Si passò una mano sul viso, lo sentì bagnato di sudore e l’asciugò meccanicamente con la manica della camicia. Faceva caldo, un caldo insolito, perché il giardino era sempre fresco, anche d’estate. Qualche goccia gli scivolò sulla camicia e sul collo, alzò la testa e si accorse che cominciava a piovere.
Proprio in quel momento la sua attenzione fu attratta dal rumore di un aereo in atterraggio presso la vicina base aerea dove aveva prestato servizio per tanti anni: era un “AWACS” (Airborne Warning And Control System).
L’inconfondibile rombo dei motori del Boeing 707 lo portò di colpo a quel lontano 1989 quando fu assegnato per un breve periodo in Islanda per svolgere attività operativa presso la base aerea di Keflavik. Carlo – maggiore dell’Aeronautica Militare Italiana assegnato alla Nato – vi trascorse ben quindici giorni tra attività di volo e momenti di diporto che gli consentirono di visitare parte di quella fantastica isola dove tutto è strano e tutto sembra anormale anche ciò che non lo è.
Il giorno prima dell’effettiva attività di volo – otto/nove ore continuative -, preparava il piano di volo e pianificava la missione operativa nei minimi dettagli in stretto coordinamento con tutti i membri dell’equipaggio del velivolo suddiviso in due grosse branche: il “flight crew” ed il “mission crew”.
La prima branca si prendeva cura di portare il velivolo nell’area di orbita e mantenerlo ad una quota costante per tutto il tempo necessario: era costituita da due piloti, un navigatore ed un “flight engineer” (FE) – supervisore di tutta la parte tecnica del velivolo.
La seconda branca, diretta dal Tactical Director (responsabile dell’esecuzione della Missione Operativa) era suddivisa, a sua volta, in tecnici ed operativi che avevano il compito di far funzionare i sistemi radar di bordo e di utilizzarli per l’avvistamento ed il controllo del traffico aereo nell’area di competenza in coordinamento con i siti radar terrestri. L’incarico di Carlo era appunto quello di garantire l’efficace esecuzione della missione operativa.
Nei momenti di riposo tra un volo ed un altro Carlo con il suo collega Miguel – un ufficiale dell’Aeronautica Militare Portoghese – visitò le aree più accessibili dell’Islanda vicino alla loro base aerea. Era il periodo in cui in Italia i fiori vivono la loro stagione migliore, il cielo diventa sempre più azzurro e il mare invita con maggior insistenza i timidi bagnanti a tuffarsi nelle acque calme e calde.
In Islanda, invece, la temperatura in maggio è tutt’altro che gradevole. Il più grande parco nazionale dell’Islanda (Skaftafell), sito vicino Reykiavik, presenta un panorama molto simile a una veduta alpina con la terra desolata e sabbiosa, è di una tristezza indescrivibile; di erba neanche a parlarne.
Mentre passeggiavano vedendo alcuni cavalli chiusi in un recinto, Carlo disse a Miguel: “Vedi come sono tutti infreddoliti e con gli occhi pieni di tristezza”.
“E’ vero” rispose Miguel, “sembrano senza vitalità. La loro espressione denota un senso di rassegnazione alla vita in una stalla sapendo che per loro non sarà mai possibile scorrazzare liberi nelle pianure piene di erba verde, fresca e dal profumo inebriante”.
Finito il periodo di rischieramento, iniziò il volo di ritorno verso la base aerea di provenienza: la missione era di solo trasferimento e non operativa, quindi doveva essere semplice e senza alcun problema.
L’imprevisto, però, a volte è in agguato. Stavano sorvolando il tratto di Oceano Atlantico compreso tra l’Islanda e la Gran Bretagna, quando cominciarono ad avvertire un forte odore di bruciato.
Subito i tecnici avviarono i previsti controlli delle apparecchiature radar accese per normale manutenzione. Intanto, Carlo diede l’ordine di indossare la maschera di ossigeno ed effettuò il previsto appello (“roll call”) per verificare che tutto il personale l’avesse indossata.
Completata positivamente tale verifica, il primo pilota (Aircraft Commander – AC) diede l’ordine ai tecnici di spegnere tutti gli apparati non necessari alla navigazione e al FE di avviare la procedura per far defluire l’odore di bruciato aprendo le valvole all’uopo preposte.
Nel giro di pochi minuti tutto ritornò normale e fu dato l’ordine dall’AC di togliere le maschere d’ossigeno essendo rientrata la situazione di emergenza.
Tutto ormai sembrava risolto ed il volo si stava avviando verso una tranquilla soluzione, quando scattò, come un fulmine a ciel sereno, il segnale di emergenza per depressurizzazione del velivolo. Tale situazione, di norma, richiede di indossare la maschera di ossigeno entro quaranta secondi per evitare situazioni di mancanza di ossigeno (anossia).
Carlo avviò, quindi, nuovamente la procedura per affrontare la nuova emergenza: tutti su ossigeno e “roll call” del personale.
“Possibile che il destino ha deciso che questo debba essere il mio ultimo volo”? pensava Carlo.
Tutti si guardavano senza riuscire a trovare la forza di parlare, anzi, lo facevano con gli occhi che mostravano di non essere ancora rassegnati ad una fine prematura.
Presi da tali funesti pensieri, la comunicazione da parte dell’AC di emergenza rientrata fece tirare un sospiro di sollievo a tutti e riportò il naturale colore su quei volti segnati da un pallore improvviso dovuto ad un inconscio senso di paura che, come una spada di Damocle, alberga nella mente di chi ben conosce i rischi derivanti dal proprio lavoro
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Cosa era successo? Il FE, per una mera dimenticanza, aveva lasciato aperte le valvole, utilizzate per far defluire l’odore bruciato della precedente emergenza, oltre il dovuto. Tanto era bastato per far scattare la nuova emergenza.
La pioggia, sempre più insistente, risvegliò Carlo che nel frattempo si era riparato sotto il gazebo godendo il profumo della terra appena bagnata e rallegrandosi alla vista delle gocce d’acqua che dissetavano i petali dei fiori rendendoli più luminosi e più puliti
E mentre era ancora assorto nei suoi remoti pensieri, accarezzò con la mano il capo del nipotino più piccolo che stava giocando con un piccolo aereo simulando una situazione d’emergenza.
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