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Chi c’è in decollo

Chi vola in parapendio lo sa bene: l’area di decollo non è in un comodo aeroporto o in un’aviosuperficie attrezzata. Il luogo per effettuare il decollo, chiamato semplicemente “il decollo”, è su in alto, in collina o ancora più in alto, in montagna: un’area possibilmente libera da alberi e da ostacoli, esposta favorevolmente rispetto al vento dominante e aperta verso valle. A volte è un ampio prato in lieve declivio altre un ripido pendio attorniato da alberi o cespugli che lasciano uno stretto corridoio a disposizione dei piloti e poco spazio agli errori.

Nei casi più fortunati si arriva all’area di decollo percorrendo un tratto in auto e poi un breve tratto a piedi con lo zaino sulle spalle. Altre volte lo zaino lo si deve trasportare per una mezz’ora o più di cammino su sentieri ripidi ed accidentati. C’e’ da considerare che quando si parla di zaino da pilota di parapendio non si intende un normale zaino da escursionista del peso di quattro o cinque chili. Quello che i piloti si caricano sulle spalle è uno zaino enorme che pesa tra i 15 ed i 20 chili e che, una volta indossato, li fa sembrare, agli occhi degli spettatori casuali, simili a delle lumache che, faticosamente, si trascinano sotto grossi gusci colorati.

La fatica di portare questo enorme fardello è però premiata dal fatto che esso contiene tutto il necessario per volare: il parapendio, l’imbracatura, la tuta, il casco e gli strumenti. O meglio quasi tutto, infatti, ciò che ancora manca è il posto in quota da dove prendere il volo. Ma, come stavamo dicendo, a quello, con un po’ di fatica e sudore, ci si arriva.

Quando si arriva sul decollo, la prima cosa che si fa è dare un’occhiata alla manica a vento. A dire il vero, in alcuni decolli si trova una vera e propria manica a vento cioè una specie di bandierina di tela a righe colorate fatta a forma di tubo, come quelle che vi sarà sicuramente capitato di vedere in un qualche aeroporto o su qualche autostrada. In altri decolli c’e’ invece solo un fiocco, cioè un ciuffo di strisce di plastica, di quelle bianche e rosse che servono per delimitare i lavori in corso, appeso ad un’asta o ad un lungo ramo piantato nel terreno. Lo scopo del fiocco e della manica a vento è lo stesso: indicare la direzione e l’intensità’ del vento.

Così, se una volta giunti in cima non si vedono dei parapendio già in volo, la prima occhiata va alla manica o al fiocco, per vedere se c’e’ il vento “giusto”, cioè se la sua direzione e la sua intensità sono tali da permettere il decollo. Infatti, il parapendio è un mezzo che deve essere “gonfiato” per volare, cioè la sua struttura deve essere riempita d’aria per garantire che la tela acquisti la forma di un’ala con un ben definito profilo alare e una sufficiente rigidezza tali da garantirgli le caratteristiche di portanza ed efficienza che ne fanno un mezzo volante. Inoltre la manovra di decollo risulta agevole se il vento proviene dalla direzione nella quale si vuole decollare o proviene da una direzione che non si discosta eccessivamente da quella. Al contrario, una condizione di vento alle spalle è molto sfavorevole e può implicare l’impossibilita’ ad effettuare la manovra di decollo.

Ma lasciamo questi tecnicismi e torniamo a quello sguardo fisso sulla manica: una volta che con occhio critico se ne sono studiati i movimenti e che le prime valutazioni sulle condizioni del vento si fanno largo a tentoni nella mente in forte debito d’ossigeno, l’attenzione dei nuovi arrivati, ancora con gli zaini in spalla e con il fiato corto, passa a controllare chi c’e’ e cosa accade lì su. Infatti, l’attività’ dei piloti arrivati in precedenza è un indice di ciò che la giornata prospetta. Se si trovano piloti indaffarati a spiegare le vele, ad imbracarsi, a svolgere fervidamente i controlli pre-volo, allora, se anche nessuno è ancora in volo, significa che le condizioni sono buone e che basterà mettersi in coda per poi decollare. Se, al contrario, si arriva e si trova un po’ di gente seduta a chiacchierare, si vedono gli zaini sparsi qua e là e si respira un’atmosfera rilassata come quella di un pic-nic, si capisce subito che ci si deve armare di pazienza perché, per poter, volare ci sarà da aspettare. Capita spesso, infatti, che, se anche il cielo è limpido e da valle tutto sembra perfetto, una volta arrivati sul decollo le condizioni non siano ancora buone per permetter un volo decente.

In questi casi si procede con calma: si riprende fiato, si scambiano i primi saluti, ci si libera dello zaino e si cerca un posto comodo per sedersi ed aspettare. Praticando il volo libero si scopre come esso risulti essere, a volte, uno sport di attesa che richiede buone doti di pazienza che, in certi casi, possono essere portate anche all’estremo. Si può dire che esso è più vicino al gioco degli scacchi di quanto non si possa pensare! Alcune volte, infatti, si deve mettere in conto che l’attesa in decollo, nella speranza che le condizioni si rendano accettabili per il volo, può durare per delle ore. In alcuni casi, può addirittura accadere che l’attesa non venga premiata dal tanto agognato volo, ma, al contrario, può essere che le condizioni negative permangano, costringendo alla discesa a valle con lo zaino in spalla.

Per un pilota, un ritorno a valle a piedi con lo zaino in spalla suona sempre come una piccola sconfitta, mentre la voglia di volare tempra verso il sacrificio. Così, da bravi e ostinati piloti, anche in quei casi in cui non c’e’ il vento giusto, si resta in cima speranzosi nel miglioramento o fiduciosi nelle immancabili osservazioni ottimistiche di qualcuno dei piloti locali che meglio conoscono i segreti del posto e meglio dovrebbero saper valutare le possibilità di miglioramento.

In ogni caso l’attesa sul decollo non è come una noiosa attesa nell’anticamera dello studio di un dentista. Il clima è ben diverso (e ci mancherebbe!) e si inganna il tempo amenamente con i discorsi sul volo, sulle manovre, sui materiali, sulle prestazioni di questa o quella vela, sui contenuti dell’articolo letto sull’ultimo numero di una rivista specializzata. In gergo questo si chiama “parlapendio” e risulta essere uno sport molto praticato e scevro da qualsiasi rischio: i voli pindarici, infatti, non hanno mai fatto male a nessuno!

Nei casi in cui l’attesa si protrae, capita che la conversazione si scaldi e così viene il momento di tirare fuori i racconti più succulenti: le manovre di decollo azzardate, gli errori clamorosi conclusi con piloti aggrappati ad alberi o cavi elettrici, le manovre acrobatiche al limite della sicurezza o dell’inviluppo di volo del parapendio, gli atterraggi buffi o eseguiti in condizioni di emergenza. Insomma i discorsi diventano coloriti ed oscillano tra il goliardico ed il drammatico: si raccontano i propri voli epici in cui sono state raggiunte quote stratosferiche e sono state percorse distanze sconfinate e poi si parla degli errori madornali commessi in volo, ma sempre da un qualche altro pilota.

L’attesa crea così un convivio piacevole dove il tempo scorre tra racconti di storie e leggende e dove, persone qualunque, che affidano la loro vita ad un lenzuolo di tela colorata ed ad un fascio di sottilissimi cordini di carbonio, esorcizzano le loro piccole, umane e immancabili paure. Ma ecco, nel bel mezzo di quel chiacchiericcio, qualcosa cambia: la manica a vento comincia a sollevarsi con regolarità, il vento si “addrizza” mettendosi, a volte, nella direzione favorevole al decollo. E sì, il vento è fenomeno strano, non è mai lo stesso, si presenta con dei cicli che bisogna individuare ed elaborare. Così gli sguardi di tutti vengono magneticamente attratti dal tubo di tela e dalle sue evoluzioni: si cerca di interpretare la durata e la regolarità dei cicli del vento. Si elaborano le informazioni per decidere sul da farsi.

“Sembra buono.” dice qualcuno con gli occhi fissi sulla manica. “Io aspetterei ancora un po’.” dice qualcun altro che la guarda con più sospetto. “Ecco, ecco sembra che tenga …” aggiunge un altro ancora. Così i commenti sul balletto del pezzo di tela continuano fino al momento in cui qualcuno pronuncia la fatidica frase: “Io apro!” ed alle parole fa seguire l’estrazione della vela dallo zaino. Si porta in mezzo all’area di decollo, apre il pacco di tela colorata dispiegandola accuratamente sull’erba del decollo e poi procede alla cerimonia dei controlli pre-volo: “I cordini A, … B, … C, … D … sono a posto, niente intrecci e nessun nodo.” Quindi indossa l’imbracatura allaccia i moschettoni dei cosciali e quelli ventrali, indossa il casco, aggancia la vela all’imbracatura, da’ un’occhiata allo spazio aereo … “libero” pensa tra sé …

Nel frattempo l’area di decollo, con il vento che sembra regalare le condizioni buone per il volo, è animata da un’agitazione in cui i piloti, prima incerti, ora cominciano a mettere mano ai loro zaini. Le chiusure lampo scorrono e le sacche con le vele vengono fuori dagli zaini. Altri “volenterosi” sono pronti ad iniziare a loro volta le procedure pre-volo. Tutti però sono curiosi di vedere come andrà per quel primo “temerario” che si lancerà in volo: riuscirà a fare quota o, tradito dall’assenza di correnti favorevoli, dovrà scendere placidamente e rapidamente verso l’atterraggio a valle? Così tutti gli occhi sono puntati su quell’unico pilota che, in piedi, con in mano gli elevatori ed i freni, scruta la manica a vento. Deve cogliere il ciclo di vento giusto e forse anche fare qualcosa in più: dimostrare agli altri che il suo fiuto non l’ha ingannato e che la scelta di tempo è stata giusta. Così egli attende, elevatori e freni nelle mani, fronte alla vela e spalle alla direzione di decollo, attende e mentalmente invita il vento a soffiare regolare per quella manciata di secondi necessaria a fargli gonfiare la vela e permettergli, in pochi passi, di levarsi in volo.

Ed ecco che, dopo l’ennesima esitazione, la manica si gonfia decisa mostrando che il ciclo è quello giusto. Il pilota con gesti precisi indietreggia tirando a se la vela: un rumore crepitante di tela cerata e poi un grande arco colorato si dispiega, si gonfia e sale vivo sulla verticale del pilota. Egli rapido la controlla dando un po’ di freno a sinistra o forse a destra, quindi quando l’ha fermato dritto sulla sua testa, velocemente si gira e corre giù dal pendio. Due, tre, quattro passi e un sibilo lieve nel vento accompagna il distacco dal suolo di quella fantastica, semplice e romantica macchina volante. .


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Claudio Palmieri

Palla di cannone

(Al mio Angelo Custode)

Avevo urtato violentemente l’anca destra contro una roccia, ma ora non era il dolore che mi preoccupava, bensì il fatto che non stavo volando! Non volavo affatto, stavo cadendo! L’urto non era bastato a fermarmi e quello che mi trovavo davanti era uno spettacolo terrificante: senza controllo ero sparato come una palla di cannone giù per il pendio, in una specie di canalone con una parete di roccia a sinistra, una fila di alberi a destra e una betulla in fondo, proprio sulla mia traiettoria. Avevo letto e sentito dire di cosa si prova quando si rischia di lasciarci le penne: “si vede tutta la propria vita passarti davanti agli occhi”, oppure “tutto appare rallentato e i secondi sembrano minuti”, o ancora “ti domina una freddezza che ti rende capace di agire con la massima lucidità”. Bene, io non ho provato niente di tutto questo; ero sparato come un proiettile giù da una montagna e non avevo altre immagini negli occhi che quelle delle rocce e dei tronchi attorno a me, non avevo percezioni del tempo rallentate e neanche mi sentivo freddo e calcolatore. Ero senza controllo, vedevo sfrecciare rocce e tronchi ai lati e, mentre la betulla era sempre più vicina, riuscivo a pensare solo che questa volta mi sarei fatto male sul serio.

Ma scusate, forse sono andato troppo avanti con la mia storia. Non vi ho detto chi sono e di cosa vi sto parlando. Meglio rimediare subito. Il mio nome non conta molto ai fini di questo racconto, sappiate solo che sono un padre di famiglia con la passione per il volo in parapendio. Sì, proprio così, sono uno di quei “pazzi” che si lanciano giù dalle montagne per veleggiare attaccati a dei “fazzoletti” di nylon colorato. Niente a che fare con i paracadutisti, loro si buttano giù da un aereo ed hanno un paracadute che serve a frenare la loro inesorabile caduta verso terra. Noi parapendisti invece voliamo, perché il mezzo che usiamo ci permette di decollare a piedi da un pendio e, sfruttando le correnti ascensionali dell’aria, può farci salire a quote più elevate di quella da cui abbiamo spiccato il volo. Ma ecco che mi sto perdendo di nuovo! E’ meglio che torni alla mia vicenda e che lo faccia raccontandovi tutto partendo, diligentemente, dall’inizio.

Era domenica pomeriggio, un primo dicembre assolato con un cielo limpido che faceva sperare in un bel volo veleggiato. La funivia ci aveva portati alla stazione più alta e dopo era toccato a noi darci da fare per raggiungere la zona di decollo con una camminata tra boschi di abeti, castagni e betulle. Nonostante i grossi zaini sulle spalle, eravamo arrivati abbastanza rapidamente alla nostra destinazione: una radura in pendenza che si apriva sulla valle offrendo una visione mozzafiato. Il sole, ancora alto sulle creste delle montagne a ovest, illuminava la decina di allievi piloti che ora occupavano il prato dove, di lì a poco, avrebbero spiegato le vele e preso la rincorsa per spiccare il volo. L’istruttore giù in valle si teneva in contatto radio pronto per assistere i meno esperti nelle manovre di atterraggio. In queste occasioni, quando devono decollare degli allievi, chi ha più esperienza da’ la precedenza a coloro che ne hanno meno. Io ero tra quelli con più voli nel mio carnet per cui mi ero messo inizialmente in disparte deciso a decollare tra gli ultimi. Il vento era perfetto: frontale e con intensità costante, l’ideale per facilitare la manovra di decollo. L’aria limpida e fredda faceva già pregustare un volo piacevole.

Paolo, l’assistente dell’istruttore, aveva dato le ultime indicazioni agli allievi e i primi già si preparavano al decollo. Dopo aver fatto i controlli di rito e con un po’ di esitazione dovuta all’immancabile tensione che avvolge chi sta per spiccare il volo, le prime vele avevano cominciato a staccarsi dal pendio.

Teli colorati di rosso, di giallo intenso, di blu scuro stagliati contro un cielo azzurro offrivano, a noi ancora a terra, uno spettacolo di bellezza radiosa. Man mano che i decolli si susseguivano, l’atmosfera si rilassava e qualche pilota cominciava a prendersela più comoda nel fare i preparativi ed i controlli pre-volo. Così scambiando battute e ribattendo alle spiritosaggini degli altri, qualcuno si tratteneva troppo a lungo sul decollo ritardando il susseguirsi delle partenze. Se questo atteggiamento in primavera o d’estate può non rappresentare un problema, d’inverno invece può farlo. Infatti, in questa stagione le giornate sono più corte e quando il sole tramonta, l’aria fredda tende immediatamente a scendere giù dalla montagna creando una corrente che va dall’alto verso il basso. Questa aria discendente rende il decollo con il parapendio difficile ed a volte addirittura impossibile.

Così a causa di qualche esitazione dei piloti decollati prima di me e di qualche immancabile problema tecnico, il mio turno di decollo era arrivato quando le condizioni non erano oramai più quelle ottimali. Il vento frontale era quasi nullo il che significava avere bisogno di una rincorsa di decollo più lunga, ma, in quel posto, la lunghezza dello spazio di decollo prima che la pendenza del prato diventasse eccessiva era molto breve. Inoltre la tendenza del vento era oramai quella di passare da vento nullo a vento discendente. Il sole era quasi dietro ai monti e non c’era da aspettarsi che l’aria riprendesse a salire dalla valle.

Ogni volta che si vola, visto che si rischia la vita, si deve valutare tutto: le proprie capacità, le proprie condizioni fisiche, le caratteristiche dell’attrezzatura che si usa, le caratteristiche e le condizioni della zona di decollo. Solo dopo aver esaminato tutto questo si può decidere se si può decollare in sicurezza o meno. Questa e’ la teoria, ma nella pratica bisogna purtroppo aggiungere l’influenza che sulla decisione hanno fattori quali: la voglia di volare, la volontà di non rinunciare al decollo perché farlo significherebbe rimettersi tutto in spalla e scendere a valle a piedi. Per questo, in qualche caso, la decisione tecnica sulla fattibilità del decollo risulta un po’ viziata e, con l’aggiunta di una buona dose di fiducia nelle proprie capacità, a volte si decide di decollare anche quando magari sarebbe il caso di non prendere il rischio. Così, rispettando questo copione, nonostante la mia vela fosse difficoltosa da far decollare con vento nullo e il tratto a disposizione per l’accelerazione fosse particolarmente corto, io avevo deciso di decollare ugualmente.

Una volta fatti i controlli pre-volo, ero pronto: occhi alla valle, elevatori e freni nelle mani tenute alte sulle spalle. Il fiocco di fili di plastica che doveva indicare intensità e direzione del vento era pietosamente floscio. Guardandolo mi dicevo: “ok dovrai tirare gli elevatori con più decisione ed accelerare la corsa in modo da gonfiare la vela il più rapidamente possibile, quindi correre senza esitare verso la fine del prato; puoi farcela!”

Dopo aver dato un ultimo sguardo alla disposizione della vela alle mie spalle, e dopo aver dato l’ok a Paolo per segnalargli che ero pronto ad andare, avevo preso un bel respiro ed ero partito a razzo!

Dopo i primi passi avevo sentito la resistenza offerta dalla vela che si gonfiava e cominciava a salirmi sopra la testa; non avevo tempo da perdere, non appena l’avevo sentita tirare verso l’alto, avevo spinto il busto in avanti e accelerato la corsa, ma il breve tratto di prato utile per la rincorsa era già finito. Ora stava alla vela fare il resto: gonfia sulla testa doveva prendere il vento e sorreggermi fino a farmi iniziare la planata verso valle. Con questa fiduciosa idea in mente mi ero ancora di più protratto con il busto in avanti mentre correvo verso il vuoto. Ma qualcosa era andato storto. Non avevo sentito la trazione alle spalle e l’attesa sensazione di assenza di peso che doveva esserci nel momento in cui la vela cominciava a volare regolarmente. Difatti, quello che ritenevo un decollo si stava rivelando essere solo un salto fuori dal pendio; la vela non era riuscita ad acquistare la velocità sufficiente per sorreggere il mio peso e staccarmi da terra! Così, non stavo volando, ma stavo letteralmente cadendo lungo un pendio scosceso che non offriva ripari, così ripido da dare spazio alla mia traiettoria lasciandomi accelerare, senza ostacolarmi, nella mia caduta. La situazione era critica: la vela non era gonfia a sufficienza per farmi volare ma offriva ugualmente una qualche resistenza e tendeva a spostarmi verso destra, dalla parte sbagliata del pendio, quella dove il prato lasciava spazio alle rocce ed ai tronchi d’albero. Avevo subito cercato di contrastare la traiettoria della vela con i comandi, ma la risposta era stata nulla; cadevo e lo facevo sempre più velocemente. Vedevo avvicinarsi rapido uno scalino di roccia piatta fino al punto di sbatterci violentemente l’anca destra. La sensazione di acuto dolore all’anca aveva subito lasciato spazio al terrore quando avevo visto cosa c’era oltre lo scalino di roccia. L’urto non era infatti riuscito a fermarmi perché la vela ancora gonfia e fuori controllo continuava a tirarmi ed io ero sparato come una palla di cannone in una specie di canalone con una parete di roccia a sinistra, una fila di alberi alla destra e una betulla in fondo, collimata con la mia traiettoria. Lanciato in questa caduta, vedevo sfrecciare a velocità pazzesca le rocce alla mia sinistra e i tronchi alla mia destra mentre la betulla era sempre più vicina. A quella velocità qualsiasi urto mi avrebbe spaccato le ossa e, se avessi finito la mia caduta addosso a quell’albero, mi ci sarei accartocciato attorno rischiando di rimetterci la pelle. A peggiorare questa situazione già disperata c’era il fatto che se anche avessi miracolosamente evitato quella prima betulla la mia caduta si sarebbe interrotta poco più in là su di un filare di piante simili. Ero in una situazione apparentemente senza scampo e nella mia testa riuscivo solo a pensare: “questa volta ti fai male sul serio”. Mentre mi preparavo all’urto con queste idee nefaste per la mente, avevo istintivamente tirato il freno destro sperando che, un qualche residuo controllo della mia vela impazzita mi permettesse di schivare quell’albero che mi si parava davanti minaccioso. Ma poi, in un attimo, lo schianto…

Una voce dal decollo chiamava furiosamente il mio nome chiedendomi se stessi bene. Io ero sospeso all’albero e cercavo di capire cosa fosse successo. Lentamente stavo riprendendo coscienza: ero ancora intero, appeso a quella betulla verso la quale ero lanciato nella mia caduta. L’anca destra era dolorante, ma non sentivo nessun altro dolore.

La voce di Paolo continuava con insistenza a chiamare il mio nome denotando una preoccupazione crescente. Lentamente cominciavo a rendermi conto di essere appeso quasi a testa in giù. Il ricordo delle raccomandazioni del manuale di volo mi aveva fatto aspettare a slacciare l’imbracatura: “quando si finisce su di un albero, prima di slacciare l’imbracatura bisogna assicurarsi così da non rischiare di cadere e peggiorare la situazione”. Fortunatamente io ero a pochi centimetri da terra e slacciandomi non avrei rischiato altro che cadere riverso al suolo. Una volta uscito dall’imbracatura, con i piedi finalmente a terra, avevo alzato gli occhi verso l’alto ed avevo visto la mia vela gialla morbidamente distesa sulla cima dell’albero. Solo in quel momento, guardando la posizione della vela e quella dell’imbracatura, ero riuscito a ricostruire la dinamica di quanto era accaduto: il mio disperato tentativo di correggere la traiettoria all’ultimo momento mi aveva fatto evitare la collisione diretta con il tronco della betulla, ma la vela aveva ugualmente urtato la cima dell’albero e, rimasta impigliata, vi si era bloccata. Questo aveva frenato la mia caduta facendomi inoltre ruotare verso destra ed urtare il suolo con lo schienale dell’imbracatura. L’imbottitura dorsale aveva così assorbito l’urto violento ed evitato pericolosi traumi.

Per rispondere alle grida oramai disperate di Paolo che, sceso dal decollo, ora riusciva anche a vedermi, avevo urlato che era tutto ok facendo il classico gesto con il pugno chiuso e il pollice in alto. Poi, slacciato il casco, mi ero soffermato a pensare a me: ero salvo, un po’ dolorante, ma incredibilmente illeso! Miracolosamente ero ancora vivo, in piedi, in fondo a quel canalone, con il casco tra le mani e anche con la coscienza di non essere da solo: infatti, anche se per un attimo, l’avevo vista quando lei, perfidamente, aveva tentato di nascondere la sua falce dietro quella betulla.

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Claudio Palmieri (M.C.B.) Copyright 2003,2004.


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Claudio Palmieri

Strisce di nuvola

Delle linee bianche che tagliano il turchese del cielo: un aereo che in alta quota lascia dietro di sé delle strisce di vapore. Gli inglesi le indicano con una sola parola “contrails”, in italiano si chiamano scie di condensazione, ma in un cielo invernale come quello di oggi, limpido fino all’inverosimile, anche senza conoscerne il nome rimarrebbero uno spettacolo meraviglioso.

Su questa collina fa freddo, ma il sole e’ un caldo sollievo sul viso. Sono qui ed aspetto; aspetto che il vento diventi giusto per poter decollare. Le mie ali sono una semplice tela colorata alla quale mi appendo con un seggiolino imbottito. Una strana attrezzatura che indossata a terra mi da’ l’aspetto di una lumaca che trascina il suo guscio. No, con questa imbracatura non si e’ agili a terra, ci si muove con passi corti e un incedere incerto, attenti ad evitare di calpestare i cordini che sostengono la vela. Quello che conta però, non e’ come si e’ ora a terra, ma come si sarà più tardi in volo. Una volta che i piedi avranno lasciato il suolo tutto cambierà: non ci saranno più movimenti goffi e andature stentate, tutto si trasformerà in virate armoniose e leggere planate. Niente più peso sulle spalle, ma, al contrario, una forza trasparente capace di farti salire senza fatica e che, se ben domata, ti farà stare a lungo lontano dalle cime degli alberi.

Ecco cosa aspetto qui seduto: il momento giusto per volare, il giusto grado di riscaldamento del terreno, la brezza perfetta che, dopo pochi passi di rincorsa, mi aiuti a staccare i piedi da terra. Così nell’attesa, che in questo posto che domina la valle rappresenta di per sé un piacere, guardo queste candide strisce nel cielo, prodotte dai motori di un aereo. Già se guardo attentamente riesco a distinguere il numero dei motori: “… quattro, un 747, un gigante del cielo. Chissà dove andrà?” mi chiedo a voce alta.

Fino a qualche tempo fa guardare queste strisce era un momento importante per me. Mi ricordo quando mi fermavo a guardarle e mi lasciavo fantasticare su dove l’aereo che le tracciava stesse andando, su come sarebbe stato bello essere lì su, da passeggero. Avere un orizzonte vastissimo sotto di sé e volare nel sole verso un’altra città, magari un altro stato. Quelle linee bianche erano simboli di libertà. La mia fantasia si agganciava a quelle traiettorie di vapore per generare fughe ideali da quello che era allora la mia realtà.

La realtà: l’università’ prima, con gli studi ostici che a volte erano riusciti a rendere triste persino la bellissima città dove li frequentavo; poi il lavoro e un’altra città: difficili entrambi, voraci di tempo e di energie. Già, “le difficoltà di una vita normale”, ti dice qualcuno. Ma certo, una vita normale, quella che fanno tutti. E sapere questo dovrebbe farti stare meglio?

Meglio guardare il cielo. Nelle giornate invernali di alta pressione, con il cielo limpido e azzurro, le scie di condensazione mi guidavano fuori da tutto, cancellavano gli umori foschi e mi proiettavano in un altro posto dove, nelle mie fantasie, ero un turista senza legami. Altri paesi, altra gente, una lingua diversa, magari una vita diversa.

E’ strano realizzare come certi pensieri, senza ne’ capo ne’ coda, senza il minimo fondamento se non il traballante sostegno della fantasia, possano aiutarti. Le strisce di nuvola per me erano proprio questo, un aiuto. Non erano solo una fantasia terapeutica per i momenti di depressione, erano piuttosto lì a mostrarmi una via che aspettava di essere percorsa.

Non so se accada a tutti che osservando a lungo qualcosa alla fine ci si trovi un significato recondito e ci si convinca che ciò che si sta osservando contenga un significato che va oltre l’oggetto in sé. Lo si guarda e ci si trova riflessi, lo si guarda e ci si legge un messaggio preciso.

Scie di condensazione: linee rette, sottili e ben definite al principio, cominciano ad allargarsi e a perdere consistenza con il passare del tempo. Trasportate dal vento creano ampi archi ben definiti o si disfano lasciando solo un’opaca traccia della loro presenza. A volte vengono ondulate dai rotori del vento e sembrano onde spumeggianti, altre volte rimangono lì a lungo, sospese fino a quando lentamente si allargano sempre di più fino a diventare pallide nuvole impalpabili …

Così guardando le scie di condensazione io leggevo la mia vita: una linea dritta, calibrata dalle motivazioni, puntata sull’obiettivo finale sin dal principio. Poi la retta, nell’impatto con la realtà, si stava curvando, piegata dal vento della consuetudine o, peggio, silenziosamente modellata dai bisogni e dalle necessità della vita di altri. In qualche modo, così come le scie di condensazione, tracciate con decisione, alla fine si rivelano inconsistenti, in balia del vento in quota, così io, determinato e deciso all’inizio, ero ora in balia della mia vita, e subivo gli effetti uniformanti che lenti mi avrebbero portato alla dissolvenza: grigio su sfondo grigio.

Quelle scie di libertà paradossalmente si rivelavano impietose rappresentazioni di una lenta agonia. Strisce di nuvola che descrivevano un naufragio silenzioso ed inesorabile. No, non poteva essere così, e se non potevano tradirmi in questo modo meschino, trasformandosi da fate in streghe, complici crudeli nel trasformare i sogni in illusioni.

“E’ impossibile che tanta bellezza possa tradirti così!” Leggi meglio, lasciati guidare; lascia andare il passato. Pensa al presente, pensa al di là di quello che loro ti hanno già detto; leggi oltre, non fermarti alla superficie, scava e cerca quello che veramente vogliono dirti; amiche così non tradiscono.”

Ma certo! Quelle amiche che hanno a lungo accompagnato la tua fantasia, sono lì per mostrarti che loro stesse sono quello che cerchi. Non devi andare in nessun luogo lontano, non devi varcare dei confini geografici, devi solo capire che quello che vuoi; la svolta, i nuovi orizzonti sono qui sopra di te.

Così grazie ad uno zaino pieno di tela colorata, moschettoni, tuta e scarponi, la mia vita è cambiata. Ma non e’ stato come si vede nei film; non c’è stata una fuga, non c’è stata una famiglia abbandonata da qualche parte, né un lavoro piantato all’improvviso e neanche c’è stato un viaggio favoloso stile Fandango. C’è stata una semplice, lineare, candida scelta: iniziare a volare.


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Claudio Palmieri

Aeroporti

“Il tempo passa e le cose cambiano”, già e’ proprio vero, arrivi in aeroporto, scendi lentamente la scaletta dell’aereo, senti l’aria fresca sul viso e il sole caldo sulle mani. Non si direbbe di essere arrivati a Milano, sembra un altro posto. Questa volta non hai dentro un lieve senso di smarrimento come ti succedeva quando per lavoro lasciavi casa per andare in un posto che non era casa tua, o che non era ancora casa tua. In quelle occasioni avevi sempre la voglia di vedere posti nuovi, conoscere, curiosare, ma in fondo c’era sempre un senso di vago timore, legato al fatto di essere via, essere lontano dai tuoi, dalle tue cose e dal tuo ambiente. A volte ti era capitato di desiderare di non essere lì, di guardare attraverso i vetri dell’autobus che lentamente ti conduceva al terminal, con il vago pensiero di farti portare su un altro aereo e tornare indietro.

Arrivato all’aerostazione, vicino al nastro per i bagagli, l’attesa ti costringeva a guardarti intorno, a curiosare a paragonare le strutture di quel particolare aeroporto: “a quale terminal assomiglia questo posto? Forse a quello di Chicago, no, … no, a quello di Monaco, asettico, vetro e acciaio, freddo su freddo”. Poi, dopo le strutture, la tua attenzione passava sulla gente: il manager che aspetta i bagagli senza celare l’impazienza perché il suo, all’imbarco, non glielo hanno fatto più caricare in cabina. La signora anziana, elegante e distinta, che va a trovare i figli; l’inconfondibile famiglia di turisti con bambini che corrono qua e là mentre papà e mamma cercano di ricordare il nome dell’albergo e il modo di dirlo nella lingua del tassista; il commerciante che ha un braccio impegnato dal suo prezioso campionario e l’altro ormai diventato un prolungamento del suo cellulare. E poi ragazze sole, vestite in modo quasi sciatto, che sembrano capitate lì per caso: forse fanno del turismo o invece stanno per raggiungere qualcuno che le aspetta; uomini d’affari che tornano dalle famiglie o che arrivano, come te, in quella città per lavoro. E poi pensi: “ma io come sono? Impaziente come il manager, o simile a uno di quegli uomini d’affari?” “No, non sono così elegante, viaggio sempre comodo, o forse è meglio dire, mimetizzato.” “Chissà se chi mi guarda capisce che sono qui per lavoro? E chissà se la mia espressione tradisce i miei dubbi o se invece sembra assorta, come quella di uno sicuro di se che sa cosa fare e dove andare in questa città?”

Forse l’insicurezza viene dal fatto di non essere attesi lì dove si va. Di essere lì da “stranieri”, trovarsi a dover presentare se stessi a tutto ed a tutti. A non trovare un luogo o un volto familiare. A pensare alle persone care come distanti. “Pensa al lavoro” Ti senti dire a te stesso. “Pensa alla presentazione che dovrai fare domani. Hai preso tutto con te? Qual’e’ l’agenda?” Queste sono le cose che cerchi di forzarti in mente per fugare tutti i pensieri “strani”. Ma non basta… Le valigie tardano, le persone sempre più impazienti rendono l’atmosfera ancor meno accogliente. Il terminal si riempie di squilli di telefoni cellulari, di risposte canoniche in lingue diverse: “si sono arrivato, … tutto bene, … il volo era in orario, e voi come state …”.

Niente ti aiuta a superare quei momenti di freddo lieve, di incertezza latente. Ma ecco le valigie; scorrono lente davanti ad un pubblico impaziente, che non applaude. Un pubblico che rapisce una ad una le protagoniste di questa muta sfilata di bagagli variopinti. Le valigie passano, ma non le tue. Non si capisce mai come accada che i propri bagagli siano sempre in ritardo. Non escono mai per primi da quei sipari di gomma nera. Non accade mai che la propria valigia esca fiera, prima tra tutte. No, essa ti lascia aspettare. Prima di te la piccola suora prende la sua valigia spropositata che tu immagini piena di rosari e icone della Madonna. Poi un fiume di beautycase e valigie firmate; sono quelle degli immancabili turisti americani. Passa perfino il sombrero “tipo familiare” del turista reduce dalla vacanza in Messico, ma la tua valigia, pigra, non vuole venire fuori. Anche lei indugia, anche lei si trattiene sul carrello, nascosta tra le altre, nella speranza di essere reimbarcata per tornare a casa. Alla fine, eccola, non ultima, ma sempre attesa troppo a lungo. La guardi, la prendi la soppesi: “si è la mia” ti dici, e a questo punto niente più ti trattiene nell’aerostazione.

Devi cominciare a muoverti verso la città e cercare. Cercare un taxi, cercare l’albergo, cercare un ristorante per la cena, cercare di capire a quale zona corrisponda l’indirizzo del posto che dovrai raggiungere per il meeting, cercare di ambientarti in camera, cercare di prendere sonno. Devi solo cercare, non trovi nulla già pronto in un posto nuovo. Non trovi nessuno ad aspettarti. E’ vero, non e’ la prima volta. Sai già che l’indomani il lavoro da un lato e la tua curiosità dall’altro ti faranno passare tutti questi vaghi timori. Sai già che ti basta poco per poi farti prendere dall’interesse per i luoghi e per tirarti fuori da quella palude di blanda tristezza. Ma deve ancora passare … ancora un piccolo sforzo.

Invece, tutto è diverso quando arrivi in un posto in cui sai che troverai qualcuno che ti aspetta e che non vedi l’ora di rivedere. Il viaggio ti ha portato via da qualcosa, ma ciò che ti aspetta e’ ciò che tu desideri di più. Il sole sulle mani, il vento sul viso, sensazioni piacevoli fuori dall’aereo e che ti accompagnano fino alla navetta che lentamente, troppo lentamente ti porterà al terminal.

Ed ora lì nell’attesa delle valigie sei come il manager, impaziente di veder arrivare il tuo bagaglio. L’attesa ti mette in tensione, cerchi con lo sguardo la toilette, la trovi e la raggiungi come faresti con un’oasi a lungo cercata nel deserto. Ti trattieni lì il più possibile, guardandoti nello specchio, sciacquando e risciacquando le mani per poter usare tutto il tempo necessario a che le tue valigie arrivino sul nastro. E questa volta il trucco funziona: sei riuscito a farle arrivare! Eccole lì spuntare e tu rapido a rincorrerle. Così valigie alla mano, te ne vai verso l’uscita seguendo le inutili indicazioni gialle: “So la strada, so benissimo dove andare, oggi qui, non ho nulla da cercare!” Uno sguardo distratto al terminal, un ricordo vago di quella sensazione spiacevole, ma solo un ricordo; oggi sai che non e’ così. Oggi l’impazienza è dolce, l’aeroporto è amico, niente può metterti di cattivo umore. Oggi rivedrai qualcuno che conosci. Oggi finalmente rivedrai qualcuno che ti stava aspettando. Oggi rivedrai qualcuno che ami e che ti ama. Oggi potrai baciarla di nuovo. Oggi rivedrai Eleonora.

 


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Claudio Palmieri

Strisce di nuvola

nuvola piovosaAvete mai osservato quelle vaporose scie lasciate dagli aeroplani di linea che volano altissimi nel cielo? No? … peccato! Beh, l’autore di questo superbo racconto l’ha fatto e ne è uscita fuori la storia di un uomo, di una vita come quella di tanti di noi, con le sue pene, i suoi insuccessi, sogni e desideri ma soprattutto degna d’essere vissuta appieno grazie da un unico grande amore: il volo. Un breve diario denso di riflessioni ed emozioni in cui potremo rivedere noi stessi Ma, ve lo consigliamo, leggetelo osservando le strisce disegnate nel cielo dagli aerei. E vi sentirete anche voi più sollevati.


Racconto / Medio-breve Pubblicato nel sito: personale di “Claudio Palmieri”.