseminato in tutto il corpo, compreso il pratico fucile laser e le granate ad onda d’urto. Il casco integrale mi impediva di vederli in viso e di incrociarne gli occhi, ma forse era meglio così: in quei momenti è preferibile stare da soli con i propri pensieri e non condividerli con nessuno, nemmeno attraverso uno sguardo.

All’improvviso il graduato segnalò con il pollice verso l’alto che dovevamo alzarci. In fila indiana ci accostammo alla parete dell’aereo per dirigerci verso il portellone già aperto. Fuori era buio pesto e percepivo solo il freddo glaciale che proveniva dall’esterno. Ricordavo che il lancio era previsto da alta quota, per impedire di intercettare l’aereo o vanificare la nostra discesa e le condizioni climatiche a quella altitudine non sono gradevoli: anche il respirare diventa un problema se non lo fai correttamente.

Una lieve esitazione quando fu il mio turno e poi il salto nel vuoto.

Istintivamente controllai subito l’altimetro, mentre mi coordinavo per trovare il corretto assetto in volo. Non mi ricordavo di aver mai usato quello strumento, eppure riuscivo a leggerlo perfettamente e interpretarne le indicazioni.

Arrivato all’altezza prefissata tirai la cordicella per liberare il paracadute. Maledizione, imprecai; non si era aperto. All’istante i battiti del cuore si impennarono ma cercai di mantenere la calma. Sentii il sudore freddo scorrere sotto i vestiti, mentre faticavo a deglutire e sentivo la gola secca.

Azionai il paracadute di emergenza, ma nemmeno quello si aprì. Ero nel panico. Iniziai a guardarmi intorno alla ricerca di aiuto da qualche compagno, ma con un lancio notturno sapevo di non poter scorgere nessuno. Guardai nuovamente l’altimetro e dall’altitudine segnalata capii che gli altri avevano già aperto i loro paracadute e si trovavano tutti al di sopra di me, in planata lenta.

Le tempie pulsavano all’impazzata contro il casco e la testa era in fiamme per la pressione. Cercai il microfono per chiedere aiuto, ma era inutile, non c’era più tempo per niente, solo per la disperazione. Urlai con tutta la voce che avevo in gola ma non riuscivo a sentirla. E la terra si avvicinava velocemente a me e alla mia fine.

Riuscii a fatica ad aprire gli occhi e provai ad orientarmi alla luce soffusa della cabina. Giacevo sdraiato nel letto, in una posizione scomposta; ed ero dannatamente sudato.

Mi avvicinai al frigo e sorseggiai una bevanda fresca. Non ero mai stato preda di un sogno di tale intensità e ne ero scosso.

Camminai intorno alla cabina, tentando di stimolare nuovamente il sonno, ma un po’ per timore di chiudere nuovamente gli occhi e un po’ per la sensazione di disagio che provavo, decisi presto di rinunciare.

Che strano incubo, pensai: non sono certo io che dovrei avere certe visioni notturne.

Non ho mai voluto provare l’ebrezza del volo, se non dentro a una sicura e affidabile astronave. Al lancio dall’esito imprevedibile con il paracadute avevo sempre preferito la meno adrenalinica  rampa di lancio. Eppure era stato tutto troppo realistico, soprattutto il terrore provato, e i particolari sembrava li avessi vissuti di persona, ma probabilmente erano frutto di qualche racconto sentito in famiglia che mi era rimasto in memoria. 

Guardai dall’oblò per ammirare Titano, una delle lune di Giove, la nostra prossima tappa del lungo viaggio che ci attendeva.

Mi venne in mente “Dalla Terra alla Luna” di Jules Verne e pensai a quanta strada aveva fatto l’uomo rispetto a quanto narrato in quelle pagine. Ci chiamavano viaggiatori, esploratori, colonizzatori alla ricerca di altri possibili mondi, ma c’erano anche mercenari, fuggitivi e commercianti. Chi lasciava la Terra lo faceva con un biglietto di sola andata, e la motivazione doveva essere forte. Il cosmo offriva spazi e opportunità infinite ed era al tempo stesso attraente ma denso di incognite, quindi non adatto a tutti.  

All’improvviso suonò l’interfono. Aprii il microfono e vidi che la chiamata proveniva dalla sede dell’Ammiragliato. Indicava una comunicazione diretta, senza possibilità di risposta: una cosa piuttosto inconsueta.

Sfiorai lo schermo trasparente per avviare la trasmissione.

“Capitano Travis, a nome delle alte cariche militari, con sommo dispiacere le comunico il decesso di suo fratello.

Durante una missione notturna di sabotaggio, che prevedeva il lancio con il paracadute, si è verificato un problema al sistema di apertura.

Purtroppo non si è potuto intervenire in nessun modo per evitare la tragedia e …”


§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§

# proprietà letteraria riservata #


Massimiliano Murgia

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.