Il fiore che imparò a volare

Si narra che un giorno un uomo grande, dai grandi piedi, s’inerpicò per uno scosceso sentiero, Voleva raggiungere la vetta della montagna. Certi uomini, si sa, amano raggiungere le cime, hanno il gusto della sfida. E da ogni cima raggiunta ne scorgono un’altra, ancora più alta, un po’ più lontana. Quella sarà la loro prossima meta. Il prossimo punto per guardare e scoprire se qualcuno può toccare il cielo un po’ più da vicino. Così sono certi uomini. Avanzano facendo pensare di avere una meta. Ma la meta è solamente un punto di passaggio. Il prossimo, il successivo, non è mai un arrivo. Saliva per il sentiero con passo svelto ed allenato. Era una grande uomo ed aveva piedi grandi per raggiungere cime sempre più lontane. Si fermò ad un ruscello per rinfrescarsi un poco. Era quasi mezzogiorno ed il sole picchiava a quella altezza. Si sedette su una pietra e si mise ad ascoltare il gorgoglio del torrente. A un certo punto sentì una vocina domandare: – Chi sei? – era un tono gentile, non lo fece spaventare, ma non c’era nessuno. Chi poteva essere stato a domandare? L’uomo si guardò un poco attorno, meravigliato: – Sono qui – riprese la vocina – davanti a te – L’uomo si guardò davanti: – In basso … qui … – insistette la vocina. L’uomo si chinò. Era un piccolo fiore che gli parlava – Ma tu … ma tu … – balbettò l’uomo stupito – tu parli! – riuscì finalmente ad esclamare – Certo – rispose il fiore con un tono un po’ sorpreso e risentito – non è mica una cosa tanto speciale! Tutti i fiori parlano … solo che non c’è mai abbastanza silenzio per sentirci – – Adesso puoi dirmi che sei? – riprese il fiore. – Sono un uomo, non ne hai mai visti prima d’ora? – – Si, talvolta ne ho visto qualcuno, esseri che passano, calpestano, strappano e poi vanno via. Niente di buono per quel che conosco – – Ooooh, io sono ben diverso – replicò l’uomo con tono un po’ risentito – conosco le regole della natura, so come accendere un fuoco senza far divampare l’incendio, non colgo mai i fiori se non quando è permesso, non molesto mai gli animali … – Va bene, va bene – lo interruppe il fiore – ma queste sono regole che vi siete dati voi umani. Avete mai chiesto a noi fiori di darvi le nostre? Siete sicuri, ad esempio, che cogliere i fiori nelle aree protette sia bene? E poi non ti pare strano, si dicono protette e sono proprio il posto dove noi fiori siamo i più indifesi … ma lasciamo stare, sono altri discorsi. Dove stai andando? – – Sto salendo in cima alla montagna – rispose l’uomo pieno d’orgoglio. – E perché? – domandò il fiore – Oh bella, per provarmi che ne sono capace! Per avere uno scopo, una meta. Perché dall’alto potrò guardare più lontano – concluse l’uomo. – Non ti basta quello che vedi attorno a te tutti i giorni? – gli chiese il fiore. – Quello che ho intorno? – l’uomo lo guardò interdetto – ma ti pare che se dovesse bastarmi un dio mi avrebbe dato gambe solide e piedi per potermi spostare? Parla per te piuttosto che sei legato allo stesso posto dalle tue radici e che senza di quelle moriresti certamente! – concluse fra l’ironico e l’irritato. – Ma io sto bene dove sono – rispose calmo il fiore, – conosco tutto qui attorno ed ogni giorno c’è un mondo che cambia anche se sembra uguale. Conosco ogni altro fiore, ed il trifoglio e l’erba, ed ogni insetto che passa di qui mi parla o mi saluta. Conosco l’ape che da me si nutre, ed il grillo, la cavalletta, la farfalla e il ragno. Conosco il peso della rugiada che mi fa piegare in modo gentile, perché non mi spezza mai, e il modo di soffiare del vento. So da dove sorge il sole e dove va a cadere. So quali sono i profumi dell’aria che cambiano ogni giorno ed in ogni stagione. Ho imparato a conoscere e ad amare questo mondo. Tu conosci davvero il tuo mondo? Sai dirmi se quando ti svegli scendi dal letto con il tuo piede destro o quello sinistro? – – Il piede destro o quello sinistro … che esempio cretino! – sentenziò l’uomo che davvero non lo ricordava – non posso certo fermarmi a pensare a cose tanto banali. Ho gambe solide e piedi grandi per salire su cime sempre più grandi e da lì guardare dall’alto il creato. Sono l’uomo, e pensieri tanto piccoli non mi bastano davvero -. L’uomo si alzò riprendendo il cammino verso una nuova cima. Ma un attimo dopo l’aquila arrivò spezzando col becco il fiore e cogliendolo delicatamente lo portò con sé. Dall’alto il fiore vide l’uomo con i grandi piedi e la gambe solide. Dall’alto, molto più in alto dell’uomo, il fiore guardava il mondo, imparando a conoscerlo, provando la gioia di nuovi colori, di nuovi profumi, e conoscendo nuovi amici, e l’uomo non era più davvero così grande.


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Promos

Volare … arrivare?

Giugno 1999, giorno,ora e luogo imprecisati.

Sua Santità’ (per gli amici Karol) mi chiama sul telefonino: “Mario, devi venire subito a Roma, ho bisogno urgente di un consiglio” E io: “Oh bella, se del consiglio hai bisogno tu, perché non scendi tu?”. Karol: “E che non lo sai che con tutti ‘sti preti e ‘ste suore che chiedono favori, raccomandazioni … mi stanno rompendo i …” Io: “Karol, non peccare” Karol: “Stavo dicendo … mi stanno rompendo i colonnati in San Pietro”.

E così mi toccò a me andare a Roma, e siccome per il lavoro che faccio si fa la fame scelsi una compagnia aerea siciliana, non meglio identificata, che ha tariffe notevolmente più basse dell’Alitalia. Arrivò l’ora della partenza. E, fino al momento di salire sull’aereo, sembrava tutto normale. Ma appena salito una cosa non mi quadrava: l’hostess era vestita di pelle e aveva in mano una frusta. Appena a bordo si sentì la voce del pilota: “Spiacenti ma la batteria é scarica! Tutti i passeggeri scendere e spingere, marsch!!” Fummo subito convinti a frustate della necessità dell’operazione e l’aereo s’avviò’. Ma appena a bordo il copilota: “Porc … – … abbiamo dimenticato di fare benzina” Egli allora scese dall’aereo con un bidoncino e ,dopo pochi minuti, venne a rifornire l’aereo. Inutile dire che abbiamo dovuto spingere di nuovo. Di nuovo a bordo questa volta l’aereo decollò, non senza fatica. Un passeggero, con timida voce fantozziana disse: “Ehm, FORSE nella seconda spinta dell’aeromobile un anziano di 88 anni ci ha lasciato”. Voce dalla cabina di pilotaggio: “Bene, l’aereo è più leggero. Sale la probabilità di arrivare a destinazione” E a questo punto passò l’hostess a distribuire … il rosario dicendo: “Mi raccomando!!!! Pregate intensamente!!!” Un passeggero ha osato muovere una gamba, ma subito l’hostess l’ha frustato nelle gengive apostrofandolo: “Ma è pazzo? Non sa che influisce sull’assetto dell’aereo?” E intanto dalla cabina di pilotaggio si sentiva un discorso tra i piloti: “Dunque, qui c’e’ scritto: la cloche serve a dirigere l’aeromobile in tutte le direzioni. Piuttosto, vedi se nel manuale c’è scritto questo quadrante rosso a cosa serve, poi qui c’è una luce bianca … quella è la torcia tascabile che ho posato là, intelligente” E non si sa come, arrivammo a Roma. Inutile dire che tutti appena scesi baciammo a terra. Tutti, tranne uno, che baciò non solo a terra, ma tutte le persone che lavoravano in aerostazione, sia uomini che donne, nonché gli animali (cani,gatti,pulci) che in quel momento erano in aerostazione. Egli e’ stato denunciato per “atti scemi in luogo pubblico”  .


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Mario Pisciotta

Nuvole & nuvole

Era notte, avevo molto sonno. Non potevo proprio dormire in una notte come quella! Non dopo una giornata così: ci eravamo uniti tutti insieme, all’università, e avevamo stretto in un pugno la nostra libertà. Non era possibile dormire, sarebbe stato come lasciare la presa. Abbiamo acceso dei fuochi, per affrontare la notte all’aperto, in piazza Tien An Men, io però avevo freddo lo stesso, così mi sono avvicinata a lui perché mi scaldasse. Sotto la sua coperta e con il suo braccio intorno alle spalle stavo meglio. Non c’era bisogno di parole in quella notte magica, ma dopo un quarto d’ora di silenzio sentii il bisogno di sussurrare: “Siamo liberi!” Fu l’ultimo momento in cui l’illusione della libertà trovò posto dentro di me. Lui disse quello che già sapevo, ma che non volevo ammettere, e tornai a sbattere contro la realtà.

“Arriveranno i carri armati.” Inconsciamente mi strinsi a lui, come per chiedergli protezione. Per distrarmi iniziò a parlare, dapprima non feci caso a quello che diceva, mi limitavo ad ascoltare il suono sommesso e dolce della sua voce, solo più tardi capii il significato delle parole. Parole che con il tempo hanno assunto una grande importanza nella mia vita, e anche oggi mi accompagnano e mi danno forza. So che non riuscirò a ripeterle esattamente, e che dimenticherò qualche cosa, ma l’importante è il significato. “Ogni volta che vedrai una nuvola giocare nel cielo, cambiare la sua forma o volare via facendoti credere che lei non si muove, ma sono le stelle a spostarsi, ricordati che dentro di te, nel tuo cuore, tu sarai sempre libera. Le tue idee, i tuoi pensieri ed il tuo amore potranno sempre volare come le nuvole: liberi, senza limiti, perché il tuo cuore è molto più grande di qualsiasi cielo!”.

Si fermò per un secondo, forse solo per pensare a come continuare, ma tornò il silenzio quel silenzio che mi costringeva a pensare ai carri armati. Non potei fare a meno di stringermi a lui con ancora più forza, fino a quando non riprese a parlare.

“Qualsiasi cosa sarai costretta a fare nessuno potrà mai controllare il tuo sorriso: finché i tuoi occhi ed il tuo viso sorrideranno tu sarai come una nuvola, libera e felice!”.

Io gli sorrisi, con le labbra o con gli occhi non lo so, lui se ne accorse, mi accarezzò una guancia dicendo: “Così va bene!” poi, facendo scivolare un dito sulle mie labbra sorridenti “In tutta la mia vita è solo la seconda volta che accarezzo una nuvola!” Come cambiano le cose in un giorno!

Fino al giorno prima era un amico come un altro, beh, non si può definire una persona così originale e idealista “come un altro”, ma per me non era che uno tra i tanti.

Quella sera invece aveva il potere di tenere lontana la paura, di farmi sentire tranquilla, felice e libera, come una nuvola.

Stava diventando importante per me.

Forse per allontanare l’opprimente silenzio, forse per curiosità gli chiesi di raccontarmi di quando accarezzò una nuvola la prima volta.

“E’ stato per magia, la più potente che io conosca: la musica. Ricordi quando sono venuto la prima volta a casa tua? Quando ho visto il pianoforte e ti ho chiesto di suonare per me? E’ stata l’unica volta che qualcuno ha suonato per me: io non ricordo niente, nemmeno che cosa hai suonato, so solo che era una melodia bellissima, sulle sue ali la mia anima è volata via, nel cielo. Probabilmente se in quel momento mi avessi chiesto qualche cosa non avrei risposto: non ero li.

Non solo accarezzai le nuvole, giocai con loro… è bello volare…”

Le ultime parole erano sempre più incerte, tanto che alla fine non riusciva più a parlare. E’ incredibile come un uomo possa essere coraggioso di fronte ai carri armati e poi mettersi a tremare quando a guardarlo sono due occhi verdi!

Ancora una volta tornò il silenzio, ma non durò molto: lo guardai negli occhi, avvicinai il mio viso al suo, la mia bocca alla sua e dissi: “Hai mai baciato una nuvola?” e le nostre labbra iniziarono ad accarezzarsi. Questa volta non mi accorsi del silenzio, non mi accorsi nemmeno del tempo che passava, esistevano solo la dolcezza delle sue labbra, della sua lingua, e delle sue carezze.

Quel bacio ebbe il potere di allontanare le mie paure e di far scivolare via la tensione. Il sonno accumulato durante quella lunghissima giornata prese il sopravvento.

Quando le labbra si allontanarono feci solo in tempo a sentire: “Ti amo.” poi appoggiai il mio viso al suo petto e mi addormentai. Lui non dormì, lo so perché non avrei potuto fare sogni così belli, quella notte, se lui non avesse vegliato su di me. All’alba mi svegliò una lacrima, poi un’altra e un altra ancora, poi tante. Aprii gli occhi e mi accorsi che era pioggia.

Con voce ancora assonnata dissi: “Non bastavano i carri armati, ci voleva anche la pioggia!” “No, stai tranquilla, sono le nuvole che scendono giù per farci coraggio!”


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Michele Pinto

Chi c’è in decollo

Chi vola in parapendio lo sa bene: l’area di decollo non è in un comodo aeroporto o in un’aviosuperficie attrezzata. Il luogo per effettuare il decollo, chiamato semplicemente “il decollo”, è su in alto, in collina o ancora più in alto, in montagna: un’area possibilmente libera da alberi e da ostacoli, esposta favorevolmente rispetto al vento dominante e aperta verso valle. A volte è un ampio prato in lieve declivio altre un ripido pendio attorniato da alberi o cespugli che lasciano uno stretto corridoio a disposizione dei piloti e poco spazio agli errori.

Nei casi più fortunati si arriva all’area di decollo percorrendo un tratto in auto e poi un breve tratto a piedi con lo zaino sulle spalle. Altre volte lo zaino lo si deve trasportare per una mezz’ora o più di cammino su sentieri ripidi ed accidentati. C’e’ da considerare che quando si parla di zaino da pilota di parapendio non si intende un normale zaino da escursionista del peso di quattro o cinque chili. Quello che i piloti si caricano sulle spalle è uno zaino enorme che pesa tra i 15 ed i 20 chili e che, una volta indossato, li fa sembrare, agli occhi degli spettatori casuali, simili a delle lumache che, faticosamente, si trascinano sotto grossi gusci colorati.

La fatica di portare questo enorme fardello è però premiata dal fatto che esso contiene tutto il necessario per volare: il parapendio, l’imbracatura, la tuta, il casco e gli strumenti. O meglio quasi tutto, infatti, ciò che ancora manca è il posto in quota da dove prendere il volo. Ma, come stavamo dicendo, a quello, con un po’ di fatica e sudore, ci si arriva.

Quando si arriva sul decollo, la prima cosa che si fa è dare un’occhiata alla manica a vento. A dire il vero, in alcuni decolli si trova una vera e propria manica a vento cioè una specie di bandierina di tela a righe colorate fatta a forma di tubo, come quelle che vi sarà sicuramente capitato di vedere in un qualche aeroporto o su qualche autostrada. In altri decolli c’e’ invece solo un fiocco, cioè un ciuffo di strisce di plastica, di quelle bianche e rosse che servono per delimitare i lavori in corso, appeso ad un’asta o ad un lungo ramo piantato nel terreno. Lo scopo del fiocco e della manica a vento è lo stesso: indicare la direzione e l’intensità’ del vento.

Così, se una volta giunti in cima non si vedono dei parapendio già in volo, la prima occhiata va alla manica o al fiocco, per vedere se c’e’ il vento “giusto”, cioè se la sua direzione e la sua intensità sono tali da permettere il decollo. Infatti, il parapendio è un mezzo che deve essere “gonfiato” per volare, cioè la sua struttura deve essere riempita d’aria per garantire che la tela acquisti la forma di un’ala con un ben definito profilo alare e una sufficiente rigidezza tali da garantirgli le caratteristiche di portanza ed efficienza che ne fanno un mezzo volante. Inoltre la manovra di decollo risulta agevole se il vento proviene dalla direzione nella quale si vuole decollare o proviene da una direzione che non si discosta eccessivamente da quella. Al contrario, una condizione di vento alle spalle è molto sfavorevole e può implicare l’impossibilita’ ad effettuare la manovra di decollo.

Ma lasciamo questi tecnicismi e torniamo a quello sguardo fisso sulla manica: una volta che con occhio critico se ne sono studiati i movimenti e che le prime valutazioni sulle condizioni del vento si fanno largo a tentoni nella mente in forte debito d’ossigeno, l’attenzione dei nuovi arrivati, ancora con gli zaini in spalla e con il fiato corto, passa a controllare chi c’e’ e cosa accade lì su. Infatti, l’attività’ dei piloti arrivati in precedenza è un indice di ciò che la giornata prospetta. Se si trovano piloti indaffarati a spiegare le vele, ad imbracarsi, a svolgere fervidamente i controlli pre-volo, allora, se anche nessuno è ancora in volo, significa che le condizioni sono buone e che basterà mettersi in coda per poi decollare. Se, al contrario, si arriva e si trova un po’ di gente seduta a chiacchierare, si vedono gli zaini sparsi qua e là e si respira un’atmosfera rilassata come quella di un pic-nic, si capisce subito che ci si deve armare di pazienza perché, per poter, volare ci sarà da aspettare. Capita spesso, infatti, che, se anche il cielo è limpido e da valle tutto sembra perfetto, una volta arrivati sul decollo le condizioni non siano ancora buone per permetter un volo decente.

In questi casi si procede con calma: si riprende fiato, si scambiano i primi saluti, ci si libera dello zaino e si cerca un posto comodo per sedersi ed aspettare. Praticando il volo libero si scopre come esso risulti essere, a volte, uno sport di attesa che richiede buone doti di pazienza che, in certi casi, possono essere portate anche all’estremo. Si può dire che esso è più vicino al gioco degli scacchi di quanto non si possa pensare! Alcune volte, infatti, si deve mettere in conto che l’attesa in decollo, nella speranza che le condizioni si rendano accettabili per il volo, può durare per delle ore. In alcuni casi, può addirittura accadere che l’attesa non venga premiata dal tanto agognato volo, ma, al contrario, può essere che le condizioni negative permangano, costringendo alla discesa a valle con lo zaino in spalla.

Per un pilota, un ritorno a valle a piedi con lo zaino in spalla suona sempre come una piccola sconfitta, mentre la voglia di volare tempra verso il sacrificio. Così, da bravi e ostinati piloti, anche in quei casi in cui non c’e’ il vento giusto, si resta in cima speranzosi nel miglioramento o fiduciosi nelle immancabili osservazioni ottimistiche di qualcuno dei piloti locali che meglio conoscono i segreti del posto e meglio dovrebbero saper valutare le possibilità di miglioramento.

In ogni caso l’attesa sul decollo non è come una noiosa attesa nell’anticamera dello studio di un dentista. Il clima è ben diverso (e ci mancherebbe!) e si inganna il tempo amenamente con i discorsi sul volo, sulle manovre, sui materiali, sulle prestazioni di questa o quella vela, sui contenuti dell’articolo letto sull’ultimo numero di una rivista specializzata. In gergo questo si chiama “parlapendio” e risulta essere uno sport molto praticato e scevro da qualsiasi rischio: i voli pindarici, infatti, non hanno mai fatto male a nessuno!

Nei casi in cui l’attesa si protrae, capita che la conversazione si scaldi e così viene il momento di tirare fuori i racconti più succulenti: le manovre di decollo azzardate, gli errori clamorosi conclusi con piloti aggrappati ad alberi o cavi elettrici, le manovre acrobatiche al limite della sicurezza o dell’inviluppo di volo del parapendio, gli atterraggi buffi o eseguiti in condizioni di emergenza. Insomma i discorsi diventano coloriti ed oscillano tra il goliardico ed il drammatico: si raccontano i propri voli epici in cui sono state raggiunte quote stratosferiche e sono state percorse distanze sconfinate e poi si parla degli errori madornali commessi in volo, ma sempre da un qualche altro pilota.

L’attesa crea così un convivio piacevole dove il tempo scorre tra racconti di storie e leggende e dove, persone qualunque, che affidano la loro vita ad un lenzuolo di tela colorata ed ad un fascio di sottilissimi cordini di carbonio, esorcizzano le loro piccole, umane e immancabili paure. Ma ecco, nel bel mezzo di quel chiacchiericcio, qualcosa cambia: la manica a vento comincia a sollevarsi con regolarità, il vento si “addrizza” mettendosi, a volte, nella direzione favorevole al decollo. E sì, il vento è fenomeno strano, non è mai lo stesso, si presenta con dei cicli che bisogna individuare ed elaborare. Così gli sguardi di tutti vengono magneticamente attratti dal tubo di tela e dalle sue evoluzioni: si cerca di interpretare la durata e la regolarità dei cicli del vento. Si elaborano le informazioni per decidere sul da farsi.

“Sembra buono.” dice qualcuno con gli occhi fissi sulla manica. “Io aspetterei ancora un po’.” dice qualcun altro che la guarda con più sospetto. “Ecco, ecco sembra che tenga …” aggiunge un altro ancora. Così i commenti sul balletto del pezzo di tela continuano fino al momento in cui qualcuno pronuncia la fatidica frase: “Io apro!” ed alle parole fa seguire l’estrazione della vela dallo zaino. Si porta in mezzo all’area di decollo, apre il pacco di tela colorata dispiegandola accuratamente sull’erba del decollo e poi procede alla cerimonia dei controlli pre-volo: “I cordini A, … B, … C, … D … sono a posto, niente intrecci e nessun nodo.” Quindi indossa l’imbracatura allaccia i moschettoni dei cosciali e quelli ventrali, indossa il casco, aggancia la vela all’imbracatura, da’ un’occhiata allo spazio aereo … “libero” pensa tra sé …

Nel frattempo l’area di decollo, con il vento che sembra regalare le condizioni buone per il volo, è animata da un’agitazione in cui i piloti, prima incerti, ora cominciano a mettere mano ai loro zaini. Le chiusure lampo scorrono e le sacche con le vele vengono fuori dagli zaini. Altri “volenterosi” sono pronti ad iniziare a loro volta le procedure pre-volo. Tutti però sono curiosi di vedere come andrà per quel primo “temerario” che si lancerà in volo: riuscirà a fare quota o, tradito dall’assenza di correnti favorevoli, dovrà scendere placidamente e rapidamente verso l’atterraggio a valle? Così tutti gli occhi sono puntati su quell’unico pilota che, in piedi, con in mano gli elevatori ed i freni, scruta la manica a vento. Deve cogliere il ciclo di vento giusto e forse anche fare qualcosa in più: dimostrare agli altri che il suo fiuto non l’ha ingannato e che la scelta di tempo è stata giusta. Così egli attende, elevatori e freni nelle mani, fronte alla vela e spalle alla direzione di decollo, attende e mentalmente invita il vento a soffiare regolare per quella manciata di secondi necessaria a fargli gonfiare la vela e permettergli, in pochi passi, di levarsi in volo.

Ed ecco che, dopo l’ennesima esitazione, la manica si gonfia decisa mostrando che il ciclo è quello giusto. Il pilota con gesti precisi indietreggia tirando a se la vela: un rumore crepitante di tela cerata e poi un grande arco colorato si dispiega, si gonfia e sale vivo sulla verticale del pilota. Egli rapido la controlla dando un po’ di freno a sinistra o forse a destra, quindi quando l’ha fermato dritto sulla sua testa, velocemente si gira e corre giù dal pendio. Due, tre, quattro passi e un sibilo lieve nel vento accompagna il distacco dal suolo di quella fantastica, semplice e romantica macchina volante. .


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Claudio Palmieri

Palla di cannone

(Al mio Angelo Custode)

Avevo urtato violentemente l’anca destra contro una roccia, ma ora non era il dolore che mi preoccupava, bensì il fatto che non stavo volando! Non volavo affatto, stavo cadendo! L’urto non era bastato a fermarmi e quello che mi trovavo davanti era uno spettacolo terrificante: senza controllo ero sparato come una palla di cannone giù per il pendio, in una specie di canalone con una parete di roccia a sinistra, una fila di alberi a destra e una betulla in fondo, proprio sulla mia traiettoria. Avevo letto e sentito dire di cosa si prova quando si rischia di lasciarci le penne: “si vede tutta la propria vita passarti davanti agli occhi”, oppure “tutto appare rallentato e i secondi sembrano minuti”, o ancora “ti domina una freddezza che ti rende capace di agire con la massima lucidità”. Bene, io non ho provato niente di tutto questo; ero sparato come un proiettile giù da una montagna e non avevo altre immagini negli occhi che quelle delle rocce e dei tronchi attorno a me, non avevo percezioni del tempo rallentate e neanche mi sentivo freddo e calcolatore. Ero senza controllo, vedevo sfrecciare rocce e tronchi ai lati e, mentre la betulla era sempre più vicina, riuscivo a pensare solo che questa volta mi sarei fatto male sul serio.

Ma scusate, forse sono andato troppo avanti con la mia storia. Non vi ho detto chi sono e di cosa vi sto parlando. Meglio rimediare subito. Il mio nome non conta molto ai fini di questo racconto, sappiate solo che sono un padre di famiglia con la passione per il volo in parapendio. Sì, proprio così, sono uno di quei “pazzi” che si lanciano giù dalle montagne per veleggiare attaccati a dei “fazzoletti” di nylon colorato. Niente a che fare con i paracadutisti, loro si buttano giù da un aereo ed hanno un paracadute che serve a frenare la loro inesorabile caduta verso terra. Noi parapendisti invece voliamo, perché il mezzo che usiamo ci permette di decollare a piedi da un pendio e, sfruttando le correnti ascensionali dell’aria, può farci salire a quote più elevate di quella da cui abbiamo spiccato il volo. Ma ecco che mi sto perdendo di nuovo! E’ meglio che torni alla mia vicenda e che lo faccia raccontandovi tutto partendo, diligentemente, dall’inizio.

Era domenica pomeriggio, un primo dicembre assolato con un cielo limpido che faceva sperare in un bel volo veleggiato. La funivia ci aveva portati alla stazione più alta e dopo era toccato a noi darci da fare per raggiungere la zona di decollo con una camminata tra boschi di abeti, castagni e betulle. Nonostante i grossi zaini sulle spalle, eravamo arrivati abbastanza rapidamente alla nostra destinazione: una radura in pendenza che si apriva sulla valle offrendo una visione mozzafiato. Il sole, ancora alto sulle creste delle montagne a ovest, illuminava la decina di allievi piloti che ora occupavano il prato dove, di lì a poco, avrebbero spiegato le vele e preso la rincorsa per spiccare il volo. L’istruttore giù in valle si teneva in contatto radio pronto per assistere i meno esperti nelle manovre di atterraggio. In queste occasioni, quando devono decollare degli allievi, chi ha più esperienza da’ la precedenza a coloro che ne hanno meno. Io ero tra quelli con più voli nel mio carnet per cui mi ero messo inizialmente in disparte deciso a decollare tra gli ultimi. Il vento era perfetto: frontale e con intensità costante, l’ideale per facilitare la manovra di decollo. L’aria limpida e fredda faceva già pregustare un volo piacevole.

Paolo, l’assistente dell’istruttore, aveva dato le ultime indicazioni agli allievi e i primi già si preparavano al decollo. Dopo aver fatto i controlli di rito e con un po’ di esitazione dovuta all’immancabile tensione che avvolge chi sta per spiccare il volo, le prime vele avevano cominciato a staccarsi dal pendio.

Teli colorati di rosso, di giallo intenso, di blu scuro stagliati contro un cielo azzurro offrivano, a noi ancora a terra, uno spettacolo di bellezza radiosa. Man mano che i decolli si susseguivano, l’atmosfera si rilassava e qualche pilota cominciava a prendersela più comoda nel fare i preparativi ed i controlli pre-volo. Così scambiando battute e ribattendo alle spiritosaggini degli altri, qualcuno si tratteneva troppo a lungo sul decollo ritardando il susseguirsi delle partenze. Se questo atteggiamento in primavera o d’estate può non rappresentare un problema, d’inverno invece può farlo. Infatti, in questa stagione le giornate sono più corte e quando il sole tramonta, l’aria fredda tende immediatamente a scendere giù dalla montagna creando una corrente che va dall’alto verso il basso. Questa aria discendente rende il decollo con il parapendio difficile ed a volte addirittura impossibile.

Così a causa di qualche esitazione dei piloti decollati prima di me e di qualche immancabile problema tecnico, il mio turno di decollo era arrivato quando le condizioni non erano oramai più quelle ottimali. Il vento frontale era quasi nullo il che significava avere bisogno di una rincorsa di decollo più lunga, ma, in quel posto, la lunghezza dello spazio di decollo prima che la pendenza del prato diventasse eccessiva era molto breve. Inoltre la tendenza del vento era oramai quella di passare da vento nullo a vento discendente. Il sole era quasi dietro ai monti e non c’era da aspettarsi che l’aria riprendesse a salire dalla valle.

Ogni volta che si vola, visto che si rischia la vita, si deve valutare tutto: le proprie capacità, le proprie condizioni fisiche, le caratteristiche dell’attrezzatura che si usa, le caratteristiche e le condizioni della zona di decollo. Solo dopo aver esaminato tutto questo si può decidere se si può decollare in sicurezza o meno. Questa e’ la teoria, ma nella pratica bisogna purtroppo aggiungere l’influenza che sulla decisione hanno fattori quali: la voglia di volare, la volontà di non rinunciare al decollo perché farlo significherebbe rimettersi tutto in spalla e scendere a valle a piedi. Per questo, in qualche caso, la decisione tecnica sulla fattibilità del decollo risulta un po’ viziata e, con l’aggiunta di una buona dose di fiducia nelle proprie capacità, a volte si decide di decollare anche quando magari sarebbe il caso di non prendere il rischio. Così, rispettando questo copione, nonostante la mia vela fosse difficoltosa da far decollare con vento nullo e il tratto a disposizione per l’accelerazione fosse particolarmente corto, io avevo deciso di decollare ugualmente.

Una volta fatti i controlli pre-volo, ero pronto: occhi alla valle, elevatori e freni nelle mani tenute alte sulle spalle. Il fiocco di fili di plastica che doveva indicare intensità e direzione del vento era pietosamente floscio. Guardandolo mi dicevo: “ok dovrai tirare gli elevatori con più decisione ed accelerare la corsa in modo da gonfiare la vela il più rapidamente possibile, quindi correre senza esitare verso la fine del prato; puoi farcela!”

Dopo aver dato un ultimo sguardo alla disposizione della vela alle mie spalle, e dopo aver dato l’ok a Paolo per segnalargli che ero pronto ad andare, avevo preso un bel respiro ed ero partito a razzo!

Dopo i primi passi avevo sentito la resistenza offerta dalla vela che si gonfiava e cominciava a salirmi sopra la testa; non avevo tempo da perdere, non appena l’avevo sentita tirare verso l’alto, avevo spinto il busto in avanti e accelerato la corsa, ma il breve tratto di prato utile per la rincorsa era già finito. Ora stava alla vela fare il resto: gonfia sulla testa doveva prendere il vento e sorreggermi fino a farmi iniziare la planata verso valle. Con questa fiduciosa idea in mente mi ero ancora di più protratto con il busto in avanti mentre correvo verso il vuoto. Ma qualcosa era andato storto. Non avevo sentito la trazione alle spalle e l’attesa sensazione di assenza di peso che doveva esserci nel momento in cui la vela cominciava a volare regolarmente. Difatti, quello che ritenevo un decollo si stava rivelando essere solo un salto fuori dal pendio; la vela non era riuscita ad acquistare la velocità sufficiente per sorreggere il mio peso e staccarmi da terra! Così, non stavo volando, ma stavo letteralmente cadendo lungo un pendio scosceso che non offriva ripari, così ripido da dare spazio alla mia traiettoria lasciandomi accelerare, senza ostacolarmi, nella mia caduta. La situazione era critica: la vela non era gonfia a sufficienza per farmi volare ma offriva ugualmente una qualche resistenza e tendeva a spostarmi verso destra, dalla parte sbagliata del pendio, quella dove il prato lasciava spazio alle rocce ed ai tronchi d’albero. Avevo subito cercato di contrastare la traiettoria della vela con i comandi, ma la risposta era stata nulla; cadevo e lo facevo sempre più velocemente. Vedevo avvicinarsi rapido uno scalino di roccia piatta fino al punto di sbatterci violentemente l’anca destra. La sensazione di acuto dolore all’anca aveva subito lasciato spazio al terrore quando avevo visto cosa c’era oltre lo scalino di roccia. L’urto non era infatti riuscito a fermarmi perché la vela ancora gonfia e fuori controllo continuava a tirarmi ed io ero sparato come una palla di cannone in una specie di canalone con una parete di roccia a sinistra, una fila di alberi alla destra e una betulla in fondo, collimata con la mia traiettoria. Lanciato in questa caduta, vedevo sfrecciare a velocità pazzesca le rocce alla mia sinistra e i tronchi alla mia destra mentre la betulla era sempre più vicina. A quella velocità qualsiasi urto mi avrebbe spaccato le ossa e, se avessi finito la mia caduta addosso a quell’albero, mi ci sarei accartocciato attorno rischiando di rimetterci la pelle. A peggiorare questa situazione già disperata c’era il fatto che se anche avessi miracolosamente evitato quella prima betulla la mia caduta si sarebbe interrotta poco più in là su di un filare di piante simili. Ero in una situazione apparentemente senza scampo e nella mia testa riuscivo solo a pensare: “questa volta ti fai male sul serio”. Mentre mi preparavo all’urto con queste idee nefaste per la mente, avevo istintivamente tirato il freno destro sperando che, un qualche residuo controllo della mia vela impazzita mi permettesse di schivare quell’albero che mi si parava davanti minaccioso. Ma poi, in un attimo, lo schianto…

Una voce dal decollo chiamava furiosamente il mio nome chiedendomi se stessi bene. Io ero sospeso all’albero e cercavo di capire cosa fosse successo. Lentamente stavo riprendendo coscienza: ero ancora intero, appeso a quella betulla verso la quale ero lanciato nella mia caduta. L’anca destra era dolorante, ma non sentivo nessun altro dolore.

La voce di Paolo continuava con insistenza a chiamare il mio nome denotando una preoccupazione crescente. Lentamente cominciavo a rendermi conto di essere appeso quasi a testa in giù. Il ricordo delle raccomandazioni del manuale di volo mi aveva fatto aspettare a slacciare l’imbracatura: “quando si finisce su di un albero, prima di slacciare l’imbracatura bisogna assicurarsi così da non rischiare di cadere e peggiorare la situazione”. Fortunatamente io ero a pochi centimetri da terra e slacciandomi non avrei rischiato altro che cadere riverso al suolo. Una volta uscito dall’imbracatura, con i piedi finalmente a terra, avevo alzato gli occhi verso l’alto ed avevo visto la mia vela gialla morbidamente distesa sulla cima dell’albero. Solo in quel momento, guardando la posizione della vela e quella dell’imbracatura, ero riuscito a ricostruire la dinamica di quanto era accaduto: il mio disperato tentativo di correggere la traiettoria all’ultimo momento mi aveva fatto evitare la collisione diretta con il tronco della betulla, ma la vela aveva ugualmente urtato la cima dell’albero e, rimasta impigliata, vi si era bloccata. Questo aveva frenato la mia caduta facendomi inoltre ruotare verso destra ed urtare il suolo con lo schienale dell’imbracatura. L’imbottitura dorsale aveva così assorbito l’urto violento ed evitato pericolosi traumi.

Per rispondere alle grida oramai disperate di Paolo che, sceso dal decollo, ora riusciva anche a vedermi, avevo urlato che era tutto ok facendo il classico gesto con il pugno chiuso e il pollice in alto. Poi, slacciato il casco, mi ero soffermato a pensare a me: ero salvo, un po’ dolorante, ma incredibilmente illeso! Miracolosamente ero ancora vivo, in piedi, in fondo a quel canalone, con il casco tra le mani e anche con la coscienza di non essere da solo: infatti, anche se per un attimo, l’avevo vista quando lei, perfidamente, aveva tentato di nascondere la sua falce dietro quella betulla.

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