L’ultimo volo

aeroplano rosso orsettoTre amici, appassionati di volo a vela e a motore, si incontrano dopo tanti anni per volare, per la prima volta insieme, su un vecchio aereo a motore, un traino per alianti che li ha accompagnati per anni e che verrà rottamato a breve.

 


Racconto / Medio-breve Inedito; ha partecipato alla II edizione del premio letterario “Racconti tra le nuvole”, 2013-2014; in esclusiva per “Voci di hangar”

L’ultimo volo

Andrea era stato il primo ad arrivare. Come sempre. Ora era fermo, parcheggiato di fronte all’hangar, scrutando il cielo dal finestrino. Una breve passeggiata all’aperto, poi il freddo l’aveva subito ricacciato nell’automobile. L’erba era piena di brina e il tepore artificiale del riscaldamento era decisamente più invitante del pallido sole che si era appena staccato dalle colline e che ancora non svolgeva bene il suo lavoro. I suoi pensieri, vagamente assonnati, ruotavano intorno a una tazzina di caffè, ma la macchinetta automatica che aveva ispezionato nel suo breve giro all’aperto, era chiaramente fuori servizio. Aveva considerato, per un istante, l’ipotesi di uscire dall’aeroporto, per raggiungere il bar, a circa tre chilometri di distanza. Poi aveva abbandonato l’idea. Meglio restarsene fermi in macchina, al caldo, guardando il sole che, lentamente, disegnava le prime ombre sulla pista, sciogliendo la brina. Si era appoggiato al sedile stiracchiandosi, considerando pigramente lo spiazzale deserto, la porta dell’hangar leggermente arrugginita. Un vago senso di abbandono, di trascuratezza. L’erba, lungo i raccordi della pista, alta, incolta.

“Quest’aeroporto ha conosciuto tempi migliori” pensa, mentre alcune immagini si fanno largo tra i ricordi. Sono almeno dieci anni, forse di più, che non viene da queste parti. Gli viene in mente, bruscamente, la prima volta in cui era entrato nell’hangar di fronte a lui, quando aveva visto per la prima volta un aliante da vicino. Tutto era nuovo in modo sorprendente e ancora non aveva idea di quello che stava per fare, non immaginava le conseguenze straordinarie di quel suo gesto impulsivo che l’aveva spinto a cominciare a volare. Ripensa alle giornate del suo addestramento, quando affidava la sua vita a un uomo silenzioso. Calde, colorate, piene di emozioni. Il vociare degli allievi, i comandi degli istruttori. Le operazioni di controllo nell’hangar, l’ispezione delle lunghe ali bianche dell’aliante su cui avrebbe volato. La ricerca del secondo paracadute per il suo istruttore, la cui assenza avrebbe scatenato la battuta di sempre: «Col cavolo che salgo in aliante senza paracadute. Come prima cosa è vietato, poi sto scomodo e, infine, ci sei tu ai comandi …». Una delle poche frasi scherzose che gli avesse mai sentito pronunciare. Forse il suo modo di volerlo mettere a suo agio, il tentativo di attenuare quella tensione che spesso accompagna i primi voli di un allievo. Per il resto del tempo insegnava senza parlare, toccando i comandi il meno possibile. Salvandogli la vita di tanto in tanto. Poi la lunga fila di alianti allineati sulla pista di asfalto sotto il sole impietoso; gli allievi seduti sotto le ali, all’ombra, in attesa che il traino, il Bravo-Kilo, li staccasse faticosamente da terra, uno dopo l’altro. Il Bravo-Kilo. Un robusto aereo a motore, un Robin, che lo aveva portato in aria decine e decine di volte… E oggi era lì per lui.

Una telefonata di Carlo, due settimane prima, lo aveva catapultato di nuovo in quel mondo, in quell’aeroporto, risvegliando ricordi lontani. La sorpresa della sua voce, erano almeno dieci anni che non si sentivano. Poi la spiegazione di quello che stava succedendo, la crisi economica dell’Aeroclub, la decisione di disfarsi di quell’aereo, oramai troppo vecchio, sul quale non aveva più senso investire. «Alla fine del mese scade il certificato di navigabilità. Poi sarà smontato, si recupereranno gli strumenti ancora funzionanti e alla fine verrà rottamato». Un lungo silenzio. L’iniziale stupore nel sentire la voce del suo vecchio compagno di volo si era spostato sulla notizia che aveva appena ricevuto. Il Bravo-Kilo stava per esser messo a terra. Ancor più della voce del suo amico la sigla familiare di quell’aereo lo aveva riportato indietro nel tempo, quando aveva ripetuto mille volte la stessa frase: “Bravo-Kilo il cavo è teso, pronti al decollo”. Con un tremore nella voce che ogni volta stentava a dominare, lo sguardo fisso su quella fune che lo legava all’aereo di fronte a lui, aereo che a breve l’avrebbe trascinato sulla pista, strappandolo da terra. Per un altro dei suoi infiniti voli di addestramento, pieni di emozioni che non riusciva a raccontare neanche a se stesso, in giornate assolate e senza tempo, in cui tutto sembrava non avere fine. Il volo, la gioventù, la vita.

Poi le cose si erano improvvisamente ingrigite, una nuova consapevolezza aveva cominciato ad accompagnarlo. E ora quel tozzo aereo che lo aveva preceduto per i primi minuti di innumerevoli voli, quasi sempre con Carlo ai comandi, era prossimo a uscire di scena. Non aveva trovato una risposta, un commento appropriato. Si era limitato a rimanere in silenzio, con la cornetta in mano, assorto in ricordi lontani, prepotenti. Carlo, dopo poco, aveva ripreso a parlare. I discorsi si erano mescolati, avevano raccontato di loro, della loro vita, dei loro figli. Delle loro compagne, del lavoro. A tratti, quasi sottovoce, della loro salute. Poi, inevitabilmente, erano tornati a parlare di volo. Sì, Carlo ancora volava. L’estate scorsa aveva trainato gli alianti che partecipavano ai campionati europei. No, lui aveva smesso. Erano anni che non volava. Mille cose si erano messe di mezzo, ostacolando sempre di più quella sua passione che credeva invincibile. E invece, alla fine, quella moltitudine di piccoli ostacoli ce l’aveva fatta. Era a terra da tempo. L’ultimo volo in aliante l’aveva fatto sei/sette anni prima in un altro aeroporto. Con un amico ai comandi. Poi, più nulla. Un altro, lungo istante di silenzio, poi Carlo era tornato a parlare, gli aveva raccontato la sua idea. E allora, lentamente, il piano aveva preso forma.

Staccare da terra per l’ultima volta il Bravo-Kilo. Insieme.

L’idea lo aveva colpito, incuriosito e, in pochi istanti, entusiasmato. Dopo poco stavano già prendendo accordi, guardando le date. Occorreva sbrigarsi, la fine del mese era vicina e la situazione metereologica non era clemente. Alla fine avevano individuato un giorno. «E Giovanni?». Il loro terzo amico, anche lui un appassionato pilota di aliante, avevano fatto squadra centinaia di volte. «Non so» aveva detto Carlo «io l’ho perso di vista, non trovo più il suo numero di telefono». «Forse io lo posso rimediare» era stata la risposta di Andrea «lo cerco e lo avverto». Poi, un momento di esitazione: l’entusiasmo di risentirsi è ostacolato dalla sua stessa sorgente, il tempo che è passato. Un incontro tra vecchi amici è spesso accompagnato da esagerate pacche iniziali, da frasi enfatiche, pronunciate ad alta voce. Si fa rumore, per festeggiare, per dimostrarsi la contentezza dell’essersi ritrovati. E per mascherare quel vago senso di tristezza, di impalpabile imbarazzo che, a volte, accompagna questi incontri. Ma loro avevano un piano e questo semplificava le cose. Avevano fissato una data, discusso gli orari, le operazioni da svolgere. Si erano salutati allegramente, chiudendo la conversazione con qualche battuta: «Ma è sicuro che ti ricordi come si fa?».

La telefonata aveva messo Andrea di buonumore. Aveva subito cercato, senza successo, di rintracciare Giovanni. Il cellulare, inesistente o non raggiungibile, il vecchio numero di casa che squillava a vuoto. L’unico contatto era stato quello con una gracchiante segreteria telefonica, su cui aveva registrato un lungo messaggio, spiegando cosa volevano fare e lasciando i recapiti telefonici di entrambi. Niente. Giovanni era scomparso nel nulla …

«Chissà che fine ha fatto» pensa Andrea mentre si avventura per la seconda volta fuori dall’automobile. Il sole ora è più alto, il cielo azzurro, senza nuvole; solo un leggero vento, appena freddo. Mette le mani nelle tasche della giacca e si ritrova a toccare la sua licenza di volo a vela. Scaduta da tempo. “Ma perché diavolo me la sono portata appresso?” pensa stizzito. Ma è un attimo, si avvicina all’hangar, ne saggia la porta che, a dispetto della ruggine, scorre libera nelle sue guide. Il gesto, familiare, scaccia i pensieri tristi. Entra. Lo sguardo corre veloce, cerca le tracce di quello che è stato. L’aliante su cui ha preso il brevetto, un aereo di tela e legno, robustissimo, facile a pilotarsi. Altri alianti smontati, sgraziati senza le lunghe ali bianche, polvere ovunque. Molto più spazio di quanto non ce ne fosse quando ancora volava. Si aggira lento nell’ampio locale, i passi amplificati da un leggero eco metallico. Si blocca di colpo, interdetto, ipnotizzato dalla carcassa di un motoaliante, un Falk, un vecchio aereo a due posti bianco e blu su cui aveva volato molte volte d’inverno, quando la situazione metereologica rendeva inutile andare per aria con un aliante normale. Considera i vetri rotti, l’elica spezzata, l’abitacolo distrutto, un esiguo spazio in cui ha passato ore e ore infastidendo le cime innevate che contornavano l’aeroporto. Con il riscaldamento acceso. Il riscaldamento. Un lusso da aerei a motore … Cerca di immaginare cosa sia successo. Chi fosse ai comandi, quale fosse stato l’errore che aveva trasformato quel goffo aereo in un ammasso di rottami. Prova a immaginare le sensazioni del pilota mentre provava inutilmente a recuperare la situazione, l’elica che si spezzava, i rumori che avevano accompagnato l’evento … Si domanda, sottovoce, se e quanto si fosse fatto male… Rimane a lungo a fissare il posto di pilotaggio, ancora pieno di vetri. È il primo incidente di volo a cui assiste, sia pur in differita, e prova una strana, indefinibile sensazione. Non sa chi sia il pilota coinvolto, né le circostanze, né quando la cosa sia successa. Ma conosce perfettamente quell’aereo, i suoi comandi, la lentezza con cui si staccava da terra, il suo goffo comportamento in aria. La procedura per accendere il motore in emergenza, picchiando sino a quando l’aria che investiva la prua, prima a scatti, poi in modo deciso, costringeva l’elica a girare, sempre più veloce e il motore si avviava rumorosamente. Rimane fermo a lungo, la mente divisa tra i ricordi di voli lontani e le emozioni che quell’aereo incidentato gli provocava.

«Allora, che fai? Stai cercando un aliante per andare in volo senza di me?». La voce di Carlo, robusta come sempre, lo fa sobbalzare, lo strappa dai sui pensieri. Si gira, lo guarda. Si sorridono incerti, cercando le tracce del tempo sui loro volti. Carlo si avvicina sorridendo. «Certo che sì,» risponde «l’idea di mettere a repentaglio la mia giovane vita volando con te mi ripugna decisamente. Forse è meglio che lo piloti io quell’aereo». Il sorriso di Carlo si allarga mentre Andrea aggiunge: «E poi hai messo su pancia, come cavolo ci entriamo in due dentro il Bravo-Kilo?». «Giovane vita una sega» ribatte Carlo avvicinandosi ancora «guarda come sei ridotto. Dubito che tu ce la faccia a salire sul Bravo-Kilo. Figuriamoci pilotarlo, poi. Ora perché sei andato in giro due volte su un motoaliante pensi di essere in grado di pilotare un aereo vero …». Mentre pronuncia la parola motoaliante guarda di sfuggita la carcassa che è ora alle spalle di Andrea. Ha volato anche lui su quella macchina, proprio con il suo amico. Tanti, tantissimi anni prima. Strizzati come due sardine nella cabina di pilotaggio, sorvolando a lungo le montagne piene di neve. Distoglie veloce lo sguardo. Andrea ora è di fronte a lui, lo guarda negli occhi e gli dice: «Beh, su quello che so e non so fare credo che dovresti chiedere a tua sorella …». Carlo scoppia a ridere, insieme all’amico. Bene, le battute di rito sono state pronunciate, ora è possibile abbracciarsi. Si stringono forte, pacche sulle spalle. Poi si guardano in faccia, appena imbarazzati, c’è il rischio di dover parlare di cose serie, quelle che ciascuno intravede sul fondo degli occhi dell’altro. Ma Andrea ha una soluzione: «Allora, questo Bravo-Kilo?». Carlo annuisce, si avvia verso il fondo dell’hangar. Dietro un vecchio bimotore bianco, la sagoma del Bravo-Kilo, azzurra, tozza. Pieno di polvere, coperto in parte da teli che un tempo erano stati bianchi. Qualche solco sull’elica di legno, le gomme sgonfie. «Beh» dice Andrea «è ridotto più o meno come te. Solo che a lui è possibile cambiare i pezzi». Carlo sorride, ma non ribatte. È preso dall’aereo. Gli gira intorno, picchietta leggermente con un dito la tela delle ali, smuove gli indicatori di stallo. «Bene,» dice con la mente che già insegue quello che devono fare «al lavoro! Abbiamo parecchie cose da sistemare se vogliamo andare per aria». Si fanno spazio, spostano alcuni aerei e cominciano a ispezionare il vecchio traino. Livello dell’olio, spurgo della benzina, controllo della batteria che era stata messa in carica durante la notte. Andrea gonfia le gomme, poi ispezionano insieme i comandi, gli alettoni, il timone di direzione e di profondità, l’escursione dei flap. Un ultimo giro intorno alle ali. Controlli effettuati centinaia di volte. Carlo ricorda le parole del suo istruttore: «Hai fatto i controlli?». E lui: «Sì». E l’istruttore, dopo un istante: «Ma, dato che io mi voglio bene, li rifaccio». Ha capito dopo anni che non era sfiducia, era solo un modo per consolidare quell’abitudine nella sua mente, per impedire che si trasformasse in una semplice routine da poter disattendere.

Occuparsi dell’aereo li rilassa, cominciano a parlare senza prendersi in giro. Di volo e di altro. Una figlia che si è appena laureata, un figlio che ha divorziato, un bambino preso nel mezzo. E quando quello che si stanno raccontando diventa troppo personale, appena imbarazzante, cambiano argomento, tornano a parlare di volo. Hanno mille ricordi comuni, hanno spesso fatto coppia per aria. Carlo, condividendo i voli di costone dell’amico, le prime acrobazie in aliante, il primo looping della loro vita, insieme. Un lungo giro in motoaliante, proprio quello che stavano guardando prima, in una gelida giornata di febbraio, sfiorando il Corno Grande del Gran Sasso, in un mare di neve che brillava sotto il sole invernale, per poi arrivare in vista del lago coperto di ghiaccio. Oppure, un’altra volta, sul Bravo-Kilo, con Carlo ai comandi, un volo basso, bassissimo, sull’acqua ghiacciata del lago, facendo il pelo ai campanili dei paesini sottostanti, per poi salire bruscamente verso la montagna. Si era formato del ghiaccio nel carburatore, il motore aveva perso colpi, aveva borbottato per qualche minuto, per poco non avevano rischiato di trovarsi nei guai. Oramai hanno preso il via, il passato li ha travolti nuovamente, della loro vita di oggi non parlano più. Volano nei ricordi.

Finalmente l’aereo è pronto, bisogna solo fare benzina. Ma loro continuano a parlare. Per ricordare a quelle pareti fredde, di cemento e metallo, che rimandano indietro la loro voce, che loro hanno fatto, che qui un tempo si volava sul serio, si faceva il solletico alle nuvole … Prendono fiato, in silenzio per qualche istante. Si limitano a guardarsi e sorridere, immersi nel calore di quei ricordi.

«Ma guarda tu che bella coppia di checche. Cosa preferite? Vi porto del tè e pasticcini o faccio un giro di dieci minuti e vi lascio soli, in pace, così finite quello che state facendo?». Giovanni alle loro spalle. Alto, abbronzato, con un sorriso che gli spacca la faccia. Si girano di scatto, ridendo. Altre battute. «Certo che, parlando di checche, mancavi solo tu». «Non è cambiato di una virgola, a parte i capelli che ha scordato a casa: arriva sempre quando non c’è più nulla da fare …». Si abbracciano, chiedono notizie. Lui si è separato due volte, tre figli in tutto, due dalla prima moglie uno dalla seconda. Ora vive solo da sei anni. «Una favola,» dice a voce appena troppo alta «lo consiglio a chiunque. E poi, sapete qual è la conclusione più seria a cui sono arrivato dopo sei anni di vita da single?». «In realtà non vorremmo saperlo» dice Carlo «ma ho il sospetto che ce lo dirai lo stesso». «Esatto!» esclama lui «Spargete la novella: le mutande sono un capo di abbigliamento decisamente sopravvalutato …». Ride, ridono, ma c’è qualcosa dietro quegli occhi che vorrebbe essere raccontata. Forse più tardi. Poi tornano a occuparsi dell’aereo. Meglio. Ora è tutto pronto, lo portano fuori per fare benzina. Mentre spingono Gianni dice: «Ero fuori per lavoro, sono rientrato ieri sera tardi, ho sentito la telefonata solo questa mattina presto e mi sono precipitato. Ma davvero pensavate che vi avrei lasciato andare da soli sull’ultimo volo del Bravo-Kilo? Ma scherziamo? Almeno uno in grado di pilotare ci deve essere a bordo …». Ridono, ma ancora c’è qualcosa nella frase che appena non va, che torna a disturbare la situazione. E allora continuano a occuparsi dell’aereo, attaccano il cavo di massa alla marmitta, fanno benzina. Durante il rifornimento Giovanni tira fuori dalla sacca una bottiglia di Ferrari ghiacciata e, mentre la agita nell’aria, dice: «Se Carlo ha l’accortezza di riportarci a terra intatti poi festeggiamo con questa!». È il suo modo di sempre di scusarsi, di farsi perdonare delle sue ripetute assenze, del suo continuo esser preso dalle sue cose, un modo di fare che spesso mascherava l’affetto che ha per gli altri. Con le sue due ex mogli le scuse non hanno funzionato. Gli amici invece, di bocca più buona, esultano, e Andrea commenta: «Certo, dobbiamo sperare che Carlo atterrando non rompa la bottiglia».

Bene, è ora di andare.

In realtà non hanno mai volato tutti tre insieme. Tranne una volta, ma su due aerei distinti, durante un traino in cui avevano rischiato di farsi male. Tanto. Andrea e Gianni su un aliante biposto, trainati da Carlo, proprio con il Bravo-Kilo, con accanto un istruttore che doveva accertarne le competenze. Tre problemi di fondo: erano molto pesanti, c’era un forte vento al traverso e l’istruttore istruttore non era. Era solo un bravo pilota e un bravo trainatore. Ed è noto che non basta. Gli era stato affidato un ruolo a cui non era adatto. E aveva paura, aveva sbagliato. Erano passati bassi sulla rete di recinzione, completamente disallineati dalla pista. Bassi come l’ascella di un serpente nano. Sfiorando i pali di metallo. Letteralmente. Andrea, ai comandi dell’aliante, ricorda perfettamente la sua mano sulla manopola di sgancio, mentre stimava la distanza tra le ruote del Bravo-Kilo e la rete, pronto a sganciarsi se il traino non ce l’avesse fatta a passare. Carlo ricorda di aver incrociato le braccia, lasciando il destino di quell’aereo al pilota spaventato al suo fianco che li aveva messi in quella situazione. Giovanni ricorda e basta. Per un pelo. Veramente per un pelo. E l’episodio era oramai stigmatizzato da tre battute, ripetute centinaia di volte, come spesso accade quando si vuole esorcizzare qualcosa. «E a peggiorare le cose c’eri tu a pilotare l’aliante …». «Per fortuna che il Bravo-Kilo non lo pilotavi tu …». «Ma guarda questi due in che cavolo di situazione mi hanno messo. Quasi quasi ora scendo e li lascio andare per i fatti loro …».

E oggi, per la prima volta nella loro vita, si sarebbero ritrovati insieme sullo stesso aereo. Per l’ultimo volo di quel vecchio traino.

Cominciano a discutere animatamente nello spiazzale deserto, ipotizzando cosa fare per aria. Andare verso nord, arrampicandosi sulle montagne di fronte a loro, ancora sporche di neve, dove è possibile incontrare dei falchi che, con le ali immobili, si arrampicano senza fatica sulle prime correnti ascensionali della giornata. O scendere verso sud, sorvolando le colline più basse, di un verde vivido, dove la primavera, oramai alle porte, cominciava a riempire di gemme le cime degli alberi. Si prendono in giro, parlano a voce alta, ognuno dice la sua, non trovano un accordo: ogni luogo è pieno dei loro ricordi e il dialogo, sempre più confuso, si conduce mescolando le storie di mille voli diversi. In breve emerge una sola certezza: dove andare non è affatto chiaro (“Basta che non sia troppo lontano, altrimenti Carlo non è in grado di tornare indietro …”), ma una cosa è certa: è ora di staccare il sedere da terra. Poi si vedrà.

Salgono sul Robin vociando, Giovanni insiste sul portarsi appresso la bottiglia di Ferrari, “utilissima per un atterraggio di emergenza”. Litigano scherzosamente su chi debba andare di dietro, discutendo su chi sia più adatto ad affiancare Carlo, per impedirgli di fare errori. «Ma deve proprio pilotare lui? Non potremmo chiamare uno esperto?». Fanno caciara, parlando a voce alta, prendendosi in giro, sino a quando Carlo non grida: «Attenti all’elica!» e mette in moto.

Il Bravo-Kilo, quasi a voler sottolineare quanto sia fuori luogo metterlo a terra, emette uno sbuffo di fumo azzurrino e si accende immediatamente. Si azzittiscono tutti e tre, di botto. Il motore gira regolarmente, un secco scoppiettio nell’aria ancora fresca del mattino. Rullano lentamente sul raccordo laterale, tra l’erba alta. Arrivano in fondo alla pista, si allineano, il ruotino centrale in mezzo alla scritta 17, il lungo nastro di asfalto di fronte a loro. Una chiamata radio per segnalare le loro intenzioni. Completamente inutile, non c’è nessuno in giro, né in aria né in terra. Il motore è oramai caldo e Carlo preme a fondo i freni, porta il motore al massimo dei giri, per cinque secondi. Vibra tutto, un rumore assordante, ma lui è soddisfatto. Poi toglie gas. «Com’era» dice con un ghigno mentre stringe la cloche «avanti per scendere, indietro per salire, sinistra e destra per girare?». Un rapido sguardo agli strumenti, un ultimo controllo, poi lascia i freni e dà tutto gas. L’aereo comincia a muoversi, prendendo pian piano velocità. Carlo, seguendo un’abitudine di sempre, controlla la situazione nello specchietto retrovisore, cercando un aliante che, questa volta, non c’è. Incontra, invece, lo sguardo divertito di Andrea che gli fa una smorfia dai sedili posteriori. Allora si gira a guardare Giovanni, al suo fianco, anche lui con la faccia sorridente mentre stringe in mano la bottiglia di Ferrari, come a dire: “Dopo brindiamo, dopo parliamo. Ma ora andiamocene per aria …”. “Ma possibile che non ci si stanchi mai di volare?” pensa d’un tratto, mentre la consapevolezza di quel volo, dell’essere di nuovo insieme a due amici di sempre, del fatto che quella è l’ultima volta che pilota il Bravo-Kilo si fa strada in modo prepotente dentro di lui.

La prima volta insieme per aria, per salutare un vecchio traino che li ha accompagnati per anni.

Poi viene preso dall’urgenza del momento, si concentra sui comandi, mentre gli amici continuano a prenderlo in giro. L’aereo, oramai veloce, corre sul centro pista con la coda alzata, sobbalzando, sempre più leggero, rincorrendo la sua ombra che il sole alle spalle spinge più avanti di lui. L’ombra, ignara del chiacchiericcio che si svolge nell’aereo dietro di lei, scivola veloce sull’asfalto, adattandosi senza esitazioni alle piccole gobbe e crepe della pista, inseguita dal Bravo-Kilo che arranca, senza guadagnare un centimetro. Una gara che non potrà mai vincere. L’asfalto si consuma sotto le ruote, unico punto di contatto tra l’aereo e l’ombra e, dopo circa trecento metri, Carlo solleva la prua, staccando il traino da terra.

L’ombra continua a correre, prigioniera, sul terreno, mentre il Bravo-Kilo comincia salire e vira verso il sole. Dopo poco è solo un minuscolo punto nel cielo.


 # proprietà letteraria riservata #


Giuseppe Santucci

L’autobus volante

aereo giallone“L’autobus volante” è un breve racconto basato sulla fantasia nel quale si associano una serie di valori legandoli tra loro grazie ai concetti di speranza, amore e giustizia. Il protagonista è Vanni, un giovane sognatore che, per puro caso, si ritrova immerso proprio in un sogno ed in questo sogno si parla dell’uomo, della guerra, della solidarietà.


Racconto / Medio-breve Inedito; ha partecipato alla II edizione del premio letterario “Racconti tra le nuvole”, 2013-2014; vincitore del premio speciale offerto dalla rivista “Volo sportivo” per la migliore idea; in esclusiva per “Voci di hangar”

L’autobus volante

Gli piaceva sognare, sognare ad occhi aperti. Gli bastava aprire quei grandi occhi cerulei per ritrovarsi ad esplorare mondi inconsueti, di nessun altro se non suoi … suoi e basta! Era stato proprio per meglio viaggiare in quei mondi fantastici che in un caldo pomeriggio di primavera Vanni aveva deciso di metter su casa in un vecchio autobus in disuso, uno di quelli di un tempo che fu, dalla carcassa color verde oliva. Il sole picchiava duro quel giorno di maggio; l’asfalto sembrava fumare sotto ai suoi piedi stanchi e fu allora che Vanni si accorse di quel torpedone dai fari tondi simili a due occhi tristi e dalle gomme sgonfie come piedi indeboliti dal tempo impietoso. Egli si avvicinò e, con circospezione, introdusse la testolina al di là di una delle porte aperte così da poter perlustrare velocemente l’interno del mezzo. Nulla vi era dentro e la cosa sembrò sollevarlo parecchio, così salì a bordo spedito. Aveva camminato parecchio, Vanni, e proprio per questo, non appena entrato in quell’abitacolo squallido e tuttavia accogliente, si distese sui seggiolini che componevano l’ultima fila e si mise a pensare osservando la vecchia obliteratrice, particolare che gli fece ripensare al suo primo viaggio in autobus da solo, a 10 anni, per puro spirito di indipendenza. Batté le palpebre una volta, poi una seconda e, alla terza, dopo un lunghissimo sbadiglio, stanco come non mai, si addormentò profondamente.

Come per magia le porte si chiusero, i motori si accesero e le gomme, di colpo rinvigorite da un getto d’aria imponente, tirarono su quella carcassa stanca. Due colpi di clacson, uno di acceleratore e tutto fu pronto sotto lo sguardo sbigottito del ragazzo. svegliatosi da tutto quel fracasso. Vanni si stropicciò forte gli occhi, quindi udì una voce provenire nitidamente dal vano motore: “Ehm … prova! Ci scusiamo con il nostro unico passeggero per gli improvvisi cali di voce cui saremo soggetti … ma le nostre cinghie vocali potrebbero essersi danneggiate durante questi lunghi anni d’inattività, pertanto le consigliamo di prendere posto sul sedile del conducente e di tenersi forte: potremmo incappare in fastidiose turbolenze!”. “Turbolenze? Ma se in strada il sole sembra cuocere ogni cosa e di vento non c’è neppure l’ombra!” replicò Vanni d’istinto. “In strada no … ma in cielo … chi lo sa?” rispose, misterioso, l’autobus. “In cielo?”. Fu proprio in quell’istante che il bus si mosse cigolando un po’ qua e là emettendo una gran nuvola di fumo grigio. L’avvio fu molto lento ma sempre più deciso. Vanni osservava tutto con incredulità ma con sempre maggior curiosità. Decise di stare al gioco. “Dove si va?” chiese con tono di sfida. “Voglio farti vedere una cosa” gli rispose il mezzo con voce pacata e poi aggiunse: “Credo che tu non sappia tantissimo di ciò che avviene nel mondo. Sei così giovane!!”. “Può darsi, ma si può sapere dove andiamo?” tornò a chiedere Vanni con tono un po’ più preoccupato e meno spregiudicato di prima. “Non preoccuparti! Pensa solo a rilassarti: al resto penserò io!” concluse la voce. Vanni si tenne saldamente ai braccioli e chiuse forte gli occhi. Quando fece per riaprirli si sporse leggermente dal finestrino alla sua sinistra e rimase di sasso. L’autobus sembrava avvolto da un gran batuffolo di bambagia. Il ragazzo non capiva dove si trovasse ma una risposta ai suoi dubbi giunse non appena il vecchio mezzo pubblico riuscì a liberarsi da quello strato di morbida consistenza. Con tono sempre più allarmato quasi urlò sobbalzando dal sedile: “Ma quella è la Sicilia! Mi sembra di guardare un mappamondo! A che altezza siamo?” “In alto! Molto in alto ma solo mantenendoci così alti riusciremo ad accorciare notevolmente i tempi. Di strada da fare ne abbiamo ancora tanta!”. Vanni provò a non far più domande; già che c’era voleva vedere come sarebbe andata a finire quella situazione così strana. Sentì un rombo via via più imponente, fortissimo, poi un suono come di tromba da stadio “PARAPARAPPAPPARAPA’”. Si voltò nuovamente e si trovò a pochi metri da un “Jumbo” che gli parve immenso. Quasi fuse la sua fronte al vetro del finestrino e focalizzò il pilota dell’aereo che si sbracciava come un vigile urbano al centro di un incrocio. Il pilota abbassò il vetro ed urlò: “Se vi fate un attimo da parte magari noi riusciamo a passare!!” A Vanni venne da ridere perché mai avrebbe pensato ad una situazione simile. Dall’autobus la solita voce replicò: “Ma se il cielo è così immenso … !!”. “Si, è immenso”, gli rispose il pilota ad alta voce ma con garbo, “ ma, per mille cornacchie!!! Vi siete messi proprio in mezzo alla nostra rotta!!”. L’autobus, con uno scatto nervoso virò stretto e, finalmente, il “Jumbo jet” passò. Vanni continuò a seguire con lo sguardo l’enorme aereo che si allontanava e notò il braccio e la mano del pilota fuori dal finestrino a mo’ di saluto, in segno di ringraziamento. Anche il loro viaggio riprese, ma più lentamente. Da quell’osservatorio privilegiato, vide mari e monti, meravigliose tinte ed uniche sfumature di verde e di azzurro ed ancora vide foci di fiumi e picchi innevati, coste schiumose e sabbiosi deserti senza fine. Viaggiarono e viaggiarono ancora lambendo le vette più alte. Fu proprio a quel punto che Vanni si ritrovò catapultato verso la sua destra e, mentre stava per protestare per quella manovra azzardata, nuovamente verso la sua sinistra fino a ritrovarsi col sedere nel corridoio, sul duro pavimento del torpedone. “Che succede, adesso?” chiese Vanni. “Sono gli uccelli migratori! Abbiamo beccato un grosso stormo e ci siamo ritrovati proprio in mezzo a loro ma, come avrai notato, l’ho schivato brillantemente come un pugile sul ring sotto i colpi del suo avversario”. “Sì” proseguì Vanni, “ma, caro il mio pugile, ti sei accorto di quel pennuto con la zampa incastrata nel tergicristallo?”. “Oh … mamma mia!!” fu tutto quello che l’autobus riuscì a dire. La grande spazzola iniziò a muoversi alternativamente da destra a sinistra nel tentativo di consentire all’uccello di divincolarsi ma l’operazione non andò a buon fine. Vanni vide un nugolo di penne e piume sollevarsi in aria finché non scorse quel grosso uccello, un po’ stordito, riprendere il suo volo. Finalmente l’autobus si decise a rivelare: “La nostra destinazione è Kabul, caro amico, ma non aver paura: saremo prudenti!”. “Perché proprio una città così pericolosa?” chiese il ragazzo. “Perché dietro a tutto quello che hai visto in tv … beh … potrebbe nascondersi altro”. Vanni annuì fiducioso, appoggiò il capo sul vetro del finestrino e, piano piano, sbadiglio dopo sbadiglio, s’addormentò. “Guarda!!” fu l’esclamazione che lo ridestò. Vanni si stropicciò gli occhi e guardò l’orologio: era fermo! Pensò d’aver sognato ma gli bastò tornare a guardare di lato, attraverso il vetro alla sua sinistra, per rendersi conto che non era affatto immerso in alcun sogno. “Quello lì è un ospedale. Siamo arrivati! Aspetta, atterriamo!”. Il pesante mezzo, leggiadro come fosse un foglio di carta in balìa del vento, fece per girare attorno a sé stesso, poi puntò deciso verso terra. Il passeggero si tappò gli occhi con le mani, impaurito ma anche impaziente di comprendere ciò che non aveva ancora capito. Quando l’autobus toccò terra, finalmente, il ragazzo udì un forte soffio, quasi un enorme sospiro provenire dal motore mentre la voce che gli aveva tenuto compagnia durante quel viaggio dalla durata indefinita riprese a dire, con foga e convinzione: “Vedi? Dietro a quelle mura vi è solo dolore, vi è solitudine, povertà. Dietro a quelle mura vi è l’oscuro lavoro, mai raccontato, di tanta gente generosa che quotidianamente rischia la vita anteponendo la sofferenza degli ultimi, degli ammalati, degli abbandonati ma, soprattutto, ci sono centinaia di occhi come i tuoi: occhi speranzosi che avrebbero potuto creare, inventare, comporre e che, invece, non sono più capaci neppure di comprendere che anch’essi possono aspirare ad avere un domani. Vorrei che ciò ti facesse rendere conto che dietro agli imponenti proclami di giustizia e di nobili propositi raramente attuati può esserci tanta ipocrisia, il dolore mai valutato abbastanza della gente comune, c’è la sofferenza, la morte ma, soprattutto, c’è il potere ed il denaro di chi usa questa gente nascondendone al mondo intero le inumanità subite”. Poi, d’un tratto, la voce si calmò, si abbassò ed aggiunse: “Adesso, se vuoi, ripartiamo”. “No! Io rimango” fece Vanni fiero, issandosi sulle sue gambe col petto tronfio e gonfio di entusiasmo. “Rimango anch’io” replicò il vecchio bus. I fari si spensero come il motore, le porte si aprirono e da quel magico bus corse fuori un nuovo combattente, più forte che mai, deciso ad inondare d’amore e di sogni tanti altri giovani, potenziali sognatori, proprio come lui.

Un rivolo di sudore scese lungo la sua tempia sinistra fin sulla sottostante guancia e lo solleticò fino a costringerlo a riaprire gli occhi. Vanni si drizzò sul sedile, lo sguardo corrucciato e i capelli scompigliati di chi aveva dormito profondamente ed aveva sognato … un sogno che gli era parso fin troppo vero. Ancora solo, all’interno del vecchio bus, si sollevò sulle gambe e si avviò verso la porta più vicina; la oltrepassò, si voltò ancora una volta a guardare quel mezzo che lo aveva così ben ospitato e si diresse verso un bar, dall’altra parte della strada. “Buongiorno” fece Vanni entrandovi e rivolgendosi alla cassiera, “ha mica un elenco telefonico?” “Certo! Tenga!” rispose lei porgendoglielo. Deciso come non mai, il giovane lo sfogliò fino a che non trovò ciò che cercava: “Ecco! … Emergency!! 06-688151”. Copiò il numero nella rubrica del suo telefonino ed andò via, complice lo strano sogno che aveva fatto, a dedicare la propria vita agli ultimi, in un paese lontano, laddove però, è molto difficile arrivare con un vecchio autobus volante!


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Ivan Trigona

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