Sulle ali dell’entusiasmo

Spiccai il volo alle 08:37 del mattino.

Partii dal campanile della chiesa sul colle di San Tommaso, la vetta più alta della prima periferia. Da lassù vedevo tutta la città, dai cortili del duca fino alla piccola capanna dello zio Samuele, dalla caserma dei pompieri fino all’orticello dell’Antonella. I palazzi brillavano sotto la luce del primo sole del giorno; e con calma facevano capolino i primi fiori, invitati da un caldo piuttosto insolito per il mese corrente dell’anno.

Ero estasiato, ubriacato dalla bellezza dei tetti rossastri che si alternavano alle chiome verdi delle querce, sparse qua e là a ombreggiare i passanti; e il mio sguardo sornione venne ridestato soltanto dal frastuono di un grande aereo, che volava in cielo con me solcando le nuvole bianche.

La città viveva due risvegli, nei giorni feriali: il primo, il mattino presto, dovuto a fabbriche e scuole, che muovevano una buona fetta di paesani entro le otto; il secondo, invece, iniziava una mezz’ora dopo, con molta più calma e dispersività; e vedeva protagonisti tutti coloro che, per un motivo o per l’altro, non avevano, in precedenza, nulla da fare.

Era il caso dell’ormai non più piccolo Filippo, che marinava per l’ennesima volta la scuola per vedersi con la bella Teresa, che in compenso poteva svegliarsi tardi essendo di professione mantenuta, vivendo alle spalle del povero Michele, che era invece in piedi da ore, per portare a casa qualche tozzo di pane.

Oppure era il caso di Luciano che, dopo l’ennesimo comportamento irriverente al lavoro, si era ritrovato disoccupato e viveva di piccoli furti; oppure di Maria che avrebbe, dopo una vita di sacrifici, meritato un po’ di riposo e che invece doveva svegliarsi per cucinare per tutti i suoi nipotini, rimasti orfani dopo l’incidente di maggio scorso; ma anche del duca che, vivendo di rendita e prepotenze, metteva con pigrizia gli stivaletti per andare a caccia in una delle sue varie tenute di campagna.

Ecco, in questo preciso momento della giornata scelsi di librarmi in aria.

Poi accadde una cosa che non mi sarei mai aspettato.

Come avviene nei musei e nelle gallerie d’arte, dove, in contemplazione di un quadro, inizialmente si ha una visione d’insieme e poi l’occhio cade sui vari particolari, allo stesso modo mi trovai, dopo un primo istante di meraviglia visiva in cui potei ammirare tutta la città, a mettere a fuoco alcuni piccoli, ma significanti, dettagli.

Solo certe cose attirarono, involontariamente, le attenzioni delle mie pupille. E non furono le ormai ultime foglie gialle e rosse in terra che venivano raccolte dal vento, non furono le grazie della signorina Rosaria che usciva a stendere la biancheria in terrazza, non furono nemmeno le code di biciclette che si stavano creando attorno a Porta Garibaldi in vista della corsa cittadina del pomeriggio. Furono altri i dettagli, quelli che non avresti creduto di vedere, ma che invece non puoi più fare a meno di osservare.

Subito, l’occhio mi cadde su casa mia, su quel tetto un po’ rovinato ricoperto da frisbee e palloni che mio figlio Filippo non andava mai a recuperare. Ma più che sul tetto, notai la finestra di camera sua, quella al pian terreno, ancora aperta, lasciata spalancata dopo la sua fuga per incontrare la sua focosa amante. Dall’alto dove mi trovavo io – ma anche dalla strada – si intravedevano tutti i suoi aggeggini tecnologici, dal tablet al laptop fino all’impianto stereo e alla Reflex; doveva averli visti anche Luciano che, passando di lì, stava, senza difficoltà alcuna, entrando nel vuoto edificio sapendo di poterci trovare un così ricco bottino, non solo fra le cose di mio figlio, ma anche fra le mie.

Volli distogliere lo sguardo e non pensare a quello che avevo appena visto, non potendo del resto fare nulla per evitarlo. E come si cambia punto del quadro quando di questo ormai si conosce tutto, cambiai anch’io, senza pensarci, spostando rapidamente gli occhi da destra a sinistra.

E un’altra finestra attirò subito la mia attenzione.

Era un edificio bianco, il piano era il quarto, e la struttura occupava un intero isolato; attaccata sopra al tetto, dove qualche camice bianco era andato a fumare, una grande croce rossa.

Attraverso il vetro pulito svogliatamente il giorno prima, intravedevo due occhi di donna, stanchi, pesanti. Vedevo un sorriso spento e una lacrima che solcava una guancia ormai rugosa, con le ancora delicate mani che scostavano i capelli bianchi che le cadevano sulla fronte.

Era il viso di mia madre, ormai giunta al capolinea di una lunga ma straziante malattia; guardava fuori, sulla strada dove era cresciuta, per dire addio un’ultima volta al mondo.

Feci anch’io come lei, e osservai meglio la via dietro l’ospedale, quella strada a senso unico. Poco più avanti, sempre su quella strada, due persone si abbracciavano qualche metro fuori l’uscio di casa; lui, vestito in camicia, evidentemente pronto ad andare a lavorare poco più tardi; e lei, che gli accarezzava i capelli brizzolati, in un comodo paio di jeans completati da una felpa di tuta. La donna dai capelli biondi legati sopra la testa era mia moglie, e la valigia appoggiata di fianco all’ingresso gliel’avevo regalata io, per il nostro viaggio di nozze. Evidentemente, per lei, più che a senso unico, quella strada era senza ritorno.

A volte capita che uno spettatore, davanti a un bel quadro, trovi un particolare e inorridisca; allo stesso modo feci io, di fronte a quella scena. Così cercai di cambiare completamente panorama, spostando il mio sguardo dall’altra parte della città.

Notai un’automobile che usciva da un garage condominiale; era un’auto elegante, una BMW nera, di quelle che solo a vederne il prezzo ti viene un attacco di cuore. Seguii per un po’ il percorso di quella macchina, finché non capii di chi era, e dov’era diretta: era dell’avvocato Bianchini, e veniva verso casa mia. Passava a prendermi per andare in tribunale; quel giorno era il giorno della sentenza. Sapevo già come sarebbe andata: colpevole. Quando investi i genitori di ben cinque bambini mentre attraversano la strada sulle strisce, sai già come va a finire.

Pensando a questo, mi resi conto che il mio brevissimo tempo in volo era ormai scaduto; e il mio corpo, dopo essersi lanciato dal campanile, stava per toccare, per un’ultima volta, la terra della mia città.

Sulle ali dell’entusiasmo di dire addio a quella vita.



§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§

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