Mio nonno

Roma, 5 gennaio 2010.

Entro in cucina, saluto mio nonno. Ed è così che comincia la mia intervista: “Nonno, nonno tra due settimane ho l’esame di storia contemporanea e devo presentare una tesina sulla Seconda Guerra Mondiale. Ho scelto di parlare della figura del reduce di guerra. Mi aiuti?

Va bene”, esclama lui tangibilmente felice di aiutarmi. Lo vedo dai suoi occhi.

Molti sono i dubbi, tante le domande da porgli. È un anziano signore come tanti, classe 1919, ma forse sono proprio la sua età e la sua ricca esperienza a renderlo una persona unica: è facile intuire dalla sua data di nascita che ha vissuto, e soprattutto combattuto, durante gli anni della Seconda Guerra Mondiale. Sono proprio seduta di fronte ad un reduce di guerra. Ma in fondo chi sono questi reduci? Sono curiosa di sapere di più sulla sua storia.

La mia prima domanda è di natura psicologica: “Come può aver vissuto un reduce il ritorno alla vita normale col finire della guerra?”.

È un quesito complesso, profondo, ma di certo la risposta la si può trovare solo domandandolo a chi realmente ha vissuto una tale esperienza di vita. Sicuramente è una di quelle sensazioni che si riescono a provare solo vivendole in prima persona, forse anche il racconto di terzi potrebbe essere superfluo, ma io sono di fronte a mio nonno e provo a porgli la mia domanda. Comincia così a raccontarmi la sua importante esperienza, il suo vissuto bellico.

Tutto cominciò in quella piccola realtà, in qual paesino tra Marche ed EmiliaRomagna che probabilmente già gli andava stretto. Era ancora molto giovane quando crebbe in lui una grande passione per gli aerei, vedendoli ogni giorno volare e fare acrobazie, e fu per questo che, quando terminò gli studi all’età di 19 anni, decise di raggiungere Roma per arruolarsi come volontario nella Regia Aeronautica.

Il suo compito era quello di sorvegliare il traffico aereo dal centro comunicazioni. Così, prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale, fu mandato in Africa, dove venne assegnato all’aeroporto di Asmara. Si trovava lì all’inizio del conflitto, e questo primo periodo di guerra fu caratterizzato soprattutto dall’impatto con una dura realtà, nella fattispecie per via delle ripetute incursioni aeree dei nemici.

Decide allora di regalarmi uno degli episodi più importanti della sua vita: durante uno di questi pericolosi momenti, attardatosi nel centro comunicazioni per dare l’allarme, all’uscita del-l’ufficio si ritrovò sulla testa ben tre cacciabombardieri, tipi di aerei progettati per la distruzione in volo di aerei nemici, nonché con lo scopo di annientare gli obiettivi terrestri, sia civili che militari.

Ben tre si lanciarono su di lui in picchiata per mitragliarlo. La morte in faccia, l’ultima cosa che vide nella sua vita. Ma invece no, quando riaprì gli occhi era ancora lì, vivo: per sua gran fortuna, nella manovra, i tre caccia si ritrovarono troppo vicini l’un l’altro e, per sviare al pericoloso impatto tra di loro, dovettero fare manovra di disimpegno riprendendo quota. In tal modo mio nonno poté uscire indenne dall’attacco e tornare dai suoi compagni nel rifugio.

A seguito di questi numerosi bombardamenti il personale superstite dovette evacuare l’aeroporto. Furono così condotti sul monte africano Amba Alagi, luogo nel quale si trovavano le ultime provviste e munizioni utili alla sopravvivenza. Ce l’avrebbero fatta?

Non ci fu tempo per pensare: mio nonno e i suoi compagni furono presi prigionieri dagli inglesi solo poche ore dopo. A lungo viaggiarono via mare, giorni, forse settimane, patendo il freddo e la fame, e sempre con la paura di possibili attacchi da parte di sottomarini tedeschi da un momento all’altro. E soprattutto una domanda sempre ben ancorata in testa: dove stavano andando?

Mio nonno lo scoprì una mattina presto: si risvegliò in India, precisamente a Bhopal. Rimase lì per tre anni, tre lunghissimi anni, costretto ai lavori forzati da coloro che lo tenevano prigioniero insieme ai suoi compagni.

Successivamente la sua esperienza di prigionia continuò in Inghilterra, dove fu portato sempre via mare sbarcando a Liverpool. Da lì furono condotti in un campo a sud di Londra, dove lui e gli altri prigionieri di guerra furono organizzati in squadre per compiere lavori agricoli.

Vi rimasero per due anni, ma stavolta fu diverso rispetto all’esperienza precedente. Si trattava di campi deserti, abbandonati in quanto tutti gli uomini inglesi erano stati chiamati al fronte. Solo poche donne erano rimaste a lavorarvi, e quindi fu molto importante inserire la manodopera dei prigionieri.

Fu lì che mio nonno imparò a realizzare cestini di vimini, piccola attività che con il tempo si rivelò per lui un gustoso passatempo, lontano dal suo mondo, dai suoi aerei, ma pur sempre un gustoso passatempo.

Organizzavano spettacoli teatrali serali mio nonno ed i suoi compagni, ai civili inglesi piacevano. Lo immagino recitare come attore protagonista nell’opera scritta proprio da loro per l’occasione, “The dream of a prisoner”, tutta in inglese poi. In fondo non deve essere stato facile. Ma quelli che sembrarono probabilmente essere per lui gli anni più tranquilli di prigionia arrivarono ad un triste epilogo: nell’ultimo anno di guerra fu nuovamente condotto altrove, stavolta fu portato prigioniero in Francia. Solo nel 1945, col finire del conflitto, fu finalmente liberato, riuscendo a rimpatriare attraverso il Brennero in Italia.

          È da qui che ha inizio la sua “nuova vita”, una vita da reduce di guerra.

Mentre mi parla del suo ritorno in Italia riesco a leggere nei suoi occhi la liberazione, la vita che si accende. Mi sottolinea il fatto di aver provato una gioia immensa nel tornare a casa, come normale che fosse d’altronde. La sua è una storia particolare: i suoi familiari lo credevano ormai morto, non avendo per anni ricevuto più notizie da lui dal fronte, e fu proprio per questo che fu accolto con enorme stupore e felicità da tutti nel suo piccolo paesino tra Marche ed Emilia-Romagna. Mi sembra di immaginarlo tra la sua famiglia il giorno del ritorno a casa, forse irriconoscibile, ma non fisicamente, nella sua anima…

Gli domando del suo stato emotivo in rapporto al ritorno alla vita normale e, fiero, mi dice di essere riuscito a riprendersi subito dall’esperienza della prigionia, grazie ai suoi affetti, nonché all’ambiente ritrovato, definito da lui stesso “ancora molto italiano”, conforme ai suoi sentimenti. Inoltre fu subito reintegrato nella Regia Aeronautica, che da lì a poco avrebbe assunto il nome attuale di Aeronautica Militare, proprio per questo suo stato di reduce e per essere rimasto fedele alla patria.

Fu mandato all’aeroporto di Ciampino, dove si occupò di sorvegliare il traffico aereo internazionale, anche grazie alla sua conoscenza dell’inglese acquisita negli anni di prigionia. Perché in fondo è vero, anche dalle esperienze più dure si può infine ricavare qualcosa di utile, e con questo reintegro lavorativo fu possibile per lui ritornare alla vita normale facilmente.

Inizio allora a pensare tra me e me che purtroppo non fu così per tutti i combattenti, e che molti di loro continuarono invece per anni a vivere nel terribile ricordo della guerra, delle bombe, della morte, senza poter tornare a condurre una vita serena e con difficoltà nel raccontare la propria esperienza.

Pongo un’ultima domanda a mio nonno: “Sei rimasto in contatto con gli altri reduci al termine della guerra?

Mi risponde che all’aeroporto di Ciampino dove lavorava c’erano altri che avevano combattuto la guerra, ma non suoi ex compagni di prigionia, ed inoltre non avvertì mai l’esigenza di prendere parte ad associazioni di reduci o movimenti sindacali, nonostante molti suoi colleghi sentirono il bisogno di ritrovarsi, di rimanere in contatto dopo questa profonda esperienza di vita vissuta insieme.

         §§§

Roma, 19 gennaio 2010. “Simona Rossi sostiene l’esame con il professor Latini”.

Mi avvicino alla cattedra, ho paura delle domande che sta per pormi. Prima di me ha già bocciato tre ragazze, anche Patrizia che sta studiando da novembre per questo esame. E la tesina poi? Gli sarà piaciuta? Ho il cuore in gola e la mente annebbiata.

Mi riconsegna il mio lavoro, recante in alto a destra la nota a penna “Nonno aviatore: ok”. Insieme a questa mi porge anche il verbale d’esame. E le domande? E non mi chiede nulla sui restanti novantacinque anni del Novecento? Sono confusa. Prendo il verbale e leggo: 30 e lode.

Non è possibile, non riesco a trattenere le lacrime.

Grazie a mio nonno anche io ora sto volando in alto, molto in alto…


§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§

# proprietà letteraria riservata #


Valentina Ferrari

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