Coppia

Appena alzato, ancora con occhi gonfi di sonno, andai a sbirciare fuori della finestra: sereno e calma di vento!

Perfetto, pensai, situazione ideale per il programma della giornata.

Sapevo che quella non sarebbe stata una giornata qualsiasi: avevo in mente qualcosa che mai avrei pensato si potesse avverare e che solo un anno prima avrei considerato pura pazzia anche solo immaginare.

Nel frattempo anche mia moglie si era alzata: anche lei andò a guardare fuori dalla finestra, a controllare il cielo, una cosa che fino a qualche tempo fa non le sarebbe passata per la mente.

La vidi fare un leggero un cenno di assenso.

Dopo una rapida colazione ci mettemmo in macchina, direzione Sabaudia. Viaggio lunghetto, più di ottanta chilometri dai Castelli Romani, un viaggio diventato frequente negli ultimi tempi. Con la radio accesa su un canale di musica e la moglie immersa nello studio di un manuale, mi abbandonai ai miei pensieri, che mi riportarono alla concatenazione di eventi all’origine di quella giornata particolare.

Pilota dell’ Aeronautica Militare, all’atto del pensionamento, chiesto anticipatamente, avevo appeso il casco al chiodo. Pensavo di avere chiuso con il volo, che pure aveva caratterizzato la mia vita ed era stato il motivo fondamentale che mi aveva convinto ad intraprendere la carriera militare. Anche se la vita da pilota operativo era stata breve, in un modo o nell’altro il volo era sempre rimasto parte significativa della mia attività, anche quando avevo dovuto occuparmene prevalentemente da dietro una scrivania. Ora, però, non riuscivo ad individuare motivazioni adeguate per proseguire l’attività di volo nel mondo civile.

L’idea di andare presso un Aeroclub di gente con la puzza al naso, a volare su un trespolo ad elica, spendendo un sacco di soldi per fare un giretto intorno al campo, non mi passava neanche per l’anticamera del cervello. Già l’entusiasmo per il volo negli ultimi anni di servizio in Aeronautica era andato scemando, fino a raggiungere uno stato di profonda delusione.

L’attività di un pilota degli enti centrali era limitata a sole 6 ore di volo al semestre. Dopo un paio di anni di attività così scarsa anche a Decimomannu, una base aerea in Sardegna che avevo comandato a lungo e dove, come pilota, godevo di una certa considerazione, non mi consentirono più di volare da solo. Non potevo biasimare una simile decisione: era del tutto ragionevole mettere un pilota allenato dietro ad un arrugginito pilota di scrivania, anche se il velivolo con cui facevo la mia attività non era più l’F104 del reparto operativo ma il Macchi 339, facile come una bicicletta.

Per un paio d’anni, da solo, mi ci ero divertito a fare capriole a pelo terra o a razzolare nei valloni dietro il Gennargentu: ma dopo, con il pilota giannizzero seduto dietro, scendere sotto i 2000ft sembrava essere diventato un azzardo, ed infilarsi nei bellissimi orridi della zona est della Sardegna un’assurdità. Così la decisione di rinunciare al volo non mi era pesata più di tanto: erano passati già sette anni senza che sentissi rimpianti per un’attività che non mi prospettava emozioni di sorta.

Avevo da tempo conseguito il brevetto di istruttore subacqueo e trovavo l’attività subacquea gratificante. Del resto le immersioni sono attività svolte in ambiente tridimensionale, con molte attinenze con il volo: looping, tonneau e tiro si possono fare anche sott’acqua.

In questa situazione ormai consolidata, un giorno un mio collega di corso di Accademia mi propose di andare a vedere il suo nuovo velivolo. Passato alle linee civili dopo un periodo di reparto sull’F104, si era costruito un ultraleggero che aveva certificato come velivolo sperimentale, formula che prevede limitazioni nel numero dei piloti autorizzati al suo pilotaggio: era alla ricerca di qualche volontario da iscrivere sulla certificazione in modo da avere un sostituto in caso di necessità.

Il velivolo si trovava sull’aviosuperficie di Sabaudia. Non ricordo per quale motivo accolsi il suo invito, perché la sua proposta non mi interessava, stante anche il fatto che il mio brevetto era ormai definitivamente scaduto: forse qualche concomitante impegno legato all’attività subacquea, che spesso mi portava a fare immersioni al Circeo, mi offrì l’occasione di passare da Sabaudia.

Arrivato al campo due fatti mi colpirono: l’aviosuperficie e gli ultraleggeri di ultima generazione. Non avevo idea che in Italia ci fossero campi di volo in erba e rimasi stupito nell’apprendere quanto fossero diffusi e liberi da tutti i legacci burocratici dei normali aeroporti. Il velivolo, poi, fu per me una vera rivelazione: si trattava di uno Storm, un ultraleggero costruito da una ditta di Sabaudia.

I miei unici ricordi di ultraleggeri risalivano ad una quindicina di anni prima, in Sardegna, ed il mio contatto con il mondo del volo ultraleggero era avvenuto per caso.

Un giorno il responsabile del controllo del traffico aereo era venuto a chiedermi di far chiudere un campo di volo per ultraleggeri che si trovava sulla rotta di rientro dei velivoli della base dal poligono di combattimento. Dopo avergli ricordato che il cielo è un bene comune e che deve essere condiviso il più possibile, prima di esprimere un parere in merito alla sua richiesta andai con un Macchi 326 a dare un’occhiata da molto vicino al campo, una striscia di terra di 200 metri dalla quale feci alzare un gran polverone, suscitando entusiasmo saluti dei piloti locali: poi ci andai via terra.

Il responsabile mi fece conoscere i mezzi che vi volavano, e mi portò in volo con un trespolo infernale in tubi e tela, un Barouder, lento, rumoroso ed in balia del vento, con velocità massima inferiore ai 100 km/h.

Concordammo che con i loro trespoli non sarebbero mai saliti oltre i 500 piedi di quota, alzai a 2000 piedi la quota minima di rientro dei miei velivoli in quel corridoio e cancellai ogni ipotesi di chiusura del campo. Qualche tempo dopo li invitai a Decimomannu, dove rivolai sul Barouder, un mezzo che di certo non avrei mai preso in esame per una seria attività di volo.

Ma quello che ora mi stava davanti era ben altra cosa rispetto all’ultraleggero che immaginavo: questo era un vero velivolo, tutto metallico, bello, con l’aria di essere anche veloce e manovrabile. Poco dopo un gentile signore che stava andando in volo con un velivolo simile mi dette modo di verificare di persona che queste mie impressioni erano corrette.

Mentre il mio interesse per il mondo ultraleggero stava crescendo, mia moglie trovò modo di fare un volo con un velivolo acrobatico, un CAP 10, che si trovava causalmente sull’aviosuperficie.

Giornalista di un quotidiano per ragazzi, aveva proposto di pubblicare un articolo sul volo acrobatico: la prospettiva che l’articolo avrebbe fatto pubblicità alla locale scuola di volo le valse il volo gratis. Salì sul velivolo con l’istruttore e dopo poco la vidi volteggiare sul campo in manovre acrobatiche di ogni tipo. Mia moglie non aveva esperienza di acrobazia e soffriva in mare per qualsiasi manovra che facesse inclinare il natante. Mi aspettavo, pertanto, di vederla scendere con il sacchettino del vomito in mano. Invece saltò giù entusiasta dal velivolo e se ne uscì con una affermazione stupefacente: “Mi piacerebbe prendere il brevetto”.

Se non avessi appena scoperto il volo ultraleggero nella sua nuova ed imprevista configurazione forse non avrei accolto la richiesta con entusiasmo, visti i costi connessi. Ma ora il suo proposito mi dava l’occasione per rivalutare l’idea del mio ritorno al volo. Se lei voleva volare, allora avremmo potuto farlo insieme: quello che non era riuscito in mare, dove vela e sub non avevano trovato il suo gradimento, forse avrebbe potuto accadere in cielo.

Così lei iniziò il corso di pilotaggio serio, per il brevetto PPL, mentre io dovetti prendere atto che i sette anni di inattività mi costringevano a ricominciare da capo con il volo.

Avendo deciso che il brevetto PPL non mi interessava, mi iscrissi al corso per il conseguimento dell’attestato ultraleggeri. Il direttore dell’Aeroclub d’Italia, all’epoca un mio compagno di corso, mi indicò una scuola non molto lontana da Sabaudia e mi mise in guardia sugli ultraleggeri italiani, spesso fuori norma. Consiglio che venne a pennello: avevo già messo gli occhi su uno Storm appena costruito, ma dopo il suo avvertimento decisi di rivolgermi a prodotti in regola con le norme.

Alla scuola feci qualche volo con il Tucano, una “cabina di teleferica” con le ali, monovelocità, che richiedeva uno smodato uso dei piedi per virare, almeno per me, abituato ai jet.

Al primo esame disponibile mi guadagnai i galloni di pilota ULM, ma solista: qualche tempo dopo feci l’esame per il biposto. Nel frattempo ero andato al nord a provare un velivolo costruito in Repubblica Ceka, un Eurostar. Ne ero rimasto entusiasta, anche grazie al suo eccellente dimostratore, e l’avevo ordinato.

Nel giro di sei mesi andai a ritirarlo e lo piazzai a Sabaudia dove, nel frattempo, il corso di mia moglie procedeva a rilento. Cominciai a prendere confidenza con il nuovo mezzo, guadagnandomi il rispetto dei piloti locali, non condiviso dal proprietario dell’aviosuperficie, che non gradiva il mio modo di intendere il volo.

A quel tempo la scuola di volo di Sabaudia non era un gran che. Volando con mia moglie notavo carenze di addestramento e quando le segnalavo all’istruttore responsabile mi diceva che tanto, poi, ci avrei pensato io a rimediarle. Il corso, però, bisognava pagarlo lo stesso per intero! Finalmente mia moglie effettuò il volo solista e qualche tempo dopo conseguì il brevetto.

Ma torniamo alla nostra giornata speciale: oggi per mia moglie è previsto un volo solista con il Katana, un biposto austriaco bellino e tranquillo, ad ala bassa, che era stato usato per parecchi voli del corso.

Il mio programma è di volare in coppia stretta con mia moglie: lei non lo sa, e nessuno della scuola deve saperlo, perché gli istruttori si preoccuperebbero e si opporrebbero. Essendo del tutto incompetenti in fatto di volo in formazione, un modo di volare in uso solo fra militari, già avevano avuto da ridire per il semplice fatto che una volta mi ero avvicinato al loro velivolo con il mio Eurostar, pur mantenendomi a distanze abissali.

Preparo il mio velivolo. Quando vedo mia moglie iniziare il giro dei controlli me ne vado in volo senza dare nell’occhio: a Sabaudia il mio velivolo è parcheggiato negli hangar dall’altra parte della pista e posso andare in volo senza chiamare nessuno ed essere notato.

Mi metto in attesa dietro le pendici del Circeo con la radio sintonizzata sul canale di Latina avvicinamento, aspettando di sentire le comunicazioni di mia moglie, che arriva con il rituale: “Latina, india … , no flight plan …”.

Comincio a scrutare l’orizzonte e finalmente vedo il puntino del velivolo che sale verso il Circeo: la quota richiesta per il volo è di 2000 piedi, teoricamente a me preclusa in quanto ultraleggero.

Attendo che il velivolo sia al di fuori di possibili avvistamenti da parte dei piloti di Sabaudia, poi inizio una intercettazione che completo rapidamente.

Il Katana è un velivolo veloce in volo livellato nonostante i suoi soli 80 Hp, ma in salita è un “polmone” rispetto all’Eurostar per cui in un attimo gli sono in ala.

L’ultima parte dell’avvicinamento lo faccio lentamente, portandomi in ala destra, in attesa di essere avvistato: non posso annunciare la mia posizione in ala con la radio sintonizzata sul canale di Latina avvicinamento, così, mentre lei assume la prua per Terracina, spero che ad un certo punto volga lo sguardo dalla mia parte.

Come sempre succede quando intercetto qualche pilota civile, ci vuole un bel po’ prima che la cosa avvenga: non ho capito il motivo per cui nelle scuole civili non si insegna agli allievi piloti a guardare bene fuori! Capisco che non devono addestrarsi a difendersi dall’attacco di eventuali caccia, ma tenere d’occhio lo spazio intorno al proprio velivolo è sempre cosa buona e saggia. Invece vedo sempre teste fisse sugli strumenti o, al massimo, volte a guardare avanti.

Quando finalmente mi vede accenna ad una virata a sinistra, evidentemente spaventata dal trovarsi un velivolo così vicino: poi riconosce l’inconfondibile sagoma a stelle e strisce del mio Eurostar, si tranquillizza e riprende la rotta. Sa di potersi fidare: nei pochi mesi di voli con l’Eurostar mi ha visto intercettare qualsiasi cosa che stesse per aria nella piana pontina, e poi stare in coppia stretta ad ogni tipo di ultraleggero.

Un cenno di saluto e mi stringo alla sua ala: sono a 2000 piedi di quota sul mio Eurostar in coppia ad un Katana su cui si trova mia moglie da sola!

Se solo un anno prima qualcuno avesse ipotizzato un evento del genere gli avrei dato del matto!

Viaggiamo insieme fino a Terracina, per poi proseguire per Borgo Montello e Sabaudia. In avvicinamento a Sabaudia saluto e mi allontano prima che qualcuno da terra mi possa vedere. Missione compiuta: ci ritroviamo a terra dove la cosa resta un segreto fra di noi. Gli altri non devono sapere.

Non è stata la nostra unica esperienza di volo in coppia: in seguito ci sono stati altri voli simili anche con ultraleggeri.

Una volta dovevo andare a ritirare un Esqual, velivolo che per qualche tempo ho presentato nelle manifestazioni aeree, in una aviosuperficie vicina dove si trovava per un’ispezione. Ci siamo andati insieme con l’Eurostar ed al rientro abbiamo volato in coppia, lei sull’Eurostar ed io sull’Esqual.

Ma l’emozione del primo ricongiungimento sulle pendici del Circeo e dei primi minuti di volo in coppia non è più stata la stessa.



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Bruno Servadei

Il primo

Era il I Settembre del 1939 quando il Capitano Mieczyslaw Medwecki e il sottotenente Wladislaw Gnys decollarono su allarme a bordo dei loro caccia, due PZL P11c dal campo di aviazione di Balice, in Polonia, per intercettare una formazione di bombardieri tedeschi, nelle vicinanze di Cracovia. D’improvviso, l’equipaggio di un caccia di scorta tedesco Junker Ju 87 Stuka, composto dal pilota Franz Neubert e dal mitragliere Franz Klinger, videro apparire nel loro campo visivo i due PZL ma pensarono che i Polacchi stessero effettuando un’arrampicata per attaccare un altro Stuka che volava ad una quota maggiore; il pilota Franz Neubert allora decise di attaccare a sua volta ed abbatté il velivolo del Capitano Mieczyslaw Medwecki. Fu la prima vittoria in duello aereo della II guerra mondiale. Nel frattempo, Gnys con l’altro PZL P11c effettuava una violenta manovra diversiva per sfuggire al fuoco dell’attaccante, ritrovandosi in prossimità del suolo ed ai limiti dello stallo. Confidò nelle capacità di pilotaggio, non comuni, e anche in un piccolo espediente: le insegne nazionali poste in maniera disassata in modo da disorientare gli avversari, seppure solo momentaneamente, circa l’assetto del velivolo. Effettuò la richiamata appena in tempo: alla quota degli alberi; da quella posizione Gnys iniziò la sua caccia al nemico. Dopo aver abbozzato un attacco ad un bombardiere Heinkel He 111, egli piombò su due Dornier Do 17E che volavano in formazione stretta, abbattendoli entrambe. La sua fu la prima vittoria alleata della II guerra mondiale. E dunque, la seconda, in ordine di tempo di tutto il conflitto. Tutto in uno stesso combattimento aereo. Il primo.

Liberamente ispirato al racconto di Mike Dobrzelecki.


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Scramble

La rosa rossa

Mentre la navetta con esasperante lentezza mi portava agli “Arrivi”, composi il suo numero. Un solo squillo, e il suo allegro “Ciao amore!” “Ma ciao! Eri al telefono, broccolone! C’era la segreteria, uff!” Ma sorridevo. Mi guardavo distrattamente intorno, già mentre attendevamo di scendere dall’aereo avevano tutti messo mano ai telefonini, e ora si davano un’aria di importanza mentre annunciavano il loro atterraggio a chissà chi. “Ma quale segreteria, ero al parcheggio…” La sua voce era un po’ ansante, sentivo che stava camminando velocemente, con un chiacchiericcio di sottofondo. “Ho temuto di far tardi, amore, c’era un traffico incredibile.” Scesi dalla navetta, seguendo il fiume umano che si riversava verso il recupero bagagli. “Tardi? Lo sai che non te lo avrei mai perdonato!” Ridevo…quante volte lui mi aveva dovuta aspettare? “Ma che cattiva sei …” “Sì, sì … almeno cinque minuti di broncio, và facciamo quattro, mi sento buona oggi.” “Com’è andato il viaggio?” “Era iniziato benissimo! Mi hanno dato il posto vicino all’uscita di sicurezza, e accanto a me, sul lato finestrino, era seduto un bellissimo ragazzo. Alto, moro, un fisicaccio, bel viso mmm stavo già pregustando il volo. Giusto il tempo di fargli un sorriso e un paio di flapp flapp e lui ha detto alla hostess: “Posso spostarmi? Sto scomodo qui!”. Sgrunt! Amore, la mia autostima è a un livello infimo!” Lo sentii ridere, “Razza di broccolona! Ma dove sei?” “Sono ancora sulla navetta.” Mentii spudoratamente, e lui lo sapeva, sentiva che avevamo lo stesso sottofondo di annunci gridati all’altoparlante. “Dove ti sei nascosto stavolta?” “Non ho avuto il tempo di trovare un posto per nascondermi, è già tanto se sono arrivato in orario!” I cagnoni antidroga mi annusarono, mentre oltrepassavo il “nothing to declare”. Il figaccione di prima mi precedeva di qualche metro, e dopo tutto non era così carino, ma sì aveva un po’ di pancetta, e di sicuro era miope. (Tsk tsk) Mi guardai intorno, decine di persone ne aspettavano altre, alcune con cartelli in mano con nomi impronunciabili. Ma lui dov’era? “Non ti vedo, dove sei??” “Ma io vedo te!” “Okay, vorrà dire che bacerò il primo che capita.” Mi voltai e vidi un uomo sulla trentina, moro, mi sorrise. Gli buttai le braccia al collo e prima che potesse dire qualcosa incollai le mie labbra alle sue. Non esitò a ricambiare il mio bacio, le nostre lingua si intrecciarono, mentre le persone intorno a noi sparivano nel nulla. “Ciao, primo che capita” bofonchiai (è difficile scandire bene le parole mentre ti mordono le labbra). Trascorremmo la giornata sulla nostra nuvoletta rosa, in un’atmosfera emozionante, calda dei nostri corpi, greve dei nostri odori, ma soprattutto e purtroppo magicamente breve: lui aveva il potere di far scorrere le lancette sempre più veloci. Quando fu il momento, mi riaccompagnò a Malpensa, ci scambiammo gli ultimi baci e io uscii dall’auto stando attenta a non lasciare mezzo metro di rosa rossa nello sportello. Ero in fila per il check in, quando nell’aria risuonarono le note della sigla dei Simpson’s, frugai nella mia borsa, paragonabile alle tasche di Eta Beta, e trovai il cellulare: “Amore!” Amore … confesso, ho acceso una sigaretta!” Finsi di tossire, e lo sentii ridere: “Peste che sei!” Era sempre così, non appena ci lasciavamo ci venivano in mente mille cose da dirci. L’entusiasmo di stare insieme era tale che quasi non sentivamo la tristezza dell’arrivederci. Ho detto quasi… Chiacchieravamo allegramente, quando qualcosa, anzi qualcuno, attirò la mia attenzione. La fila accanto, alla mia destra, chiodo, pantaloni di pelle, un portadocumenti … No, che razza di scherzo. “Scusa amore … puoi ripetere?” “Sei distratta, che succede?” Mi incamminai verso il solito gate, senza perdere di vista quella figura nerovestita: andavamo decisamente nella stessa direzione. “Non ci crederai mai … c’è Gianni!” “Chi? QUEL Gianni??” “Dio che imbarazzo … non ci posso credere …” Sprazzi di ricordi disordinati mi balenarono in mente, mentre cercavo di portare avanti la conversazione, senza sembrare troppo interessata all’incontro. Gianni, gli occhi più blu che avessi mai visto… Gironzolavo annoiata nel web la notte che l’incontrai; Vittorio non era on-line, e già allora mi mancava terribilmente, anche se non lo avrei mai ammesso. Erano giorni che io e Vic ci “sondavamo”, e avrei fatto di tutto per cancellare dalla sua mente l’immagine che aveva di me: una Biancaneve moderna, simpatica ma non “spigliata”, una buona amica e basta. Al telefono con Gianni, giocando, provocandolo, testavo me stessa, e scoprivo che eccitare un uomo solo con la voce dava una sensazione quasi di potere. Sentivo il tono farsi basso, roco e sensuale, sussurri come carezze, sospiri come baci umidi di saliva e altro ancora. La sera seguente, appoggiata all’auto, il cofano ancora caldo, la telecamera del Monte dei Paschi ci faceva l’occhiolino poco distante. Le mani dappertutto, i capezzoli finalmente liberi ed eretti nel freddo di novembre, leccavo le sue dita odorose dei miei umori, mentre offrivamo uno spettacolo inaspettato alle coppiette appartate al buio del parcheggio poco distante. E nella mente un pensiero malizioso contribuiva a eccitarmi sempre più: la prossima chat su icq con Vic sarebbe stata decisamente interessante. E come un flash, rivedevo me stessa aprire le tende, perché dall’ufficio di fronte potessero godersi la scena: sulla scrivania, le gambe appoggiate sulle sue spalle, il suo sesso che si strofinava sul mio, senza penetrarmi, una dolce tortura E dopo, seduta sulla poltrona manageriale, scompigliata e discinta sentivo nella bocca il mix dei nostri sapori, mentre con le unghie seguivo la linea degli addominali. Lo guardavo maliziosa, di sotto in su, mentre con le mani cercava di impormi il suo ritmo… “Amore, manca molto all’imbarco?” Vittorio mi riportò alla realtà d’un colpo, e ripresi a conversare nel solito modo, a metà tra il malizioso e il tenero, ma al tempo stesso sentivo su di me gli occhi di Gianni: mi aveva riconosciuta. “Amore, lui mi ha vista! Ahah si è messo gli occhiali da sole, forse teme che io gli salti addosso alla vista dei suoi occhioni blu?” “Amore, ma sei tu che sei sparita e non lo hai più richiamato, no?” Avvertivo un po’ di tensione nella sua voce, non era molto contento dell’imprevisto. “Beh sì. Dovresti essere qui, sai? Ho ridotto lo stelo della rosa, era poco maneggevole. Cammino lentamente avanti e indietro proprio di fronte a lui, sorridendo e accarezzandomi le labbra con i petali. Sento i suoi occhi su di me. Starà ricordando, ne sono sicura. Fingo di essere assorta nella telefonata, ma so che questa rosa lo turba. Ogni tanto incrocio il suo sguardo e indugio quel tanto che basta.” “Lo vedi che sei peggio di me? Non mi capita mai di incontrare una mia ex, a te sì invece!” “Ma se l’ho frequentato solo per sedurre te! Non ricordi? Tu sei uscito con quella sciacquetta noiosa, invece!” Ridevamo, entrambi ferocemente gelosi. “Ti amo, sai?” “No, io amo te!” La navetta ormai era arrivata, e ci dovemmo salutare; mi augurò buon volo e spensi il cellulare, sorridendo come una deficiente alla prima cotta. E fu salendo sulla navetta che mi ritrovai di fronte Peter. “Sbaglio o ci conosciamo?” Sorrisi maliziosa. Lui si tolse gli occhiali da sole e ricambiò il sorriso. “Non ero sicuro che fossi tu, ma quel modo di camminare, di muoversi … Che piacevole sorpresa!” “Anche per me, ne è passato di tempo, ma sei proprio come ti ricordavo. Peccato tu abbia nascosto quei bellissimi occhi blu sotto le lentine scure, però.” Peter rise, era sempre stato bravo a incassare.


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Un aliante

Non hai bisogno di un motore perché per motore c’è il vento. Non hai bisogno di grandi ruote perché sei piccolo e leggero.

Hai un corpo sottile e delle lunghe ali, ma non sei un uccello. Giri spesso sopra le montagne e da lassù guardi le case sotto di te.

Una mano forte ti guida in mezzo alle nuvole e non hai paura di cadere. Puoi rimanere su per ore senza mai stancarti, chissà quante cose belle puoi vedere!

Vieni a prendermi, voglio volare anch’io fin lassù! Voglio immergermi in quelle nuvole così dense da sembrare panna montata.

Piano piano scendi, atterri sulla pista, hai finito anche oggi il tuo giro ed ora vai a riposare.

Domani ti alzerai ancora, trainato da un aereo a motore e volerai sopra le cime montuose per ore ed ore…

18 luglio 1999


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Sabina

Quant’è bello volare

L’aria tersa e pungente del mattino si insinuava turbinando tra le fronde degli alberi resi multicolori dai primi brividi dell’autunno. Il verde carico e intenso delle foglie più forti si sposava col rossiccio di quelle che iniziavano ad avvizzire, e risaltava sul fondo di quelle marroncine che avevano ormai portato a compimento il loro ciclo di vita. Al di sotto del bosco la montagna digradava con un declivio né dolce né irto, che dopo un po’ si interrompeva bruscamente, offrendo lo spettacolo di una ripida scoscesa su cui gli edelweiss faticosamente si abbarbicavano. Era l’ambiente ideale per gli amanti degli ultraleggeri e dei deltaplani che, infatti, in quella zona avevano installato la loro pista di lancio. Molti erano gli appassionati che si spingevano appena possibile a quella base di partenza che la Natura, nella sua magnanimità, aveva voluto offrire a quanti prediligevano le distese del cielo alle lunghe code in colonna, inscatolati come sardine, per raggiungere i più rinomati ed affollati luoghi di villeggiatura. Del resto, le correnti d’aria che rotolavano a valle rimbalzando nella profonda conca in cui correvano gorgogliando e spumeggiando le acque chiare del fiume, tornavano a risalire potenti, garantendo, a tutto ciò che incontravano nel loro percorso, la possibilità di un duraturo sostentamento che poteva durare anche parecchie ore. Il tempo era dunque ideale. Occorreva aspettare l’attimo giusto. Quand’ecco … un colpo di vento più intenso degli altri si precipitò giù per la china, la strappò dal suo sostegno e la sollevò di colpo. Era libera e librante, sospesa nel cielo azzurro, sostenuta dal vento e dalle correnti che, graziosamente, parevano condurla secondo il suo desiderio. Era felice: il vento la percuoteva, ma con delicatezza, mentre si muoveva ondeggiando secondo le correnti, sorvolando picchi aguzzi e scoscesi, dove erano tornate a nidificare le grandi aquile bianche, dove muschi e licheni a fatica contendevano lo spazio al gelo ed alla neve. Più in basso, sui pascoli alti, il bestiame, impegnato nel suo monotono ruminare, costituiva un insieme di chiazze chiare e biancastre tra il verde del trifoglio; ma si trattava di uno spettacolo che durava solo un breve fiato: le correnti ascensionali la portarono su, molto più su, a quote in cui l’aria stava diventando particolarmente fresca, nella trasparenza assoluta dei cristalli di ghiaccio che iniziavano a condensarsi. Una bianca nuvola, simile a un insieme di batuffoli di cotone, si avvicinava rapidamente. Penetrò in quella nebulosità tenue, in cui lo splendore del Sole si affievolì mostrando il disco di un giallo pallido dell’astro la cui esistenza garantiva la permanenza della vita sul pianeta. L’umidore delle goccioline che si condensavano la appesantì di quel tanto che bastava a provocare un inizio di discesa verso livelli più convenienti. Il velo che si opponeva alla forza del Sole divenne sempre più tenue e, dopo poco, si diradò completamente facendola ripiombare in mezzo ad una luce abbagliante. Il calore e l’aria asciutta aiutarono l’evaporazione del sottile strato liquido che si era formato e il vento tornò ad essere il suo padrone. Lentamente, senza fretta, la gravità tornò a fare sentire la sua influenza e, complice un improvviso calo del vento, perse quota rapidamente. Il pensiero di schiantarsi non increspò neppure per un attimo la sensazione di levità e di gioia che la pervadeva: era libera! Libera di muoversi nel cielo. Libera di vagare dove nessun essere umano avrebbe mai potuto permettersi di andare. Con la stessa subitaneità il vento la riprese e la trasportò ancora in alto. “Lingua mortal non dice …” : ecco, proprio questo era il punto. Lo stato di ineffabilità era stato raggiunto. Non avrebbe saputo assolutamente trovare come esprimere quello stato di completa comunanza ed assonanza con la Natura, con le sue forze e con tutte le manifestazioni che, a volte, ad occhi e cuori offuscati, potrebbero sembrare crudeli ed insensibili: la potenza di un tornado, lo scatenarsi della furia devastatrice di un’eruzione o di un terremoto. Tutto questo e altro ancora “sentiva” entro di sé, mentre svincolata dalle catene del peso si librava senza posa in quello scenario che aveva un che di divino. Ma tutto quello che di più bello proviamo, prima o poi deve terminare. Il vento stava declinando con dolcezza, trasformandosi in una lieve brezza, quasi tiepida. Assecondandone la natura e l’invito, cominciò una lenta discesa, rotta soltanto da qualche subitaneo refolo che la faceva impennare ancora ogni tanto verso l’alto da cui, ondeggiando, tornava verso quote più miti. Lentamente, con calma, cercando di assaporare ancora quello che la Natura benigna poteva offrirle, iniziò la planata finale. In basso gli armenti continuavano il loro lento ruminare. Il vento le permise di compiere una larga virata, mostrandole lo splendore di un paesaggio autunnale dai colori accesi e variegati attraverso un’atmosfera assolutamente cristallina. Là in basso un fiumiciattolo segnava con riflessi argentei una strada percorsa da pesci guizzanti alla ricerca della loro pastura quotidiana. Chiazze marroni e verdi in varie tonalità denotavano i campi seminati con i vari frutti che la terra avrebbe prodotto nella prossima estate. Le colline, coperte di vigneti, facevano bella mostra di sé, con i grappoli di diverso colore che si confondevano col verde intenso del fogliame. La discesa ora si faceva più decisa: sempre in compagnia del vento che, graziosamente, l’accompagnava nell’ultima fase del suo volo, vide la terra avvicinarsi sempre di più. Ormai di lì a poco quel sogno di leggerezza si sarebbe spento definitivamente. Cominciò a girare in volute sempre più strette, diminuendo contemporaneamente di quota. Erano gli ultimi istanti di quella beatitudine. Una pozzanghera si avvicinava sempre di più. Ondeggiando riuscì a superarla per raggiungere un tratto di un sentiero senza erba, dove finì col posarsi delicatamente. Un uomo si avvicinò, calzando pesanti scarponi e, senza neppure degnarla di un’occhiata, schiacciò quella foglia ormai secca che, per una frazione di eternità aveva conosciuto la voluttà del cielo.


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Roderigo di Brankfurten

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