titolo: Gun button to fire: A Hurricane Pilot Story of the Battle of Britain“. – [Bottone delle armi in posizione di “fuoco”: La storia di un pilota di Hurricane della Battaglia d’Inghilterra]
autore: Tom Neil
editore: Amberley Publishing
anno di pubblicazione: 2010
edizione ebook: 2010
eISBN: 978 1 84868 843 3
Dopo aver letto tanti libri scritti da piloti americani, neozelandesi, australiani o francesi, che hanno combattuto nei cieli europei e basati su qualche aeroporto inglese, ecco un altro libro che descrive i giorni, o meglio, gli anni della Seconda Guerra Mondiale.
Guerra aerea, ovviamente.
Stavolta, però, il pilota è proprio inglese.
Anche questo libro comincia con la descrizione della prima parte della vita del suo autore.
Gli anni dell’adolescenza e della giovinezza sono trattati brevemente, ma come di consueto, sin dall’inizio il libro coinvolge e lascia gli occhi del lettore incollati alle pagine.
L’autore aveva appena intrapreso una carriera di impiegato in una banca. Il padre, insieme ad un amico e collega già inserito nell’ambiente bancario, era riuscito a procurare questo lavoro al proprio figlio, che però non era molto entusiasta della soluzione. Infatti traspare dal libro una sorta di rassegnazione nei confronti di un impegno che non gli piaceva per niente. Ma cercava di fare buon viso a cattiva sorte. Nel frattempo si guardava intorno alla ricerca di qualche soluzione ben diversa.
Poi arrivano i giorni in cui si cominciano a percepire venti di guerra provenienti dalla Germania nazista.
Tom Neil, l’autore, ci porta con sé sulla tortuosa strada che, dalla porta della sua casa in un paesino dell’Inghilterra, conduce fino alla scuola di volo, al reparto della Royal Air Force nel quale prende servizio e comincia la sua vita di pilota militare.
Un classico, si potrebbe dire.
Sì. Un classico. Tutti questi libri cominciano più o meno così.
L’unica cosa che cambia è che qui il pilota è inglese. Si trova, quindi, già in Inghilterra.
Gli altri autori, invece, raccontano tutti il viaggio, lunghissimo e a volte periglioso, che da luoghi lontanissimi, come gli Stati Uniti, la Nuova Zelanda, l’Australia, il Sud Africa o la Francia (ma altri venivano da Cecoslovacchia, Polonia e altri paesi relativamente più vicini) li aveva condotti in Inghilterra per prendere parte alle operazioni belliche alleate contro l’aggressione della Germania e delle forze dell’Asse.
E comunque Tom Neil, l’autore, non deve fare molta strada per arruolarsi. Esce di casa, percorre un breve tragitto e arriva subito. Infatti, durante il primo periodo di servizio torna regolarmente a casa a dormire. E i suoi genitori lo possono andare a trovare in aeroporto ogni volta che lo desiderano.
Ma l’idillio non dura molto. La guerra travolge tutti con la sua furia cieca e le cose cambiano rapidamente.
Gli attacchi delle formazioni di aerei tedeschi diventano quasi giornalieri, poi si intensificano. In breve tempo i piloti devono partire immediatamente a ogni allarme e questo accade anche quattro o cinque volte al giorno. E anche di notte.
La Luftwaffe non dà tregua alle città inglesi. Bombardamenti continui devastano ogni obiettivo, militare e civile, con metodica regolarità.
Addirittura girano voci di un’imminente invasione del Regno Unito da parte della Germania. Ed erano voci veritiere. Infatti questo piano era presente nelle intenzioni di Hitler, che però, più o meno inspiegabilmente, non lo mise mai in atto.
Comincia così quella che oggi conosciamo come “la Battaglia d’Inghilterra“.
All’inizio, prima che anche gli Stati Uniti entrassero in guerra, solo uno sparuto gruppo di piloti si oppose agli attacchi. Gli aerei erano gli Spitfire e gli Hurricane.
Questi aerei sono diventati famosi.
Tom Neil divenne pilota di Spitfire. Ma solo per un breve periodo.
Dopo, transitò in un gruppo che aveva in dotazione il più datato Hurricane.
Questo libro, come tutti gli altri, ha una dedica. E anche questo è un classico.
La dedica, immancabile, nel caso nostro è rivolta alla moglie e ai figli.
“To my wife, who also served, and who was, and is, much more capable on the ground than ever I was in the air; and my three sons, who should at list know something of these events”.
“A mia moglie, che era anch’essa in servizio, e che era ed è, molto più capace a terra di quanto lo fossi io in aria; e ai miei tre figli, che possano almeno conoscere qualcosa di questo eventi”.
Già dalla dedica si percepisce una sorta di delicatezza che caratterizza il personaggio. Ed è effettivamente così. A fronte della rudezza di tante descrizioni, troviamo spesso frasi delicate nei confronti di familiari, amici, colleghi e perfino animali. Sembra incredibile che la stessa persona possa avere allo stesso tempo atteggiamenti tanto amorevoli e altrettanta indifferenza verso simili tragedie, come quelle che ogni giorni facevano parte della sua vita quotidiana.
Però, se una recensione deve mettere in evidenza i punti forti, o anche quelli deboli, di un libro, allora è meglio chiarire subito: a raccontarci tante storie di guerra, almeno del periodo iniziale in cui la Gran Bretagna faceva fronte da sola al nemico germanico, è un inglese. E trasferisce nei racconti tutta la sua mentalità inglese. O almeno, la mentalità di un inglese di quegli anni, che presumibilmente era abbastanza diversa, più forte e più marcata, di quella di un suo connazionale di oggi, in un mondo decisamente più globalizzato.
Sin dalle prime pagine risulta evidente una estrema imperturbabilità, quasi un’indifferenza totale verso gli episodi e le tragedie di molti avvenimenti di guerra.
Di notte, quando il silenzio veniva rotto dal rumore tipico di una squadriglia di bombardieri tedeschi che sorvolavano la zona, dal rumore sordo dei colpi della contraerea e dallo scoppio delle bombe nelle zone vicinissime alla baracca dove i piloti dormivano, alcuni uscivano fuori a guardare verso il cielo, altri si giravano nel letto e cercavano di riprendere il sonno. Come se la faccenda non li riguardasse.
“As if nothing really matters“,
direbbero loro. Che tradotto suona più o meno:
“Come se niente avesse davvero importanza”
Sconcertante. Ma non c’è solo questo.
In ogni capitolo Tom Neil descrive avvenimenti tragici e devastanti, aggiungendo alla fine di ogni descrizione che a lui e ad altri protagonisti presenti non importava davvero nulla. Subito dopo ognuno se ne andava per i fatti propri. E se appena il fattaccio aveva creato un qualche tipo di sconcerto, bastava andare alla mensa a prendere una birra, oppure bastava una scrollata di spalle per scacciare dalla mente la brutta sensazione.
A ogni sortita, generalmente su allarme, qualcuno non tornava. Molti cadevano verso terra con l’aereo in fiamme. E l’Hurricane aveva una spiccata tendenza a prendere fuoco in un attimo, per via della disposizione dei serbatoi, senza nessun sistema di auto sigillo.
Neil descrive un aereo colpito a quota più alta della sua, i pezzi volano via, uno di questi precipita giù e passa di poco al di sopra del suo cockpit. Una sagoma scura che sul momento non sa identificare, ma subito dopo scorge, in una frazione di secondo, gambe e braccia che si agitano nella caduta. Un uomo, il pilota.
Forse il paracadute non si era aperto.
La sua considerazione? Che brutta discesa, da 18.000 piedi (circa 7000 metri), per andarsi a sfracellare giù a terra…
Comunque il vedere colleghi di squadriglia cadere in fiamme o con il paracadute chiuso non turbava più di tanto e con il passare del tempo ci si faceva il callo sempre più.
In questo caso, però, si scopre nei giorni successivi, il paracadute, anche se non si era aperto del tutto, era uscito abbastanza da frenare la caduta e mantenere il pilota in posizione verticale. In questo modo l’uomo era andato a cadere nell’estuario del fiume Tamigi. L’impatto con l’acqua era stato violento, ma il pilota aveva riportato solo alcune ferite. Trasportato in ospedale, era poi guarito fino a tornare al reparto nei mesi successivi.
I raid aerei notturni, come ho detto, lasciavano molti abbastanza indifferenti, alla tipica maniera inglese.
“A noiser night… with a few bombs and guns going off from time to time… who would have thought a year before that we would be able to live quite serenely under an almost unending succession of nocturnal air raids? And hardly give them a thought”?
“Una notte più rumorosa… con poche bombe e cannoni che sparano di tanto in tanto… chi avrebbe mai pensato un anno prima che saremmo stati capaci di vivere abbastanza serenamente sotto una quasi continua successione di incursioni aeree notturne? E di dedicare loro solo un pensiero di sfuggita”?
Vero aplomb britannico…
Non tutti lo avevano, però.
In un altro punto Neil descrive un attacco aereo durante il decollo della squadriglia. Una bomba cade appena fuori dal loro alloggio devastando il prato con i cespugli di rose che lo circondavano.
Così scrive l’autore:
“Outside, everywhere was smoke, hovering dust and smell… Fifty paces away, a huge thick-lipped crater in the rosebush- encircled lawn in front of the mess. The Lawn, for God sake! That must have been the last bang. And an old man, a gardner, shocked into petrified silence, was shaking uncontrollably and standing as though transixed.
We collected the poor creature, who must have been seventy, and sat him on the steps of the hat, breathing words of sympaty and encouragement in his ear…. A cup of tea? Not even a nod. The eyes blankly vacant, the spirit crushed. An urgent nod toward my batman. Tea! Sweet tea. Quickly”!
“Fuori (dalla baracca), era tutto fumo, polvere sospesa e odore… Cinquanta passi lontano, uno spesso cratere orlato nel prato circondato da cespugli di rose di fronte alla mensa. Il prato, perdio! doveva essere stata l’ultima deflagrazione. E un uomo anziano, un giardiniere, shoccato e pietrificato in silenzio, tremava incontrollabilmente in piedi come se fosse in trance. Prendemmo su la povera creatura, che doveva avere circa settant’anni, e lo mettemmo a sedere sugli scalini della baracca, sussurrandogli parole di compassione e incoraggiamento all’orecchio… Una tazza di thè? Neanche un cenno del capo. Gli occhi persi nel vuoto, l’animo affranto. Un rapido assenso verso il mio attendente. Thé! Thè dolce. Veloce”!
Anche in questo racconto si percepisce la tipica mentalità inglese.
Fin qui ho solo voluto mettere in evidenza qualcosa che ho riscontrato quasi soltanto in questo libro. La cruda descrizione di eventi terrificanti che altri autori hanno cercato di evitare. In definitiva, le stesse reazioni possono esserci state in qualunque azione di guerra, in qualunque luogo del mondo. Ma la scelta del thè dolce… Forse altrove si sarebbe parlato più di caffè o di whisky…
Ok. Ma ora arriviamo ad una descrizione veramente tremenda. La riporto, non certo per scoraggiare l’interesse di un eventuale, remoto lettore di questo libro bensì per prepararlo a ciò che leggerà. Ce ne sono un’infinità, di queste descrizioni.
Nell’aeroporto arriva un raid aereo.
Una colonna di fumo grigio scuro si alza nel cielo.
“Qualcosa di terribile deve essere accaduto laggiù, perdio”!
Ci vuole fegato per leggere ciò che segue. Chiunque non se la senta, salti pure questa parte.
“A Hurricane, pointing west, sat outside our dispersal hut. On its belly and on fire. I hurried towards it to find Crossey and others standing beyond the circle of intense heat with their hands in there pockets. I peered through the smoke and flames… I turned to Crossey. Where was the pilot? A nod. Inside!
It was like a funeral pyre. As the flames took a hold, we watched a blackened and unrecognizable ball that was a human head sink lower and lower into the well of the cockpit until, mercifully, it disappeared. Then the fuel tanks gaped with Whoof of flame the ammunition began to explode, causing us all to step back a pace, and the fuselage and wings began to bend and crumble in glowing agony. Finally, there was only heat and crackling silence and ashes.
And all time we watched. And talked quietly”.
“Un Hurricane, puntando ad ovest, si fermò fuori dalla nostra baracca. Poggiato sulla pancia (con il carrello dentro) e in fiamme. Mi affrettai verso di esso e trovai Crossey (un altro pilota) e altri in piedi al di là del cerchio di intenso calore con le mani nelle loro tasche. Sbirciai attraverso il fumo e le fiamme…. Mi rivolsi a Crossey. Dov’era il pilota? Un cenno di assenso con il capo. Dentro!
Era come una pira funeraria. Appena le fiamme si placarono un po’, vedemmo una palla annerita e irriconoscibile che era stata una testa umana sprofondare sempre più in basso in fondo alla cabina di pilotaggio finché, misericordiosamente, scomparve. Poi i serbatoi del carburante si squarciarono con una ventata di fiamme e le munizioni cominciarono ad esplodere, facendoci arretrare di un passo, e la fusoliera e le ali cominciarono a piegarsi e a sbriciolarsi in una incandescente agonia.
Alla fine rimase solo calore e scoppiettante silenzio e cenere.
E noi guardavamo per tutto il tempo. E parlavamo tranquillamente”.
Alcune pagine dopo Neil scrive, riguardo a questo tragico spettacolo:
“I retired that night more than a little concerned that I treaded the cremation of 357’s chap so lightly. What on earth was coming over me? I had watched a collegue burnt to a cinder and had felt… well… almost nothing.”
“Rientrai quella notte un po’ preoccupato per aver seguito tutta la cremazione di quel ragazzo del 357esimo così alla leggera. Cosa mi stava accadendo? Avevo guardato un collega ridotto in cenere e mi ero sentito… be!.. quasi nulla”.
Per pagine e pagine, anzi, per interi capitoli, troviamo descrizioni di battaglie aeree, combattimenti contro altri caccia, aerei abbattuti, piloti che scompaiono, aerei in fiamme che scendono come meteore verso terra. E sempre l’autore accenna a quanto tutto questo gli fosse pressoché indifferente.
Muore un pilota. E’ uno che ha nella sua baracca un cane e un’oca. I poveri anomali restano soli. Dice Neil: “se soltanto sapessero. Ma forse lo sanno…”.
Poi capita a lui di essere abbattuto. Si lancia con il paracadute e si salva. Tutto il lancio viene raccontato nei minimi particolari ed è interessantissimo leggerlo. Specialmente per chi, come me, vola in aliante con un paracadute sulla schiena. Il solo fatto di averlo lascia intendere che potrebbe essere necessario usarlo e questo provoca una sottile preoccupazione a molti piloti.
Nella descrizione che Neil fa dell’episodio c’è un elemento di spicco: la straordinaria determinazione nel non perdere la maniglia che provoca l’apertura del paracadute. La vuole assolutamente tenere per ricordo.
La Storia della Seconda Guerra Mondiale ci ha insegnato che l’Italia, purtroppo, era alleata della Germania. Mussolini mandò un certo numero di aerei a “dare man forte” alla Luftwaffe nelle missioni sull’Inghilterra. Erano CR42 Falco, biplani di antica concezione, assolutamente inadeguati a ogni profilo di volo. Tranne, forse, al combattimento manovrato.
Anche i piloti erano scarsamente equipaggiati. Le cabine aperte non si prestavano certo al volo ad alta quota, per via del freddo e della mancanza di impianti di ossigeno. I tedeschi, loro malgrado, accettarono l’aiuto italiano, ma dovettero fornire l’equipaggiamento mancante agli italiani.
Alcuni CR42 furono abbattuti o dovettero rientrare.
Uno di quei CR42 si trova ad Hendon, un museo della RAF vicinissimo a Londra. Il caccia è in ottime condizioni e fino a poco tempo fa era l’unico esistente al mondo. L’ho visto e fotografato durante una visita a quel museo. Non sapevo che ci fosse e rimasi molto sorpreso.
Bene. Nel libro si parla degli italiani che presero parte a queste azioni di guerra. Neil ha combattuto contro i nostri aerei.
E descrive i nostri piloti con parole di elogio, per l’eroismo e l’abilità nel combattimento.
Mi ha fatto una certa impressione leggere questa storia, vista dall’altra parte della barricata…
Molte pagine sono dedicate alle fotografie dell’epoca. Sono in bianco e nero, ovviamente. E troppo piccole, per essere viste bene, ma sono molte e ritraggono i momenti salienti della vita di reparto. Oltre alle foto dei piloti e degli aerei ci sono anche foto delle pagine del libretto di volo dell’autore.
E qui, le ridotte dimensioni sono un vero peccato. Si riesce a malapena a leggerle.
La parte finale del libro è dedicata a una sorta di curriculum vitae di molti dei piloti che combatterono durante la Battaglia d’Inghilterra.
Sono descrizioni succinte, riportano solo i fatti salienti della vita di ognuno di loro. La maggior parte sono scomparsi e appare sconcertante quanto sia semplice, in definitiva, l’andamento di una vita umana, specialmente quando di essa possiamo vedere sia l’inizio che la fine.
E questi piloti erano tutti giovanissimi.
Alcuni erano poco più che ventenni. La loro vita è stata davvero troppo breve.
A loro dobbiamo molto. Forse la nostra stessa libertà.
Per concludere, questo libro è davvero impressionante. Una volta letto, si conosce molto più a fondo quella parte di storia della guerra aerea del periodo iniziale della Seconda Guerra Mondiale.
Si finisce per conoscere più a fondo quello che doveva essere il combattimento di un caccia contro un altro caccia o contro le mitragliatrici dei bombardieri. Neil parla di come preferisse attaccare da certe posizioni dove sapeva che i mitraglieri avevano un angolo cieco e non potevano colpirlo. Ma poi, nel disimpegno, finiva per essere un bersaglio ugualmente.
Durante tutta la lettura sono rimasto molto impressionato dalla crudezza dei fatti narrati. E, come ho detto, dall’atteggiamento indifferente che accompagnava ogni tragedia.
Nothing really matters ... sempre la stessa frase mi risuonava nella mente. Sono le parole di una canzone.
C’è una canzone dei Queen, gruppo inglese, guarda caso, intitolata “Bohemian Rhapsody”. Nel testo di questa canzone, a mio avviso, c’è lo stesso spirito di estrema indifferenza verso un povero uomo condannato a morte, sia quello della storia, sia il cantante stesso, Freddy Mercury, ammalato di AIDS e che sa che dovrà morire. E dall’inizio si rivolge alla madre dicendole che “non significa che devi piangere se domani non sarò tornato a casa. Carry on carry on. Vai avanti, vai avanti. As if nothing really matters. Come se nulla conti davvero.
E il personaggio della rapsodia, allo stesso modo, indifferente alla propria sorte, ripete sempre lo stesso concetto. Che non gliene importa nulla.
Infatti la canzone si conclude con la sua lamentosa, ennesima dichiarazione:
“Nothing really matters. Anyone can see… Nothing really matters…
To me”….
“Non importa davvero niente. Ognuno lo può vedere… Non importa davvero niente… a me”…
Recensione a cura di Evandro Aldo Detti (Brutus Flyer),
Didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR
Prefazione a cura di:“Johnnie” Johnson (Air Vice Marshall)
Seconda prefazione a cura di:Johnny Iremonger (Group captain OC 486 – New Zeland – Squadron nel 1944)
Qui in Italia siamo abituati a pensare alla Seconda Guerra Mondiale come ad un conflitto fra Germania e Gran Bretagna. Si sa che erano coinvolte altre nazioni, come la Russia e il Giappone. E, ovviamente il resto dell’Europa. Solo in un secondo tempo vennero coinvolti gli Stati Uniti d’America.
Nelle scuole non si tratta questo argomento con sufficiente cura, come purtroppo accade anche per altri argomenti. Infatti, basterebbe fare quattro domande ad un certo numero di persone e avremmo conferma di quanto poco si sappia di Storia in questo Paese.
Peccato.
Anche quando si parli in maniera approfondita della Seconda Guerra Mondiale, difficilmente si arriverebbe a prendere in considerazione il coinvolgimento di nazioni come la Cecoslovacchia, la Romania, ecc.
Figuriamoci se emergono nomi come Australia e Nuova Zelanda.
Ma il conflitto era mondiale. Tutti erano coinvolti, anche se c’erano paesi neutrali, come la Spagna e la Svizzera.
Quando ho cominciato a leggere “Tempest pilot” conoscevo già le vicende che riguardavano Johnnie Johnson, quello che ha scritto la prima prefazione di questo libro.
Nel proseguire la lettura mi sono però trovato parecchio spiazzato da qualcosa di nuovo, mai incontrato prima. Intanto ho capito che qui si parlava di un gruppo di piloti che erano basati in Inghilterra, ma non erano né britannici né statunitensi. Erano Neozelandesi.
Inoltre, sin dalle prime pagine avevo avuto una notevole difficoltà a leggere il testo, scritto in inglese, ma con frasi talmente inusuali, a volte così ermetiche, da farmi persino dubitare che fosse inglese davvero.
Il libro comincia, come quasi tutti gli altri libri scritti da piloti, dalla prima esperienza di volo. E comunque dall’infanzia. E questo non fa eccezione. Solo che qui l’autore, dopo aver detto di essere cresciuto in una fattoria, in una famiglia di sei figli e amorevoli genitori, precisa subito che il luogo si trovava in una remota area della Nuova Zelanda …
“L’avversario più pericoloso del Messerschmitt Me 262 era il British Hawker Tempest: estremamente veloce a basse altitudini, altamente manovrabile e armato fino ai denti.”
(Hubert Lange, pilota Me262)
Ah, ecco! Questo particolare spiegherà, più avanti, il motivo per cui l’inglese del testo appare tanto arcano e insolito. Avevo già sperimentato una stranezza del genere in Canada, dove il francese parlato da quelle parti era altrettanto arcano e insolito. Infatti, spesso preferivo usare l’inglese.
Non che non ci si capisse, ma … venivo dagli Stati Uniti e dopo poche frasi in francese, con la mia evidente pronuncia italiana e il loro idioma antico, mi usciva automaticamente qualche frase in inglese.
Così si continuava in inglese. Per loro era lo stesso.
L’autore, Sheddan, parla subito della scuola di volo in Nuova Zelanda. L’aereo era un Tiger Moth.
Dopo la scuola basica in Nuova Zelanda, Sheddan andò in Canada a continuare la scuola e qui l’aereo utilizzato era il “T6 Texan, un aereo che ha dato le ali a generazioni di piloti.
Dopo un addestramento adeguato sul T6 si poteva passare abbastanza agevolmente ad altri aerei più performanti, come gli Hurricane, gli Spitfire e perfino i Typhoon e, appunto, i Tempest, che erano un’ evoluzione del Typhoon.
Forse pochi sanno che il Canada ha sempre avuto eccellenti scuole di volo, dalle quali uscivano piloti talmente ben addestrati, specialmente nel volo strumentale, da essere nettamente al di sopra della media degli altri piloti.
In Canada, ad esempio, l’addestramento al volo cieco veniva eseguito dall’allievo dal sedile posteriore, chiuso da una tendina in modo che non potesse vedere fuori, mentre l’istruttore stava davanti e vedeva tutto. In questo modo si svolgeva tutto il programma di volo, acrobazia compresa.
E anche la vite.
L‘istruttore metteva in vite l’aereo e l’allievo, solo con gli strumenti del cruscotto, doveva uscirne.
I piloti addestrati in Canada si trovavano molto avvantaggiati in un clima come quello inglese, o nord-europeo in genere, nella foschia densa, dentro le nuvole e nella pioggia, condizioni tipiche e quasi una costante in Gran Bretagna, specialmente in inverno.
Di questi esempi ce ne sono moltissimi in tutto il libro.
Già dal secondo capitolo, intitolato “England“, troviamo ampie descrizioni di queste giornate uggiose.
Nei primi capitoli ho riscontrato un’altra stranezza. Avevo la netta impressione di avere già letto esattamente gli stessi avvenimenti. Una cosa del genere capita quando si leggono tanti libri scritti da piloti diversi ma che raccontano la stessa guerra aerea.
Poi mi sono accorto che c’era un libro in particolare dove erano state raccolte parti di altri libri, compreso questo. Si tratta di; “Raise against Eagles“, che ho letto solo a metà e devo ancora finirlo.
Ma le vicende di quegli anni, sempre le stesse per tutti coloro che le hanno vissute e raccontate, sono quelle che ho letto anche nel libro di Pierre Clostermann, di Johnnie Johnson, di Chuck Yeager e di Anderson.
Davvero ho la netta impressione di averle vissute io stesso, quelle vicende.
Il contenuto dei capitoli fa sentire il lettore come se fosse davvero lì.
E a questo proposito vorrei riportare un’altra caratteristica particolare di questo libro, anche se un po’ difficile da presentare in maniera adeguata, senza il rischio di urtare la sensibilità di chi leggerà questa recensione.
Un Hawker Tempest Mk V del 501mo Squadron nella piazzola decentrata dell’aeroporto della RAF a Bradwell Bay, in Essex. Splendida foto a colori scattata nell’ottobre 1944. A titolo di informazione tecnico/storica riportiamo i dati relativi alla versione Mark V del Tempest. Velocità max: 702 km/h alla quota di circa 5’600 m; velocità di salita: 24 m/sec, tangenza massima: 11’100 m; armamento: 4 cannoncini Mark II Hispano calibro 20 mm (con 150 colpi per arma), 2 bombe da 230 kg o una da 450 kg, 8 razzi RP-3 da 76 mm). – Foto proveniente da www.flick.com
La natura neozelandese dell’autore non ha remore nel descrivere scene scabrose tipiche del periodo e forse anche dei luoghi e forse di ogni teatro di guerra, anche se, secondo me, in tempo di pace succede la stessa cosa. Nessuno prende l’iniziativa di riportare certe faccende su un libro. Si preferisce ometterle, oppure semplicemente accennarle, lasciarle vagamente sottintese.
Lui no. Lui le descrive con tutti i particolari del caso, anche se l’inglese neozelandese è più difficile da capire e le frasi idiomatiche che usa costringono ad uno sforzo ulteriore.
Alla fine, però, è tutto chiaro.
Si tratta delle ubriacature sistematiche di ogni giornata nella quale non si è di servizio, o delle feste, ovunque queste avessero luogo, anche a casa di ospiti illustri, delle conseguenze successive e degli incidenti di automobile nella fase di rientro alla base e così via.
Questa è una di quelle fotografie che, inevitabilmente, vengono consegnate alle pagine di storia della II Guerra Mondiale. Si tratta dell famoso stormo neozelandese al completo, il 486mo Squadron RNZAF (o Royal New Zealand Air Force) di cui fu membro l’autore del libro e, dal maggio all’ottobre 1945, addirittura comandante. In particolare, egli fu l’ultimo dei suoi comandanti: lo Squadron fu infatti sciolto il 12 ottobre 1945 presso l’aeroporto di Dunsford, in Inghilterra; era stato ufficialmente formato il 7 marzo 1942 presso l’aeroporto di Kirton in Linsday, nel Lincolnshir. In questo arco di tempo, il 486mo Stormo volò effettuando oltre 11.000 sortite, rivendicando l’abbattimento di 81 aerei nemici, (e tra questi due dei famossisimi jet Messerschmitt 262) nonchè la ragguardevole mole di 2231 esemplari di V-1 “bombe volanti”, oltre a 323 veicoli a motore, 14 motori ferroviari e ben16 navi. Niente male per dei neozelandesi! Lo scatto è stato fornito da Ian Calderwood che annota come, per qualche motivo, il padre fosse da qualche altra parte dell’aeroporto quando tutto lo stormo si mise in posa. Per chi volesse saperne di più a proposito, esiste anche una pagina Facebook dedicata al 486 Squadron RNZAF . – Foto proveniente da www.flick.com
Chi è ubriaco deve spesso espletare altre funzioni fisiologiche e allora viene descritto il modo in cui queste venivano espletate, nelle scarpe, oppure dalla finestra, anche quando sotto di essa si trova qualcuno steso a smaltire la propria sbornia.
Ma questo non è ancora il peggio.
Perché viene descritto, in maniera altrettanto cruda ed esplicita, anche come si muore.
Ci sono moltissime descrizioni di mitragliamenti di obiettivi al suolo. Un Typhoon scende a mitragliare un treno, gli sparano, cade in pochi istanti, esplode e fine della storia.
Tizio non rientra dalla missione. Punto.
Questo splendido scatto ritrae un Hawker Tempest MkV che divenne famoso in quanto, con ai comandi quattro diversi piloti, ebbe la meglio su tre Bf109 e un Fw 190. Il velivolo britannico apparteneva al 80mo squdron di stanza a Volkel. L’aspetto peculiare che rese il Tempest uno degli aeroplani con motori alternativo tra i più veloci dei belligeranti della II Guerra Mondiale fu l’adozione di una geniale ala con profilo a flusso laminare, sebbene a pianta ellittica, tanto cara ai britannici. Era tecnicamente lo stesso profilo laminare che lo studio di progettazione della North American Aviation adottò per il proprio velivolo da caccia: il famosissimo P-51 Mustang. E sappiamo con quali risultati. Ricordiamo infine che il Tempest Mark V, equipaggiato di un motore tipo Napier Sabre IIB (con 24 cilindri disposti a “H” ed eroganti quasi 2200 cv), toccava la ragguardevole velocità di 700 km/h. Oggi lo chiameremmo “intercettore”., – Foto proveniente da www.flick.com
Tutti hanno sentito parlare del famoso caccia inglese Spitfire. Anche l’Hurricane è conosciuto, come l’americano P 51, il tedesco Messerschmitt o il FW 109.
Pochi conoscono il Typhoon e il Tempest.
Ho scoperto in questo libro che il Typhoon, caratterizzato da un’ala spessa e da una grande presa d’aria sotto il muso, era molto pericoloso in caso di ammaraggio. Nessuno si era mai salvato da un evento simile.
Sheddan fu costretto ad ammarare e fu il primo a salvarsi, sebbene a costo di ferite al corpo e al viso. Poi rimase tante ore in mare, prima di essere salvato.
Il Tempest aveva l’ala diversa, molto più sottile. Per ragioni dinamiche il Tempest ammarava molto meglio.
Nonostante Pierre Clostermann, nel suo libro “La grande giostra“, parli abbondantemente delle differenza fra i due aerei, sui quali anche lui aveva fatto la guerra, tante caratteristiche non erano emerse.
Sheddan ne rivela molte altre e questo è davvero interessante per un appassionato di cose aeronautiche in generale e di guerra aerea in particolare.
Ma non fu l’unico incidente. Ce ne sono diversi, narrati nel libro.
Uno in particolare, molto grave, avvenuto in Danimarca quando la guerra era già finita, era stato descritto anche da Pierre Clostermann, proprio a conclusione del suo libro.
Sheddan descrive questo incidente, poi aggiunge ben poco. La guerra è finita e tutti tornano ai loro paesi di origine.
Voglio aggiungere un altro episodio, che mi ha lasciato interdetto, ma che forse non è neppure tanto inusuale come potrebbe sembrare.
Di Cornelius James Sheddan (soprannominato “Jimmy”), autore del libro dedicato ai piloti di Hawker Tempest, disponiamo diverse fotografie che lo ritraggono in varie situazioni e pose ma solo queste due fotografie in bianco e nero lo vedono in primo piano. La prima, chiaramente scattata in un set fotografico (come spesso facevano i militari durante la guerra) e la seconda più estemporanea, probabilmente scattata all’aperto con lo sfondo di uno dei suoi Tempest. La biografia dell’autore, nato nel marzo 1918, riporta che egli tornò in Nuova Zelanda alla fine della guerra ove trascorse il resto della sua esistenza … fino al dicembre 2010 quando, novantaduenne, ci ha lasciato per sempre … Nel giugno 1945 gli fu attribuita la Distinguished Flying Cross (DFC per brevità) per aver abbattuto 4 velivoli nemici assieme a 3 condivisi con altri piloti e 8 bombe volanti V1. In basso la motivazione con cui gli fu attribuito il prestigioso riconoscimento . – Foto provenienti da www.flick.com
Questo ufficiale ha dimostrato la massima qualità nell’esecuzione del suo dovere. Ha partecipato a un numero molto elevato di missioni di un’ampia varietà di tipi durante le quali ha causato danni significativi a obiettivi come locomotive, chiatte, veicoli o infrastrutture industriali.
Durante un volo sopra la Francia, l’ufficiale di volo Sheddan fu costretto ad atterrare in mare con il suo aereo danneggiato. Ha quindi dovuto aspettare 19 ore nel suo gommone prima di essere salvato. Al suo ritorno in operazione, Sheddan ha dimostrato rapidamente che questa esperienza non aveva in alcun modo influenzato la sua determinazione a combattere e rimane un esempio di coraggio e spirito combattivo. Tra i suoi successi c’è la distruzione di tre aerei nemici in combattimento aereo.
Tornato in Nuova Zelanda, un gruppo di piloti vengono a sapere che uno di loro ha un ristorante in un certo luogo e pensano di andare a fargli visita.
Dopo tutte le vicende vissute insieme in guerra è lecito credere che sarà una rimpatriata, con successiva grande festa eccetera.
La forza armata indiana e quella pakistana furono le ultime a utilizzarli fino al 1953 sebbene dall’intuizione progettuale che era stata la base del Tempest, l’ing Sydney Camm prese ampiamente spunto per disegnare un altro velivolo davvero notevole: il Sea Fury, l’ultimo aereo da combattimento con motore a pistoni impiegato dalla Fleet Air Arm e, probabilmente, il più veloce aereo con motore a pistoni mai prodotto in serie. Il Tempest rimane tuttavia il velivolo più “maschio” della famiglia Camm. I velivoli al parcheggio appartengono proprio al 486mo Stormo della Royal New Zealand Air Force di “Jimmy” Sheddan. Sono faclmente riconoscibili dalla sigla “SA” applicate sulla fiancata della fusoliera. – Foto proveniente da www.flick.com
Ma quando si presentano al loro amico, dopo il primo approccio, lui si distacca dalla compagnia e si allontana, preso dalle proprie faccende. Come se avesse dimenticato il passato e contasse solo il presente e i propri affari.
Come ho detto, questo è un libro diverso.
La lingua è l’inglese, ma diverso.
Le vicende di guerra sono le stesse, ma riportate in maniera diversa.
Diversi Hawker Tempest sono sopravvissuti alla II Guerra Mondiale e, come questo esemplare conservato a Caen, all’interno del War Memorial, fanno bella mostra di sè a beneficio delle giovani generazioni. Si tratta di un Mark V equipaggiato con il classico amamento da attacco al suolo e, ancora oggi, incute un certo timore. Figuriamoci all’epoca vederselo passare sopra la testa o incrociandolo in volo col rischio di un “dogfight”. – Foto proveniente da www.flick.com
Gli aerei sono gli stessi, ma presentati in una diversa maniera, molto più completa.
Le persone sono le stesse, ma anche di queste si scopre molto di più.
Anche il teatro di guerra è lo stesso. Noi lo conosciamo bene, non solo per aver letto le descrizioni di piloti europei o americani. Lo conosciamo perché è il nostro ambiente. Noi ci viviamo.
Tuttavia, il nostro ambiente europeo, visto dagli occhi di un neozelandese, in parecchie descrizioni del libro, appare diverso.
Recensione a cura di Evandro A. Detti (Brutus Flyer)
Didascalie a cura della redazione di VOCI DI HANGAR
titolo: To fly and fight. Memoirs of a triple ace Colonel C.E. “Bud” Anderson. – [Volare e combattere. ricordi di un triplo asso”]
autore: Clarence “Bud” Anderson con Joseph P. Hamelin
prefazione di: Jack Roush,
Lt General Gunter Rall,
Brig. Gen. Chuck Yeager
editore: Updated Edition
anno di pubblicazione: 1990 (prima edizione)
edizione ebook: agosto 2017
eISBN: 978.1.5245-6342-4
Ci sono personaggi dei quali veniamo a conoscenza attraverso storie che riguardano altri personaggi. Così finiamo per conoscere, indirettamente e quasi per caso, molti aspetti della loro esistenza. Sappiamo moltissimo di loro, eppure restano lì, in secondo piano, nell’ombra. Li vediamo con la vista periferica, sappiamo che ci sono, ma senza farci caso.
Poi capita che, all’improvviso, balzino al centro della nostra attenzione. Di colpo ci rendiamo conto del loro valore, della loro importanza. E capiamo, con nostra grandissima meraviglia, che fino a quel punto, avevamo ignorato qualcuno di grandissimo interesse.
Bud Anderson è uno di questi.
Una foto d’epoca che ritrae l’autore giovanissimo mentre svolgeva servizio in Europa tra le fila del 357mo Fighter Group, durante la II Guerra Mondiale. Da notare che gli fanno da sfondo le enormi pale dell’elica del suo P-51 Mustang soprannominato “Old Crow”.
L’immagine a colori e i lineamenti di una persona piuttosto avanti con gli anni tradiscono uno scatto ben più recente ma vi assicuriamo che il soggetto è il medesimo rispetto a quello di cui sopra: si tratta ovviamente del colonnello Clarence Emil “Bud” Anderson.
Basta dare un’occhiata alla sua biografia per venire a conoscenza della marea di onorificenze, medaglie, riconoscimenti ed elogi che lo riguardano. Non è certamente un personaggio di secondo piano. E’ un eroe che ha combattuto, non uno (come era normale), ma due periodi di combattimento aereo in Europa durante il secondo conflitto mondiale. Per il secondo si era offerto volontario. Ha abbattuto 16 aerei tedeschi, e poiché si diventa assi dopo cinque vittorie, lui è asso tre volte. E’ stato pilota sperimentale presso la base aerea di Edwards. E ha continuato a volare fino a qualche anno fa, oltre la soglia dei novanta anni.
Chi vuole conoscerlo non ha che da andare su YouTube e digitare il suo nome. E subito si rende conto del perché, nonostante tutto, si sappia così poco di lui.
E’ un personaggio schivo, modesto. Uno che tende a sfuggire ai riflettori. Uno che si allontana subito, appena la luce diventa troppo vivida.
Basta guardare un video, una sua intervista o una sua conferenza, per notare, con profonda sorpresa, quanta semplicità trasmette il suo modo di essere. Siamo investiti da una sorta di grazia, di umiltà, quasi di pudore, di delicatezza.
Racconta fatti di guerra, che dovrebbero esprimere violenza, odio, aggressività, senso di superiorità di chi ha vinto tante volte.
Invece no. Niente di tutto questo.
Guardate i suoi occhi, il suo sguardo.
Esprimono pacatezza, tranquillità e amore.
Si, addirittura amore. Amore per la vita, per il volo, per l’umanità, per il mondo.
Ma, attenzione. Guardate bene. Esprimono anche qualcos’altro.
A volte, da sotto quelle palpebre, semichiuse per riparare gli occhi dalla troppa luce, escono rapidissimi lampi. Come se l’età, sebbene tanto avanzata, non riuscisse ancora a trattenerli.
Sono lampi formidabili di vita, di determinazione, di potenza.
Si vede che quegli occhi hanno visto tanto, anche quello che noi, nati molto tempo dopo, non possiamo neanche immaginare. Ed emettono, a tratti, bagliori di sconfinata esperienza.
Io vedo anche un altro elemento in quegli occhi: la bontà.
Ancora un giovanissimo Bud Anderson seduto tra la radice alare e la fusoliera del suo velivolo “Old Crow” che tradotto in italiano vuole dire: “Vecchio corvo”. Ebbene quel corvo di alluminio solca ancora i cieli statunitensi in quanto è stato completametne restaurato ed è pertanto il capofila di un vero e proprio stormo composto da numerosissimi esemplari di P-51 Mustang originali tenuti in perfette condizioni di volo grazie alle amorevoli cure prestate loro dai rispettivi proprietari.
Perché, nonostante il nostro personaggio abbia fatto la guerra, non solo in Europa, ma anche in Vietnam e abbia, indubbiamente, ucciso tante persone, è una persona buona.
Un paradosso.
Invece no. Non è un paradosso. La natura umana è questa. Puoi fare la guerra e uccidere ed essere buono allo stesso tempo.
Nel suo modo di parlare, di comunicare, credo di scorgere ancora un altro elemento: la rassegnazione di non poter realmente comunicare con il suo pubblico. E’ consapevole che la gente lo ascolta, certo, ma non può capire proprio tutto. La maggior parte di ciò che ha dentro non si può trasferire a nessuno attraverso le parole.
Ciò che ha visto, che ha provato, fa parte di un mondo che non esiste più, che è sprofondato nel passato. Un mondo che, a dispetto di tutte le interviste e conferenze, resta inesorabilmente dentro di lui.
Clarence Emil “Bud” Anderson, nato il 13 gennaio 1922, mentre sto scrivendo questa recensione al suo libro “To fly and fight”, ha 98 anni.
Questo libro, scritto nel 1990, è stato rivisitato negli anni. L’ultima revisione, del 2017, contiene, nella parte finale, notizie sulla sua vita di oggi.
Oggi Bud non vola più. Sua moglie Ellie è morta anni fa, i figli sono grandi, anzi anziani, se non vecchi, anche loro. Lui continua a vivere nella stessa casa in Auburn, California.
Ellie è sepolta nel Cimitero Nazionale di Arlington. Bud scrive, in fondo al suo libro:
“I will join her there when the time comes. She truly was the best thing that ever happened to me”. – [“La raggiungerò quando sarà il momento. Lei è stata davvero la cosa più bella che mi sia successa”.]
Clarence Emil “Bud” Anderson nacque ufficialmente il 13 gennaio 1922 a Oakland in California, Stati Uniti d’America, e prestò sevizio dal 1942 al 1972 dapprima nella Army Air Force (l’Aviazione dell’Esercito) e poi nella nuova Air Force. Ci teniamo a puntualizzare questi dati apparentemente solo statistici affinchè si comprenda che abbiamo a che fare con una persona “normale”, terrestre, del tutto simile a noi e non già ad un alieno proveniente dallo spazio profondo.
Questo libro fantastico, che comincia con ben quattro prefazioni è uno di quelli dai quali non si riescono a staccare dagli occhi, che non ci si decide mai a chiuderli e appoggiarli sul comodino e finalmente, a tarda notte, dormire.
E’ un libro particolare, che contiene racconti particolari, narrati in modo particolare. A cominciare dai titoli dei capitoli.
La maggior parte dei capitoli, quasi tutti, sono scritti tra virgolette, perché non sono altro che frasi contenute nel capitolo stesso. Frasi chiave, emblematiche. Ma che non rappresentano affatto l’essenza dell’argomento. Semmai appena un passaggio in una narrazione, un pensiero, una considerazione formulata nella più profonda intimità della mente.
Qualche esempio.
Tredicesimo capitolo:
“Hey, man, you be careful with that son of a bitch”! – [“Hey, tu, stai attento a quel figlio di puttana”!]
Quinto capitolo:
“Oh, yeah, I remember you. You are the crazy one”. – [“Oh, si, mi ricordo di te. Sei quello matto.”]
Diciassettesimo capitolo:
“They were talking about impact zones instead of landing areas”. – [“Parlavano di zone di impatto invece di aree di atterraggio”.]
Questi capitoli sono alternati ad interviste a personaggi vari. Molto interessante.
Come ogni buon libro autobiografico che si rispetti, anche questo comincia dall’infanzia.
Per Bud la passione per il volo è arrivata quando aveva circa quattro anni e ha visto passare un piccolo aereo sopra il tetto della sua casa. Esattamente come è stato per me, molti anni dopo di lui. Questo elemento in comune già mi onora.
Poi arriva la tipica esperienza dell’osservazione di aerei da fuori dell’aeroporto della città, in comune con un’infinità di altri personaggi. A conferma che la passione per il volo si contrae negli aeroporti e non si guarisce più.
La narrazione si snocciola attraverso le esperienze successive, il lavoro agricolo nei frutteti della famiglia, la conquista dei mezzi agricoli, trattori, rimorchi, automobili e motociclette. Il tutto accompagnato dalla voglia, sempre crescente, di imparare a volare e poi volare per professione per tutta la vita.
La scuola di volo arriva subito. E la guerra pure.
Presto Bud si trova coinvolto nelle operazioni preparatorie per l’entrata in guerra degli Stati Uniti. Diventa pilota militare. Per qualche anno vola in patria.
Insieme a lui, anche se non proprio negli stessi reparti, c’è anche Chuck Yeager, che diventerà famoso per aver attraversato per primo il “muro del suono”.
Sullo sfondo di un hangar semicircolare (un Romney?) o di una baracca-alloggi (tipo Nissen?) un anonimo fotografo immortalò tre commilitoni. Piloti statunitensi che, come tanti, si trovavano in Europa, lontano dalle loro case per combattere la II Guerra Mondiale. Quel fotografo non poteva certo immaginare di aver ritratto due grandi amici che divennero, ciascuno a suo modo, dei veri e propri miti delle generazioni future, dei pilastri della storia dell’aviazione. Chi sono? Ebbene al centro possiamo riconoscere il “nostro” Bud Anderson mentre a destra Chuck Yeager. Occorre aggiungere altro?
Yeager non è un ufficiale. Lo diventerà dopo. Ma per il momento è quello che da noi sarebbe un sottufficiale pilota. Magari un aviere scelto che mira a diventare, col tempo, sergente.
Bud, invece, è un ufficiale. Anzi, viene selezionato, insieme ad un certo numero di altri piloti, perfino come caposquadriglia e addestrato allo scopo sin dall’inizio. Come dire che comincia già da leader. Per tutto il resto della sua carriera non sarà mai gregario.
Le vite e le vicende di questi due personaggi, che non sono amici, ma lo diventeranno solamente ad un soffio dalla fine della guerra, cominciano ad intrecciarsi da questo momento in poi e dopo marceranno sempre parallele. Si scopriranno amici tardi, ma lo rimarranno per sempre.
Al momento in cui scrivo lo sono ancora.
Ogni anno a Duxford, in Inghilterra, ci sono due grandi raduni di aerei della Seconda Guerra Mondiale. Uno si svolge a Luglio e uno a Settembre. Durante queste manifestazioni è possibile vedere tanti aerei di allora, bombardieri, caccia, aerei da collegamento etc.
E’ possibile sentire il vero suono emesso da quei motori potentissimi. Un suono che ormai non si sente quasi più, se non, appunto, in queste occasioni, oppure nei video.
Nella manifestazione sono compresi alcuni numeri che mostrano al pubblico come venivano impiegati questi aerei. Ci sono spettacoli di finta caccia, combattimenti aerei, scorta ai bombardieri, attacchi al suolo etc. Tutto molto spettacolare e rappresentativo di come poteva apparire un tempo il mondo aeronautico. Un mondo scomparso. Oggi è tutto diverso.
Il North American P-51 Mustang è “quasi” universalmente riconosciuto come uno dei migliori caccia messi in aria dai belligeranti durante il corso della II Guerra Mondiale. La sua velocità orizzontale (strepitosa: 700 km/h), la velocità di salita ottima (con il propulsore Rolls-Royce Merlin/Packard), la quota di tangenza eccellente (che gli consentì di volare agevolmente ad alta quota assieme ai B-17 Flying Fortress), l’autonomia fuori dal comune (che gli permetteva la scorta ininterrotta dei bombardieri a partire dal loro decollo al loro atterraggio), l’armamento assai efficace (sei mitragliatrici da 12,7 mm di calibro), l’esubero di potenza del motore (con ben 1700 cv del motore Rolls-Royce Merlin/Packard) e, non ultimo, la maneggevolezza molto apprezzata dai piloti (nonostante la mole non certo ridotta), lo resero una macchina da guerra notevolissima, il caccia ad elica allo stato dell’arte costretto a lasciare i cieli solo ai jets. In effetti – occorre precisarlo per dovere storico e di analisi – non è mai esistito, nè esiste, tantomeno mai esisterà il “caccia perfetto”; semmai nella storia dell’aviazione possiamo individuare il progetto più indovinato che meglio risponde all’infinità di requesiti cui il caccia ideale dovrebbe rispondere al meglio. Il P-51 si avvicinava molto a questa icona del caccia perfetto. Era “quasi” perfetto. Insistiamo su questo aspetto perchè, nonostante i piloti di tutte le epoche (fino agli anni ’70) e di tutte le forze aeree (di 55 diversi paesi) ne abbiano detto sempre un gran bene, il Mustang fu letteralmente scartato dalla Voenno-Vozdushnye Sily – VVS (l’Aeronautica Militare Russa) che, durante il II Conflitto Mondiale, lo ritenne inferiore ai caccia russi o tedeschi coevi. Andò più o meno così: appena dopo la loro entrata in guerra, gli Stati Uniti d’America offrirono ai loro cobelligeranti sovietici un pacchetto di armamenti tra i più svariati in virtù di quella che venne chiamata “Lend-Lease”, (tradotta: la “Legge affiti e prestiti”). Ebbene tra i velivoli proposti ai russi, oltre al Douglas C-47 Dakota o al Bell P-39 Aircobra, c’era appunto anche il P-51 Mustang. Restituito al mittente! Un affronto imbarazzante per un velivolo costruito solo in 15’586 esemplari. Solo.
Bud e Chuck, giovanissimi, raggiunsero insieme l’Inghilterra e subito presero a volare su uno di quei caccia. Erano voli in formazione con altri caccia oppure insieme ai bombardieri. Entrarono a far parte di quel mondo che gli show aeronautici cercano di far rivivere.
Ma, come ho detto, oggi è solo una rappresentazione.
Allora era la vita reale.
Il libro parla diffusamente di questa vita reale, dove si volava per difendere i bombardieri dai caccia nemici mentre andavano da Leiston, una cittadina poco lontana da Londra, a colpire obiettivi all’interno della Germania o dell’Europa invasa dai tedeschi.
Parla di combattimenti aerei, di abbattimenti, di rischi immensi. Parla di aerei partiti e di aerei tornati.
Ma soprattutto di quelli che non tornavano.
L’aspettativa di vita era misera. Ogni giorno poteva essere l’ultimo. Si diceva che i più non sarebbero arrivati a superare le prime cinque missioni, perché si cominciava senza esperienza. Già dopo un paio di missioni l’esperienza aumentava e aiutava a superare la terza e così via. Si diceva: “do five, stay alive“. Cioè, “supera la quinta, resti vivo“.
Dopo cinque missioni si considerava di aver accumulato abbastanza esperienza per evitare i rischi inutili e cavarsela nei combattimenti manovrati, detti “dogfightings“.
Per buona parte il libro parla di questo periodo, della guerra, delle tecniche di combattimento, dei tipici errori fatali dei quali approfittare quando a farli è il nemico e da non fare per nessuna ragione, pena la vita.
Ma parla anche dell’aereo sul quale volavano, il P51, il fantastico caccia americano capace di un’autonomia di volo eccezionale. Con un serbatoio supplementare sganciabile in volo era in grado di accompagnare i bombardieri sull’obiettivo e di riportarli alla base, affrontando anche i combattimenti con i velivoli avversari. Nessun altro caccia, né inglese né americano, poteva fare altrettanto.
Senza nulla togliere a un’infinità di bei velivoli usciti dai tavoli di disegno di tanti ingegneri aeronautici geniali nonchè amanti delle forme armoniose, occorre ammettere che, nella storia delle costruzioni aeronautiche, si annoverano ben poche macchine volanti che si prestano felicemente allo scatto artistico del fotografo. Ebbene il North American P-51 Mustang è una di quelle. E’ semplicemente fotogenico. Perchè è elegante nella sua possenza, E questo scatto lo testimonia.
Ci sono un’infinità di racconti. E’ da questi che non si riesce a staccarsi. Sono talmente vividi, precisi, accurati che sembra di essere lì. Si parla di fatti, ma anche di persone, di usi e costumi, di mentalità del periodo.
Si parla anche di Chuck Yeager.
Sebbene operasse in altre squadriglie, Chuck era nello stesso Gruppo, il 357°. Le gesta di Yeager cominciavano a fare di lui un personaggio piuttosto famoso.
E si parla anche di quelli che non tornano, che esplodono in volo, che si devono paracadutare in territorio nemico. Di quelli che si considerano salvi e non torneranno mai più e di coloro che, invece, vengono ritenuti morti, ma che dopo la guerra riappariranno come per miracolo.
Yeager viene abbattuto nel sud della Francia, ma riesce a tornare in Inghilterra e a riprendere i combattimenti.
Chi volesse saperne di più può leggere il suo libro “Chuck Yeager, an autobiography“, la cui recensione è presente in questa stessa sezione del sito Voci di Hangar.
C’è la guerra e manca il tempo per conoscersi e frequentarsi adeguatamente, in queste condizioni.
Bud e Chuck sanno l’uno dell’altro, delle rispettive gesta, ma tutto qui.
Ogni minuto è pieno di pericoli, in guerra.
“…than losing friends goes with the territory”. – [“… allora perdere gli amici va da sé”.]
Per questo, dice Bud, sin da subito ha cominciato ad alzare muri. A non lasciare che i rapporti si stringessero con qualcuno. A non fare amicizie.
Yeager dice di aver fatto la stessa cosa.
“Death is a thing that you have to get used to, cruel and hard as it sounds”. – [“La morte è una cosa alla quale ti devi abituare, per quanto duro e crudele possa sembrare”.]
C’è un famoso aneddoto che riguarda il P-51 Mustang: fu progettato, costruito e fatto volare in soli 107 giorni anzichè i 120 concordarti. Ebbene sì: nel 1940 la British Air Purchasing Commission, commissione britannica in missione “acquisti” presso “l’emporio armi” statunitense, chiese alla North American la fornitura di alcune centinaia di Curtiss P-40 per dare man forte ai caccia di Sua Maestà posti a difesa dell’isola britannica e per contrastare le Luftwaffe in generale. La commissione era ben consapevole che il velivolo della Curtiss non era davvero un gran caccia ma, se non altro, non era poi tanto tanto peggiore degli Spitfire o degli Hurricane che avevano già in casa. E comunque avrebbero fatto numero. Al che Edgar Schmued, un ingegnere dell’azienda californiana dalle chiare origini tedesche, convinse il presidente dell’industria aeronautica, Mr James Howard “Dutch” Kindelberger, a rigettare la richiesta (che avrebbe solo fatto guadagnare la Curtiss, trattandosi di costruzione su licenza) e di proporre alla commissione il caccia che lui aveva in mente. O già nel suo cassetto dell’ufficio progetti della North American. Detto fatto: la commissione contropropose 120 giorni a disposizione, non più di 40 mila dollari di costo a esemplare, armamento di otto mitragliatrici, potenziato con un motore americano Allison. Suonava come una sorta di sberleffo dei lord verso i cugini sbruffoni d’oltre Oceano, oggi diremmo: una “mission impossible” e invece … l’ing. Schmued, per nulla intimorito, ci aggiunse un’ala a profilo laminare (uno dei primi velivoli ad adottarlo) e un serbatoio da 1800 litri posto dietro al pilota che consentiva al velivolo un’autonomia prodigiosa per l’epoca. Ciò che accadde dopo fa parte del mito che prende il nome di “Mustang”.
Il libro contiene molte considerazioni sulla guerra e bisogna proprio leggerlo. Non posso riportarle tutte in una recensione. Anderson dice che lui combatteva volentieri. Volava volentieri, anche se per farlo doveva combattere. Non ha mai sparato al pilota che scendeva con il paracadute, ma molti lo hanno fatto. E neppure ai piloti che erano riusciti a fare un atterraggio di fortuna ed erano usciti vivi dall’aereo danneggiato. E anche questo molti lo facevano.
C’erano personaggi che letteralmente amavano la guerra. Che provavano piacere nell’uccidere e distruggere.
Né lui né Yeager erano tra questi, anche se la gioventù fa vedere le cose in un certo modo.
“I was young, then, and wild enaugh to think aerial combat was fun (in this I was no great exception). But your feelings about death and war tended to be very different once your hair has turned color… wars are stupid and wastful, not glorious”. – [“Ero giovane allora, e abbastanza selvaggio da pensare che i combattimenti aerei fossero divertenti (in questo non ero una grande eccezione). Ma quello che uno crede sulla morte e la guerra tende a diventare molto diverso una volta che i capelli hanno cominciato a cambiare colore… le guerre sono stupide e costose, non gloriose”.]
Comunque, alla fine anche la guerra ebbe termine.
Chuck e Bud avevano soltanto un’altra missione da compiere e si misero d’accordo per farla insieme e poi tornare insieme negli Stati Uniti. Di questo volo ho già parlato nella recensione del libro di Yeager. In estrema sintesi, si staccarono dalla formazione subito dopo il decollo. Loro erano di riserva. Nel caso qualcuno avesse avuto problemi alla partenza ne avrebbero preso il posto. Ma tutti decollarono senza defezioni.
Così si allontanarono per conto loro. Attraversarono l’Europa fino alle Alpi, sganciarono i serbatoi sul Monte Bianco, si divertirono a sparare ai loro serbatoi che erano ben visibili su un costone della montagna. Poi attraversarono la Svizzera neutrale a pochi metri dall’acqua del lago di Ginevra, passarono in Francia, risalendo fino a Parigi. Qui sorvolarono gli Champes Elisée e infine tornarono a Leiston.
Un pilota britannico, a proposito dei Mustang disse: «… fanno quello di cui sono capaci gli Spitfire, ma lo fanno sopra Berlino». Un asso tedesco, maggiore della Luftwaffe sul fronte occidentale durante la II Guerra Mondiale, dall’alto di 112 abbattimenti conseguiti, sosteneva invece che: “Potevamo superare in manovra il P-51 e gli altri caccia americani, sia con il Messerschmitt BF-109 che con il Focke-Wulf FW-190. Il loro raggio di virata era circa lo stesso. Il P-51 era più veloce di noi, ma le nostre munizioni e i nostri cannoni erano migliori.”. In questo scatto i due più famosi P-51 del conflitto autografato da Chuck Yeager e Bud Anderson.
Qualche giorno dopo si imbarcarono su un aereo da trasporto e tornarono in America.
La seconda parte del libro riguarda tutto il periodo del dopo guerra, fino ai giorni nostri.
L’esperienza acquisita in guerra faceva di loro i migliori candidati per il reparto sperimentale di volo che si stava sviluppando nel frattempo. Infatti furono assegnati proprio a quello.
E qui comincia una lunga serie di racconti altrettanto avvincenti di quelli di guerra. E non meno densi di avventure e rischi di ogni tipo.
Era iniziata l’era del jet.
Gli unici aerei a reazione che avevano visto erano quelli tedeschi che avevano fatto la loro comparsa nei cieli europei durante la guerra. Qui, in patria, ora ne venivano costruiti diversi tipi. E tutti dovevano essere collaudati, migliorati e collaudati di nuovo, prima di essere assegnati ai vari gruppi di volo.
Yeager volava con tutti gli aerei, ma nel frattempo si dedicava al superamento della velocità del suono con un aereo razzo chiamato X-1.
Anderson, nel corso degli anni, collaudò certi sistemi di aggancio e rilascio che dovevano consentire ad un caccia di poter unire la punta di un’ala a quella di un bombardiere, in modo da essere in qualche modo trasportato in volo in maniera passiva per un lunghissimo trasferimento.
L’idea era quella che un bombardiere avesse con sé un paio di caccia, uno ad ogni estremità alare, da rilasciare in qualunque momento per compiere una rapida missione, di attacco o da difesa, per poi recuperarlo. In sostanza i due caccia avrebbero volato a motore spento per quasi tutto il tempo, consumendo il proprio carburante solamente se necessario.
I collaudi di questo sistema erano a dir poco difficili e pericolosi. Infatti ci fu un incidente terrificante, quando il caccia attaccato all’estremità dell’ala sinistra di un bombardiere , facendo perno sulla propria tip alare, si rovesciò sul dorso dell’ala del quadrimotore.
L’ala si ruppe, entrambi i velivoli si schiantarono al suolo.
Anderson volava in formazione con loro, alternandosi nei collaudi del sistema di aggancio e sgancio. Dalla sua posizione laterale, poco distante, assistette impotente alla tragedia.
In un’altra occasione Chuck Yeager stava collaudando un jet F104 modificato, al quale era stato aggiunto un motore a razzo.
E’ innegabile che il Mustang piaccia ai piloti di oggi alla stessa stregua dei piloti di allora. Lo testimonia il gran numero di velivoli ex militari, i cosiddetti “warbirds”, che volano negli Stati Uniti e che regolarmente si ritrovano in occasione delle fantasmagoriche manifestazioni aeree che si tengono sul suolo e, soprattutto, nei cieli statunitensi. Questo scatto, in particolare, riprende una formazione nutruitissima di ben diciotto P-51 che, in occasione della recente AirVenture Oshkosh 2019, rese omaggio al pubblico e a Bud Anderson ponendosi a 45° gradi sulla via di rullaggio antistante l’area riservata ai visitatori. Dopodichè i velivoli variopinti con le livree più disparate, l’ “Old Crow” in testa, decollarono in formazione, a coppie, uno dopo l’altro. Potete vedere il tutto su Youtube all’indirizzo: https://www.youtube.com/watch?v=T_ulreWKnxg
Dopo il decollo, saliva alla massima quota di tangenza, accendeva il motore a razzo e spegneva il jet, accelerava alla massima velocità possibile, a due volte e mezzo quella del suono, poi tirava su guadagnando quota fino quasi a uscire dall’atmosfera. Al confine tra questa e lo spazio vuoto entrava in una sorta di traiettoria balistica, ricadendo verso la terra. In quella zona non poteva usare i comandi aerodinamici per mantenere gli assetti. Il 104 era stato dotato di piccoli jet attraverso i quali l’aereo poteva essere mosso secondo le necessità. Ma qualcosa andò storto. Nel rientrare in atmosfera l’aereo cadde in vite.
La vite tipica del 104 è molto difficile da gestire. L’aereo cadde girando su se stesso fino alla quota dove Anderson stazionava, in una larga virata, in attesa di vedere Yeager rientrare.
Quando lo vide cadere in verticale avvitandosi su se stesso lo seguì nella caduta girandogli intorno. Ad una quota davvero molto bassa lo vide lanciarsi con il seggiolino eiettabile. Il 104 si schiantò sul deserto sottostante e Yeager atterrò con il paracadute.
In quella missione Yeager si era ustionato il viso e le mani, perché nel lancio era entrato in contatto con il sistema di espulsione del sedile ancora incandescente.
Quella volta Yeager ci era andato davvero vicino…
Su questo episodio esiste un filmato dell’epoca su You Tube.
I collaudi di Anderson riguardarono anche un sistema di aggancio e sgancio in volo di un piccolo jet, che poteva essere trasportato nella stiva di un grosso quadrimotore bombardiere.
Anche questi racconti fanno trattenere il respiro a chi legge.
Ma c’era un’altra storia in questa storia: quella degli astronauti.
Era in corso la selezione di piloti estremamente esperti, da avviare allo sviluppo e al collaudo di veicoli spaziali, da lanciare inizialmente senza pilota, poi con il pilota a bordo. Lo scopo era quello di arrivare a far atterrare uno di questi veicoli spaziali sulla superficie lunare.
E dove si trovavano i piloti più esperti, se non a Edwards, dove nel frattempo si era sviluppato il reparto sperimentale di volo?
Un libro del genere non poteva non avere più di un’edizione e dunque più di una copertina … eccole!
Ma, dobbiamo dirlo, né Anderson né Yeager avevano i requisiti per diventare astronauti, nonostante l’esperienza posseduta.
Per diventare astronauti era richiesta una laurea in qualche disciplina scientifica che mancava ad entrambi.
Forse Yeager visse questa discriminazione con un certo dispiacere.
Invece Anderson scrive:
“I never thought much about being an astronaut. I really wasn’t qualified, according to NASA criteria. I was 38, 39 years old at the time, older than any of the first seven. I don’t have an engineering degree, which would have ruled me out even if my age didn’t. Not having degrees was what kept men like Yeager out of the program. Frankly, I didn’t even apply, and I don’t remember feeling any great disappointment. Maybe it was just rationalisation, but I didn’t consider the early NASA programs to be flying”. – [“Non ho mai pensato molto di diventare un astronauta. Non ero realmente qualificato, in accordo con i criteri della NASA. Avevo 38, 39 anni a quel tempo, più vecchio di ognuno dei primi sette. Non ho una laurea in ingegneria, e questo mi avrebbe messo fuori anche se non l’avesse fatto la mia età. La mancanza di una laurea è stata la causa che ha tenuto fuori dal programma uomini come Yeager. Francamente non ho fatto nemmeno la domanda, non mi ricordo di essermi mai sentito deluso. Forse è stata solo razionalizzazione, ma non consideravo i primi programmi della NASA come volare”.]
Seguendo il racconto di Anderson scopriamo che questi peridi di volo ad Edwards si sono spesso alternati con periodi, anni perfino, di servizio al Pentagono. A pilotare una scrivania, come dice lui.
Ma ogni tanto, per un motivo o per un altro, tornava anche a volare con Yeager.
Si ritrovarono perfino vicini di base durante un periodo di guerra nel Vietnam.
Qui usavano il caccia a reazione F 105, del quale Anderson mette in luce le caratteristiche. Quelle buone e quelle… meno buone.
Fu un periodo intenso. Interessante da leggere, dal momento che quella storia è poco conosciuta. Non ne sapevo quasi nulla, finché non ho letto questo libro.
Su questo è interessante osservare come, nel lasciare finalmente l’Asia del Sud, si misero d’accordo per fare l’ultimo volo insieme, proprio come avevano fatto prima di lasciare il teatro di guerra in Europa.
Infine, rientrarono negli Stati Uniti insieme, sullo stesso aereo.
Non potevamo non ricordare che anche l’AMI, l’Aeronautica Militare Italiana, si annovera tra le tante Forze Aeree che utilizzarono i Mustang ex USA. All’indomani della fine della II Guerra Mondiale fino a tutti gli anni ‘50, i P-51 furono impiegati nei neo ricostituiti reparti da caccia per poi essere sostituiti progressivamente dai jets, tuttavia continuarono la loro attività nelle scuole di volo di terzo periodo e infine nei Comandi di Regione Aerea. Quello qui ritratto ha le insegne del generale di Squadra Aerea, com.te Ranieri Cupini che lo utilizzò sino al 1953, data della radiazione, appunto, ed è il magnifico esemplare custodito gelosamente presso il Museo Storico dell’AMI sito a Vogna di Valle, sulle rive del lago di Bracciano (Roma) Il com.te Benedetto Nolli, pilota con all’attivo migliaia di ore di volo su aeroplani ad elica quanto sui jets, dichiarò: “Il Mustang è il più bell’areo sul quale ho volato nel corso della mia vita. […] E poi, come tutti gli aerei da guerra riusciti, era sostanzialmente semplice perché il pilota non deve essere troppo impegnato nel pilotaggio; deve combattere e non può essere distratto dalla condotta del velivolo. Sensibilissimo ai comandi , con il Mustang ci si sentiva forti: era una meraviglia!”
L’amicizia tra questi due grandi piloti è davvero molto avvincente e il libro è zeppo di vicende e avvenimenti di questo tipo.
Da notare che dopo aver lasciato il servizio, Anderson e Yeager si ritrovarono spesso anche nelle varie manifestazioni aeree che si tenevano annualmente qua e là in America. E volavano sul P51 Mustang che avevano usato in guerra.
Ma vivendo entrambi in California avevano modo di incontrarsi anche al di fuori dei raduni.
E comunque si sono sempre sentiti almeno per telefono.
YouTube contiene un’infinità di video sull’argomento.
Ora, un’ultima considerazione.
Dal libro di Anderson traspare in maniera inequivocabile che il nostro personaggio è, in qualche modo, assolutamente eccezionale. La storia della sua vita è una dimostrazione continua di valore. Il lettore si aspetta che una persona del genere, arrivata al grado di colonnello, sia infine promosso generale. Nel caso di Yeager questo è avvenuto. Ha ricevuto il grado di generale di brigata.
Anderson no. Perché?
Il libro non lo dice.
Anzi, in realtà lo dice. In un capitolo Bud racconta di un suo colloquio con un generale, il quale gli rivela a mezza bocca che non sarà promosso. Sul motivo si avanza soltanto una velata ipotesi, quella che il nostro sia un uomo troppo incline all’azione e poco al lavoro, diciamo così, di burocrate.
Una verità innegabile.
Ma, giusto per prendere le misure della situazione, sembra strano che un ufficiale pilota che ha addirittura cominciato la carriera come leader, tre volte asso, due guerre all’attivo, resti colonnello. Mentre un pilota come Yeager, che ha cominciato come sottufficiale, arrivi invece al grado di generale. E’ vero che ha all’attivo il famoso superamento del muro del suono, ma è altrettanto vero che anche Yeager è un uomo d’azione, poco incline alla vita di burocrate.
Forse la spiegazione sta tutta nella maggiore notorietà di Yeager.
Per quanto concerne Anderson, lui non dice di non essere deluso. Senz’altro lo è stato.
Però, in uno degli ultimi capitoli dice che lui ama semplicemente volare. Alla sua età di ultranovantenne ha ancora la curiosità di alzare la testa e osservare un aereo in volo, con lo stesso interesse di quando osservò il primo aereo della sua vita, mentre passava sopra la sua casa.
Lui ha dedicato l’intera esistenza a servire il suo paese e la sua forza armata, per la quale ha volato e combattuto.
L’autore abbraccia il parabrezza del suo Mustang
Dice Anderson:” The mission of the Air Force is to fly and fight, after all.”
E questa citazione spiega, forse, anche il titolo del libro.
Recensione a cura di Evandro Aldo Detti (Brutus Flyer),
Didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR
Alcuni anni fa, in qualche punto del cielo americano sfrecciava un aereo a reazione biposto. La forma era quella tipica del jet da caccia e addestramento. Il giovanissimo pilota ai comandi, con il volto celato dalla visiera scura, seguiva la rotta stabilita. Ogni tanto girava la testa per controllare un altro caccia che volava in coppia con lui, incollato a pochi metri dalla sua ala destra, un po’ più in alto e un po’ più indietro. Non si trattava di un altro jet. Era un aereo ad elica monoposto, scintillante nella sua colorazione grigio metallo, con la fusoliera affusolata e la cappottina a goccia, con disegni e coccarde che gli conferivano un aspetto insolito, classico, austero e vagamente antico.
Era un P-51 “Mustang”, un caccia della seconda guerra mondiale. Anzi, forse il migliore tra i caccia di quel periodo storico. Il pilota ai comandi manteneva la posizione in maniera perfetta. Il suo viso era celato dietro una visiera scura che spesso mandava riflessi.
Il jet volava ad una velocità piuttosto bassa, almeno per le prestazioni di cui sarebbe stato capace. Infatti, per volare a quella velocità, doveva mantenere un assetto visibilmente cabrato.
Questa è probabilmente la fotografia che più di ogni altra ha immortalato nelle storia dell’aviazione l’immagine sorridente di Chuck Yeager e del suo fido X-1. Non a caso è stata scelta anche dall’editore RES Gestae per la copertina del volume in lingua italiana del volume originale. A riguardarla bene, però, si nota come il buon Chuck voglia enfatizzare più che sè stesso o il suo velivolo … il nomignolo dipinto sul muso dell’aereorazzo. Lo avete notato anche voi? Ebbene, che nel corso della II Guerra Mondiale i piloti statunitensi fossero molto “pittoreschi” con le donnine procaci dipinte sui musetti dei loro aeroplani da caccia o da bombardamento, beh, oggi non stupisce nessuno … ma che nel 1947 un pilota potesse scrivere qualcosa su un aeroplano, segretissimo, punta di diamante di un progetto di ricerca altamente segreto, diciamocela tutta … un po’ stupisce ancora oggi. Così racconta la signora Yeager il coinvolgimento, suo malgrado, nell’impresa del marito: “Poco dopo il nostro trasferimento, Chuck ci portò alla base per vedere l’X-1. Non aveva voluto dirmi che l’aveva chiamato “Glamorous Glennis” ed ecco lì il mio nome, dipinto sul muso dell’aereo. […] Chuck non aveva chiesto il permesso a nessuno e la cosa non era piaciuta ai superiori […] ma nessuno di loro volle mettersi contro il suo portafortuna e rischiare di portar male alla missione”. La storia dell’aviazione riporta però che, oltre al P-51 Mustang e all’X-1, soltanto un altro velivolo si è fregiato del nomignolo “Glamorous Glennis”: l’F15 Eagle con il quale, presso la base di Edwards AFB, nell’ottobre 2002, Chuck Yeager compi l’ultimo volo a bordo di un jet.
L’altro, probabilmente prossimo, invece, alla sua velocità massima, teneva il muso più basso sulla linea dell’orizzonte, con l’enorme disco dell’elica che disegnava un impercettibile cerchio giallo.
Anche il pilota seduto dietro, nel jet, ogni tanto girava la testa verso destra ad osservare il caccia ad elica. La visiera scura celava il suo viso.
Descritta così, la scena sembra rappresentare un semplice volo di trasferimento di due aerei da un punto all’altro con tre piloti a bordo.
Ma sono proprio le visiere scure a nascondere una realtà ben diversa, a nascondere un mondo intero, un pezzo di storia dell’aviazione che arriva dal passato e si proietta nel futuro.
Alziamole, quelle visiere!
Ed ecco la sorpresa!
Presso il National Air and Space Museum dello Smithsonian Institution di Washington, tra il Ryan NYP “Spirit of St. Louis” e lo “SpaceShipOne”, appeso al soffitto del grande hangar dedicato alle pietre miliari della storia dell’aviazione (Milestones of Flight), è conservato il Bell XS-1 o X-1 (come fu poi ridenominato a seguito dell’aggiornamento delle designazioni interne all’USAF del 1948). L’X-1 fu il primo aeroplano statunitense costruito esclusivamente ad uso sperimentale per la ricerca nel campo delle alte velocità e, a tutti gli effetti, non ne fu mai organizzata una produzione di serie sebbene ne furono realizzati tre esemplari. In realtà fu il capostite di altri quatttro velivoli che giunsero fino alla variane “E” (saltando la “C” che avrebbe dovuto sperimentare dei fantomatici sistemi d’arma volando ad alta velocità). L’X1 fu inizialmente dipinto di arancione con livrea ad alta visibilità, altrimenti detta “antimimetica”, ma più tardi si scoprì che la massima visibilità per gli osservatori era garantita da una banalissima livrea bianca; così gli X-1 successivi furono dapprima lasciati in alluminio naturale e poi dipinti di bianco ma a noi piace oltremodo l’arancione “squillante” (così definito da Yeager) del primo X-1.
Solo il pilota del jet è giovanissimo. Gli altri due sono volti diversi, molto attempati, solcati da rughe e segnati da “zampe di gallina“agli angoli degli occhi, che rivelano anni e anni di esposizione al sole delle alte quote. Volti anziani, occhi infossati che guardano lontano nel bellissimo paesaggio sottostante, ma che guardano lontano anche nel profondo dei loro ricordi. Occhi che conoscono perfettamente ogni angolo del mondo che scorre sotto di loro. Lo hanno percorso migliaia di volte. Volti tranquilli, perché conoscono ogni minima vibrazione dei loro aerei. Hanno volato a lungo con ognuno di essi. Sono stati loro, infatti, ad averli sviluppati, collaudati, usati in pace e perfino in guerra.
Il pilota del P51 era stato un pilota collaudatore. Si trattava di Clarence Emil Anderson, conosciuto meglio come “Andy” o “Bud”. Ci aveva fatto la guerra, con quel Mustang.
Il pilota seduto dietro nel jet era nientemeno che il più grande test pilot del mondo: Charles “Chuck”Yeager. Lui pure aveva fatto la guerra con il Mustang . Proprio insieme a Bud Anderson.
Entrambi erano stati dislocati in Inghilterra ed avevano partecipato alle operazioni belliche del periodo dello sbarco alleato in Normandia.
Dopo l’arrivo a destinazione i tre piloti vennero intervistati dalla stampa presente all’evento del volo di due aerei di epoche tanto diverse.
Il primo “Glamorous Glennis” della vita aviatoria di Chuck Yeager. Era un P-51 Mustang
Su una rivista di settore lessi, molti anni fa, l’intervista al giovane pilota del jet (che, se non ricordo male doveva essere un F20). In sostanza il ragazzo disse di essersi sentito vagamente in apprensione, in quel volo, perché sapeva bene che il pilota seduto dietro di lui era stato il collaudatore del mezzo nel quale stavano volando. Inoltre sapeva bene che entrambi gli anziani piloti sapevano pilotare sia il jet che il P51, mentre lui, con il P51 non avrebbe potuto nemmeno rullare brevemente per terra, almeno non senza averci fatto prima un bel corso di addestramento. E aveva perfettamente ragione, almeno per due motivi: il primo è che il carrello del Mustang è del tipo “biciclo”, con due ruote sotto le ali e una dietro, sotto la coda, molto difficile da gestire. Esattamente il contrario del jet che stava pilotando, che ha la terza ruota sotto il muso, non sotto la coda; il secondo riguarda l’enorme coppia dell’elica di un motore tanto potente come quello del P51, che sarebbe risultata difficilmente controllabile da un pilota abituato al motore a reazione. Senza contare il fatto che un giovane pilota vola ormai con cruscotti digitali e poco conosce dei vecchi strumenti analogici di cui erano infarciti i cruscotti dell’epoca passata.
Racconta Chuck Yeager nella sua autobiografia: “Infrangere il muro del suono era un’impresa molto complessa di cui io non sapevo quasi nulla. Due volte, durante rapidi viaggi a Muroc per ritirare gli aerei da portare a Wright, avevo visto l’X-1 che veniva agganciato sotto il bombardiere B-50 prima del decollo. Era un aereo piccolo dipinto di un squillante color arancio e aveva la forma di un proiettile da mitragliatrice calibro 12,7. Qualcuno mi disse che era dotato di un motore a razzo con una spinta di 2700 chilogrammi ed era progettato per raggiungere il doppio della velocità del suono. Era più di quello che potessi capire e mi bastava.” Quello ritratto appeso al soffitto del grande hangar dello Smithsonian è appunto il famoso proiettile da 12,7 mm.
Se oggi chiedessimo a chiunque chi è Chuck Yeager probabilmente sarebbero in pochissimi a rispondere in modo corretto. Ma forse basterebbe aggiungere che è il pilota che ha oltrepassato per primo il “muro del suono”. E allora sarebbero in molti a ricordare almeno l’episodio storico.
All’epoca si pensava che esistesse veramente un muro che si crea quando si raggiunge la velocità del suono. Tale velocità non è fissa, ma varia al variare di altri valori, come la quota, la temperatura dell’aria etc. Diciamo che, in condizioni standard, si tratta di una velocità che oscilla intorno ai milleduecento chilometri orari. Troppi aerei, nel tentativo di superarla, si sono disintegrati, sono andati letteralmente a pezzi, come se avessero davvero urtato contro un muro. Molte vite si sono infrante in quel punto, insieme agli aerei.
Yeager è stato il primo a dimostrare che non esisteva nessun muro. Era solo un problema di forma, di un’aerodinamica inadeguata. Risolti un bel po’ di questi problemi, il 14 ottobre del 1947, ai comandi di un aereo sperimentale Bell X-1, Yeager riuscì a superare quella velocità.
Benchè i moderni canoni di bellezza feminile non abbiano granchè in comune con quelli degli anni ’40, occorre ammettere che, vista con gli occhi di oggi, la signora Yeager all’epoca era davvero un gran bel pezzo di donna. O,come la definiva Chuck, “glamorous” (affascinante). In questo scatto la coppia è ritratta nel giorno del loro matrimonio. Era il 1945.
E questo fu un fatto epocale, che ha portato un impulso importante nella conoscenza dell’aerodinamica e di altre materie a questa complementari. Inoltre, ha aperto la strada alla conquista dello spazio.
Il libro di cui mi accingo a scrivere una recensione è un’autobiografia.
Il titolo è chiaro: Yeager, an autobiography.
Che Chuck e Glennis fossero una coppia splendida lo testimonia questa fotografia scattata in una serata di gala organizzata in occasione della promozione di Chuck a “captain” dell’USAF . Lei è davvero radiosa, non trovate? Scrive Glennis nel capitolo intitolato “Al posto giusto” a proposito del loro rapporto di coppia: “Chuck non mi chiese mai di sposarlo ma io continuavo egualmente a domandarmi come sarebbe stata la vita di una moglie di un aviatore” Poi, una volta che Yeager rientrò dall’Europa, racconta sempre Glennis, “venne a casa mia in California e mi disse: – Ti porto a casa mia a conoscere i miei genitori -” E nelle righe successive Glennis aggiunge : “Soltanto la sera prima delle nozze Chuck mi propose di sposarlo alla sua maniera […]. Ci sposammo nel salotto buono di casa, il locale di cui si tenevano sempre chiuse le porte [..] Sembrava che tutti in città avessero mandato fiori, e la sala ne era invasa”.
E’ stata scritta proprio da Yeager, ma in una forma piuttosto inusuale, quasi a sottolineare il tipo inusuale che è lui stesso. Quando narra i fatti della sua vita non si limita solamente a raccontarli. Li fa raccontare anche da altre persone che in quei fatti sono stati in qualche modo coinvolti. Può trattarsi di sua moglie Glennis o di un altro pilota che volava in coppia con lui. Oppure di qualche ingegnere con il quale collaborava in maniera molto stretta durante i collaudi etc.
Si dice che dietro un grande uomo c’è sempre una grande donna … ma nel caso di Chuck Yeager – indubbiamente un bell’uomo – c’era un’altrettanto bellissima donna: Glennis. Queste foto provengono dall’edizione originale del libro di Yeager e, a detta della didascalia acclusa, erano le uniche foto che uno aveva dell’altra e viceversa durante il periodo in cui Chuck prestava servizio in Europa nel corso della II Guerra Mondiale.
I capitoli del libro sono scritti da lui, da sua moglie, da qualcuno dei suoi superiori, da un suo collega, da uno degli ingegneri e così via. Abbiamo così la stessa storia vista da occhi diversi. E questo risulta piuttosto sorprendente in diversi punti del libro.
La famiglia Yaeger al completo. Chuck e Glennis ebbero quattro figli: Susan, Michael, Donald (il primogenito) e Sharon. Raccconta Glennis in tema di famiglia: “Se tornassi indietro non farei bambini così presto. Ne ebbi quattro uno dopo l’altro e questo aggravava la situazione già difficile. Quando ero incinta stavo sempre male, ed ero sempre incinta. Una breve licenza di Chuck e zac! Restavo incinta. Non eravamo certo un buon esempio di controllo delle nascite.” L’adorabile Glennis ci ha lasciato nel 1990.
Insomma, il resoconto dello stesso evento, visto da due o tre persone diverse, almeno in alcuni particolari, si discosta abbastanza dal filo della narrazione. L’ego gioca un ruolo importante nell’interpretazione di un fatto. A volte si tende perfino a negare un risultato, oppure a magnificarlo. E anche il tempo che passa gioca un ruolo importante. La memoria è fallace, qualcuno ricorda meglio, qualcuno sposta il punto focale degli eventi a seconda della propria personalità. La conseguenza è che lo stesso episodio può essere narrato in modi molto diversi, le immagini giungono sfocate dal passato, come se fossero, in altri termini, leggermente fuori fuoco. E’ risaputo.
Un famoso fotografo di guerra, Robert Capa, che operava in giro per il mondo, ovunque ci fosse una guerra, armato delle sue inseparabili macchine fotografiche, ha scritto un libro dal titolo “Slightly out of focus“. “Leggermente fuori fuoco“. E nella prefazione ha dichiarato che, così come le sue foto possono non essere perfettamente nitide, visto che le ha scattate quasi sempre in uno stato emozionale esasperato durante le battaglie e in costante pericolo di vita, anche i ricordi potrebbero essere leggermente diversi da come si sono realmente svolti, perché la memoria potrebbe averli sbiaditi e alterati nel corso del tempo.
Lo stesso principio vale anche per Yeager e per moltissimi episodi di cui parla.
Fatto sta che ogni tanto (spesso), qua e là per il libro, si riscontra una leggera diversità tra il racconto dell’autore e quello dei testimoni che scrivono, sullo stesso fatto, subito dopo di lui, nel capitolo successivo.
Ma la bellezza del libro sta anche in questo.
Come dicevo, Yeager è un soggetto particolare, fuori dal comune, in qualche modo eccezionale. E tutta la sua vita lo è. E’ colui che, per definizione ha “la stoffa giusta“, un’espressione tanto usata all’epoca. Ha compiuto imprese incredibili, nel vero senso della parola.
Lui dice che la sua straordinaria abilità deriva dal fatto che è nato in campagna.
Da piccolo ha giocato più sugli alberi che per terra. Sugli alberi non saliva soltanto, ma ci viveva, ci dormiva, perfino. E’ stato questo aspetto della sua infanzia a dargli una strabiliante coordinazione di tutti i movimenti del corpo, un tempismo assoluto, una capacità di percezione elevatissima e un’altrettanto elevata capacità di reazione. Qualità di enorme valore, che più avanti nel tempo avrebbero fatto di lui un pilota tanto abile.
Il padre lavorava in una società di trivellazione del gas dal sottosuolo. Spesso doveva riparare macchinari di diversa specie e Chuck andava ad aiutarlo, imparando un’altra arte di incommensurabile valore. Quella di sapere come sono fatti i materiali e i macchinari, come funzionano, fin nei minimi particolari. La capacità di imparare a conoscere le macchine in modo tanto approfondito lo avrebbe aiutato anche con gli aerei, con ogni tipo di aereo. Conoscere a fondo il proprio mezzo significa che, all’occorrenza, si possa riuscire a capire un problema un attimo prima, oppure a scovare una soluzione alla quale qualcun altro non avrebbe neanche pensato. In pratica, stiamo parlando della differenza tra vivere e morire.
Se c’è un’altra fotografia divenuta assolutamente iconica dell’X-1 e dell’impresa di Chuck Yeager è questa. Sebbene lo scatto in bianco e nero e sovraesposto mostri un aereorazzo di colore quasi bianco, in realtà si tratta proprio del primo X-1 arancione con il quale fu stabilito il record di velocità.Gli annali della storia dell’aviazione riportano 236 voli effettuati da questo velivolo prima che, nell’estate del 1950 fosse ritirato dal servizio. Chuck Yeager racconta così quell’episodio: “Consegnammo l’X-1 allo Smithsonian Institution di Washington. Durante la cerimonia, un funzionario dello Smithsonian definì perfettamente il ruolo dell’X-1 con queste parole: – l’X-1 segnò la fine del primo grande periodo dell’età del volo e l’inizio del secondo. Furono sufficienti pochi istanti: l’era subsonica passò alla storia e nacque l’era supersonica -“. Amen!
Il padre era cacciatore. Spesso andava a caccia nei boschi e stava fuori per giorni. Portava con sé il piccolo Chuck, che così imparava a sparare, a tendere trappole, a dormire all’aperto. Imparava, cioè, un’altra preziosissima arte: quella di cavarsela in ambienti ostili.
Nel libro ci sono tanti episodi di come queste qualità abbiano fatto per lui, davvero, la differenza tra vivere e morire.
Appena spedito in Inghilterra, subito dopo aver cominciato le missioni di guerra, Chuck era in volo con un P51 Mustang nel sud-ovest della Francia, quando subì un colpo della contraerea. Fu costretto a lanciarsi. Sapeva che i caccia tedeschi, spesso, sparavano ai piloti che scendevano con il paracadute. Perciò non pensò neanche ad aprire subito il suo. Aspettò fino ad una quota talmente bassa da poter sentire il profumo dei boschi sottostanti, prima di aprire. In un attimo arrivò a terra e il paracadute si impigliò sugli alberi. In poco tempo riuscì a districarsi e a scendere al suolo. Fuggì subito, prima che i tedeschi riuscissero a localizzarlo. Nei boschi si sentiva perfettamente a suo agio. Per giorni camminò, dormendo in ripari di fortuna.
La storia della sua fuga, attraverso i Pirenei, per raggiungere la neutrale Spagna ed essere in seguito riportato in Inghilterra, aiutato dai Maquis francesi, è uno degli strabilianti racconti contenuti nel libro. Una storia intrisa di eventi drammatici, che qui posso solo accennare.
L’autobiografia di Chuck Yeager è a tutti gli effetti un best seller – per lo meno nel mercato statunitense – e dunque, nel corso degli anni, le case editrici ne hanno proposto diverse edizioni con diverse copertine. Qui una carrellata. A nostro modestissimo parere, per chi è appassionato di aviazione, non può mancare la lettura e la presenza nella propria libreria di questo volume che – in tutta onestà – si legge con sommo piacere. Non c’è un tono trionfalistico o enfatico nello scrivere di Yeager e soprattutto del giornalista Leo Janos, non c’è autocelebrazione ma solo la voglia di raccontare dei retroscena sconosciuti e talvolta impensabili rispetto a un programma – quello dell’X-1 – altamente segreto e che fu rivelato al mondo solo dopo che la rivista AVIATION WEEK fece trapelare indiscrezioni sull’evento memorabile che si era consumato a Muroc.Ricordiamo infatti che fino al giugno 1948 l’USAF smentì la notizia del volo record effettuato a ottobre. La segretezza prima di tutto, anche del record!
Durante quella fuga fu ospitato da una famiglia francese. Fu nascosto ai rastrellamenti dei tedeschi e fu salvato, a rischio della stessa vita di quella famiglia.
Per Yeager è divenuta una consuetudine tornare a trovare quella gente ogni volta che può.
Esistono diversi video, in rete, relativi a queste sue visite.
Dopo essere stato riportato in Inghilterra Chuck continuò a volare e portò a termine il suo ciclo di missioni. Alla fine aveva totalizzato 13 abbattimenti e mezzo di caccia nemici. Ma cinque di questi li ottenne tutti nel corso della stessa missione.
E alla fine tornò negli Stati Uniti.
Appena arrivato sposò la sua ragazza, Glennis.
Chuck Yeager si spese molto a favore dell’azienda aeronautica statunitense Northrop e in particolare della sua ultima creazione: il velivolo F-20 Tigershark. Non a caso questa edizione dell’autobiografia – l’ennesima – mostra la copertina con il velivolo in questione in una posizione molto fotogenica. Ah, per inciso, il progetto F-20 non ebbe seguito. Con grande rammarico di Chuck, immaginiamo.
Per tutto il corso della guerra in Europa, sul suo aereo, un P51 Mustang, aveva fatto dipingere una figura di ragazza e sotto una scritta: Glamorous Glennis, Affascinante Glannis. Era il segno distintivo che ha portato in volo ogni volta. Era il nome con il quale aveva battezzato il suo caccia. Naturalmente avrà cambiato anche aereo, sicuramente ne ha usati più di uno, ma sempre ci faceva dipingere sopra quel logo.
Dopo il rientro in patria fu assegnato ad un reparto sperimentale di volo e poi cominciò i collaudi del famoso X-1 con il quale oltrepassò il muro del suono. Era un aereo-razzo.
Ma anche a quello diede il nome di Glamorous Glennis.
Il libro tratta molto del periodo passato a collaudare aerei. La base aerea di Muroc, come si chiamava all’inizio, è stata la sua casa per anni. Dopo che questa base si era allargata e aveva preso il nome di Edwards Air Base, anche il numero di piloti era aumentato e, tra questi, cominciarono a comparire nomi che poi sarebbero diventati noti come astronauti.
Uno di questi fu proprio Neil Armstrong. Quello che mise per primo piede sulla Luna.
Yeager racconta che una volta Armstrong voleva andare ad atterrare sulla superficie di un lago prosciugato. Ce ne erano diversi, nei dintorni. Erano superfici larghissime, anche decine di miglia. E’ ovvio che se si atterra in un sito tanto remoto e lontano da qualunque insediamento umano, se succede qualcosa, diventa un problema.
Yeager disse ad Armstrong che non era il caso di andare. Lui aveva sorvolato il posto di recente e c’era ancora una visibile superficie molle, non perfettamente asciutta. Atterrarci avrebbe significato rimanerci.
Armstrong non volle sentire ragioni. Disse che avrebbe fatto solo un tocca e vai, cioè un avvicinamento come per atterrare, ma seguito da una ripartenza, senza perdere velocità. Bastava toccare le ruote un attimo e andare subito via.
Per Yeager era una follia, perché appena toccate le ruote, l’enorme resistenza che queste avrebbero prodotto, avrebbe rallentato l’aereo oltre ogni possibilità per il motore di riaccelerarlo.
La fase di volo in cui un velivolo consuma la maggior parte di carburante è il decollo e quindi la salita alla quota di volo. In virtù di questa considerazione, i tecnici della NASA intuirono immediatamente che i velivoli destinati a raggiungere altissime velocità e quote (dunque dotati di motori a razzo) non potevano decollare in modo convenzionale, ossia propulsi dai loro stessi motori in quanto non avrebbero avuto l’autonomia sufficiente per raggiungere quote e velocità prefissate (leggasi: da record). C’era una sola soluzione: andavano aerotrasportati da un velivolo madre, quindi sganciati da esso e lasciati al loro volo autonomo. A quel punto, una volta attivato il motore a razzo, il piIota del velivolo “X” avrebbe avuto abbastanza spinta e tempo per svolgere la sua missione, quindi, una volta esaurito il propellente, avrebbe veleggiato verso terra e sarebbe atterrato nella sconfinata pista del lago asciutto. Geniale come strategia, non trovate? ll velivolo capace di trasportare carichi elevati a quote altrettanto elevate era il bombardiere strategico Boeing B-50 Superfortress (evoluzione tecnologica del famigerato B-29), allora in forza presso i reparti dell’USAF ma comunque destinato a breve ad essere sostituito da bombardieri strategici ben più poderosi (B-52 Strafortress, oggi ancora in servizio). La NASA modificò il B-50 per ospitare nel suo ventre l’X-1 anzichè un carico spaventoso di ordigni tuttavia, rimaneva il problema di come caricare l’aereorazzo sotto il bombardiere. Nulla di più facile: “solleviamo il bombardiere!” proclamarono i tecnici NASA. Questa foto testimonia come, a mezzo di potentissime piattaforme idraliche, il B29 fosse sollevato e l’X-1 gli fosse comodamente agganciato sotto. Dall’autobiografia di Chuck apprendiamo comunque che l’X-1 effettuò comunque un volo, un solo e unico volo, con decollo da terra. Sapete perchè? Semplicemente per dimostrare che l’X-1 non era da meno del velivolo della US Marine – la Marina degli Stati d’America – che avrebbe compiuto il volo inaugurale l’indomani. Era il 5 gennaio 1949. Così sintetizza Chuck quel volo: “Negli ambienti aeronautici ero diventato un eroe più per aver battuto la Marina che per aver infranto il muro del suono”
Vista l’insistenza di Armstrong, Yeager si offrì di accompagnarlo.
Presero un T 33 biposto, un caccia a reazione e decollarono.
Arrivati sul lago essiccato, che dall’alto sembrava asciutto, scesero per il touch and go.
Come aveva detto Yeager, l’aereo si impantanò subito e rallentò fino a fermarsi.
Dovettero aspettare che un DC3, un bimotore da trasporto, venisse a cercarli. Per radio chiesero al pilota di dar loro tempo di spostarsi a piedi di qualche miglio verso un punto meno molle e di atterrare lì, senza fermarsi del tutto. Loro sarebbero saliti in corsa per ridecollare.
Poi toccò a Yeager tornare a recuperare il T 33, con una squadra di specialisti. Montarono un paio di razzi supplementari sulla fusoliera del caccia, per avere un supplemento di potenza, vincere la resistenza dello strato di terreno umido, accelerare e decollare.
Atterrare con l’X-1 su lago prosciugato non era affatto banale e schiantare il carrello era un’ipotesi assolutamente concreta. Così racconta Chuck l’esperienza vissuta dall’amico Jack Ridley: “Atterrò come un bambino che è riuscito per la prima volta a fare un giro in bicicletta. Mi disse: – Figlio di puttana, tu facevi sembrare tutto così facile, specie gli atterraggi. Quel lago prosciugato è traditore! -. Era vero. I piloti si lamentavano del sole che impediva loro di vedere la strumentazione sul cruscotto e un paio di loro picchiarono a terra con il muso cercando di atterrare. A un pilota capitò due volte. […] E anche se pochi lo ammetterebbero, penso che quanti pilotarono l’X-1 capirono che il bestione era molto più cattivo di quanto lo avessi fatto sembrare.” La foto risale al giugno 1956 e ai comandi c’era il pilota Joe Walker. Il velivolo X-1E rimase gravemente danneggiato e occorsero diversi giorni di lavoro per effettuarne le necessarie riparazioni.
Il libro contiene una marea di racconti come questi.
Yeager ha un modo molto militare di esporre i fatti. Senza peli sulla lingua, dice quello che pensa e presenta la realtà per come veramente è.
Solo per fare un esempio, quante volte abbiamo letto che un è aereo caduto, il pilota è morto, ma i giornali e i media in generale, mettono in evidenza l’eroismo del pilota che ha evitato di poco una scuola, un camping, un assembramento di persone?
Yeager scrive: “you smile reading newspaper stories about a pilot in a disable plane that maneuvered to miss a schoolyard before he hit the ground. That’s a crap. In an emergency situation, a pilot thinks only one thing – survival. You battle to survive right down to the ground; you think about nothing else. Your concentration is riveted on what to try next. You don’t say anything on the radio, and you aren’t even aware that a schoolyard exists. That’s exactly how it is“.
“Si ride leggendo storie sui giornali che riguardano un pilota in un aereo in avaria che ha manovrato per evitare una scuola prima di sbattere per terra. E’ una bufala. In una situazione di emergenza, un pilota pensa solo una cosa – sopravvivere. Ci si batte per sopravvivere fino a terra; Non si pensa a nient’altro. La concentrazione è inchiodata su cosa si può provare ancora. Non si dice niente alla radio, e nemmeno si è a conoscenza dell’esistenza di una scuola. E’ esattamente così“.
Crudo, ma vero.
C’è un altro racconto interessante che voglio riportare.
Quando il periodo di permanenza in Inghilterra finì, lui e Bud Anderson stavano per essere rimpatriati. Ma prima di partire, fecero un’altra missione.
Alcuni componenti della squadriglia con la quale erano partiti ebbero problemi meccanici e dovettero rientrare. Lui e Bud si trovarono a proseguire da soli.
Ormai la guerra era alla fine, i nemici erano pressoché annientati, i cieli erano liberi.
Yeager e Bud proseguirono con i loro Mustang, sorvolarono tutto il continente e dopo qualche ora si trovarono a sorvolare le Alpi. La benzina dei loro serbatoi ausiliari era finita. Sganciarono i serbatoi e Chuck Yeager li vide cadere su una montagna. Erano ben visibili, perciò propose di divertirsi a riempirli di proiettili e magari incendiarli, perché contenevano ancora alcuni litri di benzina residui.
Una delle tante foto che ritrae Chuck Yeager al lavoro nel 1953. Alle sue spalle l’X-3 Stiletto.
Fecero diversi passaggi e crivellarono di colpi i serbatoi, prima di proseguire.
Così la racconta Yeager.
Però Anderson dice che nessun proiettile arrivò mai a colpire il bersaglio. L’unico risultato certo dei loro mitragliamenti fu che finirono i colpi. Ecco un caso di realtà leggermente fuori fuoco.
Senza munizioni, quindi inermi, incapaci di reagire all’attacco di qualunque nemico, passarono il confine della Svizzera, invadendo lo spazio aereo di un paese neutrale.
Sorvolarono a poche centinaia di piedi di quota il lago di Ginevra e passarono in Francia.
Qui andarono verso il punto, nel sud del paese, dove Yeager si era lanciato. Mostrò a Bud Anderson tutto il percorso che aveva seguito per attraversare i Pirenei e andare in Spagna.
Risalirono verso Nord fino a sorvolare Parigi.
Ho visto Parigi dall’alto molte volte. Place de l’étoile, con l’Arco di trionfo al centro, si vede perfettamente. I due chilometri di Avenue des Champs Elisées sono un richiamo troppo forte. Mi piacerebbe immensamente sorvolarlo a bassissima quota. Per me resterà sempre un sogno. Loro, invece, lo fecero.
E infine rientrarono alla base, a Leiston, in Inghilterra.
Ho parlato della capacità di Yeager di imparare a fondo il funzionamento di ogni meccanismo, fin nei minimi particolari. Le esperienze infantili fatte grazie all’attività del padre erano state determinanti, ma un ruolo altrettanto determinante è quello del carattere di una persona. Non tutti sono dotati di curiosità e sete di sapere. Yeager ha sempre avuto una naturale inclinazione al sapere, al provare, al conoscere.
Un ruolo importante, nella sua vita operativa, lo ha avuto un ingegnere, Jack Ridley, che lavorava al progetto X-1.
Questo personaggio era piuttosto incline a condividere le sue conoscenze.
Ancora un primo piano piano dell’X-1 conservato allo Smithsonian dal quale si apprezza la forma penetrante della fusoliera e l’ala a lametta di cui era dotato il velivolo della Bell. In effetti la sua forma a proiettile lo faceva somigliare più a una visione di Jules Verne che ad un aeroplano.
Non tutti lo sono. Esistono persone che, quando sanno fare qualcosa, tengono ben custodita in se stessi la loro conoscenza, come per timore di vedersela rubare. Si muovono stando bene attenti a non farsi vedere, come se temessero che qualcuno particolarmente attento potesse carpire i loro segreti. Usano la loro conoscenza per rendersi il più possibile indispensabili, in modo che gli altri debbano dipendere da loro per la risoluzione di qualche problema.
Credo che chiunque conosca più di un personaggio di questo tipo.
Ma Ridley era tutto l’opposto.
Jack Ridley, pilota collaudatore e ingegnere, assegnato all’X-1 come responsabile nel settore ingegneristico, collaborò con Yeager ai collaudi. Jack spiegò tutto quello che sapeva a Chuck. E questi non si limitava di certo ad ascoltare, ma chiedeva tutto ciò che serviva:
“Jack, cosa faccio se“…
“Jack, cosa succede se“…
Cosa se… cosa se…
E Ridley rispondeva.
Da qui nasce il concetto di “what if man“, l’uomo cosa (faccio) se, tradotto.
Questo modo di procedere ha dato evidentemente ottimi risultati, perché il muro del suono fu superato. E senza altri incidenti.
C’è nel libro il racconto di un episodio, uno degli innumerevoli, dove Chuck è arrivato ad un soffio dalla catastrofe, ma si è salvato, grazie al suo “what if man“.
I miti non hanno tempo e non invecchiano mai. Purtroppo anche Chuck Yeager era fatto di carne e ossa e il tempo – inesorabile – ha alterato il suo corpo terreno. Il 7 dicembre 2020, alla venerabile età di 97 anni, ci ha lasciato per il suo ultimo volo verso cieli azzurri e sereni … ma noi vogliamo ricordarcelo così … con i lineamenti aggraziati sebbene rugosi e gli occhi vispi di chi ne ha viste di cose che noi umani …
Come noto, l’X-1 veniva agganciato sotto la pancia di un quadrimotore B 50, evoluzione del B-29, lo stesso tipo di aereo che aveva sganciato le bombe atomiche sul Giappone.
Esistono molti video su You Tube al riguardo.
Il B 50, con Yeager a bordo, decollava e saliva alla quota stabilita. Yeager, al momento giusto, scendeva una scaletta che lo portava davanti al portello dell’ X-1 ed entrava. Richiuso il portello, si sistemava ai comandi. Dopo aver fatto i controlli necessari, appena l’aereo raggiungeva la zona dello sgancio, ad un segnale convenuto, veniva azionato il congegno che liberava l’X-1.
L’aereo – razzo, ora libero, cadeva nel vuoto. Ma aveva già la velocità minima di sostentamento che gli consentiva di cadere in maniera stabile.
Poi Yeager doveva accendere il motore a razzo, anzi, uno dei motori, perché ne aveva a disposizione diversi, e venivano accesi in sequenza a seconda delle prestazioni richieste dalla prova.
Appena avuta la spinta del razzo, l’X-1 accelerava e superava l’aereo che lo aveva sganciato, iniziando anche a salire. Un caccia a reazione, incaricato di seguirlo, volava in zona e subito si gettava all’inseguimento, almeno finché il razzo superava anche la velocità del jet, o la sua quota di tangenza.
Un giorno Yeager si trovava a bordo dell’ X-1, sotto la pancia del B 29, pronto ad essere sganciato. Il jet, detto in gergo chase plane (aereo inseguitore), era pronto ad andare al suo inseguimento.
La retrocopertina del volume “Una vita in cielo” nell’edizione italiana pubblicata dalla casa editrice Res Gestae nel 2014, traduzione del volume originale dell’autobiografia di Chuck Yeager “An Autobyography”
Tutto a posto, fu dato il segnale, l’X-1 fu rilasciato, cadde giù.
Yeager comandò l’accensione del razzo, ma non accadde nulla. Per lunghi secondi la caduta continuò.
Bisognare capire il problema, fare qualcosa al più presto.
Yeager si accorse subito di non avere nessuna corrente a bordo. L’accensione era elettrica. Senza di essa il motore non si sarebbe acceso. Era un macigno che cade dal cielo.
Visto che il motore non si sarebbe acceso, doveva scaricare subito tutti i liquidi estremamente infiammabili che aveva nei serbatoi e che avrebbero dovuto alimentare il razzo. Altrimenti il loro peso avrebbe schiantato il carrello di atterraggio al primo contatto con la superficie del lago asciutto. La velocità dell’ X-1 all’atterraggio era di 190 miglia l’ora, molto vicina ai 400 Km/h.
Un attimo dopo il razzo sarebbe esploso e Yeager sarebbe svanito in una gran nuvola di gas incandescenti.
Azionò le elettrovalvole di scarico rapido, ma senza corrente neanche queste si potevano aprire.
Era una bomba che cadeva verso terra.
Ecco dove diventa subito di vitale importanza il “What if man”.
Jack Ridley aveva già risposto a quella domanda: “what if…”. Cosa faccio se... sono rimasto senza alimentazione elettrica e devo scaricare il carburante per poter atterrare?
Yeager si fidava di Jack. Era un ingegnere, ma era anche un pilota collaudatore. Parlava perfettamente il gergo dei piloti.
Diceva Yeager di lui: “When he explained something, I usually kept asking vhy until I understood it thoroughly. If I had my opinion, we’d discuss it and argue until we both agreed. Because he was also a good pilot and was so practical, we were always on the same wavelenght. Ridley knew me so well that when I described something that was happening with the X-1 he knew immediately what we were getting into. Without having him close at hand, I’d have been lost“.
“Quando spiegava qualcosa, io di solito continuavo a chiedere perché finché avevo capito completamente. Se avevo un’opinione personale, discutevamo e litigavamo fino ad essere d’accordo. Dato che era anche un buon pilota ed era così pratico, eravamo sempre sulla stessa lunghezza d’onda. Ridley mi conosceva così bene che quando descrivevo qualcosa che succedeva con l’X-1 lui sapeva immediatamente dove saremmo andati a finire. Senza avere avuto lui a portata di mano, sarei stato perduto“.
Esatto. Questo è proprio quello che sarebbe accaduto.
Immaginate solo per un istante di essere Chuck Yeager e di sedervi al posto di pilotaggio del X-1 … beh, vedrete questo. Tranquilli: il motore a razzo non ha combustibile!
Ma Ridley aveva mostrato a Yeager un comando meccanico quasi nascosto nella cabina di pilotaggio. Apriva una valvola di scarico del carburante senza bisogno di nessuna alimentazione.
Yeager la azionò immediatamente.
Non poteva sapere se il comando aveva funzionato e se davvero il carburante stava uscendo dai serbatoi. Il pilota del chase plane vedeva tutto, ma non c’era modo di chiederglielo né di ottenere risposta. La radio, ovviamente, non funzionava.
Yeager sentiva che il peso si alleggeriva. Lo percepiva dai comandi e dalla reazione del velivolo, che diventava più leggero ad ogni secondo che passava. Ma quello che sembrava mancare erano proprio i secondi.
Arrivò a sfiorare la superficie del terreno e cercò di ritardare al massimo il contatto, senza sapere se ce l’avrebbe fatta oppure no.
Le ruote toccarono il suolo.
Anche questa volta era andata bene.
Il libro è tutto così. Ci sono storie di ogni tipo. Qui ho riportato solo alcune di esse, giusto per dare un’indicazione ai potenziali lettori. Chiunque sia appassionato di aviazione, di volo o di faccende aeronautiche in generale, troverà quello che cerca.
Yeager non ha mai perso la passione per il volo nonostante tutte le difficoltà e i rischi che hanno fatto parte del suo vivere quotidiano per l’intero l’arco della sua vita.
Nel momento in cui termino questa recensione Chuck Yeager è un “giovincello” di appena 97 anni.
E’ possibile che non voli ormai più, almeno da solo. Ma non ci giurerei.
A chi gli ha chiesto, un miliardo di volte, quale fosse il segreto del suo successo, lui ha sempre risposto:
“The secret of my success is that I always managed to live to fly another day“.
“Il segreto del mio successo è che ho sempre fatto di tutto per vivere e volare ancora un giorno“.
Recensione a cura di Evandro Aldo Detti (Brutus Flyer),
Didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR
NOTA: Inizialmente pubblicato negli Stati Uniti da Farrar, Strauss e Giraux
Foto della NASA
The Right Stuff. Letteralmente significa: la Stoffa Giusta.
Stuff ha anche altri significati, come: roba, sostanza, materiale, soggetto, equipaggiamento, etc.
Come verbo, to stuff, significa farcire, riempire, imbottire, impagliare etc.
Dipende dal contesto.
Un’altra parola molto simile: staff, con la a al posto della u, significa: personale, equipaggio.
La pronuncia è altrettanto simile. Non proprio identica, ma talmente simile che si possono distinguere le due parole solo dal discorso nel quale si trovano. Perché spesso la pronuncia dipende molto da chi parla. E chi parla non è necessariamente una persona di madre lingua. Si fa fatica a riconoscere una singola parola in una serie di frasi veloci.
Anche questo, però, dipende dal contesto.
Tuttavia, nel libro di Tom Wolfe, “The Right Stuff”, queste due parole vanno bene entrambe, sono pertinenti e contribuiscono alla pari a definire la linea di sviluppo di tutto il contenuto del libro.
L’aereorazzo da ricerca Bell X-1 è qui ripreso in volo, uno dei tanti che compì per conto della NASA, allora ancora NACA. Era praticamente in proiettile con un’ala (sebbene costruito in leghe di alluminio) ma dotato di un motore a razzo che consumava alcool etilico, acqua e ossigeno liquido più di una locomotiva a carbone. E’ entrato nella storia dell’aviazione mondiale il 14 ottobre 1947 come il primo aereo ad aver sfondato la barriera del suono in volo orizzontale. E a non essersi disintegrato in volo, aggiungiamo perfidamente. A bordo c’era un certo Charles Chuck Yeager mentre il velivolo era il “Glamorous Glennis”, o “Affascinante Glennis” che dir si voglia, con riferimento alla moglie del medesimo Yeager. Foto NASA
Infatti, il titolo suggerisce l’elemento dominante, l’ingrediente fondamentale e irrinunciabile affinché una struttura enorme come una forza armata, un ente spaziale, o qualunque altro tipo di organizzazione, possa raggiungere il proprio scopo. E questo ingrediente deve essere presente in ogni elemento umano dell’organizzazione. Ogni uomo deve essere quello giusto. Deve avere le migliori caratteristiche possibili per il compito che deve svolgere. In altre parole, deve avere la stoffa giusta.
Se uno solo degli uomini non ce la dovesse avere… sarebbe il fallimento di tutto un insieme di settori e i danni potrebbero essere notevoli.
Poi è necessario che questi uomini con la stoffa giusta siano inseriti in equipaggi, in team, in gruppi. Cioè, in staff giusti.
Ed eccoli in carne e ossa, tuta argentata e casco. Sono i magnifici sette astronauti del programma Mercury Seven. La scatto è del marzo 1960 ad opera di un fotografo della rivista LIFE che riprese i Magnifici 7 presso il Centro Ricerche Langley. La NASA li aveva presentati al mondo giusto qualche mese prima, nell’aprile ’59.
Alla fine degli anni Sessanta, quando entrai nell’Aeronautica Militare Italiana, una delle frasi che gli istruttori e gli insegnanti ci dicevano sempre riguardava esattamente questo aspetto. Ci veniva detto che noi eravamo il risultato di una selezione che aveva avuto come scopo di procurare alla forza armata elementi validi, da distribuire secondo il principio dell’uomo giusto al posto giusto. Il compito doveva essere specifico. Chi lo compiva doveva essere specializzato proprio in quello. E, a volte, ci facevano l’esempio dell’interruttore della luce. Quanto può essere banale un gesto come quello di accendere la luce?
Ebbene, chi ha il compito di accendere e spegnere la luce deve essere uno specialista di quel click. Deve farlo al tempo giusto, senza ritardi o anticipi, secondo come occorre alle operazioni in corso. Deve avere il tempismo giusto, perché a volte, un secondo prima o dopo può inficiare l’intera operazione.
All’avvio del programma Mercury nacque la necessità di addestrare i futuri astronauti a pilotare, in caso di estrema necessità, le navicelle spaziali a bordo delle quali avrebbero volato. In realtà, nello spazio, è tutto un altro volare rispetto a come si vola nell’atmosfera terrestre e dunque il problema iniziale fu di creare dei simulatori abbastanza verosimili per lo scopo. Il cosiddetto “gimbaling rig” era stato realizzato per abituare gli astronauti all’uso dei propulsori a idrogeno con i quali avrebbero controllato i movimenti della navetta. Il MUTIF, acronimo del Multiple Axis Space Test Inertia Facility somigliava così ad un grandissimo giroscopio con all’interno un povero astronauta legato come un salame. Era dislocato presso l’odierno John Glenn Research Center, presso la base di Lewis Field. Strano destino per chi, come John Glenn, aveva trascorso ore e ore a farsi frullare in quel luogo, proprio dentro al gimbaling rig. Foto NASA
Era solo un esempio, per dimostrare come, secondo la situazione, anche un gesto banalissimo deve essere compiuto con professionalità e competenza.
Forse questa filosofia era il “the right staff” all’italiana.
Nel corso dei decenni, secondo la mia personale percezione, questo concetto si è perso, sostituito da un altro concetto: quello che chiunque possa fare qualunque cosa. Mi sono ritrovato spesso a contatto con individui che sembravano proprio il risultato del principio opposto: l’uomo sbagliato al posto sbagliato. E spesso i risultati hanno confermato i sospetti…
Il libro di Tom Wolfe inizia da un argomento inquietante: il gran numero di incidenti che in quegli anni, dal Cinquanta al Settanta e oltre, funestavano le operazioni di volo. Non parliamo di episodi di guerra. Ma proprio delle operazioni di volo. La normale routine di normali reparti impegnati in normale attività volativa. E questo, meglio dirlo, non riguarda soltanto la realtà americana, ma quella di tutti i paesi del mondo, compreso il nostro. Perché dalla fine degli anni Sessanta e per gran parte del Settanta, da giovanissimo militare dell’Aeronautica, mi sono ritrovato decine di volte a dover compiere l’ingrato servizio di picchetto d’onore al funerale di qualche pilota. Allora era così, poi negli anni, per fortuna, la sicurezza del volo è aumentata. Ma non dimentichiamo una frase molto ricorrente che si diceva in tempo di guerra, nei reparti combattenti con gli aerei di allora: ne ammazza più l’aereo che il nemico…
Uno degli astronauti Mercury Seven, spesso citato anche nel libro di Tom Wolfe, fu Gus Grissom, pseudonimo di Virgil Ivan Grissom, qui ritratto in primo piano. L’amministrazione NASA lo volle fortissimamente come uno dei sette astronauti del programma Mercury ed era già predestinato a diventare il primo uomo a camminare sulla Luna. Non a caso, egli volò in occasione della missione Mercury-Redstone 4 e nella Gemini 3. La NASA gli affidò allora la missione Apollo 1 ma il 27 gennaio 1967, presso il John F. Kennedy Space Center di Cape Canaveral in Florida, egli morì carbonizzato assieme ai suoi compagni durante una sessione addestrativa all’interno della navetta Apollo 1 già dislocata sulla rampa di lancio. Gli astronauti rimasero intrappolati dentro la navicella senza che i tecnici della NASA potessero salvarli.
Il primo e il secondo capitolo del libro descrivono questi funerali, parecchi, uno alla volta, ma con la stessa sequenza di operazioni, tutte uguali. L’autore li descrive così, tutti identici nel loro cerimoniale, in maniera quasi maniacale, per passare il concetto che non sta parlando di episodi disconnessi, distanti, casuali. No, era una costante. Uno alla settimana, ma a volte anche due, perfino tre.
E descrive, contemporaneamente, il motivo per cui accadevano queste cose.
I piloti si trovavano, subito appena entrati, ma dovrei dire meglio, già dalle selezioni, a dover dimostrare qualcosa. A dispetto delle esortazioni ufficiali a rispettare le regole, a dispetto delle minacce di punizioni per chi non le dovesse rispettare e a dispetto, inoltre, del fatto che la perdita di un aereo e di un pilota significa un danno alla nazione e al contribuente americano, c’era in giro un’aspettativa, silenziosa e inconfessabile, di dimostrazione di valore. Nessuno era esente dal dover in qualche modo mettere in evidenza la mancanza di paura, la totale dedizione al servizio e al sacrificio, la capacità di spingersi fino al limite massimo e anche oltre.
Ecco, questo è il punto. Spingersi al limite e anche oltre.
I piloti erano i primi a doverlo fare.
Wolfe descrive alcuni di questi modi.
Un pilota decolla e sale subito in candela fino alla quota massima raggiungibile, dove l’aereo rallenta fino a fermarsi, poi cade, muso verso la terra, riguadagna la velocità per ricominciare e così via.
A volte va bene, il muso si abbatte, l’aereo accelera e torna a volare.
Ma a volte ad abbattersi è un’ala, perché, per qualche motivo, stalla prima dell’altra.
Il pilota lotta per recuperare il controllo prima che l’aereo entri in vite. A volte ci riesce. A volte no.
Dalla vite si può uscire, ma non sempre. Dipende dal tipo di aereo, dalla distribuzione dei carichi appesi sotto le ali, dalla quantità di carburante e dalla collocazione dei serbatoi, dal tipo di ala, dal tipo di coda, con particolare riferimento alla posizione del timone di profondità etc.
Anche in Italia il libro di Tom Wolfe ha avuto diverse edizioni con diverse copertine. Questa, la più orripilante, è la copertina dell’ultima edizione pubblicata in ordine di tempo da Mondadori. Se è vero che la copertina di un libro è il primo contatto dell’autore con il potenziale lettore, se è lo specchietto per le allodole, se è definita l’anteprima visiva del contenuto del volume beh … allora riteniamo che questa copertina di “La stoffa giusta” sia un pessimo contatto, uno specchietto assai opaco eun’anteprima deprimente. Difficile immaginarsene una più brutta di questa. Non sappiamo dire chi ne fu il curatore o quale logica autolesionista animò l’editore, certo è che una copertina di questo genere è il chiaro esempio da additare come quella da non mandare mai in stampa. Illettore se la ricorderà di sicuro … ma per la sua bruttezza! E dire che la NASA mette e metteva a disposizione una montagna di foto relative alle missioni Mercury … e che dire poi delle istantanee estrapolabili dalle splendide immagini del film omonimo?
Dipende anche da come si entra in vite. Ogni aereo ha le proprie caratteristiche. Qualcuno entra dolcemente, ruota lentamente e abbassa il muso. Basta un po’ di piede spinto sulla pedaliera dalla parte opposta alla rotazione che tutto si ferma. E in un attimo si può tornare al volo normale.
A volte, invece, l’aereo entra in maniera violenta. Si torce subito ferocemente e parte via incontrollabile. A nulla vale mettere in atto la procedura di recupero. Lui cade e continua a ruotare su se stesso, insensibile a tutto. Poi magari si ferma, dopo parecchi giri, ma ormai ha già raggiunto una quota così bassa da non poter essere richiamato e si infila per terra.
Non sempre la manovra standard che si insegna nelle scuole è efficace. Qualche tipo di aereo richiede una manovra diversa. E un pilota frastornato dalla centrifuga, dalla durezza dei comandi, dalla drammaticità e dalla rapidità degli sviluppi di una situazione, spesso commette errori fatali. Oppure, semplicemente, in certi casi non c’è nulla da fare.
Come da tradizione, la IV di copertina del volume pubblicato dall’editore Sperling & Kupfer del volume “La stoffa giusta” (edizione in italiano), riporta una breve anteprima del contenuto e una sorta di variante dell’iscrizione prospettica del titolo presente nella copertina. Grafica molto anni ’80, non c’è che dire, ma efficace e razionale. La copertina di questa edizione va ascritta a un certo: Kiyoshi Kanai
Uscire dalla vite richiede tempismo, perizia e perfino fortuna. Può richiedere anche molta quota.
Quando manca uno di questi elementi, il risultato è un impatto al suolo, un aereo perso e soprattutto una vita perduta.
Allora si forma il solito picchetto d’onore, la solita cerimonia, lacrime, pianti, la lenta esecuzione del cerimoniale, la piegatura della bandiera, che viene consegnata alla vedova o alla persona più vicina della famiglia. Un capitolo chiuso.
I risguardi interni dell’edizione tascabile pubblicata da Sperling & Kupfer nel 1981 nei quali è possibile godere di una corposa anteprima del contenuto del libro
E la storia riprende, come se nulla fosse successo.
Per la stessa ragione i piloti, anche quando si trovavano in serie difficoltà, erano restii a dichiarare emergenza. Percepivano come una mancanza di capacità e di coraggio il trovarsi a non saper gestire una situazione ed avere bisogno di aiuto.
I controllori di volo spesso si accorgevano, da tutta una serie di indizi, che un pilota era in qualche tipo di problema. Spesso tentavano di stimolare il pilota a dichiararlo, anche per disporre in tempo utile, ad esempio, i vigili del fuoco e l’ambulanza vicino alla pista, se hanno ragione di ritenere che un pilota in avvicinamento abbia una difficoltà a bordo. Ma in questo modo, spesso, ottenevano solo che il pilota si affrettasse a negare di avere problemi. Ce l’avrebbe fatta da solo.
“Whiskey Kilo Two Eight, do you want to declare emergency”? This would rouse him! – to say: “Negative, negative, Whiskey Kilo Two Eight is not declaring an emergency”! Kaboom. Belivers in the right stuff would rather crash and burn.
Whiskey Kilo Due Otto, volete dichiarare emergenza? Questo farebbe risvegliare nel pilota la reazione a dire: “Negativo, negativo, Whiskey Kilo Due Otto non sta dichiarando emergenza”. Kaboom (schianto al suolo). Quelli che credono nella stoffa giusta preferiscono piuttosto schiantarsi e bruciare.
Nessuno poteva mostrare di subire gli effetti di certe tragedie. Sarebbe una debolezza che subito verrebbe interpretata come mancanza della stoffa giusta.
A casa dei piloti, le mogli intente alla conduzione della famiglia, da sole e senza nessun contributo da parte dei mariti impegnati nelle operazioni militari, l’atmosfera era sempre la stessa. Ansia e incertezza la facevano da padrone. Nel deserto del Mojave, dove si trovavano le basi aeree, un filo di fumo si vede da decine di chilometri. Se alla vista di un fumo in lontananza si associa il rumore di un elicottero che decolla, allora le mogli cominciano una serie di telefonate, Chiamano la base, ma nessuno può rispondere alle domande. Le altre mogli non sanno nulla. Ore e ore di incertezza e timore, che nel corso degli anni, con l’aumentare della consapevolezza, diventano perfino terrore.
E Wolfe descrive ancora un altro cerimoniale. Quello ufficiale, sempre uguale a se stesso, che comincia con il rumore di uno o più veicoli lungo la strada che porta alle case dei piloti.
Allora il terrore raggiunge l’apice nell’abitazione davanti alla quale i veicoli si fermano. Uno o più uomini, vestiti secondo il cerimoniale prescritto, si fermano davanti alla porta e suonano il campanello.
Dopodiché la storia è sempre quella. Una moglie, ora vedova, che non ha più nessun motivo per restare in quella casa, da sola e con il proprio dolore, carica la macchina, imbarca i figli e se ne va.
Dove? Dipende. Sicuramente verso un’altra vita. Con quella ha ormai chiuso.
Chi volesse saperne di più su questo aspetto della realtà delle mogli degli astronauti (che è come dire le mogli dei piloti, dato che tra questi gli astronauti venivano selezionati) può leggere il libro “The astronaut wives club“, la cui recensione è presente in questa stessa sezione del sito Voci di hangar.
La vedova che se ne va lascia indietro un mondo del quale ha fatto parte, ma in maniera molto marginale. Un mondo con il quale l’unico legame era suo marito. Non sapeva quasi nulla di quel mondo. I piloti stessi non ne parlavano, nascondendo specialmente i rischi elevatissimi connessi con il loro lavoro. E quel marito non c’era più. Letteralmente.
Una delle frasi che venivano scritte nei rapporti sugli incidenti di volo era che il pilota risultava “burned beyond recognition“, bruciato oltre la possibilità di riconoscerlo. Terrificante.
La NASA sperimentò di tutto e di più. Anche velivoli improbabili. Anche partorendo veri e prori abomini aeronautici. Tutto in nome della ricerca. Questo F-8 Crusader – o quel che ne rimane – fu dotato di un ala supercritica al posto di quella originale e testimonia in modo inequivocabile la necessità dell’ente statunitense di verificare la bontà di intuizioni e tecnologie rivoluzionarie. In particolare, si riteneva che un ala con profilo supercritico potesse ridurre i problemi delle onde d’urto che si sviluppano sul dorso di un profilo alare convenzionale quando la velocità è prossima a Mach 1. La foto risale al marzo 1973. Fortunatamente questa specie di Frankenstain dell’aria non fu mai costruito in serie.
Eppure, nonostante la frequenza di questi incidenti, nessun pilota pensava di andarsene da quella realtà pazzesca. La condivisione del rischio portava allo sviluppo di uno spirito di corpo fortissimo.
Detto fuori dai denti, ogni pilota preferiva morire piuttosto che girare la schiena e andarsene verso una vita più sicura, lasciando indietro i propri “fratelli”.
La selezione implacabile subita per arrivare fino a far parte di un reparto, andava via via rafforzando quello spirito di sacrificio che serviva per poter affrontare il resto e andare più avanti, verso limiti più lontani e perfino oltre. Ognuno si sentiva di avere la stoffa giusta, ma doveva continuare a dimostrarlo, ogni giorno, ogni ora, ogni momento.
Il pilotaggio, per esempio, richiedeva livelli di abilità ed esperienza elevatissimi, specialmente per i piloti che andarono a far parte del reparto sperimentale, dove venivano testati tutti, proprio tutti, gli aerei che poi venivano assegnati ai reparti di volo. La più famosa scuola per test pilots era quella di Edwards. Ancora oggi esiste. Si trova nel deserto del Mojave (o della Sonora) a 150 miglia a Nord-Est di Los Angeles.
Ovviamente, l’attività che un reparto sperimentale svolge ogni giorno, comporta dei rischi, perché anche i test sugli aerei richiedono di spingere il limite sempre più avanti.
Se un aereo può raggiungere una velocità x in linea retta, comportandosi in un certo modo, come si può aumentare questa velocità e vedere come reagirà l’aereo?
Allora si spinge la cloche in avanti, picchiando verso terra. Dieci, cento chilometri orari in più. Tutto ok.
Perciò facciamo un altro volo. Aumentiamo di altri cento chilometro orari. Tutto ok? No? Si produce una lieve deviazione dalla traiettoria?
Allora si studia il perché. E poi si risolve il problema e si ricomincia a spingere oltre.
Sempre così
Il pilota collaudatore della NASA Bill Dana si concede un istante di riposo dopo essere atterrato felicemente con il suo abominevole velivolo a fusoliera portante HL-10 sull’immensa pista naturale costituita dal lago salato prosciugato della base Edward. Lo scatto coglie l’istante in cui avviene il passaggio (in realtà l’atterraggio) del colossale bombardiere strategico B-52 appositamente modificato per portare ad alta quota proprio il mostriciattolo HL-10 che non è dotato di propulsione. La NASA infatti stava sperimentando velivoli pilotati che veleggiassero fino a terra, di rientro dallo spazio, e potessero atterrare comodamente a Edward come un normale velivolo invece di dover procedere al disagevole splash-down. A torto o a ragione questo è uno di quei velivoli di ricerca che fu l’antesignano dello space Shuttle. Scatto del maggio 1969. Foto NASA
Chuck Yeager, forse il più famoso test pilot di Edwards, ha oltrepassato il muro del suono per primo (almeno ufficialmente) operando in questo modo.
Ma facendo così, non sempre le cose vanno bene.
Tanti piloti sperimentali sono svaniti in una palla di fuoco, per aver oltrepassato i limiti, anche di un solo capello in più.
Oppure si sono trovati intrappolati in una macchina impazzita che in una manciata di secondi li ha trascinati a schiantarsi al suolo o a disintegrarsi in volo in una nuvola di detriti.
La base aerea di Edwards, nel corso degli anni, si è andata allargando a dismisura. E ovviamente, all’interno di essa sono state costruite strade, piazze e viali. Ad ognuna di esse si è dovuto dare un nome. Ma non ci sono stati problemi, visto il gran numero di piloti che in quella base hanno operato e sono caduti. Ogni tanto, qualche pilota, appena risolta un’emergenza, ridendo con gli amici, diceva: “ho deciso di risolvere il problema. Sapete, non ci tengo a dare il nome a qualche via di questa base…“.
Ok. All’epoca esistevano già i seggiolini eiettabili. Ma anche quelli erano oggetto di test, erano imperfetti e costituivano proprio l’ultima possibilità.
Si sapeva di piloti che li avevano usati e si erano salvati. Ma parecchi avevano avuto problemi nell’uscita dalla cabina. Molti avevano urtato un braccio o una gamba contro i bordo. Avevano perso il braccio o la gamba, nel migliore dei casi avevano perso soltanto una mano o la rotula di un ginocchio.
Nell’uscire, poi, ad alta velocità, l’effetto del muro d’aria sul corpo umano poteva comportare risultati devastanti. Chi riportava solo il distacco della pelle del viso era fortunato.
Per questo molti piloti preferivano lottare contro il velivolo impazzito per cercare di riprenderlo, fino ad infilarsi per terra, piuttosto che affrontare il terribile lancio con il sedile eiettabile.
Ora una verità più incredibile di tutte.
Ancora un velivolo di ricerca con fusoliera portante. Stendiamo un velo pietoso sull’aspetto della macchina
Si penserebbe che, alla morte di un pilota, un fratello in armi, un amico, uno con il quale si condividono giornalmente tanti rischi, uno che ha la stoffa giusta, altrimenti non sarebbe lì, tutti gli altri si dimostrino addolorati. Abbiamo visto, invece, che nessuno ne parla volentieri, tutti rifuggono l’argomento. E fin qui va anche bene. Non si debbono mostrare segni di debolezza.
Invece si andava oltre.
Proprio il fatto che quel pilota aveva avuto un incidente ed era morto, era la miglior dimostrazione che in qualche modo se l’era cercata. Si dicevano, a mezza bocca, frasi del tipo: “quell’idiota doveva saperlo che non poteva rallentare in quel modo senza prima abbassare i flaps. Doveva saperlo che avrebbe stallato“… “e’ stato uno stupido. Si è voluto infilare per terra in quel modo… doveva richiamare molto prima“… etc
Quasi come se fosse tutta colpa sua.
E poi, dulcis in fundo, da quel momento in poi, anche senza che fosse detto apertamente, nell’ambiente serpeggiava la convinzione che quel pilota, in fondo… non aveva la stoffa giusta…
Avere la stoffa giusta era un’ossessione che portava a fare cose inaudite. Nel libro ce ne sono molti esempi. Qui ne riporterò uno per tutti, neanche il più emblematico.
Un pilota di nome Gus Grissom, che poi diverrà astronauta e morirà insieme ad altri due nel rogo divampato all’improvviso all’interno di una navicella, al suolo, durante un addestramento, fu mandato in Corea a combattere contro i cinesi.
Una sola sigla: X-15!
I piloti americani usavano gli F86 e combattevano contro i MiG cinesi. La sera, per uscire dalle basi e recarsi agli alloggi decentrati, prendevano un autobus. Grissom rimase esterrefatto quando vide che soltanto i piloti ai quali i MiG avevano sparato durante i combattimenti in volo potevano stare seduti durante il breve viaggio. Gli altri dovevano restare in piedi. Quelli seduti, se erano lì nonostante tutto, era segno che avevano superato una prova. Avevano la stoffa giusta. Gli altri, rimanendo in piedi, dimostravano di riconoscerlo e così doveva essere, almeno finché anche loro non si fossero presi qualche mitragliata e se la fossero cavata.
Grissom, il giorno dopo, a bordo di un F86 volò verso Nord, superò il fiume Yalu entrando nello spazio aereo nemico, combatté contro alcuni MiG, tornò alla base e, nel viaggio successivo, si sedette di santa ragione a bordo dell’autobus.
Alla ricerca spasmodica di conoscenza dei fenomeni aerodinamici tipici delle altre velocità, la NASA diede il via a una serie piuttosta numerosa di velivoli sperimentali da ricerca scientifica, banchi di prova per soluzioni ingegneristiche e tecnologiche. Erano i cosidetti velivoli “X”. Ebbene questa specie di missilone qui ritratto, si chiamava: “Stiletto” e, per la cronaca numerica, X-3. Fu ideato per sfondare la barriera dei Mach 2 ma, nonostante fosse costruito per lo più in titanio e avesse una forma affusolatissima, era ampiamente sottopotenziato e dunque non riuscì molto utile alla causa della NASA.
Ora ce l’aveva anche lui la stoffa giusta.
Il terzo capitolo è dedicato a Chuck Yeager. Forse uno dei piloti più grandi che l’America abbia avuto. Per lui non può bastare un capitolo. Infatti questo personaggio ricorre sempre in ogni storia, in ogni libro, anche in questo. Wolfe ne parla perché non si può neanche accennare alla base di Edwards senza menzionarlo, dal momento che Yeager è praticamente vissuto in questo luogo e ne è diventato una specie di Re.
Yeager è colui che ha la stoffa giusta per definizione.
La base si trovava nel luogo più sperduto della Terra, in mezzo al deserto, dove il vento la faceva da padrone, con escursioni termiche che arrostivano di giorno e gelavano di notte. C’erano poche baracche e parecchie tende. Una sola pista di macadam serviva tutto il traffico, sebbene in certe stagioni si potesse utilizzare anche il fondo di un lago che, a parte il periodo invernale, quando era coperto da pochi centimetri di acqua, costituiva una immensa pista naturale con il fondo livellato, liscio e duro.
La località si chiamava Muroc e prendeva il nome proprio dal lago.
Dopo la base si è estesa per diventare quella che è oggi Edwards Air Base, ma a quel tempo era un posto infernale. Per fortuna, a sud ovest della base c’era una specie di ritrovo gestito da una intraprendente signora di quaranta e passa anni, Pancho Barnes.
Pancho era un soprannome, ma il personaggio meriterebbe un libro intero soltanto per lei. Gestiva il ritrovo con maestria. Era lei stessa un’aviatrice, aveva partecipato a gare aeree, aveva fatto parte di un circo volante e aveva perfino fatto contrabbando di armi, con aerei e mezzi terrestri, per certe vicende che coinvolgevano il Messico in quegli anni.
Lo “splash-down” ha sempre costituito l’ultima fase del volo di rientro in atmosfera delle navette spaziali statunitensi. In altri termini, appese a giganteschi paracadute e rese gallegiabili dalla loro intrinseca leggerezza e forma o aiutate da palloni gonfiabili, esse ammaravano in acqua, nell’Oceano. Gli astronauti e il veicolo spaziale venivano poi recuperati da un elicottero decollato da una nave appoggio (solitamente una portaerei, che incrociava in zona). Fatto salvo lo Space Shuttle che planava a mo’ di aliante sulla pista di un aeroporto o di un lago salato prosciugato, tutte le navette del programma spaziale statunitense rientrarono sulla Terra a mezzo dello splash-down. Dalle primissime del programma Mercury alle ultime inviate nello spazio. Tuttavia questa soluzione fu ben architettata e meditata, soprattutto in virtù di una serie di considerazioni banali: il nostro pianeta è coperto per lo più di acque, il punto di rientro è abbastanza premeditabile, le navette sono a perfetta tenuta stagna (dovendo volare nello spazio!), un atterraggio – ossia sulla dura terra – potrebbe essere rovinoso se non catastrofico. In effetti questa soluzione non fu l’unica a essere valutata. I tecnici della NASA sperimentarono infatti anche un’altra opzione: l’ala di Rogallo. Gertrude Rogallo e suo marito Francis Rogallo, un ingegnere della NACA (poi diventata NASA), crearono un’ala autogonfiante che chiamarono “Parawing”, conosciuta più tardi come “Rogallo Wing” (ala di Rodgallo, appunto) alla quale, almeno nelle intenzioni, sarebbero state appese le navette del programma Gemini durante il loro volo di rientro. Naturalmente, prima di effettuare prove reali, furono effettuate molte simulazioni – e questo scatto testimonia proprio le prove effettuate presso la galleria del vento del Centro Ricerche Langley –. Il desiderio di far atterrare anziché ammarare le navette spaziali era grande ma, purtroppo, l‘ala di Rogallo manifestò diversi problemi che la NASA non si prese l’onere di risolvere e il progetto fu abbandonato definitivamente. In realtà la NASA non abbandonò mai del tutto l’idea del veicolo spaziale che atterra e, dopo la sperimentazione di numerosi velivoli a fusoliera portante, giunse appunto allo Space Shuttle. Molti anni dopo, certamente. L’ala di Rogallo costituisce invece l’antesignana dei moderni deltaplani e questo è il motivo per cui i vololiberisti, in particolare i deltaplanisti, dovrebbero nutrire imperitura riconoscenza alla NASA, al programma spaziale statunitense e, in ultima analisi, a Francis e Gertude Rogallo.
Bestemmiatrice e spesso vagamente volgare nei modi, anche peggio degli uomini e perfino dei militari, parlava uno slang strettissimo. Aveva anche alcune ragazze giovani e disponibili, che gestiva e proteggeva. Era un personaggio duro, ma anche simpatico. Davvero l’unica donna che potesse reggere il confronto con i piloti che andavano da lei quando erano fuori servizio. Si faceva rispettare e veniva rispettata. Tutti le attribuivano una qualità che in quell’ambiente era l’unica che contasse: aveva la stoffa giusta.
Di lei, e di Chuck Yeager, si parla di più e meglio in un altro libro autobiografico scritto proprio da Yeager, intitolato “Yeager, un autobiography“.
Ma con il terzo capitolo comincia la storia dell’astronautica. C’era un prototipo, ad Edwards, una specie di aereo con le ali corte e sottili, forgiato come una pallottola calibro 50. Era propulso da motori a razzo ed era pilotato da un collaudatore civile che sembrava più un attore di Hollywood che un pilota.
Il suo nome, Slick Goodlin resta legato al collaudo di questo mezzo, non per i successi raggiunti, piuttosto deludenti, ma per i 150.000 dollari di retribuzione annua. Una cifra enorme, se confrontata con i 3.396 di un pilota militare.
Goodlin si ritirò alle prime difficolta incontrate nell’avvicinarsi alla velocità del suono. Yeager subentrò al suo posto.
La storia che ne seguì è, manco a dirlo, una storia di “stoffa giusta“.
Da qui in poi il libro segue il percorso storico dello sviluppo delle conquiste spaziali, a cominciate proprio dai primi voli dell’X1, fino all’X20 e oltre. Dopo vengono le missioni Mercury, poi le Gemini e infine le missioni Apollo.
Il personaggio Yeager è sempre presente. Nel libro ci sono molti racconti, molti episodi dei quali è protagonista.
Tom Wolfe, al secolo Kennerly Wolfe Jr., classe 1930, è stato un giornalista statunitense per alcuni versi rivoluzionario, scrittore assai singolare dedito alla narrativa e principalmente alla saggistica, non ultimo critico d’arte. Ci ha lasciato nel 2018 alla venerabile età di 88 anni vivendo intensamente la professione di giornalista tanto da segnare in modo indelebile il mondo giornalistico ed editoriale statunitense e, probabilmente, anche mondiale. Si laureò presso la prestigiosa università di Yale e, dopo una breve gavetta in qualità di reporter presso lo Spriengfied Union (modesto quotidiano del Massachusetts), approdò al Washington Post e quindi al prestigioso Herald Tribune di New York. Scrisse una sequela notevole di articoli giornalistici e di saggi. Tra questi ultimi c’è proprio “The right stuff”. Infine diede alle stampe solo quattro romanzi di cui “Il falò delle vanità” del 1987 è considerato quello di maggior successo anche in virtù della sua trasposizione cinematografica (che non ebbe affatto successo nonostante un cast stellare). Insignito di numerosi premi e riconoscimenti, a lui si deve l’invenzione del neologismo “radical chic” e, ovviamente, “the right stuff” nonché la creazione una nuova corrente narrativa nell’ambito giornalistico che è stata da lui definita “new journalism”. Egli fu anche un fervente sostenitore del “realismo”, ossia la necessità dei romanzieri statunitensi di tornare al realismo e al bel linguaggio che furono dei grandi autori statunitensi come Faulkner, Hemingway, Fitzgerald. E’ qui immortalato già avanti con gli anni in uno dei suoi abituali abbigliamenti.
Yeager non fu selezionato come astronauta. I motivi sono molti, uno fra tutti è la mancanza di una laurea, ma forse ce n’è un altro di cui non si fa menzione. Yeager era un pilota stick and rudder, come dire tutto cloche e pedaliera, un praticone, uno che vola con il sedere.
In questo scatto Tom Wolfe è ritratto nel 1972 in età giovanile con, sullo sfondo, una rampa di lancio del Kennedy Space Center di Cape Canaveral. “The right Stuff” fu pubblicato diversi anni dopo, a conclusione di una meticolosa opera di ricerca e verifica documentale sul campo che impegnò l’autore per diversi anni, appunto. Invecchiando Tom divenne sempre più eccentrico, una vera e propria icona del dandy conservatore. Era abituato a vestire in completi bianchi o comunque di colore chiaro di ottima fattura (probabilmente italiana), indubbiamente elegantissimi e un po’ “old fashion”. Non disdegnava le cravatte a pois, il panciotto, il bastone, le ghette e il cappello, Era comunque un eclettico, un creativo e nel giornalismo era a maggior ragione un creativo singolare grazie alla sua prosa audace e anticonformista. Wolfe in fondo era davvero un dandy della Virginia (era nato a Richmond) che si divertiva ad osservare i suoi simili, non manifestava nei suoi scritti granché apprezzamento per il look sdrucito dei ragazzi dei college degli anni ’70 e ’80 o le abitudini sessuali e linguistiche delle nuove generazioni. Insomma un vero conservatore, irriverente, ma pur sempre un conservatore. Un signore a dir poco bizzarro. Attaccabrighe anche in età avanzata che non si privava certo del piacere di spettegolare come si fa normalmente nei salotti frequentati da signore benestanti, bigotte e poco inclini alle novità. Il tono sempre mordace dei suoi articoli, il suo linguaggio vivace e originale, hanno però incorniciato Tom Wolfe quale un personaggio famoso e apprezzato, forse uno tra i più grandi giornalisti statunitensi della storia del giornalismo a stelle e strisce.
Per la nuova figura di astronauta era necessario avere qualcosa di più. Oltre ad essere un pilota bisognava assomigliare piuttosto ad una sorta di scienziato, un geologo, soprattutto. Inoltre, i modi da padreterno di Yeager non andavano bene a molti dei nuovi.
Una situazione già vista anche da noi, nel nostro piccolo, quando gli aeroclub erano frequentati da istruttori che avevano fatto la guerra, che avevano combattuto e si trovavano ad istruire ragazzi giovani appena diplomati. Per i veterani i giovani erano solo delle pappe molli, per non usare termini peggiori. E per gli allievi, i modi duri di certi istruttori erano percepiti come arroganza, ignoranza e violenza gratuita.
Il successo del saggio di Tom Wolfe fu immediato ed enorme. Lo testimoniamo le numerose edizioni (e quindi copertine) che sono state pubblicate nel corso degli anni per il mercato di lingua inglese . Qui ve ne offriamo una breve carrellata.
Non è stata la norma. Io ho avuto solo ottimi istruttori, persone giuste, dure soltanto quando serviva. Ma lo stereotipo del top gun c’è sempre stato.
Nelle diverse copertine è ricorrente il tema del X15 … a dimostrazione che l’aereo razzo che fu precursore delle missioni fuori dell’atmosfera riveste un aspetto importante nel respiro generale del volume
Nei libri che ho letto, scritti da chi, con Yeager, ha avuto una stretta convivenza, nessuno dice apertamente nulla di male di lui. Però, dal modo come se ne parla, da ciò che si dice e da ciò che non si dice, ma si lascia intendere, si comprende il vero pensiero soggiacente. E questo dimostra come anche ad Edwards l’era post-seconda guerra mondiale sia terminata lasciando il posto a quella pre-spaziale e poi spaziale. E il passaggio non sempre è stato indolore.
Il libro affronta un altro aspetto, anche questo davvero interessante, della marcia verso la conquista dello Spazio: quello della medicina aeronautica che deve evolversi e diventare medicina spaziale. Non si sapeva quasi nulla della reazione del corpo umano in un ambiente tanto diverso.
I medici intrapresero strade sconosciute e cominciarono ad acquisire dati con i mezzi che avevano.
I piloti si trovarono ad essere utilizzati come cavie.
E’ interessante scoprire come, quella che oggi è diventata la medicina aerospaziale, si sia sviluppata, con il metodo dell’apprendimento per prove ed errori, in un campo tanto affascinante quanto nuovo e sconosciuto. Bisogna leggerlo, questo libro. Una buona parte di esso riguarda proprio lo sviluppo della medicina spaziale.
Tanto per fare un altro esempio, i medici si trovarono ad affrontare il problema della mancanza di intimità che due o più uomini, stretti in una capsula delle dimensioni di una Volkswagen Maggiolino, potevano avere nell’espletare i loro bisogni fisiologici. E’ chiaro che la vergogna poteva indurli a ritardare la risoluzione di questi bisogni con conseguenze facilmente immaginabili. Era necessario tenere conto anche di questo, nelle selezioni.
Perciò, almeno nei primi anni, i piloti si trovarono a subire tutta una serie di test, con tubi inseriti in ogni orifizio possibile e poi, in quelle condizioni, venivano fatti spostare in un altro reparto, passando, però, in mezzo alla gente che affollava i locali intermedi. Era un test come un altro.
La locandina del film in lingua inglese. Come spesso è accaduto nella storia della cinematografia, se un romanzo consegue ottimi, o semplicemente buoni risultati di pubblico (= vendite), una trasposizione sul grande schermo è pressoché automatica. Ossia qualunque produttore sarà disposto a investire somme consistenti per realizzare una pellicola con un pubblico potenziale già entusiasta e disposto ad accorrere nei cinema. Praticamente quello che è capitato anche al saggio di Thomas Wolfe, appunto. Così, a fronte del notevolissimo successo editoriale, nel 1983, anche “The Right Stuff” diventò un film dal titolo omonimo, diretto da Philip Kaufman e interpretato da Sam Shepard, Ed Harris e Dennis Quaid. L’adattamento cinematografico ebbe un enorme successo di pubblico e di critica tanto da conseguire ottimi risultati al botteghino e, soprattutto, a strappare una notevole sfilza di premi minori e ben 4 statuette dell’Oscar: miglior montaggio, miglior montaggio sonoro, miglior colonna sonora e miglior sonoro. Niente male, non trovate? D‘altra parte, anche il film aveva la “stoffa giusta” … per il successo, s’intende. In Italia il film assunse il titolo: “Uomini veri”. Ma non è questa la notizia. Quando poi l’industria cinematografica è a corto d’idee e i canali televisivi lo sono ancora meno (non sanno più come riempire i palinsesti h24), gli sceneggiatori e i produttori riciclano ciò che in passato ha avuto successo ed ecco che – notizia di queste settimane – il saggio di Tom Wolfe diventerà una serie televisiva che porterà lo stesso titolo del libro e del film. Staremo a vedere se, come si suol dire, anche la serie tv avra la “stoffa giusta”!
Evidentemente, anche per questo bisognava dimostrare di avere la stoffa giusta.
Oggi, con la tecnologia che si sviluppa in maniera esponenziale, mentre già si affaccia lo scenario dell’Intelligenza Artificiale, la stoffa giusta finirà per averla il computer. E allora, davvero, qualunque uomo potrà fare qualunque cosa. Perché la farà il suo computer. O magari, il suo smartphone, dal momento che l’Intelligenza Artificiale, ormai dilaga ovunque, specialmente sui telefonini.
Dal libro di Wolf è stato fatto un film che ha lo stesso titolo: The Right Stuff.
Consiglio a tutti di procurarselo e di vederlo. A mio giudizio è stato realizzato bene. Ma va considerato come un compendio. Un film è, in pratica, una sintesi.
Nel libro, invece, c’è di più.
Molto di più.
Recensione a cura di Evandro Aldo Detti (Brutus Flyer),
Didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR