titolo: Ero Amelia Earhart
autore: Jane Mendelsohn
editore: Bompiani
anno di pubblicazione: 2009 (tascabile)
ISBN: 978-88-452-5378-2
Ammetto che non è facile incappare in una biografia che sia esauriente senza essere monotona, che sia verosimile benché elaborata su informazioni incerte, che sia cronologicamente attendibile e al contempo risulti di piacevole lettura. Non è facile – è vero – ma risulta praticamente impossibile se poi non si tratta di una biografia o di un’autobiografia bensì di un romanzo sebbene liberamente ispirato alle vicende storiche della protagonista.
Di chi sto parlando? E’ presto detto. Il titolo del volume è un inequivocabile: “Ero Amelia Earhart – La prima aviatrice che sorvolò l’Atlantico” e il personaggio storico è appunto la trasvolatrice statunitense Amelia Earhart.
Il romanzo, e sottolineo romanzo, benché pubblicato nel 1996 nel paese a stelle e strisce, è stato reso fruibile in Italia solo nel 2009 per merito di Tilde Riva alla quale l’editore Bompiani ha affidato la traduzione di un vero e proprio best-seller, almeno a giudicare dalle “più di 200 mila copie” vendute oltreoceano (come tiene a precisare la IV di copertina). Inoltre l’opera di esordio della scrittrice Jane Mendelsohn, ha riscosso entusiastiche recensioni da parte di alcuni critici statunitensi (anche queste puntualmente riportate nella IV di copertina e soprattutto nel sito web dell’autrice) mentre fu addirittura inserito tra i finalisti di alcuni premi prestigiosi letterari come l’Orange Prize o il Dublin Literary Award. Senza vincerli, fortunatamente.
A questo punto occorre chiarire l’equivoco che mi ha condotto ingenuamente all’acquisto di questo libercolo in edizione tascabile di 158 pagine: il desiderio di sapere meglio e di più di Amelia Earhart, delle sue prime esperienze di volo, delle sue imprese e, non ultimo, della sua ultima trasvolata di cui, a tutt’oggi s’ignora l’esito nonostante periodicamente si rinnovino congetture, testimonianze più o meno attendibili, ritrovamenti del presunto relitto del suo velivolo o di resti ossei scovati in sperdute isole del Pacifico.
Dicevo un acquisto incauto alimentato principalmente da un titolo ineccepibile e confermato da un sottotitolo altrettanto esplicativo, invece … il romanzo ha un prologo che avrebbe già dovuto farmi drizzare i capelli. Eccolo:
“Il cielo è di carne”.
Prima frase della prima riga della prima pagina.
Concediamoci un istante di riflessione … mi chiedo e vi chiedo: come fa il cielo a essere di carne? Il cielo è azzurro (generalmente, luminoso (durante il giorno) o buio (di notte), è plumbeo (nelle giornate nuvolose o invernali), è burrascoso (durante i temporali), è purpureo (al tramonto o all’alba) e tanto altro ancora … ma, onestamente, mi è difficile pensare che possa essere “di carne”, non vi pare?
Anche facendo ricorso alla più fervida immaginazione, anche utilizzando la chiave di lettura più universale, cosa intende comunicarci l’autrice? Perché affermare qualcosa di assolutamente improbabile? Forse che il cielo sia vivo? Che sembra animato di vita propria? Probabile.
I lettori più visionari potrebbero classificarla come un’espressione altamente poetica, di altissimo effetto evocativo, quasi metafisica, viceversa io confesso di essere molto materialista e non ci vedo niente di lirico. Ma potrebbe essere un mio limite – lo riconosco -.
A quella prima riga un lettore intollerante avrebbe potuto tranquillamente chiudere la copertina e infilare il volume in un angolo remoto della propria libreria, regalarlo a che qualche sedicente amico, rivenderselo al mercatino dell’usato o immetterlo nella rete di scambio libri … io, invece, cosa ho fatto? … imperterrito, sono andato oltre! Così ho scorso la seconda e poi la terza riga fino a completare la lettura della prima pagina e … bum! Disorientamento spazio-temporale.
Mi spiego. A fine prima pagina ho trovato la seguente affermazione:
“Quello che so è che la vita che ho vissuto da quando sono morta la sento più reale di quella vissuta in precedenza”.
A quel punto mi sono domandato se avessi bevuto troppo a cena (a volte preferisco una sana lettura dopo cena) … ma poi mi sono detto: era solo acqua minerale! Leggermente gassata sì, ma pur sempre acqua minerale, sicché non ho potuto far altro che alzare le mani al cielo maledicendo il mio limitatissimo quoziente intellettivo; nel frattempo si materializzava nella mia mente la scenetta di un celebre film di Carlo Verdone in cui un suo famosissimo personaggio si chiedeva con gli occhi strabuzzati e il viso ingenuissimo: “In che senso?”
Premesso che non viene espresso in modo esplicito chi sia la voce narrante – arguisco la stessa Amelia Earhart – mi ripeto: “la vissuta da che sono morta” … ma sei morta come hai fatto a vivere? E poi come fa una vita da morta – che è una “non vita” – a essere reale, addirittura più della vita precedente? Perché quella sì che potrebbe essere stata reale …
Magari si tratta di una figura retorica? Sarà … ma sono sempre io che non capisco – lo confesso -.
Ora, senza voler fare l’accademico letterario bigotto o il meschino stratega editoriale, è universalmente conclamato che la prima pagina di un qualsiasi volume (che sia un saggio, una biografia o un romanzo), dovrebbe invogliare il lettore a proseguire nella lettura, incalzato magari da un primo episodio pirotecnico, da un intreccio che lasci intravvedere contorsioni, colpi di scena o comunque altri capitoli intriganti. Invece qui il lettore viene semplicemente disorientato e, considerato che non si tratta di un romanzo giallo, insomma un poliziesco d’alto bordo, perché mai lanciare enigmi, così a freddo, già dalla prima pagina? Bah …
… ma sono andato oltre, straconvinto che questo prologo criptico si sarebbe svelato con il prosieguo del testo; giunti a metà della seconda pagina scopro che Amelia sta:
“sorvolando il Pacifico da qualche parte al largo della Nuova Guinea, sul mio bimotore Lockeed Electra, e mi sono smarrita.”
E aggiungo io, perfido: non solo lei. Anche l’autrice.
Ora la scrittrice laureata con lode alla Yale University, dovrebbe sapere che, sempre secondo la migliore tradizione letteraria universalmente diffusa, un qualsivoglia testo (racconto o romanzo che sia) per “funzionare bene” dovrebbe far comprendere rapidamente al lettore il come-dove-quando-perché. Che sono poi sono gli elementi base di una trama di un testo degno di questo nome. E di successo – aggiungo io -.
Bah, forse alla Yale University questi rudimenti base della scrittura creativa non li insegnano …
Dopodiché, proseguendo la lettura, riappare la visione del cielo di carne, ma stavolta in versione lussuriosa:
“Guardo il cielo inarcarsi e gonfiarsi, e di tanto in tanto mi pare pure di vederlo fremere”.
Per completare la descrizione libidinosa, l’autrice aggiunge:
“Voluttuoso, torrido nel calore nudo, mi sembra carne di donna. Ma poi di colpo la luce ne illumina un fascio di proporzioni più mascoline – un muscoloso baleno di azzurro, un’ampia asse come il dorso di una mano – ed eccomi a riconoscere, benché malvolentieri, la bisessualità della natura“.
Ora passino pure le improbabili visioni erotiche, peraltro omosessuali, ma che c’azzecca la bisessualità della natura con un volo equatoriale attorno al globo? Onestamente, a me sfugge il nesso logico … e a voi? Sapete come sentenzierebbe una ipotetica professoressa siciliana, rigorosamente zitella e con tanto di occhiali corredati da catenella dorata? Beh, io sì: “Il cielo è sostantivo di genere maschile, e quindi masculo je!” Fine della bisessualità.
Tornando al testo del romanzo, il prologo si chiude con Amelia che racconta:
“la risacca ride. La luce nuota. Guardo sulla sabbia gli scheletri di pesce tracciati dall’ombra delle foglie di palma”.
Bum! Altro disorientamento spazio-temporale per il povero lettore. Ma un istante prima non eravamo in volo? Perché qui si parla di spiaggia, palme e risacca? Siamo già atterrati in un battere di ciglia? D’accordo l’inaudita potenza della narrativa (più efficiente di una porta dimensionale interstellare) ma così è un filino troppo, non credete?
Invece no, non stupitevi più di tanto: è solo l’inizio dell’abisso perché tutto il romanzo è un andirivieni tra il racconto di questo ultimo volo di Amelia, la sua vita precedente, durante e successiva il volo in questione. Avete letto bene: quella successiva! Perché nell’immaginario della scrittrice statunitense, Amelia sopravvive all’atterraggio di fortuna nel piccolo atollo di Nikumaroro (in passato denominato Gardner Island) e così pure il suo navigatore Fred Noonan mentre il relitto del povero Electra giace a ridosso della spiaggia, ormai inservibile. Che poi è una delle tante tesi ricorrenti di cui parlavo all’inizio circa la fine dell’impresa volatoria di Amelia & Co.
Dicevo … una trama tutto sommato semplice, forse prevedibile se non fosse che l’intreccio della vicenda narrata è funambolico, contorto, sovrapposto. Occorre prendere appunti per ricordarsi chi è la voce narrante o in quale luogo è ambientato il racconto. Questo perché il romanzo è composto da piccoli blocchi di testo che si alternano continuamente: dapprima la narrazione è in prima persona (Amelia), quindi in terza persona (un ipotetico osservatore esterno) oppure in un blocco siamo a New York, il blocco dopo sull’atollo e quello dopo ancora in volo sull’Electra per concludere in bruttezza con alcune brevi perle di saggezza pseudo filosofiche infarcite – attenzione, attenzione – di visioni dal forte potere evocativo. Secondo l’autrice, s’intende.
Posso aggiungere un altro dettaglio sconvolgente? Ebbene, non esiste il discorso diretto, o meglio non esistono tracce grafiche dell’apertura e della chiusura del discorso diretto. Per intenderci l’autrice ha evidentemente ritenuto inutile utilizzare le virgolette, le lineette, financo le mostruose doppie v orizzontali o qualsiasi altro simbolo convenzionale (troppo convenzionale!) per indicare i colloqui, peraltro assai scarni, tra i pochi personaggi. Risultato? Semplice: i dialoghi si aprono e si chiudono come fossero parte del discorso indiretto.
Ammetto che non sono un tradizionalista bigotto in fatto di estetica tipografica ma permettetemi di urlare almeno: blasfemia! L’ortografia assassinata pubblicamente, piegata alle bizze eccentriche di un’esordiente irrispettosa delle convenzioni letterarie universali; se non blasfemo, è almeno satanico!
Il lettore deve intuire i dialoghi, avrà pensato l’autrice … invece il lettore si perde – sostiene il sottoscritto -. Quello stesso lettore umile e appassionato che sarà costretto a una fatica sovrumana al punto che si domanderà – e me lo sono domandato anch’io più volte, credetemi – se valga la pena continuare a leggere un siffatto guazzabuglio di libro. Ma niente: io, imperterrito, ho continuato fino all’epilogo. Potere del prezzo di copertina!
E avendolo letto tutto, posso affermare che questo è un romanzo-minestrone; è così ben assortito che il concetto elementare di prologo-sviluppo-epilogo tipico di qualunque romanzo, qui non trova applicazione alcuna, anzi sono un tutt’uno. Per assurdo si potrebbe aprire una qualunque pagina del libro per entrare nel vortice torbido della vicenda senza correre il rischio di perdere il filo logico della narrazione … semplicemente perché non c’è un vero filo logico.
In effetti è un romanzo che, per essere apprezzato a pieno, presuppone che si conosca già il vissuto di Amelia. Oppure, al contrario, che invita la lettura di una ricostruzione giornalistica della vita e delle imprese di Amelia per capire dove finisce la realtà e comincia la fantasia sfrenata di Jane Mendelsohn.
Esagerato? Niente affatto!
Ma c’è dell’altro: verso la fine del romanzo, Amelia e Fred addirittura s’involano di nuovo con l’Electra per poi perdersi di nuovo e riatterrare chissà dove … ma no, tranquilli: era solo un sogno! Realistico ma pur sempre un sogno. Anche perché il naturale deterioramento provocato dalle maree e dell’ambiente salmastro avevano presumibilmente ridotto a brandelli la cellula del velivolo già malconcia per l’atterraggio rovinoso e che, pur disponendo di un minimo di carburante, i motori erano fermi da anni, il carrello probabilmente distrutto, mezzo aeroplano insabbiato. E tralasciamo la possibilità concreta di decollare da una spiaggia di sabbia corallina. Neanche l’araba fenice sarebbe riuscita nell’impresa!
Si tratta evidentemente di un miraggio, di un desiderio delirante mai sopito, di un sogno prodotto da una mente provata dal lungo isolamento coatto – certamente, dico io – ed è tutto molto comprensibile … ma già come per la punteggiatura oltraggiata, anche la già ridotta credibilità della narrazione viene messa a durissima prova.
Mi spiego. Sempre alla Yale University avrebbero dovuto insegnare alla signora Jane che la “sospensione dell’incredulità” da parte del lettore è assai preziosa ed è pure è molto labile, ergo non può essere strapazzata a questo modo. Voglio dire: due persone affetti dalla sindrome del naufrago, che rifuggono ormai i soccorsi e il mondo civilizzato, che si sono ambientati in un piccolo paradiso in terra e non hanno più alcuna fiducia nel futuro, possono sognare di tornare in volo verso l’ignoto? Anche solo sognare? No, non regge! Non fosse altro perché Amelia e Fred non vengono dipinti come i novelli Robinson Crusoe, viceversa hanno trovato sull’atollo il loro equilibrio, si sono rassegnati a vivere lì i giorni che rimangono loro, nell’idillio di una natura lussureggiante che offre loro quanto necessitano … e vi pare che, anche nel sogno più recondito, anche nei meandri più profondi dell’inconscio possano sognare di volersene andare? In volo?
Troppo feroce nei confronti dell’autrice? Niente affatto! … vogliamo esaminare poi gli svarioni storici e aeronautici? Eccoli.
Per proteggere gli occhi abbacinati dal sole Amelia rivela:
“… e arriccio il naso per mettere in sesto gli occhialoni da pilota”.
Peccato che il Lockeed Electra fosse un moderno velivolo con cabina chiusa e parabrezza ermetico anziché un obsoleto biplano con cabina aperta e minuscolo frangivento. La differenza è sostanziale: i velivoli aperti necessitavano dei classici occhialoni da pilota che non erano assolutamente un vezzo estetico. All’epoca infatti, se non si voleva rimanere accecati dall’aria, dagli insetti, dai fumi di scarico e dall’olio vaporizzato dal motore, gli occhialoni erano indispensabili. Un po’ meno la sciarpa di seta bianca, salvo che per pulire – in emergenza – gli occhialoni sopracitati qualora si fossero completamente coperti da sozzura.
Viceversa nel 1937, anno del volo di Amelia, esistevano già gli occhiali da sole, non già i famigerati Ray-Ban Aviator che vennero commercializzati a partire proprio da quell’anno ma sicuramente occhiali similari giacché la prima azienda al mondo che produsse occhiali da sole fu proprio statunitense e cominciò la sua attività nel 1929.
E vabbè … concediamole gli occhialoni ma …
… vogliamo poi parlare di quel povero diavolo di Noonan? Ebbene nel romanzo viene dipinto come un alcoolizzato, amante in egual misura delle donne e dei superalcolici, dedito a una vita sregolata per non dire dissennata. Anche professionalmente la signora Jane Mendelsohn ci va giù pesante perché fa dire ad Amelia che la scelta a favore di Fred fu dettata dall’economicità delle sue prestazioni professionali anziché per le sue capacità di esperto in navigazione aerea astronomica.
Onestamente, se fossi stato un parente alla lontana di Fred, mi sarebbe venuta voglia di querelare l’autrice del romanzo per aver infangato la memoria del mio congiunto … anche perché la verità storica è decisamente diversa.
Fred Noonan si era effettivamente licenziato dalla Pan-Am ma, secondo la cronaca del tempo, perché intendeva aprire una scuola tutta sua per navigatori aeronautici e la partecipazione all’impresa di Amelia gli sarebbe tornata utile quale ottimo viatico pubblicitario gratuito. Inoltre Amelia l’aveva già assoldato in occasione del primo tentativo di trasvolata, peraltro andato male, perché dunque confermarlo in occasione del secondo? E poi diciamoci la verità: all’epoca tutti bevevano e ancora oggi gli statunitensi non sono proverbialmente astemi, sicché …
Altra situazione assolutamente non sostenibile è lo stato disastroso in cui versa Noonan al momento del decollo dall’aeroporto di Lae in Nuova Guinea in quella che sarà l’ultima tratta della della circurmnavigazione del globo. Ebbene nel romanzo Fred viene descritto come completamente ubriaco dopo festini terminati fino a poco prima del decollo. Decollo avvenuto – lo ricordo – alla mezzanotte, ora locale. In realtà, a giudicare dalle immagini dell’epoca, sia Amelia che Fred salgono a bordo dell’Electra con fare atletico, lei attraverso il portello posto nel cielo della cabina e lui sulla fiancata della fusoliera, operazione assai difficile da eseguire da un ubriaco, non trovate?
Inoltre nel romanzo Amelia odia ferocemente Noonan al punto che ognuno si costruisce un proprio ricovero, alle antipodi del piccolo atollo, quindi si riavvicinano nel corso della permanenza in quella stretta striscia di sabbia e verso la fine del romanzo finiscono per essere addirittura amanti, sfrenati e insaziabili uno dell’altro. Pittoresco, non credete?
Altra stonatura è il personaggio George P. Putnam, storicamente marito di Amelia; nel romanzo viene dipinto impietosamente come un aguzzino, una macchina che spreme Amelia per il proprio tornaconto di editore, che la costringe a scrivere resoconti giornalistici e libri contro la sua volontà.
La verità storica, anche in questo caso, è abbastanza diversa. Quando incontrò per la prima volta Amelia, Putnam era già ricco e famoso (era stato lui a pubblicare il libro-resoconto di Charles Lindbergh, primo trasvolatore atlantico) inoltre lui le propose più volte di sposarlo senza successo. Aggiungo che i proventi dei libri e dei pezzi giornalistici della moglie, Putnam li utilizzava per sostenere le spese – decisamente notevoli – delle imprese di Amelia. Occorre poi ricordare che lui, dopo la cessazione delle ricerche di Amelia/Noonan operate dalla US Navy, spese una vera fortuna nel riprenderle a titolo personale. Certo non fu un esempio fulgido di rettitudine e fedeltà coniugale ma è pur vero che le coppie benestanti statunitensi non lo erano e non lo sono tuttora.
In effetti, in “Ero Amelia Earhart”, la figura stessa della protagonista viene tratteggiata in modo dir poco singolare: introversa, taciturna, quasi algida ma in balia del marito, incapace di provare anche solo di un po’ di affetto nei confronti di Putnam, pur tuttavia estremamente determinata tanto da concedersi solo a condizioni che oggi farebbero concorrenza ai contratti prematrimoniali delle dive del cinema.
Risponde a verità storica? Forse … certo Amelia era mascolina, a dir poco volitiva e talmente determinata nel raggiungere i suoi progetti – alcuni effettivamente difficilissimi per l’epoca – che un fondo di verità storica c’è di sicuro. Tutto il resto è fantasia.
In conclusione un romanzo con diversi aspetti opachi e qualcuno brillante. Quali? Ad esempio la descrizione assai verosimile del caldo torrido che assale l’atollo e soprattutto della terribile tempesta tropicale che segue: come essere lì con Amelia e Fred. Davvero ottima.
Come pure ammetto che è davvero notevole l’intuizione dell’autrice nell’immaginare e nel raccontare la trasformazione che avviene nei due personaggi: dapprima naufraghi vogliosi di tornare alla civiltà per poi letteralmente nascondersi dai possibili soccorritori, infine felici di rimanere nel loro piccolo paradiso tropicale.
Infine sono presenti anche piccole chicche di buona scrittura come:
“Gli aerei erano veicoli da sognare. Erano forti e sinuosi, virili e femminili allo stesso tempo, semplici, giocattoli meccanici quasi all’antica e vascelli che portano al futuro”
ma sono rare e, onestamente, non giustificano il successo di vendite del volume.
In definitiva ci sono lampi di buona letteratura in “Ero Amelia Earhart” ma con molte ombre attorno; un libro la cui lettura richiede un grande atto di fede da parte del lettore, fede superiore alla media, s’intende.
Se amate i romanzi pieni di simbolismi, e immagini surreali sarà perfetto per voi, viceversa non si presta assolutamente a chi cercherà – come il sottoscritto pensava di trovare – una cronaca storica in formato narrativo.
Dal punto di vista tipografico il volume è curato e di qualità come ci si aspetta da un editore prestigioso. Adeguata la dimensione dei caratteri di stampa, opaca e leggermente giallognola la carta. Valida ma non esaltante la copertina (in realtà l’edizione italiana ne ha avute diverse) e maldestramente poco obiettiva la IV di copertina.
In conclusione, un libro che non rende granché onore ad Amelia e al suo navigatore, di sicuro non ne esalta la leggenda … ma perché – detto tra noi – ne avrebbe necessità? Certo che no. Perché la caparbietà e la determinazione di Amelia l’avevano resa già un mito quando era in vita, figuriamoci se un romanzo di opinabile bontà possa sminuire un fulgido ed ineguagliabile esempio dell’universo femminile …
Allo stesso modo mi viene da dire che non comprendo l’ostinazione nel voler assemblare congetture, nel voler continuare a cercarla negli atolli sperduti del Pacifico. Perché? … già prima che scomparisse, Amelia Earhart volava altissima nell’immaginario collettivo e, un istante dopo la sua scomparsa, ha continuato a volare lontanissimo nel cielo della memoria di tutti noi, uomini o donne appassionati di volo e di storia dell’aviazione. E così sarà per sempre. Che poi è quanto accade giusto appunto ai miti. E Amelia, quando corre il XXI secolo, ancora un mito jè!
Parola di professoressa zitella.
Recensione e didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR