Il telefono ruppe il silenzio della stanza con un gracchiare assordante. Non che stesse dormendo particolarmente bene, anzi, la nottata era stata alquanto agitata, ma era riuscita a scivolare in un sonno profondo appena una mezzora prima. Svegliata di soprassalto sollevò la cornetta e dall’altra parte una voce metallica in inglese le comunicò che erano le quattro. Riagganciò la cornetta e fu tentata di ignorare la sveglia e girarsi dall’altra parte…e a questo punto fu la sveglia del cellulare a suonare. Non fosse bastato questo, bussarono vigorosamente alla porta per ricordare, appunto, che era ora di alzarsi.
Incapace di elaborare un pensiero – e soprattutto di valutare se alla fine aveva proprio voglia di affrontare quella giornata – si buttò giù dal letto. Si sciacquò la faccia: il viso era pallido e gli occhi circondati da un alone grigio, segno di un sonno che era venuto a mancare non solo per quella sveglia molto mattutina ma molte volte durante gli ultimi mesi. Per fortuna i vestiti li aveva preparati la sera prima, non sarebbe stata in grado di sceglierli dalla valigia adesso. Uno strato dopo l’altro, pensando alla temperatura fuori, probabilmente di appena qualche grado sopra lo zero. Ma che le aveva detto la testa? Lei odiava il freddo…eppure adesso era qua.
Uscì e con gli occhi ancora semi-chiusi percorse il lungo corridoio: quanto sono tristi i corridoi degli hotel, pensò, pestati da mille piedi che vogliono solo andare da un’altra parte.
Quasi tutti gli altri erano radunati nella hall: se ne stette in disparte, non se la sentiva di affrontare l’entusiasmo comune per quella levataccia. Un sorriso amaro si affacciò sul volto: in altre circostanza sarebbe stata al centro di quell’entusiasmo…ma adesso proprio le pareva di stare su un altro pianeta.
Entrò un ragazzo con un foglio in mano e fece un rapido appello continuando a dire tra un nome e l’altro che dovevano sbrigarsi. Uscirono dall’hotel e si affrettarono verso il pulmino: era buio pesto e freddo, come previsto. Era in coda al gruppo, le sue gambe avevano la velocità di un bradipo. Il solerte ragazzo le chiuse la portiera alle spalle e per poco il giubbotto non le rimase incastrato in mezzo alla porta. Non imprecò solo perché davanti a lei c’era la più piccola del gruppo, in realtà la compagnia migliore che avesse avuto in quei giorni.
L’avevano soprannominata “Schiacciatina” per quel gioco che si divertiva a fare sui sedili in fondo al pulmino e che consisteva, appunto, nello schiacciarsi l’un altro ad ogni curva. Gli altri si stancavano presto e lei invece mai…anche perché questo le evitava di unirsi ai discorsi degli altri “adulti”. Non che fosse un gruppo noioso, anzi, solo che lei non aveva molta voglia di parlare e soprattutto di raccontare di lei. Giocare con Schiacciatina era un ottimo diversivo e a dirla tutta era gli unici momenti in cui si staccava dal flusso dei suoi pensieri. A parte quei momenti non riusciva a non rimuginare su tutto quello che era successo nei mesi appena passati.
***
Qual era stato il momento in cui tutto era iniziato? O per meglio dire…quando era cominciato l’inizio della fine? Quando l’insofferenza aveva iniziato a serpeggiare? Non sapeva dirlo, quello che sapeva era che ad un certo punto la sua vita aveva iniziato a starle stretta, sotto tanti punti di vista.
Le prime avvisaglie in realtà erano apparse molto tempo prima, ma le aveva ignorate, si era detta che niente poteva essere perfetto e col passare degli anni le cose perdono smalto. Ma tutti quei pensieri perfettamente logici nulla potevano sul peso crescente che sentiva dentro.
Il lavoro innanzitutto: era cambiata la proprietà in azienda due anni prima e le cose erano mutate molto e non in meglio per lei. I nuovi proprietari aveva portato altri manager e pian piano aveva cercato di allontanare “la vecchia guardia”. Un po’ la faceva ridere questa cosa…a 35 anni non è che la definizione “vecchia guardia” te la senti calzare bene…eppure era stato così. Nulla di eclatante all’inizio, tante belle parole, tante rassicurazioni ma alla fine il suo spazio di azione era stato ridotto, giorno dopo giorno, settimana dopo settimana. Formalmente non era stato un demansionamento ma nella pratica le avevano tolto risorse e responsabilità; era tenuta fuori dalle riunioni che contavano e dalle scelte importanti. Tanti sorrisi falsi avevano avuto il potere di togliere il suo, di sorriso. Se l’era guadagnata quella posizione: tanto lavoro, tanto sacrificio, tanta grinta. Si era sentita come se le stessero tarpando le ali. Sapeva che non avrebbe potuto resistere e infatti aveva iniziato a cercare altro, finché aveva intravisto una nuova opportunità: diventare partner di una piccola società di consulenza, fondata da un professionista con cui aveva collaborato qualche anno prima. L’idea le era piaciuta sin da subito, sarebbe stata una bella sfida ma avrebbe avuto la possibilità di crescere professionalmente.
L’unica cosa che le aveva destato qualche preoccupazione era stato rinunciare a un contratto a tempo indeterminato e diventare una libera professionista. Quando aveva comunicato l’intenzione di cambiare lavoro alle persone care c’erano stati molti dubbi sulla scelta che stava facendo…non si sarebbe aspettata tante resistenze o critiche velate. In fondo che i suoi genitori non fossero contenti di quella scelta se lo aspettava: “Lasciare un posto fisso? Di questi tempi? Non puoi mica pensare di divertirti a lavorare…chi lascia la vecchia via per la nuova…” Era abbastanza normale che fossero preoccupati, erano di un’altra generazione, il posto di lavoro fisso per loro rappresentava la sicurezza, poteva capirli.
Quello che invece l’aveva sorpresa era stata la reazione di molti dei suoi amici…le avevano detto più o meno le stesse cose dei suoi genitori! Anche lei si rendeva conto che sarebbe stato un grande cambiamento, ma dai suoi amici si sarebbe aspettata più incoraggiamento. Erano davvero amici? O erano solo persone che conosceva da tanto tempo? La domanda se l’era posta tante volte in quei mesi… e si era resa conto che molti rientravano nella seconda categoria. Per fortuna alcuni le erano stati vicino e l’avevano appoggiata in questa sua scelta, ma che delusione gli altri! Addirittura alcuni ex colleghi avevano provato a farla sentire in colpa, pur conoscendo la situazione in cui era.
Alla fine, quello che si era rivelato il peggio di tutti era stato proprio lui, Marco.
Marco, quello che diceva di amarla, quello con cui stava da cinque anni, quello con cui era andata a convivere due anni prima. A dirla tutta da quando erano andati a convivere, il rapporto era rapidamente peggiorato. Aveva messo in conto che per la convivenza sarebbe stato necessario un certo grado di compromesso, eppure le era parso di cedere spesso, troppo. Non si trattava solo degli spazi in casa (lui si era trasferito nel suo appartamento)… per tante cose non avevano trovato un terreno comune. I viaggi per esempio: non era un appassionato di viaggi come lei e piano piano si era resa conto che aveva iniziato a viaggiare meno anche lei. Era un uomo colto, intelligente eppure avevano smesso di parlare…di quel parlare oltre l’accordarsi sulle cose quotidiane. Si era un po’ messo le pantofole e aveva iniziato a dare tutto per scontato. Tante cose l’avevano fatta dubitare del futuro della loro relazione, ma il modo in cui lui aveva reagito davanti alla sua intenzione di cambiare lavoro le aveva tolto tutti i dubbi: “Ma cosa vuoi cercare là fuori? Non sei mai capace di accontentarti…adesso che abbiamo raggiunto una stabilità…ma non puoi pensare a fare figli come tutte le tue coetanee?”
Questi erano solo alcuni dei frammenti delle numerose discussioni che avevano avuto in quel periodo, ed erano stati quelli che l’avevano ferità di più. Anche adesso che ci ripensava, mentre il pulmino imboccava stretti sentieri pieni di buche, sentiva un nodo alla gola e ondate di rabbia salirle dallo stomaco. Come aveva potuto parlarle così…e soprattutto…come aveva potuto – lei – metterci cinque anni per capire con che tipo di persona si era messa??
Era quella quindi la fiducia che lui aveva nelle sue capacità? Preferiva saperla triste in un lavoro che ormai non la rispecchiava più, piuttosto che felice affrontando una nuova sfida professionale? A tanto si spingeva il suo bisogno di certezza? Per non parlare del “velato” accenno a fare dei figli…giusto per essere omologati agli altri. A lei non dispiaceva l’idea di mettere su famiglia, ma non per essere “come tutte le sue coetanee”… Adesso capiva bene perché con lui ancora non aveva messo in pista quel progetto…probabilmente il suo istinto l’aveva protetta, capendo con molto anticipo quello che lei aveva visto con chiarezza solo in quel momento.
A dispetto di tutti i pareri contrari, aveva cambiato lavoro…e aveva cacciato di casa Marco. Sorrise pensando all’ultima discussione, quando lei gli aveva detto che erano troppo diversi per potere stare assieme e che era meglio finirla lì. Aveva visto lo sguardo di lui: non c’era stato dolore…anzi, le era sembrato quasi sollevato. Da quanto tempo lui pensava che sarebbe stato meglio porre termine a quella relazione? Non lo sapeva…sapeva che aveva lasciato a lei l’onere della scelta.
Ovviamente il fatto di averlo lasciato le aveva attirato ulteriori strali: “Adesso? Ti pare il momento adesso? Non ti basta cambiare lavoro? Sei impazzita?”
Le sentiva ancora quelle voci, avrebbe voluto cancellarle, eppure le rimbombavano spesso nella testa.
Si era buttata a capofitto nel nuovo lavoro e le cose parevano ingranare bene, ma sentiva che qualcosa la rallentava, le toglieva energie. La sera, quando tornava a casa, la assaliva sempre quella sensazione, un misto di rabbia repressa e delusione. Ripensava a tutto quello che era successo negli ultimi mesi, a tutto quello che le avevano detto, a quanto le persone si erano dimostrate diverse da quello che credeva. Il primo della lista era ovviamente il suo ex, non che le mancasse: quando rientrava da lavoro, la casa vuota per lei era un sollievo. Eppure, quando ripensava alle sue frasi, le pareva che fosse ancora lì con lei… sentiva che le si chiudeva la gola e si contraevano tutta…come aveva potuto essere così meschino? E come aveva potuto lei essere così cieca?
Non usciva spesso, aveva tagliato i ponti con tanti finti amici…si era fidata…e aveva raccolto ben poco. Le pareva che questa solitudine fosse la punizione per non essersi accontentata, per aver voluto volare più in alto. Stava lottando faticosamente per voltare pagina, ma sentiva che le vecchia zavorre le impedivano di farlo fino in fondo.
Quella vacanza doveva essere una boccata d’ossigeno, il primo viaggio dopo tanto tempo…eppure sentiva che il peso sul cuore continuava ad esserci: aveva sperato che il mettersi di nuovo in giro per il mondo avrebbe cancellato tutto, ma non era stato così…a parte i giochi con Schiacciatina continuava ad avere la mente occupata da mille pensieri.
***
La brusca frenata del pulmino interruppe il filo dei ricordi. Erano arrivati al “campo base”. Scesero velocemente e furono accompagnati dentro una grande stanza dove venne servito un thè caldo e qualche biscotto. Non ci fu neanche il tempo di finire quella veloce colazione che il loro accompagnatore tornò a prenderli dicendo che dovevano sbrigarsi. Fuori li attendevano le jeep che li avrebbero portati per l’ultimo tratto di sentiero. Con la strada tutta buche, rimpianse anche quella colazione super leggera.
Intanto fuori il buio stava lasciando spazio alle prime luci dell’alba: un debole chiarore prendeva lentamente il posto dell’oscurità.
Finalmente arrivarono in cima alla collinetta e scesero dalle jeep: eccola lì, davanti a lei, la causa di quella sveglia nel cuore della notte, il vero motivo di quel viaggio.
Era ancora a terra, ma già iniziava a sollevarsi dolcemente, sotto la spinta leggera del gas. Un ragazzo si avvicinò al gruppetto sorridendo e disse che sarebbe stato il loro capitano, indicando il berretto sopra la sua testa. Dubitava molto che fosse maggiorenne, poteva avere al massimo 16 anni…ma probabilmente sapeva il fatto suo…o almeno così voleva pensare.
Aveva già fatto molti voli, anche intercontinentali, era stata su elicotteri e anche su un bimotore. Non aveva certo paura di volare, né soffriva di vertigini…eppure, l’idea di salire su quella cesta di vimini le fece venire un po’ di brividi lungo la schiena…e non era per il freddo.
Guardò i colori del tessuto: blu e grigio tenue. Non era la sola a terra: a pochi metri di distanza ce n’erano altre due, una gialla e un’altra con striature rosse. Poco oltre eccone altre: praticamente tutta la collinetta era costellata di ceste e macchie di colore che si intravedevano nell’oscurità. Stessa cosa nelle colline circostanti: era come un risveglio collettivo, sembrava che tutte si fossero date appuntamento per alzarsi assieme, con le stesse identiche movenze, come in un balletto.
Fu il momento di salire: la prima ovviamente fu Schiacciatina. Si sistemarono a bordo, il capitano diede loro qualche breve istruzione, sciolse le funi e, con uno strappo gentile, la cesta si staccò da terra e la mongolfiera iniziò il suo volo.
Lentamente, un centimetro alla volta, il pallone, il cesto e i suoi occupanti si staccarono da terra. Una sensazione nuova, quell’innalzarsi verso il cielo piano piano. Tutta un’altra cosa rispetto alla roboante partenza di un aereo.
Proprio quello la colpì all’inizio: quell’incredibile silenzio, quel librarsi in volo senza rumore, proprio come gli uccelli. Ricordava il volo in elicottero sopra il Grand Canyon, bellissimo…ma questa era tutta un’altra sensazione. Lì c’era il rumore delle pale (e il pilota che come sottofondo musicale aveva messo la “Cavalcata della Valchirie”), qui c’era solo il silenzio. Tutti avevano rispettato quel silenzio, tutti zitti per paura di infrangere quell’incanto. Si erano guardati sorridendo, sempre in silenzio: non c’era bisogno di parole in quel momento.
Si guardò attorno: decine di mongolfiere si erano sollevate in volo assieme alla loro. Ognuna coi suoi colori e coi suoi passeggeri, tutte trasportate dal vento, in silenzio.
Non aveva mai visto nulla di simile, era come essere dentro una fiaba. In effetti il paesaggio sotto di loro era veramente uno scenario da favola. Le aveva intraviste il giorno prima, mentre col pulmino percorrevano quella parte di Cappadocia, quelle curiose formazioni rocciose, che avevano l’aspetto di torri appuntite: secoli di erosione avevano costruito quelle bizzarre figure nel tufo. Erano soprannominate “camini delle fate”, perché con le loro forme pittoresche richiamavano proprio le dimore di creature fatate. Nel passato in effetti erano state le dimore e il rifugio degli abitanti del luogo ma osservandole sembrava fossero ancora abitate e quasi ci si aspettava che un filo di fumo salisse da quei comignoli.
E adesso li stavano sorvolando: la mongolfiera volteggiava dolcemente sulle guglie e ogni tanto si aveva l’impressione che allungando la mano si potesse sfiorarne la cima. Era solo un’illusione: il capitano, sempre sorridente, prestava molta attenzione a mantenere la quota. Eppure, sembrava che in quel mondo incantato tutto fosse possibile. La luce del sole che sorgeva faceva risaltare la tavolozza dei colori delle rocce: dal bianco all’ocra, dal terra bruciata a tutte le sfumature del rosso. Ad ogni minuto che passava la luce dell’aurora cambiava e i riflessi delle rocce mutavano.
Respirava a pieni polmoni l’aria piacevolmente frizzante; respirava a pieni polmoni come non le succedeva da tantissimo tempo.
Era successo qualcosa quando avevano mollato le zavorre per sollevarsi dal suolo: era come se assieme ai sacchi di sabbia avesse lasciato a terra anche tutti i pesi che l’avevano oppressa in quei lunghi mesi.
Via la delusione per il suo vecchio lavoro, via il fastidio per tutti i commenti poco piacevoli di familiari e amici, via la rabbia per la chiusura della storia col suo ex, via tutti i dubbi che le risuonavano nella testa. Via, tutto via. Man mano che la mongolfiera saliva anche il suo animo si alleggeriva. Sentiva che se avesse allargato le braccia le sarebbero spuntate ali per volare. Sorrise a questa idea.
Pensò a tutte le generazioni di uomini che avevano desiderato volare e alla fine c’erano riusciti. Guardati come matti i primi che avevano tentato…e probabilmente un po’ matti lo erano. Anche lei era stata considerata “matta” per il suo desiderio di cambiare la sua vita, matta perché non aveva voluto restare a terra, matta perché aspirava a volare più in alto.
Aveva ignorato la leggenda di Icaro, punito per aver voluto volare verso il sole. Ma come rinunciare a questa sensazione di libertà immane? All’ebrezza di sollevarsi da terra, di mollare tutti i pesi e librarsi nell’aria, per godersi la leggerezza del cielo.
Senza un motore sotto, questa sensazione diventava ancora più intensa: con la mente sgombera lasciava che le forme e i colori delle rocce e delle nuvole le riempissero gli occhi.
“Ma ci sono davvero le fate dentro i camini?”
“Certo Schiacciatina, solo che non si fanno vedere”
“E fanno le magie sul serio?”
“Sì, anche se a volte non ce ne accorgiamo….” Sì, di quante magie non si era resa conto? L’essere di nuovo in viaggio, per esempio, l’aver saputo cercare la sua strada nonostante i pareri contrari, l’essere riuscita a capire quali erano le persone che voleva attorno a lei…non essersi arresa al “vola basso”, ma avere scelto di seguire un altro vento…
Quel volo continuò per un’ora: il paesaggio si trasformava in continuazione sotto la luce crescente, frutto della mano di un artista che non esauriva la fantasia e aveva una tavolozza di colori infinita. Le mongolfiere nulla toglievano a quel paesaggio, anzi, col loro ondeggiare aggraziato aggiungevano bellezza alla bellezza.
L’atterraggio fu dolce, così come era stato il volo: la cesta di vimini si avvicinò piano piano al suolo e depose gli argonauti a terra senza scossoni. All’arrivo li attendeva una medaglia, un attestato (primo volo in mongolfiera!) e naturalmente una bottiglia di spumante. Erano partiti all’alba e quindi erano solo le otto, ma il brindisi spumeggiante fu apprezzato da tutti (ovviamente aranciata per Schiacciatina).
Cosa sarebbe successo adesso che aveva rimesso i piedi a terra?
Per un attimo temette che il ritorno sulla terraferma avrebbe cancellato il senso di leggerezza provato in volo, ma fu solo per un fugace momento. La giornata, nonostante la levataccia, proseguì benissimo e il resto del viaggio pure. Si aprì di più con i suoi compagni di viaggio, aveva voglia di conoscere meglio le persone con cui aveva condiviso quell’incredibile volo.
Anche il rientro alla vita quotidiana andò bene, forse non era una leggenda, forse qualche essere magico abitava ancora in quelle terre o forse qualcosa dentro di lei si era risvegliato…fatto sta che quel senso di leggerezza non l’abbandonò più, neanche nella routine di tutti i giorni.
Era lei ad essere cambiata, aveva lasciato il risentimento quando si era staccata da terra sollevata dal pallone, aveva mollato quel peso fatto di aspettative deluse, di tristezza e di rabbia. Non le serviva quella zavorra: alcune persone ormai non facevano più parte della sua vita, altre le aveva perdonate e comprese. Aveva perdonato anche se stessa…aveva capito che non poteva volare in alto se continuava a rimuginare su quello che era stato. Chi pilota un volo non guarda indietro, guarda avanti.
C’erano ancora momenti in cui sentiva che il peso tornava e allora chiudeva gli occhi e ritornava su quella mongolfiera: rivedeva le forme delle rocce, punteggiate dai colori vivaci delle mongolfiere, la luce nelle mille sfumature di rosa, sentiva il dolce oscillare del cesto di vimini, respirava a pieni polmoni ed ecco che tornava la sensazione di leggerezza e tornava tutta la magia dell’alba delle fate.
§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§
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