titolo: L’ultimo volo – La drammatica avventura dell'”Italia” al Polo Nord
autore: Felice Trojani
editore: Mursia & C.
anno di pubblicazione: 1967
ISBN: non disponibile
Il titolo è di quelli che non lascia adito a dubbi né incertezze. E’ lapidario, quasi laconico. Il sottotitolo svela invece il contenuto delle 244 pagine del libro cui fanno da corredo, in appendice, una preziosa cronologia, l’elenco dei naufraghi e dei soccorritori nonché un utilissimo breve glossario.
Il risguardo interno della sovracopertina puntualizza:
“finalmente la verità sulla sfortunata spedizione di Nobile al Polo Nord a bordo del dirigibile Italia, rivelata da uno dei protagonisti della grande impresa”
Ma cosa accadde esattamente durante quell’ultimo volo? Ricordiamolo soprattutto a beneficio di chi lo ignora per ovvi motivi anagrafici.
La mattina del 19 marzo 1928, il dirigibile modello N4 – ribattezzato “ITALIA” – decolla dall’aeroporto di Ciampino. E’ stato progettato e costruito proprio lì, a Roma, ad opera del generale del genio aeronautico, ingegner Umberto Nobile. Egli è anche a capo della missione – tutta italiana – dall’alto contenuto scientifico che si prefigge di raggiungere in volo il Polo Nord sorvolando, per buona parte della navigazione, territori completamente inesplorati.
A bordo dell’aeronave c’è proprio il nostro Felice Trojani in qualità di timoniere. In realtà egli ha dato un notevole contributo alla missione occupandosi di quello che oggi chiameremmo l’”ingegneria” e la “logistica”.
Dopo diverse tappe e lunghi voli di trasferimento che non risparmiano all’equipaggio momenti di alta tensione, il 6 maggio 1928 l’ITALIA attracca al pilone di ormeggio di Ny Aalesund, microscopica cittadina mineraria situata nella Kingsbay (Baia del re) nelle isole Svalbard, anticamente chiamate Spitsbergen dagli olandesi che le scoprirono.
Nonostante le condizioni meteorologiche non siano delle migliori, nei giorni successivi, non senza difficoltà, l’ITALIA riesce comunque a compiere due voli di avvicinamento al Polo Nord e a tornare alla base di partenza. Ma è nella notte del 24 maggio 1928, alle ore 0,20 locali, che il dirigibile ITALIA, nel corso del suo terzo volo, sorvola finalmente il Polo Nord.
Così Trojani rievoca quegli istanti:
“Furono trasmessi messaggi al Papa, al Re, a Mussolini; poi Nobile iniziò il lancio delle bandiere e dei simboli. Lanciò la bandiera italiana, il gonfalone di Sant’Ambrogio, la medaglia della Vergine del Fuoco di Forlì, la croce che ci era stata affidata dal Papa. Poi brindammo al Polo Nord bevendo una bottiglia di liquore all’uovo preparato dalla signora Nobile”.
Anche se le condizioni meteo non consentono l’atterraggio sulla banchisa polare, tutti i rilievi scientifici vengono effettuati e la missione raggiunge il pieno successo.
Purtroppo, nel volo di rientro a Ny Aalesund, il dirigibile incappa in condizioni meteo ancora più avverse nonché in un guasto al timone di quota.
Alle 10,33 del 25 maggio accade l’immane tragedia: l’aeronave cade inesorabilmente sul pack. Una parte dell’equipaggio, tra cui il nostro Trojani, viene sbalzato fuori della navicella di comando mentre la restante parte viene trascinata di nuovo in volo. Il dirigibile infatti, alleggerito di parte del suo carico umano e di attrezzature, riprende il volo senza alcun controllo. Di costoro e dell’aeronave non se ne saprà più nulla.
La banchisa polare è un luogo desolato, apparentemente disabitato, spazzato quasi costantemente dal vento, bruciato da una luce abbacinante di giorno e di notte, costantemente alla deriva e con temperature che sono perennemente molto al di sotto dello zero. Insomma un vero inferno bianco.
I superstiti della spedizione polare sono male in arnese: Nobile ha una gamba e un braccio fratturati, il viso tumefatto e insanguinato, accusa dolori al torace; Zappi è convinto di avere qualche costola rotta tanto è il dolore che prova anche lui al torace; il taurino Cecioni ha la gamba rotta in due punti, il meteorologo Malgrem è stordito e suppone di avere un braccio rotto; Biagi, il radiotelegrafista, sente forti dolori alla testa e si lamenta per contusioni; Trojani avverte un forte dolore al ginocchio sinistro, il suo viso è insanguinato per un taglio profondo alla fronte; Mariano, Viglieri e Bohunek sono in piedi ma sono anch’essi sotto shock; Titina, la cagnetta di Nobile, è l’unica che zompetta felice finalmente sulla terraferma.
Dovranno resistere fino al fatidico 12 luglio prima che la nave rompighiaccio sovietico “Krasin” li possa salvare e restituirli alla civiltà. Durante ben 48 giorni di permanenza sul pack numerose saranno le disavventure, travagliate le decisioni da prendere, contrastanti gli stati d’animo a fronte a quello che sembra un inesorabile epilogo.
“L’ultimo volo” è dunque il resoconto più sincero e attendibile di quanto accadde nel corso di uno degli episodi più esaltanti ma al contempo tra i più tragici della storia dell’aviazione italiana: la missione al Polo Nord del dirigibile ITALIA.
In effetti, fatto salvo per i diversi libri che scrisse il generale Nobile, solo Felice Trojani riportò minuziosamente quanto accadde: dapprima ne “La coda di Minosse” e poi – ma in misura molto più blanda – ne “L’ultimo volo” che viene considerato, a torto o ragione il “Minossino”.
L’editore Ugo Mursia convinse infatti Trojani a pubblicare una versione alleggerita del “La coda di Minosse”; era sua intenzione creare un secondo volume divulgativo, pensato e illustrato come all’epoca era uso fare per un pubblico molto giovane, giusto quello della collana per ragazzi denominata: “La Meta – viaggi e scoperte”. E in effetti la lungimiranza dell’editore e l’ottimo lavoro di riduzione dell’autore furono premiati: “L’ultimo volo” vinse il premio Castello 1967, per il miglior libro di letteratura giovanile.
Che Felice Trojani fosse un ottimo ingegnere non ne avevamo dubbi: sua fu la progettazione dell’hangar (senza tetto per evitare i sovraccarichi distruttivi della neve) e dei piloni di attracco del dirigibile di Ny Aalesund e di Vadso; sua l’invenzione della tenda di seta grezza divenuta poi virtualmente “rossa”; suo l’allestimento delle attrezzature e delle vettovaglie imbarcate sul dirigibile NORGE prima e sull’ITALIA poi; sua la partecipazione alla progettazione e alla costruzione dell’Aeroporto del Littorio a Roma (oggi Aeroporto dell’Urbe). Semmai nutrivamo dei dubbi sulle sue capacità narrative in quanto, dopo gli studi classici al Liceo “Torquato Tasso” di Roma, egli seguì il corso di laurea presso la Scuola di Applicazione degli Ingegneri di San Pietro in Vincoli, sempre a Roma, che non poteva – e ancora oggi – non può certo definirsi una fucina di letterati o di poeti. Salvo rare eccezioni, s’intende. Perché, in effetti, Felice Trojani costituisce proprio una di queste eccezioni.
Ma veniamo al libro.
Benché il volume abbia, fondamentalmente, i presupposti di un diario, l’autore riesce a tessere attorno ad ogni singola data, ad ogni singolo episodio un racconto fluido e appassionante degno dei migliori scritti di salgariana memoria.
Certo, quanto accadde prima, durante e dopo quei 48 giorni sul pack va al di là di ogni più geniale invenzione narrativa del più fantasioso autore del genere, tuttavia Trojani sa tenere ben alta la tensione della narrazione e non è mai monotono.
Sebbene il libro sia stato scritto a distanza di ben quarant’anni da quegli avvenimenti, la memoria di Trojani è assai lucida e minuziosa – tipica di un ingegnere, oseremmo dire – ma il testo appare elegante e privo di tecnicismi, sebbene asciutto e schivo di inutili riflessioni interiori che pure ci sono ma pur sempre limitate all’essenziale, giusto per dare spessore e carattere ai suoi compagni di sventura o per rendere realisticamente drammatica la terribile esperienza che, loro malgrado, vissero in quella landa dimenticata dagli uomini.
Viene da domandarsi, inoltre, se l’autore fu davvero obiettivo rispetto a quanto fu testimone. Anche perché, a suo dire, fu l’unico a mantenere una condotta positiva e attiva. Solo una volta – confessa – ebbe una crisi di nervi, un istante di profondo smarrimento ma subito rientrato.
Eppure la sua obiettività non può mai essere messa in discussione nel corso di tutto il libro. Ad esempio, nei confronti di Nobile – per alcuni versi il suo mentore – non è certo tenero quando scrive:
“Io, Nobile, lo capivo molto bene, capivo quali erano i sentimenti che lo agitavano: niente o poco lo spirito di conservazione, molto il desiderio che i suoi compagni venissero salvati, moltissimo il rimpianto di non essere più il capo.”
Anche nel momento del grande successo, l’autore rimane lucido scrivendo di sé:
“Non avevo avuto ciò che avevo sognato, la mia vita era stata una serie quasi ininterrotta di insuccessi e delusioni, ma ero ingegnere, facevo parte di un equipaggio di un’aeronave che stava compiendo voli fuori del comune, e avevo collaborato alla progettazione e alla costruzione del dirigibile e alla preparazione dei voli.
Non mi sentivo un eroe, ma provavo l’orgoglio di trovarmi in prima linea, ero contento di aver diviso con i miei compagni tutti i rischi della spedizione, di non essermi fatto indietro pur conoscendo le deficienze della macchina e i pericoli dell’impresa.”
Tornando al suo rapporto con il suo capo missione, Trojani non gli risparmia il suo pragmatismo un po’ beffardo come per esempio in questo passo:
“Nobile ci esortava a non perderci d’animo, dicendo che le nostre famiglie erano state messe al riparo dal bisogno, che noi avevamo fatto il nostro dovere, che eravamo caduti nel compimento di un’impresa di scienza, di bellezza, di poesia alla quale il mondo intero era sensibile, gli italiani avrebbero venerato la mostra memoria […]
Agli argomenti civili ero sensibile anch’io ma non che credessi molto all’affetto degli italiani; contavo sull’assicurazione sulla vita e su ciò che mi doveva la Società Geografica. Quanto alla profezia di Nobile, era proprio bene ispirata: se il fato l’avesse sentita, sarebbe crepato dal ridere …”
E a proposito di fato, Trojani riporta anche la battuta che fu attribuita a Mussolini a fronte delle pressanti richieste di Nobile:
“Non si va due volte contro il destino”.
Lo aveva detto il Duce dopo incertezze e tentennamenti su cui aveva influito – neanche poco – anche Italo Balbo, sottosegretario dell’aviazione e fervente oppositore dei dirigibili quanto sostenitore del volo a mezzo di aeroplani.
La frase, con il chiaro scopo di sconsigliare la spedizione, è in parte condivisa anche dallo stesso Trojani tanto che replica a Nobile spiegandogli che:
“Farebbe male a intraprendere una seconda spedizione. Se andasse bene diminuirebbe il valore della prima perché farebbe credere che raggiungere il Polo e tornare sia cosa facile, se andasse male farebbe pensare che il successo della prima è stato dovuto al caso. […] Ma la proposta è troppo seducente per rifiutarla e può contare su di me”.
In definitiva, l’immagine che ne deriva dell’autore è quella di una persona abbastanza equilibrata, che è forte del proprio “mestiere” ed è animata dai sui bravi principi morali. Egli, nonostante incappi in umani momenti di debolezza, riesce a mantenere una certa autonomia intellettuale pur lavorando -ricordiamolo sempre – accanto ad una stella di prima grandezza come il generale Umberto Nobile.
Gli altri protagonisti del libro vengono descritti da Trojani più per il loro agire piuttosto che per una scrupolosa descrizione fisica o caratteriale. Da qui il merito dell’autore di non aver appesantito la narrazione e, al contempo, di essere riuscito a creare attorno a loro una forte caratterizzazione, uno spessore umano che li rende unici e verosimili.
I profili dei compagni di disavventura dell’autore si delineano perciò assai lentamente ma inesorabilmente a partire dall’episodio drammatico dell’impatto con la banchisa e proseguono fino all’epilogo con l’imbarco sul Krasin. Costoro sono giusto appunto gli esempi di una varia umanità che, variegata e multiforme, è presente a bordo del dirigibile ITALIA.
Colpisce, ad esempio, il capo montatore Cecioni che, seppure statuario e molto valido nelle attività manuali, viene dipinto come un peso morto piagnucoloso, letteralmente paralizzato dal terrore di essere abbandonato sul pack giacché, con la gamba fratturata, sarebbe incapace di marciare.
Quasi all’opposto invece il marconista Biagi che, riparando la radio con la grafite di una matita, è il vero salvatore della missione. A questo si aggiunge la sua fiducia indefessa verso la tecnologia radiotelegrafica nonché la sua dedizione all’ascolto delle trasmissioni radio. Sarà grazie a lui e alla sua perseveranza che il disperato SOS della missione verrà ricevuto da un radioamatore russo che a sua volta, tramite l’ambasciata russa a Roma, metterà in moto le operazioni di soccorso.
La descrizione dell’ambiente in cui si muovono i protagonisti è dettagliata ma non invadente al punto che si riesce ad avvertire sulla propria pelle un brivido freddo e soprattutto il dramma di chi lo visse davvero.
Come già accennato, la prosa dell’autore è fluida e rende la lettura piacevole anche ad un pubblico adolescenziale. D’altra parte il volume era destinato proprio a quel genere di pubblico e dunque non è escluso che l’editore abbia affidato il manoscritto ad un bravo correttore di bozze per le opportune modifiche … ma questo non lo sapremo mai.
Certamente questo è un libro che non può e non deve mancare nella biblioteca di un appassionato di aviazione e del volo in genere, anche se, in ultima analisi, si tratta di una cronaca di una grande impresa aeronautica dall’esito tragico oltre che al resoconto dell’impresa stessa. Ma, d’altra parte, è risaputo che l’attività pionieristica, l’insaziabile sete di conoscenza e lo sviluppo tecnologico hanno da sempre mietuto – e ancora in futuro mieteranno – il loro tributo di vittime; ciononostante ci piace pensare che chiunque sia stato testimone o artefice di grandi eventi della storia dell’aviazione (e Trojani è sicuramente tra questi), anche di fronte all’insuccesso con risvolti luttuosi, non si perderà mai d’animo e farà della memoria di quell’insuccesso il punto di partenza per imprese ancor con più ardite. In questo senso ci piace anche ricordare quanto Felice Trojani scrisse a chiusura del suo ottimo libro:
“Volai ancora, volai in dirigibile, volai in aeroplano, volai in aliante. Non persi la passione del volo, continuai a sentirne tutta la poesia, ma il mio cuore è rimasto lassù, e ogni altro volo mi è sembrato che fosse la continuazione di quell’ultimo volo”.
Recensione a cura della Redazione
La Coda di Minosse - La verità sulla spedizione Nobile |