Qualcosa dipende da me, ma per niente tutto
I parte
Cercalo dentro: lenticolari
Una mattinata di sole e ventosa è tutt’altro di una notte buia e tempestosa. Questo riuscirebbe a capirlo anche il Presidente di un club di volo, spesso, non sempre, con qualche eccezione.
Quella era una giornata da non lasciar scappare e così con qualche telefonata, nemmeno necessaria, ci trovammo, quel sabato, in cinque in decollo.
Il vento non era favorevole con quel nord che ti veniva alle spalle ma, a ben sperare, uno sbuffo frontale non si nega o al minimo un momento di calma. E poi quella fila di lenticolari mi attirava come nient’altro.
Tutti pronti al decollo alle 12,30, in quel momento consentito dall’aria, decollai.
Vedendo le fatiche compiute e gli artifizi fatti fra abilità e molta fortuna o caso, gli amici del “tutti per uno, uno per tutti” rinunciarono decidendo di aspettarmi in atterraggio. Un rotore mi consentì di compiere un passaggio quasi radente, di sberleffo ai rinunciatari e via in una ascendenza costante, strana, proprio strana verso la lenticolare apparentemente più vicina. Non una termica, ma un 3 metri al secondo costante a salire per ritrovarsi in una nebbia che non doveva e non poteva esserci. Ma così era, e poi luci, suoni, un benessere totale. In quella lenticolare non ero solo, con l’assoluta certezza della presenza di molti altri visitatori.
Mi ritrovai in un praticello ai bordi di un piccolo laghetto di acqua sorgiva, a 30 chilometri alle spalle del decollo. Il deltaplano era a fianco a me che, sdraiato a pancia in aria, prendevo il sole, con le ali quasi a sfiorare cespugli e alberi, un luogo dove nemmeno un elicottero poteva scendere in verticale perfetta. L’occhio sfiorò l’orologio e trasalendo lessi: 12,35.
Dopo circa mezz’ora, ad alcune centinaia di metri, da un’automobile scesero i quattro rinunciatari e iniziarono da metri: “Che fine hai fatto?”, “che è successo? Che fai qui?”. E io: “Perché?”. “E’ da ieri che ti cerchiamo”. “Come da ieri? Che dite? Ma se è l’una.” “E’ l’una di domenica e tu sei decollato sabato”. 24 ore e cinque minuti.
Le lenticolari avevano lasciato il posto ad un azzurro fatto di altro.
II parte
Cercalo fuori: controlli prevolo
Strano rapporto quello con chi ti manca, fatto di una assenza sorda e rumorosa. Così mi mancava mio padre che da molti mesi aveva deciso di essere solo energia.
Quel pomeriggio il temporale si era formato in valle e aveva incominciato ad allargarsi verso la montagna, poteva passare qualche minuto o al massimo qualche decina, ma tutto si sarebbe chiuso e degenerato.
Prima tappa del mio CAP444, quattrocentoquarantaquattro chilometri in quattro giorni, con l’obbligo di un solo trasporto in decollo e nessun atterraggio in valle, tanto valeva atterrare, subito, sulla cima e lì aspettare gli eventi dell’atmosfera. Tre passaggi, scelto il posto, picchia veloce al pendio, coraggio, veloce e sali, sali, sali, stallo.
Il temporale passa e passa la notte sotto le ali. Alle 12 l’aria sale il pendio. Dopo 1 ora mi sposto, agganciato, di alcuni passi per una posizione di decollo migliore.
Un cane bianco, enorme, arriva di corsa abbaiando, con un’aria tutt’altro che pacifica. Sgancio e come un pinguino goffo mi sposto, prendendo il coltello da una tasca. Lui mi ignora, va alla barra abbaiando e mordendo l’angolo del trapezio. Uno sguardo, che avevo già conosciuto, e girato il garrese scompare dietro un collinotto poco più in basso. Aveva strepitato verso un push di raccordo, che era uscito dalla sua posizione a causa dell’atterraggio del giorno prima.
Non l’avrei notato, non era mai accaduto, se fossi decollato al primo tiro del cavo d’acciaio sinistro avrei raggiunto mio padre.
Quegli occhi erano i suoi. Stava così in pace che aveva deciso di tenermi, chissà per quanto, e comunque ancora per un po’, alla larga.
III parte
Lo hai trovato: vestilo
Non mi sono mai sognato di governarlo, non più di quanto fosse il minimo indispensabile, tantomeno di domarlo, gestirlo o come si dice? Ah sì, pilotarlo, sì così ho sentito che si dice fra quelli che se ne intendono.
Ho solo deciso di vestirlo.
Un vestito? Certo un vestito si veste.
Si veste ancor più una pelle.
E quella è la pelle che ho deciso di vestire, per hobby? No per vita.
Provaci a vivere tu senza pelle. Le prime ad arrivare sono le infezioni.
Ti infetti ed è finita.
La pelle ti protegge, ti cura e si prende cura di te.
Prendersi cura.
Il mio aliante si prende cura di me.
Della mia salute, della mia vita.
Se vuole può prendersela quando vuole.
Ci terrei che me la concedesse ancora un po’.
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Nando Ferrauti |