titolo: An autobiography – [Una vita in cielo]
autore: Chuck Yeager e Leo Janos
editore USA: Bantam Books
edizione USA: luglio 1985
edizione ITA: 2014
ISBN USA: 0-553-25674-2
ISBN edizione ITA: 9788866970835
Alcuni anni fa, in qualche punto del cielo americano sfrecciava un aereo a reazione biposto. La forma era quella tipica del jet da caccia e addestramento. Il giovanissimo pilota ai comandi, con il volto celato dalla visiera scura, seguiva la rotta stabilita. Ogni tanto girava la testa per controllare un altro caccia che volava in coppia con lui, incollato a pochi metri dalla sua ala destra, un po’ più in alto e un po’ più indietro. Non si trattava di un altro jet. Era un aereo ad elica monoposto, scintillante nella sua colorazione grigio metallo, con la fusoliera affusolata e la cappottina a goccia, con disegni e coccarde che gli conferivano un aspetto insolito, classico, austero e vagamente antico.
Era un P-51 “Mustang”, un caccia della seconda guerra mondiale. Anzi, forse il migliore tra i caccia di quel periodo storico. Il pilota ai comandi manteneva la posizione in maniera perfetta. Il suo viso era celato dietro una visiera scura che spesso mandava riflessi.
Il jet volava ad una velocità piuttosto bassa, almeno per le prestazioni di cui sarebbe stato capace. Infatti, per volare a quella velocità, doveva mantenere un assetto visibilmente cabrato.
L’altro, probabilmente prossimo, invece, alla sua velocità massima, teneva il muso più basso sulla linea dell’orizzonte, con l’enorme disco dell’elica che disegnava un impercettibile cerchio giallo.
Anche il pilota seduto dietro, nel jet, ogni tanto girava la testa verso destra ad osservare il caccia ad elica. La visiera scura celava il suo viso.
Descritta così, la scena sembra rappresentare un semplice volo di trasferimento di due aerei da un punto all’altro con tre piloti a bordo.
Ma sono proprio le visiere scure a nascondere una realtà ben diversa, a nascondere un mondo intero, un pezzo di storia dell’aviazione che arriva dal passato e si proietta nel futuro.
Alziamole, quelle visiere!
Ed ecco la sorpresa!
Solo il pilota del jet è giovanissimo. Gli altri due sono volti diversi, molto attempati, solcati da rughe e segnati da “zampe di gallina“agli angoli degli occhi, che rivelano anni e anni di esposizione al sole delle alte quote. Volti anziani, occhi infossati che guardano lontano nel bellissimo paesaggio sottostante, ma che guardano lontano anche nel profondo dei loro ricordi. Occhi che conoscono perfettamente ogni angolo del mondo che scorre sotto di loro. Lo hanno percorso migliaia di volte. Volti tranquilli, perché conoscono ogni minima vibrazione dei loro aerei. Hanno volato a lungo con ognuno di essi. Sono stati loro, infatti, ad averli sviluppati, collaudati, usati in pace e perfino in guerra.
Il pilota del P51 era stato un pilota collaudatore. Si trattava di Clarence Emil Anderson, conosciuto meglio come “Andy” o “Bud”. Ci aveva fatto la guerra, con quel Mustang.
Il pilota seduto dietro nel jet era nientemeno che il più grande test pilot del mondo: Charles “Chuck”Yeager. Lui pure aveva fatto la guerra con il Mustang . Proprio insieme a Bud Anderson.
Entrambi erano stati dislocati in Inghilterra ed avevano partecipato alle operazioni belliche del periodo dello sbarco alleato in Normandia.
Dopo l’arrivo a destinazione i tre piloti vennero intervistati dalla stampa presente all’evento del volo di due aerei di epoche tanto diverse.
Su una rivista di settore lessi, molti anni fa, l’intervista al giovane pilota del jet (che, se non ricordo male doveva essere un F20). In sostanza il ragazzo disse di essersi sentito vagamente in apprensione, in quel volo, perché sapeva bene che il pilota seduto dietro di lui era stato il collaudatore del mezzo nel quale stavano volando. Inoltre sapeva bene che entrambi gli anziani piloti sapevano pilotare sia il jet che il P51, mentre lui, con il P51 non avrebbe potuto nemmeno rullare brevemente per terra, almeno non senza averci fatto prima un bel corso di addestramento. E aveva perfettamente ragione, almeno per due motivi: il primo è che il carrello del Mustang è del tipo “biciclo”, con due ruote sotto le ali e una dietro, sotto la coda, molto difficile da gestire. Esattamente il contrario del jet che stava pilotando, che ha la terza ruota sotto il muso, non sotto la coda; il secondo riguarda l’enorme coppia dell’elica di un motore tanto potente come quello del P51, che sarebbe risultata difficilmente controllabile da un pilota abituato al motore a reazione. Senza contare il fatto che un giovane pilota vola ormai con cruscotti digitali e poco conosce dei vecchi strumenti analogici di cui erano infarciti i cruscotti dell’epoca passata.
Se oggi chiedessimo a chiunque chi è Chuck Yeager probabilmente sarebbero in pochissimi a rispondere in modo corretto. Ma forse basterebbe aggiungere che è il pilota che ha oltrepassato per primo il “muro del suono”. E allora sarebbero in molti a ricordare almeno l’episodio storico.
All’epoca si pensava che esistesse veramente un muro che si crea quando si raggiunge la velocità del suono. Tale velocità non è fissa, ma varia al variare di altri valori, come la quota, la temperatura dell’aria etc. Diciamo che, in condizioni standard, si tratta di una velocità che oscilla intorno ai milleduecento chilometri orari. Troppi aerei, nel tentativo di superarla, si sono disintegrati, sono andati letteralmente a pezzi, come se avessero davvero urtato contro un muro. Molte vite si sono infrante in quel punto, insieme agli aerei.
Yeager è stato il primo a dimostrare che non esisteva nessun muro. Era solo un problema di forma, di un’aerodinamica inadeguata. Risolti un bel po’ di questi problemi, il 14 ottobre del 1947, ai comandi di un aereo sperimentale Bell X-1, Yeager riuscì a superare quella velocità.
E questo fu un fatto epocale, che ha portato un impulso importante nella conoscenza dell’aerodinamica e di altre materie a questa complementari. Inoltre, ha aperto la strada alla conquista dello spazio.
Il libro di cui mi accingo a scrivere una recensione è un’autobiografia.
Il titolo è chiaro: Yeager, an autobiography.
E’ stata scritta proprio da Yeager, ma in una forma piuttosto inusuale, quasi a sottolineare il tipo inusuale che è lui stesso. Quando narra i fatti della sua vita non si limita solamente a raccontarli. Li fa raccontare anche da altre persone che in quei fatti sono stati in qualche modo coinvolti. Può trattarsi di sua moglie Glennis o di un altro pilota che volava in coppia con lui. Oppure di qualche ingegnere con il quale collaborava in maniera molto stretta durante i collaudi etc.
I capitoli del libro sono scritti da lui, da sua moglie, da qualcuno dei suoi superiori, da un suo collega, da uno degli ingegneri e così via. Abbiamo così la stessa storia vista da occhi diversi. E questo risulta piuttosto sorprendente in diversi punti del libro.
Insomma, il resoconto dello stesso evento, visto da due o tre persone diverse, almeno in alcuni particolari, si discosta abbastanza dal filo della narrazione. L’ego gioca un ruolo importante nell’interpretazione di un fatto. A volte si tende perfino a negare un risultato, oppure a magnificarlo. E anche il tempo che passa gioca un ruolo importante. La memoria è fallace, qualcuno ricorda meglio, qualcuno sposta il punto focale degli eventi a seconda della propria personalità. La conseguenza è che lo stesso episodio può essere narrato in modi molto diversi, le immagini giungono sfocate dal passato, come se fossero, in altri termini, leggermente fuori fuoco. E’ risaputo.
Un famoso fotografo di guerra, Robert Capa, che operava in giro per il mondo, ovunque ci fosse una guerra, armato delle sue inseparabili macchine fotografiche, ha scritto un libro dal titolo “Slightly out of focus“. “Leggermente fuori fuoco“. E nella prefazione ha dichiarato che, così come le sue foto possono non essere perfettamente nitide, visto che le ha scattate quasi sempre in uno stato emozionale esasperato durante le battaglie e in costante pericolo di vita, anche i ricordi potrebbero essere leggermente diversi da come si sono realmente svolti, perché la memoria potrebbe averli sbiaditi e alterati nel corso del tempo.
Lo stesso principio vale anche per Yeager e per moltissimi episodi di cui parla.
Fatto sta che ogni tanto (spesso), qua e là per il libro, si riscontra una leggera diversità tra il racconto dell’autore e quello dei testimoni che scrivono, sullo stesso fatto, subito dopo di lui, nel capitolo successivo.
Ma la bellezza del libro sta anche in questo.
Come dicevo, Yeager è un soggetto particolare, fuori dal comune, in qualche modo eccezionale. E tutta la sua vita lo è. E’ colui che, per definizione ha “la stoffa giusta“, un’espressione tanto usata all’epoca. Ha compiuto imprese incredibili, nel vero senso della parola.
Lui dice che la sua straordinaria abilità deriva dal fatto che è nato in campagna.
Da piccolo ha giocato più sugli alberi che per terra. Sugli alberi non saliva soltanto, ma ci viveva, ci dormiva, perfino. E’ stato questo aspetto della sua infanzia a dargli una strabiliante coordinazione di tutti i movimenti del corpo, un tempismo assoluto, una capacità di percezione elevatissima e un’altrettanto elevata capacità di reazione. Qualità di enorme valore, che più avanti nel tempo avrebbero fatto di lui un pilota tanto abile.
Il padre lavorava in una società di trivellazione del gas dal sottosuolo. Spesso doveva riparare macchinari di diversa specie e Chuck andava ad aiutarlo, imparando un’altra arte di incommensurabile valore. Quella di sapere come sono fatti i materiali e i macchinari, come funzionano, fin nei minimi particolari. La capacità di imparare a conoscere le macchine in modo tanto approfondito lo avrebbe aiutato anche con gli aerei, con ogni tipo di aereo. Conoscere a fondo il proprio mezzo significa che, all’occorrenza, si possa riuscire a capire un problema un attimo prima, oppure a scovare una soluzione alla quale qualcun altro non avrebbe neanche pensato. In pratica, stiamo parlando della differenza tra vivere e morire.
Il padre era cacciatore. Spesso andava a caccia nei boschi e stava fuori per giorni. Portava con sé il piccolo Chuck, che così imparava a sparare, a tendere trappole, a dormire all’aperto. Imparava, cioè, un’altra preziosissima arte: quella di cavarsela in ambienti ostili.
Nel libro ci sono tanti episodi di come queste qualità abbiano fatto per lui, davvero, la differenza tra vivere e morire.
Appena spedito in Inghilterra, subito dopo aver cominciato le missioni di guerra, Chuck era in volo con un P51 Mustang nel sud-ovest della Francia, quando subì un colpo della contraerea. Fu costretto a lanciarsi. Sapeva che i caccia tedeschi, spesso, sparavano ai piloti che scendevano con il paracadute. Perciò non pensò neanche ad aprire subito il suo. Aspettò fino ad una quota talmente bassa da poter sentire il profumo dei boschi sottostanti, prima di aprire. In un attimo arrivò a terra e il paracadute si impigliò sugli alberi. In poco tempo riuscì a districarsi e a scendere al suolo. Fuggì subito, prima che i tedeschi riuscissero a localizzarlo. Nei boschi si sentiva perfettamente a suo agio. Per giorni camminò, dormendo in ripari di fortuna.
La storia della sua fuga, attraverso i Pirenei, per raggiungere la neutrale Spagna ed essere in seguito riportato in Inghilterra, aiutato dai Maquis francesi, è uno degli strabilianti racconti contenuti nel libro. Una storia intrisa di eventi drammatici, che qui posso solo accennare.
Durante quella fuga fu ospitato da una famiglia francese. Fu nascosto ai rastrellamenti dei tedeschi e fu salvato, a rischio della stessa vita di quella famiglia.
Per Yeager è divenuta una consuetudine tornare a trovare quella gente ogni volta che può.
Esistono diversi video, in rete, relativi a queste sue visite.
Dopo essere stato riportato in Inghilterra Chuck continuò a volare e portò a termine il suo ciclo di missioni. Alla fine aveva totalizzato 13 abbattimenti e mezzo di caccia nemici. Ma cinque di questi li ottenne tutti nel corso della stessa missione.
E alla fine tornò negli Stati Uniti.
Appena arrivato sposò la sua ragazza, Glennis.
Per tutto il corso della guerra in Europa, sul suo aereo, un P51 Mustang, aveva fatto dipingere una figura di ragazza e sotto una scritta: Glamorous Glennis, Affascinante Glannis. Era il segno distintivo che ha portato in volo ogni volta. Era il nome con il quale aveva battezzato il suo caccia. Naturalmente avrà cambiato anche aereo, sicuramente ne ha usati più di uno, ma sempre ci faceva dipingere sopra quel logo.
Dopo il rientro in patria fu assegnato ad un reparto sperimentale di volo e poi cominciò i collaudi del famoso X-1 con il quale oltrepassò il muro del suono. Era un aereo-razzo.
Ma anche a quello diede il nome di Glamorous Glennis.
Il libro tratta molto del periodo passato a collaudare aerei. La base aerea di Muroc, come si chiamava all’inizio, è stata la sua casa per anni. Dopo che questa base si era allargata e aveva preso il nome di Edwards Air Base, anche il numero di piloti era aumentato e, tra questi, cominciarono a comparire nomi che poi sarebbero diventati noti come astronauti.
Uno di questi fu proprio Neil Armstrong. Quello che mise per primo piede sulla Luna.
Yeager racconta che una volta Armstrong voleva andare ad atterrare sulla superficie di un lago prosciugato. Ce ne erano diversi, nei dintorni. Erano superfici larghissime, anche decine di miglia. E’ ovvio che se si atterra in un sito tanto remoto e lontano da qualunque insediamento umano, se succede qualcosa, diventa un problema.
Yeager disse ad Armstrong che non era il caso di andare. Lui aveva sorvolato il posto di recente e c’era ancora una visibile superficie molle, non perfettamente asciutta. Atterrarci avrebbe significato rimanerci.
Armstrong non volle sentire ragioni. Disse che avrebbe fatto solo un tocca e vai, cioè un avvicinamento come per atterrare, ma seguito da una ripartenza, senza perdere velocità. Bastava toccare le ruote un attimo e andare subito via.
Per Yeager era una follia, perché appena toccate le ruote, l’enorme resistenza che queste avrebbero prodotto, avrebbe rallentato l’aereo oltre ogni possibilità per il motore di riaccelerarlo.
Vista l’insistenza di Armstrong, Yeager si offrì di accompagnarlo.
Presero un T 33 biposto, un caccia a reazione e decollarono.
Arrivati sul lago essiccato, che dall’alto sembrava asciutto, scesero per il touch and go.
Come aveva detto Yeager, l’aereo si impantanò subito e rallentò fino a fermarsi.
Dovettero aspettare che un DC3, un bimotore da trasporto, venisse a cercarli. Per radio chiesero al pilota di dar loro tempo di spostarsi a piedi di qualche miglio verso un punto meno molle e di atterrare lì, senza fermarsi del tutto. Loro sarebbero saliti in corsa per ridecollare.
Poi toccò a Yeager tornare a recuperare il T 33, con una squadra di specialisti. Montarono un paio di razzi supplementari sulla fusoliera del caccia, per avere un supplemento di potenza, vincere la resistenza dello strato di terreno umido, accelerare e decollare.
Il libro contiene una marea di racconti come questi.
Yeager ha un modo molto militare di esporre i fatti. Senza peli sulla lingua, dice quello che pensa e presenta la realtà per come veramente è.
Solo per fare un esempio, quante volte abbiamo letto che un è aereo caduto, il pilota è morto, ma i giornali e i media in generale, mettono in evidenza l’eroismo del pilota che ha evitato di poco una scuola, un camping, un assembramento di persone?
Yeager scrive: “you smile reading newspaper stories about a pilot in a disable plane that maneuvered to miss a schoolyard before he hit the ground. That’s a crap. In an emergency situation, a pilot thinks only one thing – survival. You battle to survive right down to the ground; you think about nothing else. Your concentration is riveted on what to try next. You don’t say anything on the radio, and you aren’t even aware that a schoolyard exists. That’s exactly how it is“.
“Si ride leggendo storie sui giornali che riguardano un pilota in un aereo in avaria che ha manovrato per evitare una scuola prima di sbattere per terra. E’ una bufala. In una situazione di emergenza, un pilota pensa solo una cosa – sopravvivere. Ci si batte per sopravvivere fino a terra; Non si pensa a nient’altro. La concentrazione è inchiodata su cosa si può provare ancora. Non si dice niente alla radio, e nemmeno si è a conoscenza dell’esistenza di una scuola. E’ esattamente così“.
Crudo, ma vero.
C’è un altro racconto interessante che voglio riportare.
Quando il periodo di permanenza in Inghilterra finì, lui e Bud Anderson stavano per essere rimpatriati. Ma prima di partire, fecero un’altra missione.
Alcuni componenti della squadriglia con la quale erano partiti ebbero problemi meccanici e dovettero rientrare. Lui e Bud si trovarono a proseguire da soli.
Ormai la guerra era alla fine, i nemici erano pressoché annientati, i cieli erano liberi.
Yeager e Bud proseguirono con i loro Mustang, sorvolarono tutto il continente e dopo qualche ora si trovarono a sorvolare le Alpi. La benzina dei loro serbatoi ausiliari era finita. Sganciarono i serbatoi e Chuck Yeager li vide cadere su una montagna. Erano ben visibili, perciò propose di divertirsi a riempirli di proiettili e magari incendiarli, perché contenevano ancora alcuni litri di benzina residui.
Fecero diversi passaggi e crivellarono di colpi i serbatoi, prima di proseguire.
Così la racconta Yeager.
Però Anderson dice che nessun proiettile arrivò mai a colpire il bersaglio. L’unico risultato certo dei loro mitragliamenti fu che finirono i colpi. Ecco un caso di realtà leggermente fuori fuoco.
Senza munizioni, quindi inermi, incapaci di reagire all’attacco di qualunque nemico, passarono il confine della Svizzera, invadendo lo spazio aereo di un paese neutrale.
Sorvolarono a poche centinaia di piedi di quota il lago di Ginevra e passarono in Francia.
Qui andarono verso il punto, nel sud del paese, dove Yeager si era lanciato. Mostrò a Bud Anderson tutto il percorso che aveva seguito per attraversare i Pirenei e andare in Spagna.
Risalirono verso Nord fino a sorvolare Parigi.
Ho visto Parigi dall’alto molte volte. Place de l’étoile, con l’Arco di trionfo al centro, si vede perfettamente. I due chilometri di Avenue des Champs Elisées sono un richiamo troppo forte. Mi piacerebbe immensamente sorvolarlo a bassissima quota. Per me resterà sempre un sogno. Loro, invece, lo fecero.
E infine rientrarono alla base, a Leiston, in Inghilterra.
Ho parlato della capacità di Yeager di imparare a fondo il funzionamento di ogni meccanismo, fin nei minimi particolari. Le esperienze infantili fatte grazie all’attività del padre erano state determinanti, ma un ruolo altrettanto determinante è quello del carattere di una persona. Non tutti sono dotati di curiosità e sete di sapere. Yeager ha sempre avuto una naturale inclinazione al sapere, al provare, al conoscere.
Un ruolo importante, nella sua vita operativa, lo ha avuto un ingegnere, Jack Ridley, che lavorava al progetto X-1.
Questo personaggio era piuttosto incline a condividere le sue conoscenze.
Non tutti lo sono. Esistono persone che, quando sanno fare qualcosa, tengono ben custodita in se stessi la loro conoscenza, come per timore di vedersela rubare. Si muovono stando bene attenti a non farsi vedere, come se temessero che qualcuno particolarmente attento potesse carpire i loro segreti. Usano la loro conoscenza per rendersi il più possibile indispensabili, in modo che gli altri debbano dipendere da loro per la risoluzione di qualche problema.
Credo che chiunque conosca più di un personaggio di questo tipo.
Ma Ridley era tutto l’opposto.
Jack Ridley, pilota collaudatore e ingegnere, assegnato all’X-1 come responsabile nel settore ingegneristico, collaborò con Yeager ai collaudi. Jack spiegò tutto quello che sapeva a Chuck. E questi non si limitava di certo ad ascoltare, ma chiedeva tutto ciò che serviva:
“Jack, cosa faccio se“…
“Jack, cosa succede se“…
Cosa se… cosa se…
E Ridley rispondeva.
Da qui nasce il concetto di “what if man“, l’uomo cosa (faccio) se, tradotto.
Questo modo di procedere ha dato evidentemente ottimi risultati, perché il muro del suono fu superato. E senza altri incidenti.
C’è nel libro il racconto di un episodio, uno degli innumerevoli, dove Chuck è arrivato ad un soffio dalla catastrofe, ma si è salvato, grazie al suo “what if man“.
Come noto, l’X-1 veniva agganciato sotto la pancia di un quadrimotore B 50, evoluzione del B-29, lo stesso tipo di aereo che aveva sganciato le bombe atomiche sul Giappone.
Esistono molti video su You Tube al riguardo.
Il B 50, con Yeager a bordo, decollava e saliva alla quota stabilita. Yeager, al momento giusto, scendeva una scaletta che lo portava davanti al portello dell’ X-1 ed entrava. Richiuso il portello, si sistemava ai comandi. Dopo aver fatto i controlli necessari, appena l’aereo raggiungeva la zona dello sgancio, ad un segnale convenuto, veniva azionato il congegno che liberava l’X-1.
L’aereo – razzo, ora libero, cadeva nel vuoto. Ma aveva già la velocità minima di sostentamento che gli consentiva di cadere in maniera stabile.
Poi Yeager doveva accendere il motore a razzo, anzi, uno dei motori, perché ne aveva a disposizione diversi, e venivano accesi in sequenza a seconda delle prestazioni richieste dalla prova.
Appena avuta la spinta del razzo, l’X-1 accelerava e superava l’aereo che lo aveva sganciato, iniziando anche a salire. Un caccia a reazione, incaricato di seguirlo, volava in zona e subito si gettava all’inseguimento, almeno finché il razzo superava anche la velocità del jet, o la sua quota di tangenza.
Un giorno Yeager si trovava a bordo dell’ X-1, sotto la pancia del B 29, pronto ad essere sganciato. Il jet, detto in gergo chase plane (aereo inseguitore), era pronto ad andare al suo inseguimento.
Tutto a posto, fu dato il segnale, l’X-1 fu rilasciato, cadde giù.
Yeager comandò l’accensione del razzo, ma non accadde nulla. Per lunghi secondi la caduta continuò.
Bisognare capire il problema, fare qualcosa al più presto.
Yeager si accorse subito di non avere nessuna corrente a bordo. L’accensione era elettrica. Senza di essa il motore non si sarebbe acceso. Era un macigno che cade dal cielo.
Visto che il motore non si sarebbe acceso, doveva scaricare subito tutti i liquidi estremamente infiammabili che aveva nei serbatoi e che avrebbero dovuto alimentare il razzo. Altrimenti il loro peso avrebbe schiantato il carrello di atterraggio al primo contatto con la superficie del lago asciutto. La velocità dell’ X-1 all’atterraggio era di 190 miglia l’ora, molto vicina ai 400 Km/h.
Un attimo dopo il razzo sarebbe esploso e Yeager sarebbe svanito in una gran nuvola di gas incandescenti.
Azionò le elettrovalvole di scarico rapido, ma senza corrente neanche queste si potevano aprire.
Era una bomba che cadeva verso terra.
Ecco dove diventa subito di vitale importanza il “What if man”.
Jack Ridley aveva già risposto a quella domanda: “what if…”. Cosa faccio se... sono rimasto senza alimentazione elettrica e devo scaricare il carburante per poter atterrare?
Yeager si fidava di Jack. Era un ingegnere, ma era anche un pilota collaudatore. Parlava perfettamente il gergo dei piloti.
Diceva Yeager di lui: “When he explained something, I usually kept asking vhy until I understood it thoroughly. If I had my opinion, we’d discuss it and argue until we both agreed. Because he was also a good pilot and was so practical, we were always on the same wavelenght. Ridley knew me so well that when I described something that was happening with the X-1 he knew immediately what we were getting into. Without having him close at hand, I’d have been lost“.
“Quando spiegava qualcosa, io di solito continuavo a chiedere perché finché avevo capito completamente. Se avevo un’opinione personale, discutevamo e litigavamo fino ad essere d’accordo. Dato che era anche un buon pilota ed era così pratico, eravamo sempre sulla stessa lunghezza d’onda. Ridley mi conosceva così bene che quando descrivevo qualcosa che succedeva con l’X-1 lui sapeva immediatamente dove saremmo andati a finire. Senza avere avuto lui a portata di mano, sarei stato perduto“.
Esatto. Questo è proprio quello che sarebbe accaduto.
Ma Ridley aveva mostrato a Yeager un comando meccanico quasi nascosto nella cabina di pilotaggio. Apriva una valvola di scarico del carburante senza bisogno di nessuna alimentazione.
Yeager la azionò immediatamente.
Non poteva sapere se il comando aveva funzionato e se davvero il carburante stava uscendo dai serbatoi. Il pilota del chase plane vedeva tutto, ma non c’era modo di chiederglielo né di ottenere risposta. La radio, ovviamente, non funzionava.
Yeager sentiva che il peso si alleggeriva. Lo percepiva dai comandi e dalla reazione del velivolo, che diventava più leggero ad ogni secondo che passava. Ma quello che sembrava mancare erano proprio i secondi.
Arrivò a sfiorare la superficie del terreno e cercò di ritardare al massimo il contatto, senza sapere se ce l’avrebbe fatta oppure no.
Le ruote toccarono il suolo.
Anche questa volta era andata bene.
Il libro è tutto così. Ci sono storie di ogni tipo. Qui ho riportato solo alcune di esse, giusto per dare un’indicazione ai potenziali lettori. Chiunque sia appassionato di aviazione, di volo o di faccende aeronautiche in generale, troverà quello che cerca.
Yeager non ha mai perso la passione per il volo nonostante tutte le difficoltà e i rischi che hanno fatto parte del suo vivere quotidiano per l’intero l’arco della sua vita.
Nel momento in cui termino questa recensione Chuck Yeager è un “giovincello” di appena 97 anni.
E’ possibile che non voli ormai più, almeno da solo. Ma non ci giurerei.
A chi gli ha chiesto, un miliardo di volte, quale fosse il segreto del suo successo, lui ha sempre risposto:
“The secret of my success is that I always managed to live to fly another day“.
“Il segreto del mio successo è che ho sempre fatto di tutto per vivere e volare ancora un giorno“.
Recensione a cura di Evandro Aldo Detti (Brutus Flyer),
Didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR
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