Dal mio piccolo aereo di stelle io ne vedo e seguo i loro segnali (..) la voglio fare tutta questa strada fino al punto esatto in cui si spegne Difficile non è partire contro il vento ma casomai senza un saluto.
(Ivano Fossati – “Lindberg”)
L’uomo si sedette su un sasso. Sollevò il piede destro appoggiando il tallone sul ginocchio sinistro. Con un gesto distratto tirò via il calzino e rimase a guardarsi il piede nudo arrossato e gonfio. Poi girò la testa sul collo e dette uno sguardo alla campagna intorno: risaie, pioppi impolverati, anche tanto mais e vacche che si cacciavano le mosche con la coda. Un orizzonte piatto e afoso. Non vedeva un villaggio da almeno tre giorni. Che avesse sbagliato strada?
Proprio quando pensava di essersi perso, sul fondo all’orizzonte vide una nuvola gialla che turbinava su se stessa. Guardò meglio e gli parve di scorgere una carrozza nera che veniva tirata da due, forse quattro cavalli che però si vedevano male, quasi fossero dello stesso colore della polvere … Doveva muoversi da quel sasso se non voleva diventare come una statua di sale e si accinse a rimettere velocemente il piede nella scarpa. Ma prima che avesse il tempo di infilare il calzino fu investito da un vortice di terra mista a sabbia che quasi lo soffocò. Come poteva una carrozza, per quanto tirata da cavalli galoppanti, correre così tanto? Cercò di vedere al di là della polvere e capì che in verità si trattava di una vettura a motore. Era la prima automobile che vedeva in vita sua. Ne aveva ammirate parecchie sulle pagine dei giornali, ma mai gli era capitato di incontrarne una vera, dal vivo. Accidenti che corsa! disse fra sé.
Ma non era finita. La polvere, che aveva appena finito di dissolversi, per la sgommata finale stava tornando ad avvolgerlo, penetrandogli con prepotenza negli occhi, nel naso. Il rumore del motore si era rifatto vicino e palpitante. Chiuse la bocca e serrò le palpebre per proteggersi. Quando le riaprì, vide i parafanghi di una macchina enorme, scoperta, lucida e nera che borbottava come una pentola che bolle. Affacciata al finestrino, con un braccio appoggiato ad angolo, vide una donna che sorrideva. Non sentì cosa gli chiedesse quella voce, ma il suo sguardo si fissò sul minuscolo orologio d’oro che riconobbe immediatamente come qualcosa di conosciuto. Ma dove l’aveva visto e quando? Non riusciva a ricordare. Rimase lì imbambolato mentre la donna, con voce un poco impaziente, gli ripeteva la domanda.
“Allora, andiamo?” – lo disse col suo accento strano, che poi avrebbe capito, compreso, e portato sotto pelle. Ma non in quell’istante. In quell’attimo gli parve una inflessione vagamente sconosciuta, non priva peraltro di magia. Ma poi: dove mai voleva mai andare? A dire il vero non sapeva chi lei fosse, o forse intimamente lo sapeva ma non lo ricordava in quel frangente. Colpa magari dei piedi gonfi o dell’attenzione che stava prestando al calzino per evitare si vedesse che era bucato: sarebbe stato un cattivo (secondo?) esordio verso la ragazza, e non lo avrebbe sopportato, lui per primo; figurarsi lei che era perfettamente in pandant su quel bolide con un giubbino di pelle nero e la sciarpa svolazzante. Se lo diceva sempre tra sé e sé ogni lunedi mattina: bisognerebbe fare pulizia sulla scrivania, almeno ogni tanto. Bisognerebbe mettere ordine. E’ un buon modo di cominciare la settimana. Anche se magari si prende in mano un foglio che avevamo messo da parte con tanta cura e, questo foglio, davvero, non ci ricordiamo più perché era importante. A volte invece si decide di passare oltre e di non mettere a posto la scrivania, pur sapendo che c’è qualcosa da cercare e che ti magari cambierebbe la vita. Quel foglio rimane sepolto e nulla di particolare accade. Non era mai stato un ordinato. Lui. Dunque tenne quel pezzo di carta per anni. Un foglietto sdrucito che lo riportava a lei. Che l’aveva portata lì. Per cui non si fece domande e salì sul bolide.
Era passata da non molto la fine della guerra. E di automobili in giro se ne vedevano veramente poche, ancora meno nelle campagne dove era vissuto. Come aveva fatto ad averla? E poi un modello così lussuoso … Chissà, forse suo padre era uno degli industriali che a cavallo del secolo si erano arricchiti con la nuova industria legata ai motori; una vera esplosione in meno di dieci anni: nel 1896 la fondazione della Ford e della Renault, nel 1899 la Fiat, nel 1900 la Daimler-Benz e nel 1906 la Alfa Romeo. Di sicuro, da come guidava con portentosa maestria quella carrozza mossa a propulsione liquida, garrivano nel suo cuore i geni di quel Cugnot che nel 1770 inventò il primo veicolo semovente a tre ruote con motrice a vapore, o di quel Marcus che più di sessant’anni prima aveva concepito il primo motore a scoppio.
A causa di tutta questa favola che si era costruito in pochi secondi – ma che già gli pareva assodata – Lei gli appariva qualcosa di illusorio, originario, mai guardato prima. Era diversa da come la ricordava, se i ricordi per caso lo avessero aiutato.
Se possibile ancora più bella vestita da pilota, secondo uno stile sensuale e androgino, dove i capi del guardaroba maschile erano resi iper-femminili attraverso piccoli dettagli. Camicia bianca da uomo, cintura in pelle sempre ben in vista su pantaloni attillati, perfetti se infilati un paio di stivali o anche se lasciati lunghi con un paio di stringate. I piedi non riusciva a vederli, ma un distintivo azzurro e nero da club esclusivo spiccava sul petto.
Arrivarono in mezzo ad un prato. Uno dei pochi non messi a coltura e senza fango. Davanti a loro c’era un aeroplano. Anzi l’aeroplano per eccellenza: un Caudron G3. Lei e la macchina apparivano un insieme del tutto indivisibile, neanche Lei fosse un accessorio magnifico nato nell’officina dell’azienda francese Société des avions Caudron per imbellettare oltre misura l’acciaio e gli interni in pelle avorio. Prese il volo … e io con lei. Il maestro di musica e la ballerina: che coppia surreale.
Dall’alto pareva l’America. Non che l’avessi mai vista ma me la aspettavo così. Invece era il Polesine, in verità l’ultima sua propaggine verso l’interno, dalla parte opposta del delta. Ancora da bonificare del tutto da parte del regime, e quindi ancora denso e grasso di miasmi da Missisippi di provincia. Peraltro l’unico posto, probabilmente, dove per giorni si poteva vagare a piedi senza incontrare traccia di una urbanizzazione qualunque. E anche lei sapeva di America, ma diversamente, come latitudine: profumava di Argentina, di Rio de la Plata. Era nata su una nave. Come da tradizione si potrebbe dire: i messicani discendono dagli Aztechi, i peruviani dagli Incas e gli argentini dalle navi. I suoi genitori erano stati emigranti di fine ottocento, nella ondata composta prevalentemente da genti del nord Italia, soprattutto veneti e liguri. Era dunque argentina per vincolo di sangue. E come tutti gli argentini di origine italiana era anche lei una tanos. E, come tutti i tanos, lei non era mai riuscita a imparare lo spagnolo, ma aveva in bocca il lunfardo, quel misto di italiano e spagnolo che si parlava nei sobborghi di Buenos Aires. Una lingua usata nelle liriche dei tangos. Un idioma pericoloso. Meticcio. Un codice dai contorni mutevoli e biechi, che riprendeva molti termini di derivazione italiana, deviandoli però – in alcuni casi pesantemente – di significato.
Ugualmente mutevoli, e sottoposte al gioco sadico di una lingua di confine, apparivano le prospettive del nostro viaggio. L’essere in volo per la prima volta, e l’impossibilità oramai di scendere a terra, mi costringevano ad una sensazione assolutamente nuova e che nulla aveva in comune con la realtà tradizionalmente costituita dalle prospettive terrestri. In definitiva: dovevo arrendermi a Lei e alle nuvole, senza nessun punto fermo se non la stessa mobilità perenne. Una bolla di vento in cui l’occhio non può che osservare e dipingere partecipando alla loro stessa velocità, e imponendosi dunque un disprezzo profondo per il dettaglio e una necessità di sintetizzare e trasfigurare tutto.
Tutte le parti del paesaggio apparivano in volo come appena cadute dal cielo, accentuando i loro caratteri di eleganza e grandiosità, come se l’aeroplano sostituisse la mano del pittore che muove il pennello, o la bacchetta del maestro che dirige la sinfonia. Il tutto perde un centro e assume una plasticità assurda, quasi spirituale. L’aeroplano creava un’ideale osservatorio ipersensibile appeso dovunque nell’infinito, dove è la coscienza stessa del moto che muta il valore e il ritmo dei minuti e dei secondi. Così, dopo l’iniziale titubanza, mi sembrava di essere in volo da una vita.
Dopo essere rimasta in silenzio per tutto il decollo, arrivata in quota attorno ai quattromila lei mi si girò contro e, puntandomi dentro le pupille nero pece, mi disse: “Guardami”. Anzi: Guarda Me. Voleva andare fino a Roma. Non aveva paura di avvicinarsi troppo al sole, né di bruciarsi le ali. D’un tratto mi fu nitidamente chiaro in che storia ero ed ero stato, e mi ricordai di tutto. Così non smisi per tutto il viaggio di guardarla parlando il minimo indispensabile per respirare, e non smisi nemmeno per un frammento di tempo di vedere attraverso lei tutto quello che passava intorno, e sotto. Vuotammo quasi tutto il serbatoio, con andatura da milonga. Un ritmo fortemente cadenzato, una melodia non uniforme. Più spinta e meno spinta. Accelerazione e decelerazione alternate. Titubanza reiterata. Struggente. Violenta. Da bandoneon. Coacervo di tutte la passioni possibili dell’animo umano.
Erano le mie strade, di me e della mia infanzia, ma giunti a questo punto le riconoscevo solo attraverso Lei: che le illuminava e le rivelava dall’alto. Ora, grazie al volo, potevo dire di conoscerle veramente. Davvero. Riconobbi così ad un tratto da lontano anche una strada sgombra. Quelle strade di campagna larghe, con muri lunghi che tornavano utili per i rimbalzi. Trenta, quaranta metri liberi che delimitavano il “campo”, all’interno dei quali da bambino marcavo le porte. Così si segnava il gol: occorreva mira e piede buono. Giocavo per ore e ore, sino allo sfinimento: spesso il pallone finiva lontano, e chi sbagliava a tirare doveva rincorrere la palla, difenderla dai cani, e recuperarla. Ogni caduta, figliastra perenne e implacabile dei contrasti più accesi a centrocampo, scorticava la pelle. Ma le sbucciature erano come trofei: il ginocchio era quasi sempre una crosta che non si rimarginava mai. Li ricordavo come meravigliosi anni senza pretese. Nonostante le cicatrici alle ginocchia. O forse proprio per quelle.
L’atterraggio avvenne a pochi metri dalla casa dove ero nato. Forse si può dire che il desiderio umano è cercare di recuperare il passato, e fare un futuro di ciò che ci manca. E la memoria dell’amore è la genesi di tutto. Lei lo capiva, da emigrante di ritorno quale era, e per questo aveva deciso di atterrare lì. E non a Roma. Roma era solo l’espediente per farmi paura, e per vedere se avessi il coraggio di seguirla ancora, dopo tanto tempo.
Mi accorsi finalmente che l’orologio che portava era quello che le avevo regalato: non poteva essere casuale. Come non poteva essere una coincidenza che mi avesse trovato sul ciglio di quella strada sperduta. Evidentemente mi aveva cercato. Appositamente. Per riallacciare il filo di quel tempo indietro che le lancette avevano aggredito senza però cancellare. Un amore che mi accorsi in volo sapevo cantare a memoria, come le partiture che eseguivo a occhi chiusi. Emozionante come il primo minuto che viene dopo una guerra, quando per quattro soldi la musica suona di nuovo. Una musica dolce e lontana. Come il primo addio.
Mi ricordai allora anche che avevo continuato a cercarla per tutti gli anni. Tutti i santi giorni. Per lettera ma anche col telefono, ove e quando ce n’era la possibilità; però al recapito non rispondeva mai nessuno. Forse quel numero scritto in fretta su un pezzo di carta da pane con una matita di poca punta era sbagliato. Ma non mi arresi, causa la testa dura dell’amore, così ogni giorno feci una telefonata: ogni volta un numero diverso combinando le cifre singole ormai sbiadite e alla fine la trovai. Si era sposata, con un ricco latifondista. Ecco il perché dell’auto roboante da moglie di villano arricchito, da parvenu. E pure l’aeroplano le aveva regalato …
Appena scesi, proprio davanti all’elica, mi chiese di ballare con lei. Era quasi sera, lei aveva gli stivali e io scarpe luride col pollice che batteva in punta. Seppur tragicamente inesatti rispetto ai manuali, e senza musica a guidarci, fu il più bel tango della mia vita. Anzi, lo fu forse proprio per quella imperfezione. Il segreto del tango sta in quell’istante di improvvisazione che si crea tra passo e passo, che rende possibile ballare il silenzio. Una complicità totale e maliziosa, intuitiva ed istintiva. Una intimità senza parole, molto più profonda del semplice contatto fisico. Avvitati insieme e divisi, con una sorprendente sincronia carica di tensione e languore. Di prepotenza e morbidezza.
Non c’è possibilità di errore nel tango, non è come la vita. Per questo il tango è così bello: commetti uno sbaglio, ma non è mai irreparabile, e seguiti a ballare. Così, mentre ballavamo, imparammo a ballare insieme, dipingendo in pochi minuti rapinosi una comune porzione di felicità: l’intesa fugace e irripetibile della coppia ideale, stretta in una ambigua e contraddittoria volontà di possesso temporaneo.
Anche lei aveva voluto ritrovarmi. Non per dirmi “ti amo”. Ma per dirmi bene “addio”, come non era riuscita a fare dieci anni prima. In Argentina.
Mentre se ne andava mi urlò: “Guarda me” in lunfardo significa “stai attento a me” e non: “guardami”!
Non l’avevo capito allora, in Argentina. E nemmeno oggi. Per questo il mio cuore abbandonato ai lati dell’incrocio al termine di quell’ultima notte aveva adesso la faccia del mio calzino. Bucato. E inutile.
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Emanuele Finardi |