Il gesto

    [ Capita che l’uomo, anche se mutilato di ciò che e’ suo, continui a vivere e poi rinvigorisca ciò che gli è rimasto. Come una pianta che potata, cresce nuovamente e prospera con un unico scopo: unirsi al cielo sopra di sé. ]  

 

Bello il tempo al suo variare in quei giorni in cui l’estate lascia il posto alla nuova stagione. Il sole ancora caldo sembra amico finché una nube, più veloce dell’ancora lontano fronte scuro e minaccioso, lo copre. Ed allora, solo allora, provi una prima sensazione di freddo, repentina e veloce, come la corsa della nuvola che presto si scosta. Subito risenti la pelle scaldarsi come se nulla fosse stato. Guardi la parte sgombra del cielo, luminoso e fulgido con i raggi che scintillano sull’acqua del mare come tante stelle, ma là in fondo il fronte avanza e segna la nuova stagione.

Così vedeva Luca il cambiare del tempo in quei giorni sulla costiera.

Quel pomeriggio si era recato su, al bastione saraceno. Aveva percorso prima la lunga strada lastricata ed infine era arrivato al castello dove erano state antiche fortificazioni per le lunghe notti di veglia delle sentinelle. Il lato del bastione che dava sul mare era imponente, aveva resistito al tempo ed alle tempeste, e da lì si potevano ammirare di pomeriggio, quando il vento soffiava tiepido,i marosi che impetuosi si frangevano sulla scogliera, improbabile punto di approdo di invasori e nemici.

Sulla cuspide di roccia all’estremità destra del bastione stava la torre.

Lì si poteva osservare lo spettacolo dei gabbiani che giocavano con il vento. Il vento, batteva sull’alto muraglione, e poi fuggiva, veloce e verso l’alto, e così gli scaltri uccelli si avvicinavano alle mura rasentando le onde per poi salire in traiettoria verticale e senza un battito d’ala. Passavano a pochi metri dallo sguardo di Luca che li ammirava nell’imponenza della loro apertura alare e mentre muovevano la testa a destra e a sinistra, con fare noncurante, come a godersi il paesaggio durante un riposo. Arrivati molti metri più in alto il vento li lasciava, ed ecco allora che loro muovevano un’ala in maniera impercettibile e con un’ampia virata, morbida ed elegante tornavano indietro, giù in basso, a rasentare nuovamente le onde, per ripetere il carosello senza fine.

Guardò in alto Luca a seguire il volo di uno di essi, poi portò mani vicino alle labbra, con le palme aperte, come ad amplificare il suono che avrebbe emesso, infine lanciò verso il cielo un verso simile al grido ed al gracidio. Lo aveva imparato da un suo amico pescatore che talvolta accompagnava nelle sue uscite in mare. Si alzavano la mattina con il buio, uno per vivere, l’altro per divertirsi, ed uscivano in mare con il gozzo. Il pescatore, aveva insegnato a Luca nelle brevi pause dopo mangiato, come fare ad imitare quel verso. In realtà non chiamava i gabbiani, ma chiamava un gabbiano che con il passare del tempo era diventato suo amico e compagno di pesca. Quando il gabbiano era presente nella moltitudine che volava sopra la sua testa, allora gli rispondeva.  Così Luca aveva imparato a sua volta a chiamarlo, a riconoscerne le fattezze ed in qualche modo ad esserne amico e compagno. Poi il pescatore partì, tirò il gozzo a secco in un posto riparato ed emigrò dove gli sarebbe stato più facile vivere. Luca, fortunato, era rimasto, e con lui era rimasto anche il gabbiano che saltuariamente rispondeva al suo richiamo al bastione. Quel giorno probabilmente il gabbiano era altrove e quello che Luca aveva creduto di riconoscere non era altro che un semplice volatile.

Luca ammirava la perfezione del volo di questi uccelli. La gestualità naturale che li portava a compiere evoluzioni, a vivere nel vento e a sorprenderlo con la loro eleganza nei giochi al bastione. Tanti anni prima, da giovane, Luca volle provare la sensazione del silenzio che solo nel vuoto si può sentire. Si imbracò, salì e saltò. La delusione fu grandissima, non riuscì ad abbracciare l’aria come avrebbe voluto; il suo essere uomo lo aveva richiamato alla paura del vuoto e così si rannicchiò in posizione fetale finché non rimase appeso ad un paracadute che gli dava la sensazione di galleggiare nel vuoto. Nel silenzio, si certo, nel più profondo silenzio, però in una maniera che era un trucco e non certo la perfezione del volo.

Gli rimase il sogno. Capitava a lui di sognare di volare, ed ecco che con le braccia aperte e senza minimo battito volava e picchiava verso le onde e la spiaggia per poi cabrare e stallare e riprecipitare in un gioco senza fine. E sempre nello stesso sogno, a volte, si vedeva dall’esterno, sgraziato, nudo, volare con le sembianze rigide di un Cristo tolto dalla croce. Non era importante volare, ma come volare. Apparteneva definitivamente alla terra.

Si accorse che anche l’acqua era pur simile all’aria e che anche il più elegante nuotatore, sbuffava, digrignava, sbatteva sull’acqua delle membra per un risultato davvero misero. Si appassionò cosi ogni giorno di più alla gestualità e cominciò a scrivere l’alfabeto.

Dapprima minuscolo, poi maiuscolo, poi le parole ed infine a scrivere da sinistra a destra e da destra a sinistra. C’era una frase, che in particolare sapeva scrivere con un’eleganza che raggiungeva per lui la perfezione della calligrafia. Presto dovette però soccombere anche a ciò e capì che erano solo dei diversivi, dei rivelatori per qualcosa di più grande che doveva invece appartenere all’uomo in qualche parte della sua esistenza. Probabilmente ciò era nella quotidianità, nei gesti più semplici, nel raggiungere la perfetta consapevolezza del momento presente, senza il passato a turbare la mente, senza il futuro con false chimere a distoglierci dall’attimo. Quello che vedeva intorno a sé era invece un tumulto di pressioni, persone che rimbalzavano, spinte, tirate, strattonate in una rappresentazione di disordine universale.

Si avviò verso casa, un po’ preso dai suoi pensieri ed un po’ contento di essere stato al bastione. Costeggiò il molo del piccolo porticciolo che nel pomeriggio riparava le barche dal mare agitato e vide giù presso una grossa bitta Andrea.

Andrea era un vecchio, suo amico, con il quale divideva un po’ del suo tempo quando poteva e quando lo incontrava giù al molo a pescare. Andrea era cieco, lo accompagnava lì la nipotina, sebbene fosse in grado di arrivarci anche da solo, e stava seduto sulla sua seggiolina a pescare in silenzio e con i suoi occhiali scuri ed il cappello di paglia. Era vestito sempre in maniera molto semplice, con una camicia vecchia, ma pulita, ed i pantaloni ricuciti qua e là. Sicuramente non era ricco, ma pieno di dignità e portamento. Pescava con una vecchia canna di bambù, di tipo oramai introvabile e di cui lui si vantava non avere spezzato il cimino da anni. La montava lentamente e con gesti misurati riusciva a trovare la scatola posta per terra, lì vicino, che conteneva la lenza. La prendeva, la annodava e si preparava a gettare l’esca.

Luca si avvicinò ad Andrea e lo salutò, con la voce piuttosto fioca, come si usa con i pescatori. Andrea si voltò e sorrise mostrando tutto il disegno delle rughe sul volto. “Come và?” disse Andrea. “Bene, sono stato al bastione” rispose Luca. “Al bastione, a sentire i gabbiani ” mormorò il vecchio quasi fra sé. “Sì, a vedere i gabbiani” rispose Luca. Andrea pescava seduto, con i gomiti appoggiati alle gambe e proteso leggermente in avanti e tenendo la canna lievemente, quasi in equilibrio nella mano destra. Non usava il galleggiante, era oramai diventato attentissimo ad ogni minima vibrazione e ciò gli bastava. Passavano il tempo senza parlare troppo, a volte basta la presenza per capirsi.

Ad un tratto, senza alcun preavviso, Andrea mosse il polso in maniera decisa ma non strattonata ed accompagnò il movimento alzandosi in piedi. In quel momento Andrea aveva in mano la canna che era piegata in un’ampia curva e la teneva con padronanza, salda, e seguendo il pesce con piccoli movimenti a destra e a sinistra.Teneva la lenza sempre in tensione, ma senza strapparla e questa, invisibile, univa il vecchio, che apparteneva alla terra, dalla curva del bambù fino in acqua dove, forte ed elegante, un muggine lottava per la sua libertà. Portò il pesce fin sotto, ed infine con maestria lo tirò fuori dall’acqua, e lo posò sul molo. Appena la tensione della lenza venne meno il pesce si slamò: guizzava per terra, senza più alcuna bellezza, alla ricerca disperata dell’acqua. Allora Luca vide Andrea davvero cieco, senza più sguardo, fisso davanti a sé. Si chinò, bagnò le mani sul pelo dell’acqua, prese il muggine e lo buttò in acqua.

Clock. Un rumore secco, armonioso. Il pesce con un solo movimento rapido ed elegante guizzò via. Andrea, noncurante della sua cecità, aveva compiuto tutto come se fosse stato un rito del gesto e Luca l’aveva finalmente percepito nell’attimo del suo svolgersi.

Si sedette nuovamente, Andrea sorrise a Luca e cominciò a smontare la canna da pesca, poi si volse verso di lui e gli disse: “Domani mi porti al bastione, a sentire i gabbiani …”

 


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Roberto Tosato

Volo cieco

Capita di trovarsi in aria un tardo pomeriggio agostano ed aver voglia di giocare con un cielo che alterna zone di sereno a cumuli e temporali, tanto per “vedere” quanto sei allenato a cambiare rotta in situazioni di visibilità ridotta e mantenere i riporti senza Gps tra le colline. Capita di divertirsi molto e rimanere a bocca aperta dinnazi alla maestosità di un temporale che incappuccia l’Argentario, con il cumulo che si sfilaccia sopravvento ma resta imponente e compatto dall’altra parte. Capita di perdersi nello spettacolo dei lampi che squarciano il buco nero, mentre a lato il sole splende basso e brilla sul mare schiacciato dal vento. Poi capita di sentire un qualcosa nell’occhio e, come fatto migliaia di volte prima, strofinare la palpebra con la lente a contatto sotto. Così capita di sentire una stilettata, non vedere più nulla da quell’occhio, cominciare a lacrimare abbondantemente, al punto che la guancia, la barba e la maglietta sono zuppe. Così, dopo oltre un’ora di volo divertente, sereno, entusiasmante per il continuo cambiamento della natura, desideri solo essere a terra, strappare via quella lente maledetta e sostituirla con gli occhiali. Ma non puoi perché, talmente abituato alle lenti a contatto, non hai portato gli occhiali. Nel frattempo, tra dolore, lacrime, malessere generale che ti prende anche lo stomaco, sei arrivato a Tarquinia e decidi di rientrare all’Urbe. Il dolore dall’occhio si propaga alla guancia ed anche dall’altro la visione è fortemente pregiudicata dall’istintiva tendenza a chiudersi, certamente non migliorata da una lacrimazione a fontana ormai diffusa. Dalle parti del Soratte cominci a preparare l’atterraggio. Ti rendi conto di non avere la solita percezione della profondità ma, sopratutto, di non riuscire a sbirciare l’anemometro mentre guardi fuori. Oltretutto il bastardo è proprio a sinistra del pannello, dalla parte dell’occhio balordo. A Passo Corese ti metti per 210°, si fa meno fatica a guardare il direzionale che fuori, ma la gentile operatrice di torre ti informa che hai due traffici davanti. Guardi e riguardi ma, una leggera foschia esterna e la nebbia che si diffonde nel tuo visus, non ti fanno vedere altro che il muso ed il suolo. Avanzi con l’attenzione di chi ha le spille negli occhi ma anche sotto il posteriore. Aneli un diretto liberatore, eppure per una volta il circuito standard ti sembra più logico, o forse è solo la voglia di ritardare al massimo il momento finale. I controlli di sottovento diventano ossessivi. Fortunatamente si atterra con il sole di lato, a destra, quasi alle spalle e almeno questa è una buona notizia, visto che il dolore diventa quasi insopportabile con la luce diretta. Decidi di non procedere ad un atterraggio standard. Non sei in condizione di gestire assetto, quota, velocità, in modo da fare un corto pennellato. Due tacche sole di flap, velocità di avvicinamento + 10 nodi, un po’ piatto, motore a sostenere. Il finale lo conosci, i serbatoi sono a pochi secondi dalla pista che intuisci più che vedere realmente.Tagli il motore solo quando sei all’inizio dell’asfalto, retta un po’ più in alto del solito, che non saresti in grado di valutare correttamente niente di più basso, sfrutti la velocità in più e l’effetto suolo per farlo “accomodare” giù, anche se la pista scorre via, il fatidico “terzo” è arrivato e la tentazione di riattaccare è tanta. Un pelo di ala a destra che c’è un po’ di vento … contatto. Hai paura a toccare i freni perché il malessere è forte e la nebbia davanti agli occhi tanta. Lasci correre lungo la striscia bianca, fregandotene di mostrare quanto sei bravo a liberare sul primo raccordo. Smaltisci e freni in sicurezza. Finalmente esci. Il rullaggio al parcheggio è un calvario contro sole. Non hai tempo per compiacerti, caduta l’adrenalina il dolore ti assale ancor più bastardo. Strappi via la lente ma è troppo tardi. Qualche ora dopo esci dal pronto soccorso oftalmico con un occhio tappato, una diagnosi di profonda abrasione della cornea, una prognosi di otto giorni e la maturata sensazione di essere un cogl…e. Gli occhiali di scorta avrebbero evitato tutto questo.


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Roberto Talpo

Passeggero per forza – V parte

(Guida per tutti i fifoni del volo)

 

IL BATTESIMO DELL’ARIA

“Uccelli in cielo, pesci in mare, uomini in terra.” (ERMANNO TANZI)

Al primo volo ti senti come uno che si presenta in bermuda e ciabatte alla prima della Scala. Però non te ne accorgi subito. Si tratta di un processo lento e inesorabile che mette impietosamente a nudo la tua inesperienza di neofita, e ti fa sentire prima ridicolo, poi imbranato e sempre fuori posto. Dopo essere arrivato in aeroporto con quattro ore d’anticipo il neopasseggero si riconosce dal fatto che non usa il carrello per i bagagli, perché o non ne conosce l’esistenza, o non si fida della novità, così soccombe sotto il peso delle proprie borse ansimando come un maniaco mentre se le trascina per l’aeroporto; le valige sono sicuramente troppe e troppo morbide, cosicché finiranno pressate nella stiva fra i bauli corazzati ultimo modello dei passeggeri esperti, e, al ritorno, quando verrete accusati di contrabbando di diamanti, sarà imbarazzante spiegare che si trattava di un vaso di cristallo boemo intero comprato a Praga. Se vedete la coda alla cassa del duty-free, noterete subito il neofita che, rosso in viso ed impacciato, fruga nel marsupio che tiene sotto la camicia, che è sotto la felpa, che è sotto la giacca a vento, alla ricerca del biglietto aereo che aveva prudentemente nascosto, e che la cassiera gli ha appena chiesto. Il fatto è che non conosciamo le regole e diventiamo facilmente riconoscibili: già alla partenza abbiamo borse di plastica ricolme di articoli comprati al duty-free dove ci siamo fatti travolgere dal miraggio del falso risparmio. Oppure stiamo sarcasticamente ridendo di “quell’idiota” in fondo al corridoio che ha comprato borse di oggetti e sarà costretto a portarseli per tutto il viaggio, mentre noi “furbi” faremo acquisti al ritorno. Tutti noi, la prima volta, abbiamo scoperto che il duty-free c’è solo all’aeroporto di partenza. Al mio primo volo ho commesso i tre errori di ogni debuttante: bar, edicola e bagaglio a mano; in aeroporto: caffè, brioche, pizzetta, ventimila. In aereo ti rimpinzano gratis come un maiale all’ingrasso, ma tu sei già pieno e il portafoglio già vuoto. A terra ti compri ogni sorta di giornale per passare il tempo e poi scopri che a bordo li distribuiscono gratuitamente, e ti senti un coglione. Poi c’è il bagaglio a mano: il neofita non ne ha, perché scopre a cosa serve solo quando a New York lo informano che la sua valigia è finita in mano a una tribù di aborigeni dell’Australia orientale. Questo è lo scotto da pagare al battesimo del volo, ma ci sono anche piacevoli scoperte cui il passeggero va incontro come il bimbo che scopre il mondo per la prima volta. Chi di voi, arrampicandosi sulla scaletta dell’aereo con quella velata angoscia nel cuore di chi sta per sfidare le leggi della gravità, non ha pensato fra sé e sé “Quant’è grosso sto coso! Ma come cazzo fa a volare?” E proprio mentre cominci ad essere assalito dai grandi dubbi della vita e ti sta balenando l’idea di girarti, scendere e prendere il treno, ecco che d’incanto ti appare il paese dei balocchi: hostess sorridenti in minigonne dagli spacchi improbabili, steward alti e biondi dai denti perfetti, ti accolgono salutandoti nella tua lingua. E così ti distrai ed entri, attratto come Ulisse dal canto delle sirene. Solo più tardi capisci che il personale delle compagnie aeree è diviso in tre categorie: quelli belli che ti accolgono sulla porta, quelli brutti che stanno all’interno, e quelli intelligenti che lavorano a terra. Ma ormai il portellone è chiuso e tu sei a bordo. La durata del volo è scandita da tre o quattro occupazioni abbastanza ripetitive e scontate: i primi venti minuti ti lasciano in pace, perché tutti sistemino i bagagli e trovino il loro posto, così puoi osservare l’umanità che ti circonda e sospettare che l’arabo con occhiali scuri e valigetta sia un dirottatore palestinese. L’altro fattore di preoccupazione è la poltrona vuota al tuo fianco e così speri che l’obesa signora sudata e ansimante che sta lentamente avanzando nel corridoio non tocchi proprio a te. Scherzi a parte, l’importante è che il vicino non sia invadente e chiacchierone; se comincia a fare domande dategli una botta in testa subito, tanto vi verrebbe lo stesso la voglia di farlo dopo un’ora, almeno guadagnate tempo. Personalmente, quando sono su un aereo, dal momento in cui mi siedo fino all’atterraggio, soffro come un cane, mi pietrifico, smetto di muovermi, di parlare, di respirare, e non c’è cosa peggiore di avere al fianco un rompiballe che non conosci, che non vuoi ascoltare e che ti informa che secondo lui manca un bullone sull’ala che vede dal finestrino. Una volta esaurito il rituale della consegna dei posti, le mosse delle Compagnie aeree per distrarti si susseguono in studiata sequenza: prima lasciano agire l’istinto fanciullesco insito in ognuno di noi, così a loro basta riempire di balocchi il tascone del sedile davanti a noi per farci sentire come da piccoli la mattina di Santa Lucia davanti ai regali da aprire. In quelle condizioni siamo innocui. Ciascuno di noi abbandona ogni pensiero attirato da gadgets, riviste, oggetti, che escono senza fine dal magico tascone modello Eta Beta, ed estrae coperte, giornali, profumi e balocchi, ed annusa, assaggia, legge e soprattutto imbosca. Sparisce il bimbo emozionato dai regali ed appare il ladro consumato. Tutti vogliamo un ricordino, così vedi insospettabili distinti signori nascondere mascherine da notte che non useranno mai. Se c’è qualcuno di voi che non ha rubato qualcuno degli oggettini da tascone è solo perché in preda all’euforia da atterraggio e alla smania di scendere si è dimenticato la refurtiva sul sedile. Inebriato dai balocchi che ti circondano non ti accorgi del decollo e per continuare a distrarti dal fatto che il tuo sedere viaggia a diecimila metri dal suolo, le sorprese proseguono con l’arrivo del carrello dei giornali, che il neofita prima rifiuta, poi rincorre disperatamente una volta scoperto che è gratis. Dopo aver cercato affannosamente la Gazzetta dello Sport (che non c’è mai), il Corriere (finito), la Repubblica (in sciopero), si accontenta di una copia del Frankfurter Allemander pur di poter arraffare qualcosa; non sa una parola di tedesco, ma è soddisfatto del bottino. Sui voli a lunga percorrenza non potrebbe mancare l’emozione del cinema e dopo un’oretta di viaggio cominciano a proiettare film con audio selezionabile in tutte le lingue, dal cinese mandarino all’antico indù, dall’esperanto al geroglifico egizio, tutte tranne la nostra. Per distrarre noi italiani ci sono le hostess e il cibo, il problema è che abbocchiamo all’amo facilmente: fra tutte le teste che fissano lo schermo del cinema, siamo gli unici che allungano il collo a giraffa per vedere lo spacco della hostess che è appena passata nel corridoio. Quando transita il carrello delle bevande, facciamo incetta come profughi, nascondendo le lattine nello zaino, senza aprirle, per avere la scorta e soprattutto perché è gratis. Svuotato il tascone dei giochi, sbirciate le figure del giornale germanico, visto ma non sentito il film in prima visione, è ora di pranzo. Mangiare sull’aereo è come fare bricolage: o ci sei portato o t’incazzi dopo un minuto. I problemi sono tanti e tutti insieme: lo spazio è quello che avresti con una camicia di forza chiusa bene, il gusto del cibo varia tra il sapone aromatico e il plastica fredda tanto che spesso ci mangiamo le posate senza accorgercene. Il passeggero affamato si trasforma in un equilibrista senza speranza, solo il campione mondiale di puzzle riesce a coordinare perfettamente la vaschetta del pollo con il bicchiere dell’acqua, il panino con la porzione di dolce, e riuscire a incastrare tutto in precario equilibrio sul tavolino di plastica lillipuziano. Da qui in avanti ci vuole solo fortuna, perché basta un colpo di tosse tre file più indietro perché la macedonia travolga il ragù di carne e il panino cada a terra rotolando fino alla cabina di pilotaggio. Solo dopo aver provato l’esperienza del pranzo a bordo si comprende esattamente perché è tutto gratuito: se vi facessero pagare il conto morsichereste la prima hostess a tiro. Un capitolo a parte meritano i bagni degli aerei. Tutti noi siamo un po’ restii alle novità, un po’ per paura, un po’ per pigrizia, e speriamo di non averne mai bisogno, ma sarà l’emozione del volo o le troppe bevute, ecco che ti capita la necessità impellente di andare in bagno, e sei costretto ad affrontare il nemico. La parte più difficile è entrare, primo perché non sai se la porta non si apre perché sei imbranato o perché è occupato; secondo perché la vescica ti scoppia e i minuti passano inesorabili. La toilette di un aereo è un mondo a parte. Non vi svelerò i suoi segreti. Dirò solo che se siete così bravi da non pisciarvi sui pantaloni è perché ve la siete fatta sulle scarpe, e aggiungerò che ci sono persone convinte che quello che lasciano nel water, esca dall’aereo e cada, diecimila metri più sotto, in testa a qualcuno. Una breve parentesi anche per i cellulari: le strumentazioni degli aerei meno moderni possono essere gravemente disturbate da questi apparecchi; se vedete qualcuno che sta telefonando alla mamma, assalitelo, bastonatelo e fategli cadere il telefonino. Meglio quello dell’aereo. Così facendo, fra regalini, abbuffate, film in prima visione e bagni spaziali, veniamo distratti dalle nostre paure e portati a destinazione. Ma anche atterrati noi neofiti ci facciamo notare, perchè fra tante facce stanche dal viaggio, sfoderiamo un sorriso smagliante, felici di essere di nuovo a terra, ma ignari del rito del ritiro del bagaglio. Appena scesi vorremmo correre di gioia, ma ci attende l’ultima prova: il nastro delle valigie. Una segnaletica contorta ci dovrebbe condurre alla sala del supplizio finale, ma un po’ incerti e un po’ pecoroni seguiamo in gruppo il passeggero che con decisione prende il comando puntando senza esitare fra i meandri dell’aeroporto; solo dopo quindici minuti di marcia, quattro scale mobili, due terminal e cinque corridoi, stremato il capobranco si arrende e si ferma sconsolato, provocando il tamponamento della mandria al suo seguito. Una volta raggiunta la sala ritiro bagagli tutti i passeggeri si dispongono in religioso silenzio pieni di speranza, una speranza che si affievolisce con il passare dei minuti e dei bagagli degli altri, perché se tutti ce l’hanno fatta a scendere dall’aereo, non tutti ce la faranno a riavere le loro valigie. Non si può volere tutto dalla vita. Ma che importa davanti alla sensazione di essere di nuovo a terra, padroni di se stessi, sani e salvi, in preda ad un felice rilassamento da scampato pericolo? Ora potete di nuovo lasciare agli altri la convinzione che l’aereo sia sicuro e soprattutto veloce, non prima di aver ricordato che le ferrovie ci garantiscono Milano-Roma in tre ore, le autostrade in quattro, l’aereo in quarantacinque minuti, escludendo l’ora da casa all’aeroporto, l’ora per l’imbarco, l’ora per il ritiro dei bagagli, e il tragitto aeroporto-città nel caos della capitale. Lasciamoci prendere in giro ! Ormai abbiamo di nuovo i piedi a terra e sopporteremmo qualunque cosa, certi che l’aeroporto più bello del mondo per noi è sempre quello di arrivo.

Battute a parte, ognuno ha le proprie paure, le proprie sicurezze, il proprio modo di viaggiare. Ciascuno merita rispetto, e, intendiamoci, ammiro chi riesce a rilassarsi su un bus, chi si gode il panorama dal treno, chi ama la vita di crociera, chi non salirebbe mai su un aereo e chi salirebbe solo su un aereo. Io, lo ripeto, ho paura di volare, ma lo faccio per vedere nuove città, paesi lontani, sono un passeggero per forza. Da sempre però una domanda mi tortura. Perché tutti noi passeggeri, fifoni o convinti che siamo, applaudiamo fragorosamente il pilota all’atterraggio? Avete mai applaudito il macchinista che vi porta in stazione, l’autista alla fermata del bus, o il capitano della nave? E allora, amici, forse è perché dentro di noi, non siamo poi così tanto sicuri di arrivare.

 


 

#proprietà letteraria riservata#


Nicola Tanzi

Passeggero per forza – IV parte

(Guida per tutti i fifoni del volo)

LE ULTIME VENTIQUATTRO ORE

Come riesce a volare un aereo? E’ semplice: i motori spingono il velivolo in avanti e creano una corrente che colpisce il terreno, i motori vanno più veloci, e quando c’è sufficiente corrente e si è creato un vuoto d’aria, l’aereo si solleva in cielo. Da qui in poi è un miracolo. Non ho mai capito cosa cazzo li tenga su. (MEL BROOKS)

 

L’ultimo passo prima di avventurarvi in aeroporto certi di aver fatto tutto quanto nelle vostre possibilità è la preghiera della sera prima: visto che l’indomani dovrete andare in cielo tanto vale metterci una buona parola, non si sa mai, capitasse di doverci restare … Ma più che scomodare il buon Dio per voi, sarebbe il caso di pregare per il pilota; è molto meglio che sia lui a dormire bene stanotte anziché voi, e soprattutto sperate che non abbia appena scoperto la moglie a letto con l’amante. Avere un pilota incazzato non è proprio quello che si intende con cominciare bene. L’ultima occasione di rendere meno insicuro il proprio viaggio è il check-in: lì si decide l’ultima variabile, il posto sull’aereo. Presentarsi presto al banco della compagnia aerea non serve ad avere più tempo per lo shopping al duty-free, ma a impedire che il destino scelga per noi. Il vero passeggero per forza studia da anni in tv le immagini dei disastri e conosce alla perfezione i punti deboli degli aerei, sa quali parti sono più robuste, così evita accuratamente le ultime sette file e la zona delle ali. Pare che la parte migliore sia a metà fra la cabina di pilotaggio e le ali, non so dirvi se sia meglio il posto corridoio o quello finestrino, l’unica cosa certa è che se scegliete il finestrino sarete travolti dal vicino che vuol vedere fuori, e se scegliete il corridoio sarete calpestati dallo stesso vicino che vuole andare in bagno. Eseguite le formalità del check-in, consegnati i bagagli e superato il controllo passaporti, siete nelle loro mani.

     segue:  V parte


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Nicola Tanzi

Passeggero per forza – III parte

(Guida per tutti i fifoni del volo)

LA LEGGE DELLA PROBABILITA’

“Volare è utile, atterrare è necessario.” (EROS DRUSIANI)

 

Man mano che passano i giorni e si avvicina il momento del volo, a noi passeggeri nevrotici sale la tensione, siamo coscienti di avvicinarci all’istante in cui ci troveremo completamente nelle mani di qualcun’altro, rinchiusi in un aereo pronto al decollo. Quindi non ci rimane che giocarci al meglio le ultime carte che possediamo. Nei giorni precedenti alla partenza entra in gioco la legge delle probabilità. Il principio al quale si appellano tutti i viaggiatori per scacciare la paura consiste nell’affidarsi a questa teoria: “Se cadono uno o più aerei pochi giorni prima di partire, per la legge della probabilità, dovrei essere salvo.” Non fidatevi assolutamente della legge della probabilità perché: 1) se riuscite a sentirvi tranquilli su un aereo dopo averne visto cadere uno poche ore prima, siete pazzi. 2) se sono appena caduti due aerei, ricordate che c’è un proverbio che recita “Non c’è due senza …” 3) se è appena precipitato un volo della vostra stessa compagnia siete proprio sicuri di sentirvi rilassati e al sicuro? 4) se sono appena precipitati due aerei ricordate che anche i passeggeri del secondo volo credevano nella suddetta legge. La legge della probabilità è una grandissima minchiata. Se cade un aereo pochi giorni prima, sarete accerchiati da parenti ed amici avvoltoi che ve lo ricorderanno sadicamente ogni cinque minuti, ostenterete una finta tranquillità con loro, e passerete il resto delle ore sulla tazza del water tra scongiuri e preghiere.

 

segue:  IV parte


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Nicola Tanzi

L'unico sito italiano di letteratura inedita (e non) a carattere squisitamente aeronautico.