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La prima volta

– Cinture? … strette! – Altimetro? … azzerato! – Radio? … accesa e in frequenza. – Comandi? … destra, sinistra, avanti, dietro: liberi e a fondo corsa! – Diruttori? … controllati e bloccati! La cappottina si chiuse e mi trovai solo con il K13. Inspirai a pieni polmoni l’odore “sintetizzato” di metallo e di tela verniciata. – Una persona a bordo – precisai alla torre. Ero pronto.

Arrivando alla sezione ologrammi aeronautici, – Bella giornata – mi ero detto malinconico. Cielo azzurro, qualche cumulo, visibilità perfetta, calma di vento: – Come sempre!? – avevo aggiunto sarcastico. Era caldo, questo sì. Ma eravamo pure in pieno agosto! L’ideale per volare in aliante. – Tanto per fare il solito volo cielo campo?! – I miei compagni di corso erano già lì e stavano facendo i controlli giornalieri. In effetti ero arrivato un po’ in ritardo … ma non c’era stato motivo di affrettare il passo: – Anche oggi non farò niente … che non abbia fatto già ieri o due cicli fa – m’ero detto. – La sai la novità? – mi bruciò Matteo. – No. Che novità? – risposi secco. – Il generale?! … se ne è andato! – Ma che dici? – Eh, dico che il generale se n’è andato. Ha dato le dimissioni due giorni fa. Ancora incredulo, pensai a voce alta: – E ora?! – – Semplice! Hanno trovato un altro istruttore – incalzò Matteo. – E … chi sarebbe? – chiesi, ancora più stupito. Non ebbe il tempo di rispondermi: il nuovo istruttore era apparso dietro le mie spalle, quindi si era presentato a noi allievi con un breve discorsetto. Poi mi aveva pregato di prepararmi. Non ricordavo nulla del volo che avevo appena fatto … tranne i suoi “Uhmm”. Era stata la prima volta che volavo con qualcuno che non fosse il generale: il silenzio aveva regnato in cabina dal decollo fino all’atterraggio. Era stato un volo di addestramento breve come al solito. E come al solito avevo rullato fino all’area di parcheggio. Mi stavo preparando a scendere quando l’ennesimo “uhmm”, stavolta interlocutorio, aveva preannunciato la voce del mio nuovo istruttore: – Ora vai da solo. – Ero rimasto pietrificato.

Mentre il traino ancheggiava tirandosi dietro il cavo, ripensai a quello che il generale mi aveva insegnato: “il pilota è un automa”. “Egli svolge le manovre di pilotaggio con inconsapevole meccanicità”. “Non può e non deve sbagliare: il pilota”. “Egli non vola per puro divertimento: egli è aria nell’aria, è perfezione nella perfezione”. Io dovevo far bene: volevo essere un pilota. Mi concentrai allora su ciò che avrei dovuto fare: il rullare ritmato delle manovre cominciò a vibrare nella mia mente. Lo strattone del cavo teso mi riportò alla realtà. Il vecchio K13 cominciò macilento la sua corsa, accennò ad abbassare la semiala sinistra verso terra ma io, che conoscevo il suo umore, lo pregai con decisione affinché livellasse l’ala. Poi lo scorrere sull’erba diventò lo scivolare vibrato nell’aria e … ero in volo! Fu allora che mi sentii scoppiare un urlo. Tutt’assieme esplose fuori la tensione, la preoccupazione di non riuscire, ed ora, ad ogni respiro, entrava solo contentezza. Ero solo in aria: pilotavo! Ero l’aliante e lui era me. C’era voluto molto tempo ma ora ci capivamo. Io rispettavo lui e lui rispettava me. Non gli chiedevo l’impossibile e lui non faceva ciò che non volessi anch’io. Ora sapevo come chiedergli ciò che volevo e lui lo faceva come io pensavo avrebbe fatto. Il traino aereo mi era stato sempre difficile: il generale mi tuonava manovre e contromanovre, eppure riuscivo a malapena a star dietro la coda dell’aereo. Io eseguivo … ma troppo in ritardo o in eccesso: lui tuonava ancora più forte correzioni e controcorrezioni; quando neanche quelle avevano effetto, sentivo pistare sui comandi: la cloche partiva di lato e la pedaliera schizzava a fine corsa. Il K13 eseguiva servile. Da subito il nuovo istruttore aveva capito il mio dramma: con parole pacate mi aveva spiegato e ora … ero appeso a quel filo invisibile che lega il pulcino alla chioccia. Ero la sua ombra. D’improvviso l’aliante sussultò: mi trovai a tirare la leva di sgancio e a guardare l’altimetro – settecento metri -. Anch’io sussultai: ero libero! Libero di volare senza vincoli … finalmente! Il cielo era davanti a me ed io potevo solcarlo all’infinito. Per la prima volta, dopo tanto tempo, riassaporai il gusto del volo: il suonare sordo del vento, i sobbalzi dell’aria, la terra vista dal cielo … Solo all’inizio – da passeggero – avevo gustato quel sapore dolce ma poi – da allievo pilota – era diventato tutto amaro. Quando scendevo dall’aliante – la testa perforata dai tuoni del generale, la schiena fradicia (e non per via del paracadute), i muscoli irrigiditi dalla tensione – sapevo di non aver volato: avevo cercato di domare un masso riottoso di tela, legno e acciaio. E non c’ero riuscito. Io ne ero cosciente, né il generale – con i suoi apprezzamenti – si tratteneva dal ricordarmelo. Ma ora, potevo dire davvero che tutta quella fatica aveva avuto un senso: il momento che stavo vivendo era inimmaginabile. Avevo fantastico su cosa sarebbero stati quegli istanti … ma non avrei potuto mai immaginare i mille sentimenti che provavo. Un sogno impossibile era diventato realtà possibile. Forse perché era stata una liberazione: da una vita sognavo di volare e quando ormai, quasi dubitavo di esserne capace, il generale s’era fatto scappare qualcosa. Poi però, il giorno fatidico del mio volo solista non s’era presentato in aeroporto – per la prima volta da che lo conoscevo – .”Motivi di salute” ci avevan detto in Aeroclub. E poi la notizia delle dimissioni, infine il nuovo istruttore. Già pensavo di buttare in un polverizzatore per rifiuti quelle dieci ore di tormenti a doppio comando, quand’ecco che il momento magico aveva avuto inizio. Un’altro sussulto violento mi scosse: l’aliante aveva sentito qualcosa e mi suggeriva di sfruttarne la spinta. – Non può essere turbolenza – pensai: ero a centro valle – E non può essere neanche una semplice bolla – conclusi: la mattinata era già piuttosto avanzata e quella doveva essere proprio una termica. Per un momento pensai di tentare l’aggancio, poi, toccando il cruscotto, confidai al K13: – Ora pretendi un po’ troppo da me!? -. Lui mi rispose comprensivo accennando una leggera picchiata. Bighellonare in aria non mi era familiare: in me scattò una molla e cominciai a manovrare come avessi avuto un programma di missione da svolgere. Non ricordavo che quello non era un volo addestrativo: a bordo non c’era più l’istruttore che mi avrebbe suggerito la successione delle manovre, eppure nella mia testa echeggiavano cadenzate le manovre da impostare. Virata a destra … virata a sinistra … planata con prua costante … mi veniva tutto naturale. Allora capii che nello stesso attimo in cui decidevo di virare … tutto me stesso virava, nello stesso attimo in cui decidevo di planare veloce … tutto me stesso planava. Se volevo mantenere una direzione, “io aliante” mettevo il muso in quella direzione: non era più una questione di bussola, piede e cloche. L’ala era il prolungamento delle mie braccia e la fusoliera del mio ventre. Non ero più il pilota di una macchina ma l’uno e l’altro contemporaneamente. L’ebbrezza del volo mi aveva preso fino al midollo e speravo che non finisse mai più: – Non ora … – dissi, – Non ora che sono “aria nell’aria” e “perfezione nella perfezione” -. Ma l’altimetro, impietoso segnava duecento metri. Già ero sotto la quota di ingresso in circuito e non potevo indugiare di più. Fortunatamente ero sul cielo campo – questione di inconsapevole meccanicità? Bah, a saperlo! -. Avviai alla svelta la procedura di atterraggio. A mie spese avevo imparato che il decollo e l’atterraggio erano fasi critiche, ma il rullare mentale dei parametri e la vista dei punti di riferimento mi dissero che stavo facendo bene. Al suolo, non c’era praticamente vento: chiesi alla torre se potevo atterrare per la pista uno-sette. – Affermativo: la pista in uso è la uno-sette. Calma di vento. Nessun traffico. – D’accordo … andiamo giù – mi dissi fiducioso. Il gracchiare improvviso della radio interruppe la nenia dei controlli pre-atterraggio: – Atterra per tre-cinque! – ordinò la voce ferma dell’istruttore. Con la coda dell’occhio guardai di nuovo la manica: una bava di vento in coda. – Accidenti! Non c’è motivo di atterrare per la tre-cinque! – urlai inviperito. L’altimetro girava crudele verso lo zero e già avevo percorso un quarto di sottovento. Ma l’ordine era stato perentorio: non lasciava spazio a repliche, né avrei avuto il tempo di farne. Diedi il ricevuto e sconsolato guardai il cruscotto: – Se riusciamo a toccare la pista siamo proprio bravi, eh!? – Gli operatori dell’assistenza al volo, testimoni benevoli, mi accordarono l’uso della pista e confermarono l’assenza di traffico. Il vento al suolo era sempre insignificante. Senza accorgemene diedi loro il ricevuto: ero troppo preso dall’invertire il circuito. Feci una doppia virata stretta: l’aliante era insolitamente rapido nella rimessa, quasi che anche lui avesse capito la gravità del momento e volesse dare il meglio di sé. Non avevo granché riferimenti: sì e no, nel corso di tutte le missioni avevo fatto cinque o sei atterraggi da quel lato e ora scontavo quell’unica leggerezza del generale. Ma dovevamo farcela: dovevamo andare giù! Sentii un brivido lungo la schiena e vidi tremare la mano sulla cloche. Che fosse paura? Forse. “Concentrazione!” echeggiò il generale. Non avevo più quota da spendere per fare il sottovento: dovevo lasciarmene un po’ per la virata in base e la virata finale. Decisi di tagliarlo a metà. – Ora! Virare! – Mi sentii centrifugare stretto come mai m’era capitato prima dall’ora. – Ecco la pista! Non eravamo affatto bassi: estrassi a tre quarti i diruttori. L’aliante tremò tutto … ed io con lui. Sotto la sferza dell’aria scendemmo decisi verso terra. Sapevo che l’asfalto era duro – sarà per il colore grigiastro o per la grattata del pneumatico quando lo tocca? – ma quel primo atterraggio fu particolarmente duro. In tutti i sensi. La pista continuava ad avvicinarsi e a scorrere: ero troppo picchiato, dovevo raccordare. Lo strattone finale ci fece sprofondare ancora di più. Rimanemmo immobili per un istante lunghissimo: scendemmo inesorabili verso terra, sicuri che il contatto sarebbe stato violento. Il tonfo arrivò fortissimo e ci rimbombò nelle ossa … ma non subimmo danni: il K13 mi aveva già perdonato. Rullammo verso l’area di parcheggio e rimasi in cabina con la cappottina chiusa, nonostante il caldo torrido. Ma io non lo sentivo tale il gelo che provavo. – Ce l’abbiamo fatta! – urlammo all’unisono. Avevamo fatto tutto quello che potevamo fare e l’avevamo fatto bene – a parte l’atterraggio, forse -. Ero di nuovo a terra, eppure il cielo non era più lo stesso cielo: ero entrato in un quel nuovo mondo e quello terrestre non mi era più congeniale. – Ti senti bene? – urlarono i miei compagni, paonazzi per la paura. – Sì, sì, tutto bene – risposi loro, aprendo la cappottina. Mi riempirono di complimenti sinceri. La loro opinione era prevedibilmente benigna ma lo sarebbe stata quella dell’istruttore? Così mi avvicinai a lui, seduto accanto alla biga, che compilava un rapporto di volo. Volevo scusarmi … per l’atterraggio duro, per la procedura affrettata. Appena mi vide si alzò, guardò l’aliante riallineato pronto al volo e con distacco sentenziò: – Quello che hai fatto oggi ti servirà per i voli futuri – , poi si allontanò con impassibile noncuranza, seguito da un allievo. Le sue parole mi trapassarono veloci come il raggio di uno smaterializzatore: per un attimo sentii fluttuare nello spazio tutte le mie molecole … e poi riunirsi. Mentre i miei compagni davano inizio ai festeggiamenti, il primo pensiero corse ai miei genitori. Fuori della sezione ologrammi aeronautici, c’era un videotelefono: non potevo tenere solo per me la notizia. E poi ero certo che ne sarebbero stati felici. Certo avrebbero preferito sapere che avevo ottenuto qualche buon risultato negli studi – non ero brillante, dovevo ammetterlo – ma era pur vero che non era da tutti avere un figlio dodicenne, nato e cresciuto in una stazione spaziale da esplorazione, che sapesse pilotare un aliante!? Certo, all’inizio avevano mostrato un po’ di contrarietà – eccome – quando avevo detto loro che mi sarei iscritto al corso di volo a vela: – Non potevi scegliere uno sport un po’ più moderno? – avevano obiettato. – No – , avevo risposto deciso, – Il volo in aliante è modernissimo perché “è stato” ed “è tuttora” la base del volo terrestre.- Poi avevo aggiunto: – Tra dieci cicli saremo nel Sistema Solare e calcolando la quarantena, saremo sulla Terra tra quindici cicli al massimo. Se comincio subito il corso di pilotaggio, potrei fare il volo solista su un “aliante vero” e in un “cielo vero”! Ero riuscito addirittura ad anticipare le previsioni: che volevano di più?! Pronunciando il codice di accesso telefonico guardai attraverso l’oblò accanto al videotelefono: il cielo della Terra là sotto mi aspettava azzurro e sconfinato. Ed io ero pronto per solcarlo.

Rullai fino all’area di parcheggio. Mi preparai a scendere ma il ronzare del traduttore fonetico, dietro di me, preannunciò la voce sintetizzata del mio istruttore: – Ora vai da solo. – Rimasi pietrificato, ancora una volta. Poi, fissandomi con i suoi enormi occhi gialli, affossati tra le squame della testa, aggiunse: – Ricordati che qui siamo sulla Terra: questo non è un simulatore!? – – Giusto! – ripetei, per convincerlo di aver capito, – Questa non è la stanza ologrammi della navetta spaziale: è la Terra … e questo non è un simulatore di volo: è un “aliante vero” in un “cielo vero”! – Okay – rispose. E si allontanò con uno strano ghigno in viso: probabilmente un sorriso di approvazione … se solo avesse avuto una bocca umana per mostrarlo.   – Cinture? … strette! – Altimetro? … azzerato! – Radio? … accesa e in frequenza. – Comandi? … destra, sinistra, avanti, dietro: liberi e a fondo corsa! – Diruttori? … controllati e bloccati! La cappottina si chiuse e mi ritrovai di nuovo solo con il K13. Inspirai a pieni polmoni il “vero” odore di metallo e di tela verniciata. – Una persona a bordo – precisai alla torre. Ero davvero pronto.

A Daniele e a quel pilota che, probabilmente, non sarò mai.


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Piloti!

“Contatto visivo … nemico ad ore due … stringere la formazione!”

I ricognitori a lungo raggio avevano intercettato il nemico e lo stormo al completo era decollato in pochi minuti. Ormai eravamo in preallarme da così tante ore che decollare, anche se fosse stato per l’ultima volta, fu per noi una vera liberazione.

Al briefing, il generale ci aveva comunicato che, probabilmente il nemico avrebbe tentato un’incursione verso mezzogiorno. – Meglio così – esclamò – Il sole sarà alto e lo sfrutterete a vostro favore -. Certo – pensai – attaccare con il sole alle spalle ci avrebbe dato un notevole vantaggio. – Volate alla massima velocità di manovra e attaccate in formazione compatta. La strategia del Comando non era dunque cambiata. – Non possiamo competere con loro in velocità – aggiunse il generale – perciò, una volta intercettati, impegnate il nemico con una manovra frontale e decisa.

Chiaro – mi dissi – la velocità relativa sarebbe stata tale che avremmo avuto appena il tempo di puntare e colpire.

– Anche il nemico ha dei punti deboli: colpiteli senza pietà. Ricordai allora le parole del mio istruttore: “Piccoli fori lungo la fusoliera, una lunga antenna alla sommità della deriva e una grossa sonda nel muso: questi sono i punti nevralgici. E’ difficile centrarli, lo so’, ma voi non siete piloti qualunque. Voi siete piloti da combattimento! … e quanto è vero che vi ha addestrato il sottoscritto, voi li centrerete in pieno! Non è vero?!”

Bei tempi quelli dell’addestramento. Passavamo le tiepide giornate di primavera facendo voli in formazione con l’istruttore. Imparavamo le tecniche di combattimento passando sopra ai campi puntinati dai primi fiori. Affinavamo le nostre capacità di pilotaggio solcando un cielo che aveva l’odore della terra rinata. Avevamo tutti il volo nel sangue ma non la disciplina dei soldati né l’aggressività dei combattenti. Per questo ci preparavamo alla battaglia, così come avevano già fatto i nostri padri e i nostri nonni prima di noi. Era una lotta eterna la nostra. Da generazioni ci battevamo contro un nemico potente e velocissimo. Nessuno ricordava quando fosse cominciata: eravamo in guerra da sempre. Era un nemico sfuggente il nostro. Si mostrava appena d’inverno, accennava qualche incursione in primavera e ci attaccava in massa in estate. Avevamo tentato di metterci in contatto con loro, per negoziare, per creare un accordo di pace. Ma niente, Sfrecciavano luccicanti ed invadevano prepotenti i nostri cieli.

Alla fine del briefing il generale ci salutò con calore: – Che il cielo sia con voi, piloti -.

Le sue parole echeggiarono per qualche secondo, poi si spensero quando, messi in libertà, corremmo indaffarati per gli ultimi preparativi prima della missione.

Solo ora, di fronte all’immensità del nemico davanti a me, capivo che quello era stato un addio. La nostra missione non avrebbe avuto ritorno. Solo il sacrificio della nostra stessa vita avrebbe potuto arrestare quel nemico. Non avevamo arma che potesse distruggerlo … tranne il nostro coraggio e l’amore per il nostro paese. Ora capivo perché interi reparti erano stati annientati: bravi piloti, cari amici, fratelli di sangue si erano sacrificati per la nostra sopravvivenza.

“Il comandante a tutti i piloti: che il cielo sia con voi … ragazzi …”

E il nemico mi travolse con mostruosa indifferenza. Vidi il bianco luccicante frantumare il mio corpo e la mia linfa uscirne .

– Allora?! Hai finito?

– No, non ancora … andate pure … vi raggiungo più tardi.

– Ma perché, scusa … se l’aliante lo lavi domani?!

– No, preferisco di no. Vorrei pulirlo subito … altrimenti domani, una volta secchi …

– E’ lo so … sarebbe doppio lavoro, hai ragione. Certo che hai fatto una bella strage, eh?!

– Proprio. Sembrava quasi che mi aspettassero. Pensa che c’è stato un momento che me ne son trovato davanti una nuvola … ho provato ad evitarli ma …

– E va beh, mica ne farai una questione umanitaria!? … in fin dei conti erano solo MOSCERINI.



Dipende sempre dai punti di vista!?






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Il pilota beone



Il Caposervizio si guardò attorno con fare circospetto con la speranza che nessuno dei suoi collaboratori mi avesse udito, poi replicò: – Comandante, lo sa cosa mi sta chiedendo? –

– Ehmm … sì lo so – risposi io con convinzione – le sto chiedendo un piccolo favore.

– Piccolo favore? – rispose contrito.

In effetti, quello che stavo chiedendo al Caposervizio dell’Ufficio personale non era affatto un piccolo favore. Sì, i turni di servizio venivano abitualmente concordati tra l’Azienda e gli equipaggi, piloti o assistenti di volo che fossero, ma credo che mai, nel corso della trentennale carriera del Caposervizio, un Comandante avesse accampato una richiesta come la mia.

– Ma sì – insistetti, – in fin dei conti le chiedo solo di dare una botta lì e un’aggiustata là … tanto per far quadrare il cerchio. –

Lui mi guardò con distacco poi, con enfasi, concluse: – Ascolti Comandante, certe cose non sono autorizzato a farle … neanche se mi offrisse i biglietti per la finale di Coppa dei Campioni. –

Ecca ‘lla, dissi fra me e me. Finalmente ci siamo arrivati! L’allusione non lasciava adito a dubbi. Tirai un sospiro di sollievo: almeno ora sapevo quale sarebbe stato il prezzo da pagare. Tutto nella vita ha un prezzo … il difficile è conoscerlo per poi sapere se si è in grado di pagarlo o meno.

– Finale di Champions League?! – chiesi rassegnato. Il Caposervizio fece cenno col capo non prima di essersi dimostrato costernato. Aprii la mia valigetta e tirai fuori due biglietti immacolati: -Tribuna Monte Mario, posti numerati, sotto alle autorità … pensa che sarebbero sufficienti? –

Non feci in tempo a sventolarli che i preziosi biglietti erano già finiti nel cassetto del Caposervizio. Immaginai che mi sarebbero costati un patrimonio in gelati e figurine – in certi casi mio figlio sa essere crudele?! – ma, pensai, che erano volati via per una buona causa. Rimasi imbambolato per un istante. Anche a me piaceva andare allo stadio, non lo nego, e vidi svanire in un istante i colori e i suoni di quella serata che sarebbe stata memorabile: l’Olimpico stracolmo di gente in ogni ordine di posti, una festa sugli spalti e sul campo e …

– Tutto fatto, Comandante. – mi disse trionfante il Capo – C’era un errore nel tabulato … questi computer fanno dei casini immondi! Fortuna che lei se n’è accorto … e l’ho corretto a penna. – aggiunse per giustificare il raggiro. Infine sentenziò: – L’equipaggio è formato. –

E fu così che ci ritrovammo, due settimane più tardi, al caro prezzo di due biglietti della finale di Coppa dei Campioni, sul piazzale di Fiumicino, alla base della scaletta del A300.

Ci salutammo cordialmente io, l’assistente di volo Centani e la sua collega Ambrogini, la hostess in addestramento Filippi, il capo equipaggio Turchetti e, naturalmente il Comandante Johannson.

Nei suoi confronti, agli abituali saluti si aggiunsero delle affezionate pacche sulle spalle di noi maschietti e degli innocenti baci delle ragazze. Sulle guance, beninteso. Perché, tutti lo sapevamo, quello non sarebbe stato un volo qualsiasi, non per il comandante Johannson.

Wolfgang, così si chiamava il Comandante, era al suo ultimo volo poi, dopo un breve periodo di servizio a terra, sarebbe andato in pensione e avrebbe lasciato la Compagnia per sempre.

Era una vita che volava: aveva cominciato ragazzino appena dopo la guerra, come pilota militare nella rinata Luftwaffe e poi aveva proseguito, di società in società e di Compagnia in Compagnia a volare su un’infinità d’aeroplani in tutti gli aeroporti del mondo. I suoi occhi brillanti e il fisico asciutto, anzi atletico, ingannavano i suoi cinquantanove anni, ma non l’anagrafe della Compagnia che, anche per i migliori Comandanti, obbligava la messa in riposo a non più di sessant’anni. Wolfgang l’avrebbe compiuti fra una settimana e quella che doveva essere una semplice festa di compleanno s’era tramutata un addio alla carriera. Ma il Comandante Johannson non se ne faceva un cruccio. Contrariamente a quanto accadeva ai suoi colleghi non era per nulla rattristato. O almeno non lo dava a vedere. Forse perché era di papà tedesco (ma di mamma italiana), e buon sangue non mente, forse perché aveva sempre praticato il suo lavoro con passione unita ad una naturale giovialità che lo rendeva davvero unico nell’ambiente.

Diciamo la verità: il comandante Johannson era un vero scavezzacollo, un giocherellone matricolato che non perdeva occasione di organizzare scherzi ai suoi compagni di lavoro e, talvolta, anche ai passeggeri. Pur rimanendo nell’ambito della decenza, riusciva a mettere di buon umore tutti, compresi i passeggeri che immancabilmente salivano a bordo con una paura fottuta dipinta sul volto. Beh, lui riusciva a divertirli e a rilassarli. I suoi annunci non mancavano mai della barzelletta di rito e volare con lui era davvero un piacere, oltre che un lavoro. Per questo tutti i colleghi facevano a gara per formare l’equipaggio con lui … magari non proprio pagare due biglietti della finale di Coppa di Campioni.

In realtà, Wolf, come lo chiamavano tutti, era un professionista attento e scrupoloso, un gran manico per intenderci, tollerante con i suoi uomini – soprattutto se donne – e comprensivo con il personale della manutenzione o dell’assistenza a terra. Non avevo mai sentito un’hostess parlar male di lui – nonostante fosse manifesta la sua debolezza per il gentil sesso – Forse perché non s’era mia permesso di fare loro delle avance in pubblico o sul lavoro. Forse perché sapeva, col suo fascino dell’uomo nordico – alto, biondo, occhi azzurri e fare disinvolto – di planare sul morbido. Forse perché non era sposato né aveva legami affettivi stabili. In definitiva tutti lo consideravamo un bravo diavolo, generoso e garbato, per quanto deciso e ironico.

Aveva però un unico vizio: il bere! Non che fosse un alcolizzato, per intenderci. Le rigorose visite mediche cui i piloti commerciali vengono sottoposti ogni sei mesi lo avrebbero condannato immediatamente, no, diciamo che la mancanza di una vita familiare e la carenza di un vero affetto lo inducevano talvolta a rifugiarsi in una bottiglia di buon vino. Veramente più di una e questa sua debolezza si riscontrava a tavola, quando non rinunciava mai a un buon bicchiere, forse due, o a un buon aperitivo a fine volo, al bar dell’aerostazione. Qualcuno aveva cominciato a dubitare che la sua insistenza nell’andare a prendere qualcosa prima del volo non fosse una sua forma di cordialità ma … una necessità. Di fatto, in tutte le centinaia di tratte che avevamo fatto assieme (io come secondo) non l’avevo mai visto bere niente di più alcolico di una coca-cola, e pure degassata.

Ma si sa: certe malelingue, purtroppo, si fanno strada facilmente in un ambiente in cui il pettegolezzo non è certo privo d’argomenti, nel caso di Wolf fu davvero devastante: nell’arco di qualche mese dal suo arrivo in Compagnia tutti i dipendenti, dai dirigenti ai meccanici di linea erano a conoscenza della piccola debolezza del Comandante. Tanto che era stato soprannominato “Whisky”.

Ovviamente lui ne era venuto a conoscenza, perché è risaputo che gli aeroporti hanno occhi, orecchi e soprattutto lingua, solo che lui, per nulla turbato della cosa s’era preso gioco della turpe insinuazione e, allora un giorno, ci aveva chiamati a raccolta, prima d’imbarcarci, dandoci convegno sotto il musone dell’A300.

– Camerata – esordì nel suo italiano volutamente intedescato – A partire da oggi, ja, vige nova d-i-s-p-o-s-i-z-i-o-n-e per mio equipagio, ja! –

Ci guardammo esterrefatti l’un l’altro, io e le assistenti di volo, fantasticando che il comandante fosse effettivamente brillo. Ma erano appena le nove del mattino! Una di loro, perfidamente, ammiccò portandosi un finto bicchiere alle labbra.

Wolf fece finta di non vederla ma poi con brutalità le chiese: – Tu dire me, prego, quale essere tuo nome? Frau …? –

L’hostess si nascose nella sua divisa, diventando più paonazza del tessuto amaranto scuro che aveva indosso. Poi, facendosi coraggio disse: – Ambrogini – e aggiunse con un filo di voce: – … assistente di volo Lorenza Ambrogini. –

Il Comandante mise allora la mano in tasca e per un attimo temetti qualche atto sconsiderato … invece tirò fuori un innocuo gessetto bianco. Poi si girò verso l’enorme ruota del carrello anteriore e fece una tacca radiale sul copertone. Noi non credevamo ai nostri occhi. Quindi scrisse il nome “Ambrogini” accanto alla tacca.

– Pene – riprese austero il Comandante, poi rivolgendosi a me disse: – Ora tu dire me tuo nome, prego.-

Decisi di stare al gioco e risposi: – Secondo pilota Filippo Rossini, her command!

– Rossini? – chiese incuriosito

– Affermativo, her command – risposi perentorio. Mi sembrava di vivere il personaggio di “Ufficiale e Gentiluomo”. Mancava solo che il sergente di colore, quello sempre arrabbiato, mi chiedesse da quale città provenissi e facesse la battuta che da quella città provengono solo tori e … invece il Comandante mi chiese di nuovo: – Rossini? … come aperitivo? Io conosco ja, molto puono, ja! –

I sorrisi cominciarono a serpeggiare sui nostri volti.

Lui, invece, si girò di nuovo e ripeté l’operazione della tacca e del nome. A farla breve, ci ritrovammo tutti nostri nomi sulla gomma nera del pneumatico, diviso abilmente come una torta da tante tacche ben distanziate. Ma ancora non capivamo dove il Comandante avesse intenzione di andare a parare. Ci tolse finalmente dall’angoscia.

– Io ora spiegare voi, ja! … quando aeroplano atterra su aeroporto io scenda e controllo p-o-s-i-z-i-o-n-e ja, di tacca con riferimento gamba carrelo. Voi capito, ja? –

Facemmo un segno d’assenso … ma ancora non c’era chiaro nulla.

– Molto semplice, ja: chi indica tacca paca da bere a tutti equipagio! –

Scoppiamo in una risata liberatoria e lo mandammo amabilmente a quel paese. Wolf ce ne aveva fatta un’altra delle sue!

La prima a dover pagare l’aperitivo all’equipaggio, quella sera, fu proprio l’hostess Ambrogini.

******

Erano trascorsi più di undici anni da quel fatidico giorno, eppure, mai una volta, eravamo venuti meno a quel pittoresco rituale. All’inizio della tratta, il Comandante Wolf, munito di gessetto, segnava sul pneumatico il nome dei suoi uomini e donne per poi esigere, al termine della serie di tratte, il pagamento della buffa scommessa contro il caso. Praticamente faceva parte delle procedure pre-decollo.

Ovviamente questa strana pratica non era sfuggita al resto della Compagnia confermando l’aureola di pazzo scatenato del Comandante Johannson.

E così fece anche quella mattina. Quello che non poteva immaginare Wolf fu che ci ritrovammo esattamente con lo stesso equipaggio di undici anni prima. Un caso? No, due biglietti per la finale di Coppa dei Campioni, sic!

Quel giorno facemmo tre tratte Roma- Lisbona, Lisbona-Londra e Londra-Milano con rientro tecnico a Roma. Confesso che quando venne il momento di salutarci, una volta sbarcati i passeggeri e ultimate le procedure post volo, avevamo tutti gli occhi torbidi. Per l’ultima volta Wolf scese la scaletta e, secondo un rituale consumato, si avvicinò al pneumatico del carrello anteriore.

Solo che le tacche erano sparite e, insieme ai nostri nomi, c’era scritto: “Addio Wolf!”

Ci schierammo ordinatamente in silenzio, a mo’ di picchetto d’onore. Lui si girò all’improvviso e con gli occhi torbidi sbottò: – E mo’ chi paga da bere? –






NOTE: Un sincero ringraziamento ad Enrico Rossini per avermi accennato di questo Comandante, quello che tutti vorremmo nella cabina di pilotaggio




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§§§ in esclusiva per “Voci di hangar” §§§




Big Mark

I misteri della nebbia rosa



Non è possibile!

– Mezzanotte!

– Ma dico? Come m’è venuto in mente?

– Booh!

– E parlo pure solo!

E sì che all’inizio m’era sembrato tutto “umanamente” possibile! Insomma cosa sarà mai montare l’antifurto all’automobile? Sarà stato l’entusiasmo della modica spesa? – da non credere: solo sessantaseimila lire -. Sarà stata la gioia di sapere finalmente impenetrabile la mia carriola a quattro ruote? … fatto sta che era già l’ora delle streghe – la chiamo così chissà per quale ricordo d’infanzia – … e stavo ancora lì, in officina, ad armeggiare con fili, filetti e cianfrusaglie varie … e per di più in un giorno di ferie!

E sì, perché quell’operazione delicatissima – non per l’automobile, beninteso, ma per la mia salute mentale – l’avrei potuta eseguire solo in un giorno di vacanza. E magari fosse stato uno solo!

Forse perché troppo impegnato, forse perché appassionato da quel lavoro – possibile? – insomma … non m’ero accorto dell’ora.

Ah, ecco: l’orologio da polso l’avevo tolto per evitargli pericolosi “virtuosismi articolari” … quello dell’automobile era fuori uso – isolato dall’alimentazione – e quello dell’officina … segnava – da un paio di giorni – un’improbabile quanto irremovibile: una e un quarto.

Fortunatamente c’era un orologio – quello biologico – che, per quanto senza lancette, era relativamente preciso. Peccato che andasse interpretato! In quel momento gli occhi intorpiditi, una serie sospetta di sbadigli – e non poteva essere il lavoro noioso, perché non lo era, anzi – e una stanchezza generale mi suggerivano in modo inequivocabile di “guadagnare” il letto, al più presto.

Mentre mi stavo giusto domandando se tutto fosse dovuto allo sconforto di non vedere la fine di quel “lavoretto”, le note del “Silenzio”, provenienti dalla caserma dell’Aeronautica, a duecento metri da me, appena oltre la rete dell’aeroporto militare, mi urlarono convincenti: “Vattene a dormire, disgraziato!”.

Insomma, dovevo riconoscerlo: ero cotto. Per quella sera, anzi mattina, non ce l’avrei mai fatta … e così feci!

Sistemare le mie infinite carabattole, spegnere tutto e chiudere le porte dell’hangar fu cosa insolitamente faticosa. Neanche l’aria gelida dicembrina giovò più di tanto alla mia penosa condizione psico-fisica. Mi ritrovai così a tirar fuori la bicicletta dall’altro hangar – per raggiungere il mio alloggio – senza che ne fossi cosciente. Ero così poco cosciente che infatti presi per mia quella che invece … era stata di Konstantino.

In verità avevano: stesso telaio, stesso colore, stessa marca … la differenza stava che la mia era un po’ più accessoriata – tachimetro, trombetta, luci di posizione, catarifrangenti – e un po’ meno dotata di cambio – solo tre velocità, purtroppo – … praticamente: quasi uguali. Era pure vero che ormai avevo preso l’abitudine di usarla ogni tanto per non lasciarla alla mercé delle ragnatele, della polvere e della ruggine. La mamma di Kostantino me l’aveva pregato. Aveva deciso di lasciare tutte le cose appartenute al figlio – l’automobile, la bicicletta, perfino l’aliante – lì in aeroporto dove lui le aveva usate e dove noi – me lo aveva chiesto tra le lacrime – le avremmo dovute continuare ad usare … in sua memoria. E dall’amicizia che gli volevamo.

Che terribile giorno … l’incidente!

Ormai era già passato diverso tempo … eppure spesso mi tornava alla mente con una tale vividezza che … quasi mi convincevo fosse capitato ieri.

Sembrerà assurdo, ma a volte avvertivo addirittura la presenza di Konstantino: niente spiritelli avvolti in lenzuoli bianchi o apparizioni bluastre no, niente di tutto questo ma … piuttosto una presenza discreta e silenziosa, eppure decisa quale era stata quella terrena.

Non so come … ma sentii la mia voce dire: “Scusa Kosta … hai ragione … questa è la tua … ora la rimetto dentro”.

Eh sì: ero proprio stanco!

Nel tirar fuori la bicicletta – giusta, stavolta – mi resi conto di uno spettacolo che raramente si verificava ma di cui anche altre volte ero stato testimone: la nebbia rosa.

Ora che un rude meccanico di aliante – tutto chiavi a bussola e grasso per cuscinetti oppure bollettini tecnici e manuali di manutenzione – possa avere una seppur minima sensibilità d’animo … beh, sembrerà molto strano. Certo era che quello che avevo di fronte non mi lasciava del tutto indifferente.

In quella valle alluvionale, attraversata da ciò che non si può definire proprio un torrentello, e cinta da montagne – di duemila metri – la nebbia è di sicuro un evento meteorologico frequente. L’aeroporto, in particolare, ne è sovente assediato – praticamente dall’inverno fino ad inizio primavera -.

A volte, specie nei periodi con cielo sereno, ristagna per giorni interi, sollevandosi un poco – ma neanche poi tanto – nelle ore centrali della giornata. Va beh, ma allora?

La nebbia che c’era quella sera non era una vera e propria nebbia: era … era un morbido tappeto candido che galleggiava a qualche centimetro da terra. Sembrava quasi che il terreno, zuppo per le copiose piogge dei giorni precedenti, avesse il fiatone … tanto che il suo respiro affannoso produceva il classico “fumetto”.

I lampioni che erano disseminati lungo il perimetro dell’aeroporto militare, emettevano invece, una calda luce arancione e completavano la magia. I fasci luminosi, che lambivano la coltre nebbiosa, assumevano dei riflessi dai toni del rosso, del rosa, dell’ocra. Tutto l’aeroporto era così coperto da un grande manto rosato.

C’era forse qualcosa di tetro e d’inquietante in tutto questo ma … io, che conoscevo bene i perché e i per come del fenomeno fisico, ero solo affascinato dalla sua bellezza.

A volte la nebbiolina aveva delle repentine fluttuazioni, quasi che qualcosa la turbasse – forse un colpo di tosse del terreno? – A volte ondeggiava o tremolava timida, incerta se guadagnare altro cielo o rimanere lì, sospesa per magia appena sopra i fili d’erba.

– Certo che sono proprio stanco, eh?!

– Io, un tecnocrate, che si mette a fare il romantico alla Byron!?

– E continuo a parlare da solo … e non solo … t’ho, adesso c’ho pure le allucinazioni!

Stavolta, infatti, non era il solito ondeggiare, il ribollire casuale che conoscevo, sembrava piuttosto come se qualcuno camminasse nella nebbia. In realtà i riflessi della luna illuminavano un poco il buio ma riuscivo a scorgere appena un’ombra, o quello che la mia mente insonnolita assimilava a un’ombra.

Stropicciarmi gli occhi fu la prima cosa che feci per svegliarmi, sbadigliare la seconda – non ero così masochista da rifilarmi uno schiaffone o il classico pizzicotto! – E infatti non ottenni granché risultati: la figura si avvicinava e non solo, ora distinguevo qualcos’altro in mezzo al campo, ma era troppo lontano e troppo poco illuminato. Certo che però poteva dare l’idea – ma solo l’idea, eh! – di un aliante.

Mi sembrava quasi che qualcuno fosse atterrato e che, lasciato l’aliante a bordo pista, venisse verso l’officina a sollecitare il recupero. Se quelle fossero state le cinque del pomeriggio non ci avrei trovato niente di strano, anzi mi sarei precipitato a svolgere nient’altro che uno dei miei compiti. Ma sapevo bene che non erano le cinque del pomeriggio!

Mi era capitato altre volte, rientrando la sera tardi, di trovarmi qualcuno davanti, all’improvviso. In genere erano persone che facevano una “sgambettata” serale o accompagnavano i loro cani a farne una. Che fosse uno di questi?

Magari poteva essere il solito tizio con i funghi nel cervello … cioè, intendo … che s’era messo alla ricerca di funghi. In aeroporto ce n’erano davvero tanti – di funghi e di malati per i funghi, anche – peccato che non li avrebbero potuti mai cogliere durante il giorno. Già, perché li avremmo “invitati” caldamente ad andarsene! Prima che qualche aeroplano o qualche aliante li avesse fatti a striscioline! Mica per i funghi!

Probabilmente era un recidivo: a quell’ora nessuno l’avrebbe colto sul fatto … volevo dire: nessun aeroplano avrebbe compromesso la sua incolumità. Inoltre era lo stesso gioco di luci, nebbia e riflessi che spesso creava strane sagome. Ma che nulla avevano di solido.

Nonostante le mie capacità intellettive fossero molto prossime allo zero, mi venne quasi spontaneo lanciare un ammiccante: – Ueilà! – straconvinto che nessuno mi avrebbe risposto e … che sarei rimasto stecchito dal terrore se qualcuno l’avesse fatto …

– Sempre operativi, eh?

– … o per tutti i palloni aerostatici! … sto’ sognando o cosa? … non può essere! … qualcuno mi ha risposto! … ma no, ho sentito male! … eppure non posso aver sentito male: c’è un tale silenzio! Quasi di tomba! … vorrei vedere: è l’ora delle streghe … o Dio! Tomba, streghe, spiriti … fantasmi? … il fantasma di Konstantino? … solo lui potrebbe dirmi una cosa del genere! Quella era la nostra parola d’ordine durante lo stage di Grumento … la usavamo solo noi! Solo noi due sappiamo cosa significa! … che qualcuno ci abbia sentito e ora voglia farmi uno scherzo? … non è possibile! … nessuno se ne andrebbe in giro a quest’ora … e a far cosa poi? … no, ho pensato a voce alta e allora … sì, sì, dev’essere andata così: ho pensato a voce alta! Ormai dopo un momento di ragionevole sbandamento, m’ero costruito una spiegazione più che logica – no, è? – , beh, allora diciamo … abbastanza logica.

E proprio perché ispirato da questa logica che replicai verso la presunta voce con un timido:

“Operativi al massimo! Sempre!”

Non ottenni risposta – e per fortuna! – Ormai ne ero certo: era stata un’allucinazione! Certo che però … la sagoma a bordo pista doveva essere una bella allucinazione perché dava tutta l’idea di essere ancora lì!

– Sarà il caso d’andare a vedere?

Stavo di nuovo parlando da solo, stavolta però, non per sollecitare la risposta di qualcuno che – ormai ne ero certo – non c’era, ma per … dare conferma alla mia più che solida spiegazione – no è? – Va beh, comunque incominciai col muovere qualche incerto passo in quella direzione, trascinandomi dietro la bicicletta – la fuga è più veloce su due ruote -.

La nebbia mi nascondeva i piedi ma io mi muovevo con estrema circospezione: chi mi avesse visto in quei momenti mi avrebbe preso per un nottambulo pazzo furioso. Io invece, mi sentivo come chi attraversa un campo minato … ma la curiosità era troppa e dovevo andare a vedere …

Arrivato a metà strada, mi sentii soddisfatto di me stesso – e anche più sollevato, lo confesso -. La sagoma non era nient’altro che l’ombra della vecchia garitta di sorveglianza dell’aeroporto, allungata a dismisura dalla luce alogena che illuminava l’ingresso laterale dell’hangar militare.

– Visto? Tutto ha una spiegazione razionale!

La serata con brivido poteva finire lì. Tornai verso gli hangar dell’Aeroclub, violentemente illuminati da una vivida luce bianca al neon – quant’era bella!

Inforcai la mia bicicletta e me ne andai – con una certa sollecitudine – verso il mio alloggio.

Tempo dieci minuti ero a letto, tempo dodici ero già nel mondo dei sogni.

Mi aspettavo una notte di incubi, infatti fu tutto un ricordare, un rimuginare quanto mi era accaduto durante la permanenza a Grumento. Quella era stata già nella realtà un incubo, figuratevi riviverla pure in sogno! Naturalmente mi apparve anche Konstantino – niente numeri però -.

Al mattino non mi ricordai più di tanto quelle che erano state le mie avventure notturne.

Cominciai la giornata con la promessa solenne che avrei finito assolutamente il lavoretto che mi ero procurato. Anche perché l’indomani avrei partecipato a una cerimonia di commemorazione – e nessun antifurto al mondo me lo avrebbe impedito – a sei mesi dalla scomparsa dell’amico Konstantino.

Inforcai la mia bicicletta e mi diressi verso l’officina per una seconda giornata di litigio con l’antifurto.

– Certo che combinazione, eh!

– Ieri sera ho creduto che mi parlasse … questa notte l’ho sognato … e domani vado alla messa di suffragio: eh, la mente umana è proprio un gran mistero!

Ero troppo preso nel fare queste considerazioni. Non mi accorsi che la sua bicicletta era lì – parcheggiata come sempre lui aveva fatto – davanti al suo alloggio.



A perenne ricordo di Konstantino … ed in fiduciosa attesa dei numeri






#proprietà letteraria riservata#




Big Mark

17 dicembre 1903

Orville si svegliò d’improvviso.

Il vento, forte e teso con non mai, fischiava minaccioso attraverso le pareti e il tetto.

Si sollevò con i gomiti dalla scomoda brandina e di scatto si voltò verso il Flyer.

Nell’hangar regnava il buio più completo, eppure, del biplano, riusciva a vederne ogni singola travatura, ogni tirante ed ogni cavo di comando. Sentiva l’odore del legno di frassino e di abete con cui era costruito, sentiva nelle dita l’intelatura di mussola di cotone grezzo che l’inseparabile Katharine aveva cucito con infinita pazienza sulle ali sovrapposte. Poteva vedere le grandi eliche bipala, lo scontroso motore da quattro cilindri in linea realizzato appositamente per loro dal caro amico Charles Taylor e le piccole ali mobili orizzontali, appena riparate, che svettavano imperiose sul lungo traliccio a sbalzo.

Il Flyer riposava tranquillo.

Eppure non c’era una sola finestra dalla quale passasse la luce della luna: – A che scopo farla? -, s’erano chiesti due anni prima, lui e Wilbur quando avevano costruito il piccolo hangar, – Ci dovrà stare solo il Glider! – si dissero. Erano più che convinti che quella solida baracca di legno stagionato sarebbe stata sufficiente per il ricovero e la manutenzione della loro macchina volante. E non c’erano neanche lumi a petrolio: – Troppo pericoloso – avevano subito concordato all’unisono.

Eppure Orville, gli occhi puntati verso il buio, vedeva il Flyer davanti a sé, voglioso di spiccare il volo, ma non abbastanza leggero da farlo con quel soffio che passava impertinente tra le tavole.

Orville, rassicuratosi, si adagiò sulla brandina: – Devo dormire – disse tra sé e sé, – Domani è il grande giorno, lo sento, e non voglio rovinarlo per disattenzione o per stanchezza -.

Avevano lavorato trentasei ore ininterrotte, lui e Wilbur, per rimediare al piccolo danno che, due giorni prima, Wilbur aveva provocato in atterraggio. Atterraggio!? … sì, il Flyer aveva tentato di decollare: il motore al massimo dei giri, Wilbur aveva mollato il cavo di ritenzione, lui lo aveva accompagnato sostenendo l’estremità dell’ala fino a quando … il biplano aveva percorso tutto il binario ma, staccatosi improvvisamente dal carrello sul quale correva, non era riuscito a guadagnare il cielo ed era caduto quasi subito a terra. Un pattino anteriore s’era infilato nella sabbia e le alette orizzontali anteriori e si erano danneggiate non poco.

– Wilbur è stato solo sfortunato – pensò Orville, – la fortuna è così: ora ti sorride … ma tra un istante è già di un altro. –

A Wilbur, solo tre giorni prima, aveva davvero sorriso: avevano tirato a sorte lanciando in aria un nichelino ed aveva vinto. – Quello – si disse Orville – avrebbe potuto essere il primo volo nella storia di una macchina più pesante dell’aria e invece … –

Non c’era invidia in Orville: per lui, Wilbur, non era semplicemente il fratello maggiore o carne della sua carne. No, per Orville, Wilbur era la parte razionale di sé, quella riflessiva che non si lasciava andare di fronte all’insuccesso o alle difficoltà. Orville sapeva di essere un sognatore, un intuitivo, uno che aveva visioni folgoranti e che sapeva anche concretizzarle praticamente. Wilbur però, più maturo, era razionale e determinato, forte delle proprie ragioni e convinzioni. Un vero metodico. L’uno era la compensazione dell’altro. E non poteva esserci invidia tra loro. Erano i fratelli Wright e nient’altro.

– No – pensò Orville ad alta voce: – Il Signore ha voluto così. Ha fatto in modo che Wilbur non rimanesse ferito e che il Flyer non si danneggiasse troppo.-

Per un momento, sentì nella sua voce quella del padre, il reverendo Bishop Milton Wright: “la volontà del Signore” ricorreva continuamente nei suoi sermoni e nei testi che scriveva e poi pubblicava nel Religius Telescope. Ma non perché glielo imponesse il ruolo di vescovo della comunità religiosa della Chiesa Evangelica degli United Brethern in Christ, quanto perchè vi credeva fermamente. Così tanto che, di riflesso, anche lui e Wilbur ne erano altrettanto convinti.

– Se il Signore vorrà … e se avremo lavorato bene … il Flyer domani volerà – pregò Orville.

La volontà del Signore, sarebbe stata certo determinante … ma i due fratelli sapevano di aver lavorato davvero moltissimo.

Orville chiuse gli occhi. Prima di addormentarsi rivide sé stesso e suo fratello … bambinetti nella cantina della vecchia casa di Dayton, in Hawthorn Street, costruire per gioco, e anche per qualche spicciolo utile alla famiglia, piccoli giocattoli, congegni meccanici, e aquiloni in particolare. Rivide il modellino di elicottero di sughero e fil di ferro che, quando lui aveva solo sette anni … e quindi Wilbur undici, il reverendo Milton aveva regalato loro scatenando, forse, la curiosità per le macchine volanti. Anche mamma Susan li aveva stimolati: una donna colta e con una naturale predisposizione per le invenzioni. Rivide il suo viso sereno dalla carnagione chiara, i capelli quasi biondi, gli occhi intelligenti … e cadde in un sonno profondo.

L’alba era ancora lontana.

Il vento spazzava impetuoso la spiaggia di Kitty Hawk. Teso e gelido, sferzava con violenza la torretta costruita per le prime prove con il loro veleggiatore … erano passati già tre anni. Sibilava dispettoso attorno all’hangar dove Orville aveva insistito di dormire, quella notte, e non risparmiava, rumoreggiando, l’attigua casetta di legno che ospitava Wilbur. Non c’era altro accanto a loro: solo dune di sabbia e l’Oceano. E un oceano ancor più grande sopra di loro. La collina di Kill Devil Hill, qualche miglio più a sud, li guardava sorniona.

– Che diavolo di posto! – s’erano detti la prima volta che c’erano andati. Da casa loro, avevano dovuto percorrere diverse centinaia di miglia, in treno, attraversare l’Ohio e arrivare fin lì, nella North Carolina, nella parte più orientale del paese.

– Ringrazia l’U.S. Weather Bureau (Ufficio Meteorologico Federale, N.d.R.) – aveva detto sarcastico Orville. Ma non era certo colpa di Wilbur se, alla sua richiesta, quelli avevano risposto con indicazioni sbagliate: – Altro che venti tesi – aveva aggiunto bonario Orville, – altro che venti costanti e di piccola intensità: se va bene, qui ci saranno almeno trenta nodi di vento … con raffiche fino a cinquanta!? Chiamala brezza! – aveva infierito Orville. Wilbur aveva sorriso sconsolato: per l’ennesima volta aveva avuto la dimostrazione di quanto fossero fallaci le informazioni fornite dalla scienza del loro tempo e dai suoi depositari.

Orville si agitò nel sonno, scosso da brividi. Ma non erano dovuti al freddo: erano gli incubi. Incubi terribili che lo inseguivano, ormai, ogni notte. In uno di questi, l’elica destra schizzava via dal suo albero e rincorreva il Flyer, tranciandolo pezzo dopo pezzo, come un tritacarne per gli hamburger. In un altro, ancora più terrificante, lui era a terra e vedeva il Flyer salire in aria, salire, salire, salire … fino a scomparire alla vista per non riapparire più. Ma il più sconvolgente, era l’incubo che ricorreva, ormai con insistenza, già da qualche settimana … praticamente da quando avevano ricevuto la notizia del fallimento di Langley.

Come loro, anche Langley aveva tentato di far volare la sua macchina più pesante dell’aria. Si chiamava “aerodrome” ed aveva due bizzarre ali in tandem. Per alcuni mesi Orville e Wilbur, avevano lavorato incessantemente, preoccupati che egli potesse superarli nell’impresa … ma dopo un primo tentativo finito miseramente, al secondo, l’aerodrome si era sfracellato cadendo nelle acque del fiume Potomac. Purtroppo per Langley, nonostante il lancio a mezzo di catapulta a vapore ed un motore molto migliore rispetto a quello del Flyer, l’aerodrome non aveva neanche accennato a volare.

Orville e Wilbur, appresa la notizia, s’erano guardati l’un l’altro e, senza proferire una sillaba, s’erano complimentati a vicenda per aver preferito tutt’altre soluzioni aerodinamiche e costruttive. E, naturalmente, ringraziarono il Signore per averli preferiti a Langley: – Le nostre preghiere ed un’esistenza condotta nella grazia di Dio, ci hanno salvato – aveva commentato Wilbur.

Il fratello assentì con un cenno della testa ma, sapeva bene, e Wilbur lo sapeva meglio di lui, che il loro Flyer non avrebbe volato solo per intercessione dell’Onnipotente.

Orville prese a dimenarsi nel suo letto improvvisato, perseguitato dal suo incubo. Egli vedeva Wilbur ai comandi del Flyer, lo vedeva staccarsi da terra, guadagnare qualche decina di metri di quota e poi … frantumarsi sulle dune di Kitty Hawk, sollevando una gran nuvola di sabbia.

– E’ stato un incubo premonitore – aveva confessato a Wilbur. Quando aveva abortito il decollo, tre giorni prima, Orville era rimasto pietrificato, incapace di correre dal fratello che, incolume, scivolava giù dall’ala del biplano, preoccupato più per piani orizzontali che per sè.

– Ho vissuto il mio incubo peggiore – gli aveva spiegato Orville. Wilbur lo rassicurò: – Non temere, fratello mio – poi, con pacatezza, aggiunse – … non farò la fine di Lilienthal.-

Orville allora, gli occhi persi al cielo, tornò con la memoria a quel lontano giorno dell’ottocentonovantasei in cui avevano appreso, dai giornali, della morte del grande pioniere Otto Lilienthal. L’uomo che, secondo loro, per primo, si era cimentato con metodo e rigore scientifico nella grande sfida all’aria.

Orville, rammentò che anche Wilbur era rimasto letteralmente sconvolto dalla notizia, forse anche più di lui. Sinceramente, non riusciva a ricordare altre occasioni in cui aveva visto il fratello così scosso. Però, né lui né Wilbur, ricordò ancora Orville, avevano accettato con rassegnazione le ultime parole del pioniere tedesco: – Qualcuno dovrà pur sacrificarsi -. Erano state pronunciate sul letto di morte, è vero, ma erano state riportate dai giornali, più per enfatizzarne la teutonica follia che la pervicacia del geniale ricercatore.

Orville allora capì il vero senso delle parole di Wilbur: non voleva semplicemente rassicurarlo, no, intendeva ricordargli che il loro approccio al mondo del volo era stato ancor più rigorosamente scientifico e ancor più spietatamente sperimentale di quanto avesse tentato di essere quello dello sfortunato ingegnere tedesco. Così facendo, non avrebbero mai rischiato la loro vita … semmai il successo della loro impresa.

– Lo so, Wilbur- rispose Orville fiducioso – noi faremo solo la fine … dei fratelli Wright -.

Orville fu preso da un fremito improvviso: il Flyer stava precipitando e lui era impotente. Nel sonno urlò. Fu allora che si svegliò, bagnato di sudore, nonostante la temperatura glaciale. Nella mente, l’ultima scena ancora vivida.

Gli ci volle un poco per rendersi conto di dove si trovasse. Ascoltò il vento: era calato. C’erano circa quindici nodi, ora: – Se si mantiene così – disse a voce alta – …. possiamo ancora farcela –

Il Flyer era piuttosto leggero, circa 750 libbre (340 kg, N.d.A.) con tutto il pilota e sarebbe stato difficile governarlo con un vento superiore ai venti nodi. Non potevano certo permettersi di sottovalutare il vento. Anche e soprattutto in considerazione del motore di cui disponevano. Wilbur però, al termine del suo tentativo sfortunato, se ne era dichiarato ampiamente soddisfatto e aveva così dissipato uno dei maggiori motivi di preoccupazione di Orville. Anzi, aveva addirittura insistito con lui affinché il lungo binario, ove correva il carrello di supporto del Flyer, fosse portato dal fianco della collina di Kill Devil Hill ad un tratto di spiaggia completamente piano: – Possiamo fare a meno della pendenza – gli aveva detto Wilbur, e aveva aggiunto:- Vedrai … la macchina volerà stupendamente! –

Orville, non dubitò neanche un istante delle parole del fratello: non era abitudine di Wilbur fare previsioni … a meno che non fossero ampiamente meditate. Tuttavia, Orville non poté fare a meno di mostrare una smorfia di scetticismo: non più tardi di venti giorni prima, era dovuto correre a Dayton per far ricostruire, con materiale più resistente, l’albero di supporto dell’elica destra … senza parlare poi, dell’infinità di problemi che l’installazione del motore, sulla cellula del Flyer, aveva creato loro: – E poi ho gli incubi!? – aveva detto scherzosamente al fratello.

D’altra parte, lo stesso Wilbur, analizzando nei dettagli il suo decollo abortito, aveva riconosciuto apertamente di preferire il vecchio libratore al nuovo biplano: il Flyer era assai diverso dai loro vecchi Glider, benché ne derivasse in tutto e per tutto, salvo che per la presenza del motore.

Sia lui che Orville, su quelli avevano consumato migliaia di voli, con quelli avevano imparato a volare: l’incomodo del motore li avrebbe disorientati non poco. Almeno all’inizio.

– Dovremo abituarci all’idea – commentò Orville – e cambiare metodo di pilotaggio rispetto a quello che abbiamo adottato fino ad ora –

– Certo! – riconobbe sconsolato Wilbur – Non c’è altro da fare – poi, con il viso rassegnato disse: – il volo degli alianti, oggi, è fin troppo breve … – e lanciandosi in un’altra previsione che non suonò affatto azzardata alle orecchie di Orville, neanche in quell’occasione, aggiunse: – ma in un prossimo futuro gli alianti voleranno ininterrottamente per ore e percorreranno centinaia di miglia … ma la storia dell’aviazione la faranno gli aeroplani a motore … purtroppo! –

Anche Orville la pensava allo stesso modo. Era vero: nel corso dei loro studi preliminari, avevano calcolato che Otto Lilienthal aveva volato per un totale di sole cinque ore, nonostante migliaia di lanci effettuati. E anche loro, nonostante tre anni di prove e altrettante migliaia di lanci con tre diversi libratori, vincolati e non … erano riusciti a coprire solo brevi distanze rimanendo in aria per una manciata di secondi ogni volta. Era pur vero che questi brevi voli avevano permesso loro di mettere a punto le macchine e di migliorarle notevolmente, di sperimentare nuove soluzioni e, non ultimo, di prepararli al grande giorno in cui … avrebbero solcato, finalmente, il grande oceano dell’aria.

– Un pilota di aliante fa presto a diventare un pilota di aeroplano – aveva detto scherzando Orville.

Del tutto serio, Wilbur gli rispose: – Chissà se sarà altrettanto vero il contrario? –

– E’ tipico di Wilbur -, si disse tra sé e sé Orville. Quando lui si concedeva qualche provocazione o qualche fantasticheria, Wilbur lo riportava immediatamente alla realtà con affermazioni brutalmente ponderate quanto profonde. Orville non era perfetto, e lo dichiarava candidamente, ma anche Wilbur … Orville, ad esempio, riusciva con grande difficoltà a seguire la rigidissima metodologia del fratello. Affermare che Wilbur fosse disciplinato era poco, secondo Orville. Spesso lo trovava eccessivo se non, addirittura, insopportabile: non c’era motivo, a detta di Orville, di controllare e poi ancora ricontrollare una seconda volta ogni singolo componente del loro libratore prima di ogni volo: – L’hai già fatto nel volo precedente – gli diceva contrariato Orville. Ma Wilbur non sentiva ragioni: – La sicurezza dei nostri mezzi è la nostra sicurezza!- rispondeva laconico. Orville riusciva a malapena a dominarsi: non voleva infierire sul fratello, anche perchè, in fondo, aveva ragione. Una sola volta l’aveva criticato apertamente: quando, due anni prima, Wilbur s’era lasciato strappare una dichiarazione lapidaria da un sedicente giornalista, giunto fin lì a curiosare. Suonava più o meno così: “Per almeno altri cinquanta anni l’uomo non volerà”. Orville non gliela aveva mai perdonata. Non volendo, Wilbur aveva alimentato proprio quel certo tipo di stampa che era sempre alla sola ricerca di notizie sensazionalistiche ed inattendibili. “La peggiore stampa” la chiamava Orville, dalla quale avrebbero dovuto sempre ben guardarsi perché non avrebbe certo giovato loro, a chi, come loro, stava rincorrendo un sogno millenario e, soprattutto, ai lettori che non venivano affatto informati ma, al massimo, “impressionati”. Ma ciò che più aveva amareggiato Orville era il comportamento di Wilbur che, in quella occasione, s’era lasciato prendere dallo scoramento e non solo: l’aveva esternato. Il loro secondo aliante, proprio in quei giorni, stava rivelandosi un vero fallimento: avevano applicato con eccessiva fiducia i dati sui profili curvi raccolti da Lilienthal. Per un istante, presi entrambe dallo sconforto, avevano addirittura pensato di mollare tutto … ed era stato in quei momenti di debolezza che quel “satanasso” di giornalista aveva avvicinato Wilbur. Da allora in poi, i rapporti con la stampa s’erano fatti difficili. Orville ne era consapevole, e talvolta, anche compiaciuto. La stessa vicenda di Langley poi, era stata significativa: non avevano nessuna intenzione di essere lapidati pubblicamente dalla stampa dopo aver vissuto il dramma dell’insuccesso, già di per sé enormemente traumatico. Sarebbe stato davvero troppo. Anche per loro. L’insuccesso del giorno prima aveva perciò ridestato il sopito dissapore in Orville ma fortunatamente, pensò, non avevano vissuto la stessa triste esperienza con la stampa: la notizia non aveva avuto eco sui giornali. E sì che ce n’erano stati di spettatori. – Non c’erano giornalisti tra loro – aveva detto giocoso a Wilbur. Il quale aveva risposto con un mugugno di assenso. I rapporti con la stampa preoccupavano comunque Orville. Avevano discusso più volte sulla necessità di divulgare il risultato delle loro ricerche e delle loro esperienze ma, erano sempre giunti alla stessa decisione: – Vedrai che, quando arriverà il giorno fatidico … ci prenderanno per stregoni sioux! – disse stizzoso Orville. Ma Wilbur era stato irremovibile. Il loro carattere riservato e la mentalità imprenditoriale fecero il resto. Orville dunque, non biasimò la scelta di Wilbur: convocare per quella mattina i soli addetti alla Life Saving Station (Stazione di salvataggio, N.d.R.) di Kitty Hawk. Uno di loro, John T. Daniels, avrebbe provveduto, all’occorrenza, a scattare anche delle foto. Era un appassionato di fotografia e se la sarebbe cavata egregiamente con l’obiettivo, il diaframma le lastre e gli altri ammennicoli. – Sarà oggi il giorno fatidico? – si chiese Orville scendendo dalla brandina . L’incertezza li avrebbe tormentati fino all’ultimo istante, anche se erano certi di aver superato brillantemente tutti i problemi che, fino ad allora, avevano impedito il volo con il motore di una macchina più pesante dell’aria. Erano certi di aver letteralmente prosciugato tutte le conoscenze tecniche disponibili all’epoca, e di aver progettato, realizzato e poi sperimentato ogni singolo componente del Flyer con grande scientificità. Certo, avevano goduto dell’appoggio e dell’incoraggiamento di Chanute, avevano adottato la travatura reticolare di Pratt, avevano preso spunto dalle esperienze di Lilienthal, si erano ispirati al planoforo di Penaud e all’ariel di Henson, … ma quanti problemi e vuoti scientifico-tecnologici avevano superato grazie alla loro sagacia e perseveranza!? S’erano costruiti una piccola galleria del vento con la quale avevano sperimentato centinaia di profili confermando che i dati forniti da Lilienthal erano davvero sovrastimati. Avevano progettato e costruito le due eliche: le prime con un rendimento sufficiente per il decollo di un velivolo. Avevano realizzato il loro motore: piccolo, leggero e abbastanza affidabile. Avevano reso finalmente governabile, su tutti gli assi, la loro macchina volante. Come? Installando, per primi: i timoni di direzione, di profondità (stabilatori, N.d.R.) ed un originalissimo sistema di svergolamento delle estremità alari (precursore dei moderni alettoni, N.d.R.). E poi: avevano centrato e bilanciato la loro macchina disponendo il motore lateralmente, in posizione opposta a quella pilota. Pilota che, per ridurre la resistenza all’avanzamento, era letteralmente disteso sul dorso dell’ala. Con grande disappunto di Wilbur. Avevano montato le due eliche spingenti sul bordo d’uscita alare, nello spazio tra le due ali e, a mezzo di trasmissione a catena, avevano dato loro un senso di rotazione opposto l’una all’altra per evitarne la controrotazione. E ancora: i pattini, il sistema di lancio su carrello sganciabile, il radiatore sul montante alare … – Niente male per due costruttori di biciclette! – esclamò Orville. Finì di vestirsi e indossò la pesante giacca di lana. Sfilò dal taschino l’orologio e s’incamminò verso la porta dell’hangar. Aprì lo sportellino del suo orologio da tasca … ma non per conoscere che ora fosse. Albeggiava. Il mare in burrasca. Il vento da nord, gelido, teso, sui trenta nodi. Il chiarore illuminò il minuscolo ritratto della madre e la fotografia del padre. Insieme a Wilbur, erano tutta la sua famiglia. Né lui, né il fratello avevano una moglie e dei figli. Neanche una fidanzata: – Nè mai l’avremo – sosteneva Wilbur: – Nessuna donna – diceva – che sia abbastanza sana di mente, riuscirebbe a condividere un’esistenza con me o con te, caro Orville. – All’esortazione di spiegarsi meglio, Wilbur aveva aggiunto: – E’ molto semplice. Noi siamo dei missionari, o se vuoi, degli invasati: dipende dai punti di vista. La nostra mente, il nostro cuore e il nostro corpo perseguono un solo grande sogno … e in questo grande sogno, lo sai bene, non c’è posto per una donna. Non esiste donna in terra che accetterebbe di esserne semplice cornice – Wilbur aveva ragione: non c’era moglie che avrebbe rinunciato al marito, ai figli, alla tranquillità economica, ad una casa e ad una vita normale … per cosa? Non avrebbe mai capito. – C’è un prezzo anche per i sogni – disse, rivolto alla madre. Orville alzò gli occhi torbidi e si girò verso la piccola baracca: Wilbur era sulla porta. Come lui, era già vestito, come lui guardava l’alba, come lui valutava il vento. Il loro sguardo s’incrociò. Un sorriso solcò il viso austero di Wilbur, Orville aggrottò i baffi sorridendo a sua volta. Entrambe erano svegli … eppure, entrambe stavano sognando. Era l’alba del 17 dicembre 1903.

Il reverendo Milton Bishop Wright aprì il telegramma e lesse: “Fatti con successo quattro voli giovedì mattina tutti contro ventuno miglia di vento partendo in piano con potenza del motore solo media attraverso aria trentuno miglia il più lungo 57 secondi informa la stampa a casa a Natale. Orville Wright”

Il volo a motore era nato: il volo a vela l’aveva partorito.

Note: 1) il telegramma riportato è quello che, completo di errori, fu ricevuto veramente da Bishop Wright, il pomeriggio del 17 dicembre 1903 a Dayton. Alle 10.23 del mattino, Orville aveva volato per 12 secondi coprendo 120 piedi (37 metri) ma, nel volo più lungo di quella giornata, Wilbur riuscì a volare per 59 secondi e 852 piedi (260 metri) di distanza. 2) un ringraziamento particolare al mio insegnante di tecnologia aeronautica, prof. G. Ciampaglia, che ci ha regalato, forse, l’unico libro in lingua italiana sull’argomento: “I fratelli Wright e le loro macchine volanti” – 1993 – Istituto Bibliografico Napoleone 3) le vicende narrate hanno fondamento storico, i dialoghi e le considerazioni espresse dai personaggi sono frutto della fantasia dell’autore. In buona parte. 4) Orville e Wilbur Wright non si sposarono mai … ma coronarono il loro grande sogno!


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