Era il pomeriggio del 4 luglio. Il tempo si faceva sempre più grigio mentre mi recavo in aeroporto. Dal finestrino aperto del mio maggiolino annusavo il profumo intimo e inquietante del temporale che si stava preparando.
Ero felice.
E’ incredibile come le strade di periferia, in vista di un acquazzone estivo, si affollino e prendano vita. Le persone si danno da fare alacremente per riporre al sicuro le sedie e i tavolini sparsi nei giardini. Le porte basculanti degli scantinati, le serrande delle rimesse, e le grosse ante dei garages delle villette di campagna si spalancano impietosamente per accogliere gli oggetti da riporre in fretta all’asciutto. E i passanti approfittano per violare, con occhiate indiscrete, le intimità custodite in quei locali, quelle che usualmente restano celate agli occhi degli estranei. Tutti sono indaffarati nel chiudere ombrelloni, mettere cose al riparo, richiamare i bambini dalla strada.
Quel giorno l’aria era ricca di profumi antichi dell’asfalto fresco e dell’erba appena tagliata, mentre guidavo piacevolmente verso la base.
Attraversai lentamente la ferrovia. Nel frattempo le nuvole si erano fatte ancora più scure e cariche di presagi.
Feci un respiro profondo per assaporare l’aria, e un brivido stimolante mi attraversò la schiena.
Era come se stesse per accadere qualcosa di nuovo.
Le prime gocce caddero subito dopo il mio arrivo in aeroporto.
Ebbi appena il tempo di parcheggiare la macchina che ricevetti l’ordine di prepararmi immediatamente per il volo.
La missione prevedeva l’ispezione del livello del Piave e dello stato degli argini. Mi fu assegnato il tratto di fiume che dal Montello scende giù, fino alla foce.
Mi dissero che era stata segnalata un’enorme onda di piena proveniente dalle montagne. Si temevano eventi ambientali catastrofici.
Avrei dovuto volare sul Piave e riferire via radio le notizie alla base. Dai miei rapporti dipendeva l’attivazione di eventuali soccorsi.
Dopo aver ricevuto gli ordini per la missione mi recai nello spogliatoio, indossai la tuta di volo, caricai il paracadute sulle spalle e in meno di dieci minuti ero pronto al decollo.
Il vento soffiava forte da est, perciò la corsa di rullaggio fu assai breve.
Per evitare di salire troppo in fretta portai i flaps a zero subito dopo la rotazione. Volevo rimanere basso il più a lungo possibile per sorvolare la soglia di fine pista ad una quota non troppo elevata. La mia casa, infatti, si trovava subito fuori dall’aeroporto, sul prolungamento dell’asse pista. Ed era consuetudine che ad ogni decollo effettuassi un passaggio a bassa quota sulla sua verticale.
Smanettavo sul motore per attirare l’attenzione della mia Tanja. Lei di solito usciva sul balcone e mi salutava.
Io ricambiavo il saluto oscillando dolcemente le ali per proseguire poi felicemente verso la missione.
Quando la vedevo sul poggiolo il volo diventava più dolce. Era come se la portassi con me. Le parlavo ad alta voce come se mi fosse seduta accanto in cabina di pilotaggio.
Quel giorno non riuscii a vederla. Forse ero passato troppo alto sulla casa e il vento aveva spazzato via il rombo del motore che disperatamente avevo cercato di attivare per richiamare l’attenzione di mia moglie.
Avevo ridotto la velocità al limite dello stallo. Mi ero quasi fermato sulla verticale della mia casa in attesa di lei, lo ricordo molto bene. Ma ero altissimo.
Avevo esteso nuovamente i flaps per consentirmi di ridurre la velocità al minimo senza precipitare come un ferro da stiro. Ma questa manovra mi aveva fatto salire più in fretta a causa del forte vento frontale.
Mi era venuta voglia di scivolare d’ala per perdere rapidamente un po’ di quota. Ma era pericoloso, e poi comunque avrei perso la posizione. Perciò non lo feci.
Con disappunto ritrassi i flaps e accelerai.
Giunsi sul Piave e cominciai l’ispezione. Il fiume era già grosso. L’argine occidentale era quasi completamente sommerso.
Salii a duemila piedi per avere un campo d’osservazione più ampio. Subito dopo chiamai la torre di Treviso per fare il mio primo rapporto sommario.
Poi scesi a bassa quota sull’argine e cominciai a seguire il corso del fiume verso sud. Il volo a bassissima quota è prerogativa specifica dei piloti dell’Esercito. Siamo addestrati a seguire l’andamento del suolo perché il nostro lavoro consiste essenzialmente nel fornire un supporto a coloro che operano sul terreno.
Mi sembrò di tuffarmi dentro l’acqua tumultuosa e torbida del Piave.
Ma in quella direzione le cose andavano progressivamente meglio. La vera onda di piena, quella segnalata sulle montagne, non era ancora giunta a quell’altezza. Perciò feci un secondo rapporto e decisi di virare verso nord per risalire il fiume fino al Montello.
Intrapresi la virata verso destra. Ma quando fui in grado di guardare verso nord venni sorpreso da una visione terrifica. Un muro altissimo d’acqua stava scendendo rapidamente a valle straripando impetuosamente oltre gli argini del fiume e inondando violentemente i territori circostanti.
L’onda mi veniva incontro con una velocità incredibile mentre mi trovavo a bassissima quota. Non più di duecento piedi.
Mi parve che l’acqua avesse un’altezza smisuratamente più elevata rispetto alla mia quota di volo.
Restai paralizzato per un istante.
Mi sembrò che una montagna viva mi stesse correndo incontro per sommergermi inesorabilmente.
Risposi istintivamente cabrando con uno strappo violento sulla cloche. Tirai la barra alla pancia e il muso si sollevò velocemente. L’aereo cominciò a vibrare. Ero entrato in stallo. L’ala sinistra si abbassò pericolosamente. Ebbi appena il tempo di rendermi conto di essere sull’orlo di cadere in vite.
Gettai un occhiata all’anemometro. Velocità zero!
Riluttante restituii un po’ di cloche avanzando contemporaneamente la manetta del motore fino a fondo corsa. Portai i flaps alla massima estensione. La velocità riprese a salire.
Inserii la leva di riscaldamento dell’aria al carburatore e quella dell’arricchimento miscela.
Sostenni il muso ma cercai anche di evitare di stallare nuovamente. Volevo… dovevo salire in fretta senza entrare in vite. Altrimenti sarebbe stata la fine.
Pregai la Vergine.
Invocai la mamma.
Ero un ufficiale pilota osservatore dell’Aviazione dell’Esercito. Ma ero anche un ragazzo. Avevo da poco compiuto ventitre anni.
I piloti dell’Esercito sono perfettamente addestrati a volare alle basse velocità. La guida di colonne motorizzate, l’aggiustamento del tiro d’artiglieria… i piloti osservatori hanno tutto quello che serve per cavarsela in ogni condizione. Per di più io mi trovavo ai comandi di un amico forte e sicuro, il mio Cessna L19E. Lui non mi aveva tradito mai.
Era un moderno e robusto monomotore a pistoni. Un velivolo interamente metallico ad ala alta progettato appositamente per l’osservazione aerea.
Dovevo salire senza stallare.
Stimai la distanza dell’onda in un migliaio di metri. In rapidissimo avvicinamento.
Sapevo restare a galla nell’aria, appeso al motore, facendo del mio meglio per guadagnare un po’ di quota. L’avevo imparato atterrando su campi corti ostacolati da alte barriere sulla soglia.
Guardai l’altimetro. Feci un giro di controlli incrociati degli strumenti di bordo e contemporaneamente tentai di tenere sotto controllo la grande muraglia. Ma non la vidi più.
Un istante dopo mi trovai a volare quasi sul pelo dell’acqua. Credetti d’aver perso quota a causa di uno stallo improvviso. Guardai nuovamente l’altimetro. Ma non riuscii a leggerlo perché venni investito da una turbolenza forte e improvvisa.
Cercai di raccapezzarmi. E capii.
L’onda d’urto della montagna d’acqua, in rapida discesa, aveva prodotto un moto convettivo. Così le mie ali erano state sospinte verso l’alto. Ero salvo!
Il muro d’acqua si muoveva tanto velocemente da non rendermi conto che fosse passato. Perciò il livello del fiume era salito di molti metri.
Percepii nuovamente il controllo del velivolo: quota mille piedi, velocità centodieci miglia per ora, la barra di comando ben stretta nella mano destra, la manetta del motore nella sinistra.
Guardai il cruscotto. Accarezzai con gli occhi il muso dell’aereo. Gettai un’occhiata sulle ali del mio fido compagno. E ritrovai la mia tranquillità.
Mi predisposi a proseguire la mia missione.
Il pericolo era passato.
Cercai il microfono per lanciare il rapporto alla torre. Ma lo scenario al suolo mi colpì così tanto che non riuscii a parlare.
L’acqua dilagava dappertutto sollevando strati di asfalto dal manto stradale. Vidi lunghi tratti di binari ferroviari divelti e sollevati come fuscelli. Alberi sradicati. Grossi animali gonfi trascinati dal tumulto impetuoso.
L’apocalisse in pochi istanti.
Più in là c’erano delle case. Mi diressi sopra di loro. Alcune persone erano salite sui tetti e mi segnalavano la loro presenza. Con disperazione.
In pochi istanti l’acqua aveva invaso tutto il territorio a occidente del fiume. E continuava a salire.
Tutto il mondo visibile dalla mia quota di volo appariva invaso dall’acqua.
Raggiunsi le case. L’acqua le aveva sommerse fino al secondo piano.
Su tutti i tetti c’erano delle persone che cercavano di attirare la mia attenzione.
Verificai il meccanismo di sgancio dei carichi alari per accertarmi di poter effettuare un eventuale rifornimento di generi di soccorso agli alluvionati.
Mi abbassai fino quasi a sfiorare i tetti. Desideravo tranquillizzare quelle persone terrorizzate e disperate. Su ogni casa oscillavo le ali in segno di “ricevuto” e di solidarietà.
Feci il mio concitato rapporto alla torre di controllo. E ricevetti l’ordine di rientrare.
L’atterraggio fu particolarmente difficile a causa del vento fortissimo.
Su ordine del comandante del reparto scrissi un rapportino sull’atterraggio.
“Lunedì 4 luglio 1966, ore 19.30.
Il tenente pilota-osservatore dell’Aviazione dell’Esercito Mario Trovarelli è atterrato sulla pista erbosa dell’aeroporto San Giuseppe di Treviso ai comandi del proprio Cessna L19E EI 28.
Sia l’aeromobile che il pilota sono incolumi.”
Dopo due anni da quell’avvenimento lasciai l’Aviazione dell’Esercito per continuare a volare come pilota civile di linea.
Ho volato fino al 1980. Da allora mi occupo di terapia dell’angoscia. Sono diventato uno psicoterapeuta.
Ma ho continuato a sognare il volo ogni notte.
Oggi è sabato. Sono trascorsi vent’anni da quando ho smesso di volare, ma sento un forte desiderio di tornare a solcare il vento. Perciò, in compagnia della mia primogenita, mi sono recato su un campo di volo in Friuli.
Ho percepito un’inspiegabile attrazione per quel cielo che ho sognato mille volte in tutti questi anni.
L’hangar è pieno di velivoli.
Li osservo con nostalgia. Sfioro con trepidazione i loro motori. Guardo gli strumenti di bordo.
Sono pervaso da una dolce commozione nel ritrovare me stesso tra quelle ali e quelle fusoliere.
Mi aggiro qua e là. Poi la mia attenzione viene attirata da un aeroplano ad ala alta, dall’aria amica.
Lo guardo con incredula curiosità.
Ha i colori mimetici che mi sono familiari.
Col cuore in gola mi avvicino lentamente a lui chinandomi per osservarne attentamente la carlinga, in cerca di una traccia.
Sotto la nuova sigla s’intravede la coccarda tricolore e la scritta “EI 28”.
La mia emozione, al pari di quella terribile onda alluvionale del lontano ‘66, esplode inarrestabile.
Mia figlia sta effettuando un giro turistico intorno al campo.
E noi due siamo qui. Io e il mio aeroplano. Uno di fronte all’altro, come due vecchi amici che si ritrovano casualmente dopo tanto tempo.
Gli americani lo chiamano Bird Dog. Non a caso.
E’ come se mi stesse facendo le feste scodinzolando. E io allora lo abbraccio e lo tengo stretto a lungo.
Lo abbraccio e lo accarezzo il mio vecchio, fido, stupendo amico. Come se si trattasse di un essere vivente.
Compagno di mille avventure. Testimone e custode del mio entusiasmo di giovane pilota.
Mia figlia, rientrata dal volo, mi riporta alla realtà.
“Papà… l’hai ritrovato finalmente. Ho sentito dire che presto sarà demolito.”
Ai piloti dell’Aviazione dell’Esercito
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