In rigorosa osservanza del vecchio adagio popolare secondo il quale non c’è due senza tre, anche Claudio di Blasio, ha dato finalmente alle stampe – non senza difficoltà – il suo terzo travaglio narrativo, pardon … romanzo. Così dopo “Ali di fantasia”, mirabolante tomo di esordio e “La mia parte di cielo” raro esempio di narrativa recidiva, abbiamo la fortuna di leggere già da qualche ora il suo ultimo libro, ancora profumato di inchiostro fumante, “Emozioni in volo”.
Enunciato il titolo, non occorre certo una particolare arguzia per intuire che si tratta di un volume dai contenuti fortemente aeronautici e – precisa il nostro servizio di intelligence – dai risvolti morbosamente autobiografici. D’altra parte chi, come Claudio Di Blasio, emana dalla pelle vapori di kerosene, ha l’incedere pendolante di un elicottero, cerca nel sonno il comando del ciclico e del collettivo o esegue i controlli preaccensione quando carica la moca del caffè, … beh, cosa c’era da aspettarsi? Non certo un trattato sugli effetti terapeutici del ginkgo-biloba, non vi pare?
In effetti, giunti all’ultima pagina del romanzo, possiamo affermare che in questo libro di emozioni se ne vivono in quantità industriale. Intendiamoci: questa è un’opera letteraria che non nuoce gravemente alla salute dei cardiopatici o dei “terricoli” facilmente impressionabili, al contrario. Se c’è un libro che giova a tutti coloro che sono effetti da “aerite” acuta, beh questo è proprio il volume di Claudio di Blasio. Purtroppo non viene riconosciuto come presidio medico dal Servizio Sanitario Aeronautico e dunque per goderne di una dose a ciascuno verrà chiesto di accendere un mutuo ragionevole di 14 euro per la versione in pergamena (cartacea) e 3,49 euro per quella eterea (ebook).
Quanto al volo … beh in questo tomo ce n’è tanto, in tutte le stagioni e in tutte le possibili combinazioni meteorologiche, di giorno come pure all’alba o fino al tramonto inoltrato, in montagna come sul mare aperto. Ovviamente in elicottero. Perché se in “Emozioni in volo” di monotonia si può parlare, ebbene è relativa solo al tipo di macchina volante protagonista: gli elicotteri, appunto, solo e unicamente elicotteri. D’altra parte nessuno è perfetto, men che meno l’autore che, giunto alla venerabile età della pensione, non ha trovato di meglio da fare che raccontare alcuni episodi della sua millenaria carriera di tecnico di volo per la Benemerita. E non solo … perché sono conditi da una serie di gustose barzellette (sui Carabinieri, ovviamente), nonché brevi stralci di vita familiare o vicissitudini da libera uscita. Il tutto in un’alternanza strategicamente vincente.
In effetti il pretesto iniziale del romanzo è la cronaca, minuto per minuto, dal risveglio fino a notte profondissima, dell’ultimo giorno. Sì, avete letto bene: l’ultimo giorno. Quello di lavoro. Perché, cosa avevate immaginato? Perfidi! … praticamente prima di lasciare in modo definitivo il servizio attivo per raggiunti limiti di età. E sarà tutto un rimestare nel pozzo dei ricordi, uno scorrere disordinato di tanti esempi di varia umanità: commilitoni, mariuoli, donne vogliose e cani dal fiuto prodigioso.
Nel corpo centrale del romanzo quel marpione dell’autore ricorre invece a un sottile stratagemma: confessa letteralmente i suoi inizi di vita in divisa! A chi? Non ci crederete: a una vecchia macchina da scrivere sull’onda emotiva di una preannunciata senilità con perdita della memoria a lungo termine. E anche in questo caso avremo modo di perderci nei ricordi teneri e talvolta dall’alto tasso erotico di una giovinezza anagrafica, oltre che professionale, un cui gliene capitano, eccome gliene capitano al nostro protagonista-autore!
Insomma – detto fra noi – leggendo “Emozioni in volo” ficcheremo il naso, i bronchi e pure i polmoni negli affari di Claudio ma s’è l’è cercata lui … d’altra parte c’è chi manifesta al mondo intero il luogo in cui è andato in vacanza o il cibo che ha ingurgitato a cena e chi, come Claudio, si è concesso una seduta speciale di autoanalisi retrospettiva, volgarmente chiamata: autobiografia. Il bello è che lui si diverte a scriverle certe nefandezze di gioventù e noi, curiosi all’inverosimile, lì a goderne lussuriosi.
In effetti, rispetto ai due precedenti romanzi, l’incedere narrativo di Claudio Di Blasio si è fatto meno incerto, se vogliamo meno monotono, più letterario. E non è poco, credeteci. Perché scrivere per anni rapporti di servizio o relazioni tecniche nel linguaggio tipico nell’ambiente delle forze dell’ordine lascia dei segni indelebili in chiunque, anche nel più talentuoso o nel più estroso dei sedicenti autori con la divisa indosso.
Avete presente le paperette che imparano sin da piccole a seguire un tizio con gli stivali rossi? Ebbene da grandi, come se nulla fosse, voleranno accanto a un delta a motore con la vela rossa. Ecco: non vogliamo dare della “paperetta” al nostro Claudio, no, certo che no … però lui ha volato per talmente tanti anni in formazione scalata a “V” che ora gli rimane difficile volare da solo in tondo come un falchetto. Nello specifico, egli è passato dalla metrica di un verbale di impiego o di una denuncia di avaria alla narrativa, quella libera, assolutamente emozionale. Non si tratta di un vero miracolo?
E infatti Claudio c’è riuscito quasi completamente tanto che in questo romanzo unisce in modo gustoso il discorso diretto e quello indiretto, personaggi ed episodi dinamici con riflessioni, emozioni e battute fulminanti.
La sua prosa è perciò piacevole e solo in alcuni tratti possiamo trovare lunghe descrizioni in terza persona, traccia dell’antico retaggio professionale. Ovviamente non mancano le espressioni tecniche tipiche del mondo aeronautico ma nulla di così indigesto per chi non mai masticato prodotti lessicali provenienti da quell’universo. A questo scopo ci sono dei digestivi fulminanti costituiti da note a piè pagina oltremodo utili. Dunque non avete alibi!
D’altra parte – e speriamo che i lettori di Claudio di Blasio non ce ne vogliano – questo tipo di testo rimane un genere di nicchia, ossia riservato a pochi appassionati di volo o agli amici minacciati fisicamente dall’autore. Diciamocelo in tutta onestà: “Emozioni in volo” non sarà mai un best-sellers che frotte di lettori/lettrici si litigheranno sotto l’ombrellone o che sbirceranno l’un l’altro i pendolari in autobus, né sarà stampato in decine di migliaia di copie contraffatte … e forse per questo che – a maggior ragione – occorre sottolineare la perseveranza di Claudio nell’averlo scritto e nell’editore ALI RIBELLI nell’averlo pubblicato.
Ecco, venendo all’editore, concedeteci una piccola deviazione su strada sterrata.
Ora vi chiedo: come si fa a trovare un editore – ALI RIBELI si chiama – con un nome che è tutto un programma? Comprendiamo che Claudio abbia ancora delle aderenze con i servizi informativi dei Carabinieri, ma a scovare un editore con siffatto nome riuscirebbe solo il KGB! Ne convenite? Claudio può.
ALI RIBELLI è una contraddizione nei termini … ma ve lo immaginate l’ala che si ribella alla fusoliera? Che potrebbe fare? … staccargli i longheroni? La semiala destra si dissocia dallo stabilizzatore e quella sinistra entra in sciopero contro il radome? C’è del fantascientifico in questo nome!
A parte gli scherzi, lasciateci esprimere una nota di lode nei confronti di questo editore, temerario, non c’è che dire. Non tanto per aver pubblicato “Emozioni in volo” (che già meriterebbe la nostra riconoscenza) ma di averlo fatto praticamente “a gratisse” e, per giunta, a un prezzo di copertina onesto. Di questi tempi …
Tenete conto che i precedenti libri dell’autore sono stati pubblicati adottando la soluzione del self-publishing, termine elegante per dire brutalmente: paga l’autore per vedere stampato e distribuito (forse) il suo libro.
Lode dunque a questo giovane editore che ha creduto in Claudio di Blasio il quale, oltre ad aver risparmiato in sacco di quattrini – confessa! -, ha ricevuto una botta clamorosa alla sua autostima di scrittore. E ora chi lo terrà più? Starà già scrivendo il quarto libro! Come minimo. Se non due in contemporanea!?
E’ pur vero che nell’ampia collana editoriale di un editore che ha un nome così aereo, “Emozioni in volo” è il primo vero volume a carattere aeronautico disponibile (fatto salvo per “Forse che sì forse che no” di D’annunzio). E’ altrettanto vero che un editore dalla vocazione dichiaratamente aerea e che ha la propria sede a Gaeta, città laziale in riva all’omonimo golfo e priva di un qualsiasi straccio di aeroporto o aviosuperficie che dir si voglia, è per forza un temerario, un’anticonformista stile sessantottino. Ne convenite? Onore dunque ad ALI RIBELLI.
Rientriamo in autostrada.
Il carattere tipografico scelto dall’editore (e non certo dall’autore) è adeguato, ben leggibile sebbene avremmo gradito una dimensione più generosa (considerata l’età media dei lettori). Ad ogni modo ha delle dimensioni minime sindacali che hanno comportato uno sviluppo di ben 246 pagine: non poche per un libro di un autore emergente. Noi rimaniamo dell’avviso che la carta costa – è vero – ma la vista dei lettori non conosce prezzo! Magari alla prossima ristampa scegliamo un font un pelo più grande, vero, editore?
Premessa la buona qualità della carta utilizzata (leggermente crema, opaca e di buona grammatura), il lavoro di impaginazione del volume risulta tradizionale, professionale. Oseremmo dire: onesto.
Certo ci saremmo aspettati qualche colpo di originalità da parte di chi ha curato il volume, al secolo Sara Calmosi, magari di quelli che fanno esclamare “uaooo” al lettore (giusto per intenderci) e invece … tutto tranquillo, nessun sussulto.
Esempio: se la parte del testo, nella finzione letteraria scritto con l’ausilio della macchina da scrivere, fosse stata stampata con un carattere tipografico tipo “courier”, ossia tipico delle vecchie macchina da scrivere, ne avrebbe giovato la verosimiglianza della narrazione. Peccato. Magari nella prossima edizione? Patteggiamo almeno il corsivo?!
Altro esempio: perché non chiedere a qualche ex carabiniere, ovviamente pilota, di scrivere una prefazione/postfazione? Anche in questo caso avrebbe impreziosito con un bel cameo il gioiello regalatoci dal buon Claudio di Blasio. Non ultimo ci avrebbe confermato la bontà di quanto da lui scritto. E se fosse tutto un’enorme barzelletta? Almeno avremmo letto un’altra campana, non trovate?
Nutriamo ugualmente qualche riserva per la copertina. Ci domandiamo e vi domandiamo: possibile che l’autore/editore non avessero disponibile una foto più radiosa di quella che hanno utilizzato per la facciata del volume? Già la livrea dei mezzi utilizzati normalmente dai Carabinieri (automobili, o elicotteri che siano) è proverbialmente scura – ma di questo non possiamo certo farne loro una colpa – in più lo scatto è avvenuto in controluce e, per giunta, col cielo grigio e con il soggetto lontano … Risultato? Una fotografia triste, quasi in bianco e nero, anonima.
Ora – l’editore/autore/fotografo ci perdonino … ma la copertina di un Libbro (con la “L” maiuscola e la doppia “B” che fa da rafforzativo) non dovrebbe essere lo specchietto per le allodole? … sempre ammesso che i potenziali lettori siano assimilabili a delle allodole. Vabbè, lo scopo del libro non è quello di procacciarsi le allodole … e allora vogliamo parlare di piccioni? Ebbene qui hai voglia a mettere giù fave per prendere qualche piccione!
Per questo motivo vorremmo lanciare un appello disperato all’editore: “Editore, ella reca il nome di ali mai dome, sempre controcorrente, avverse agli stereotipi, avulse alle convenzioni … ci spiega che c’azzecca ‘sta foto? Per pietà … la cambiamo alla prossima ristampa?”. L’autore le sarà riconoscente con un bacio appassionato (sulla guancia) e noi le proporremo tanti altri autori “ribelli” provenienti dal nostro premio RACCONTI TRA LE NUVOLE. Ci sta?
Se la I di copertina crea qualche instabilità al nostro sistema linfatico, viceversa la IV di copertina costituisce un vero toccasana perché, secondo i canoni tradizionali, sarà possibile leggere una sinossi del volume assai efficace nonché una breve biografia dell’autore (non spudoratamente romanzata come dentro al libro).
Per concludere: questo è un libro che noi abbiamo comprato con piacere e per affetto. Per piacere perché è uno dei pochi volumi in lingua italiana in cui si parla di elicotteri, di aviazione e di Carabinieri tutto assieme nello stesso contenitore; per affetto perché, ricorrendo una frase di pippobaudiana memoria: “L’ho scoperto, io Claudio di Blasio, l’ho scoperto io!” nel senso che questo autore si è temprato nella grande forgia del principe dei premi letterari a tema aeronautico (anche perché è l’unico) che è appunto RACCONTI TRA LE NUVOLE. Di partecipazione in esclusione, di premiazione in pubblicazione nel nostro grande hangar, egli si è trasformato da trancio di metallo appena sagomato a una lama sempre più lucente, affidabile e resistente. Speriamo che non perda il filo!
Ma non è con una speranza che intendiamo chiudere questa recensione bensì con una domanda: premesso che ormai la sua vita ce l’ha raccontata nei minimi dettagli, Claudio di Blasio … di cosa scriverà nel prossimo libro? … degli effetti terapeutici del ginkgo-biloba? Nooooo.
Recensione e didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR
titolo: To fly and fight. Memoirs of a triple ace Colonel C.E. “Bud” Anderson. – [Volare e combattere. ricordi di un triplo asso”]
autore: Clarence “Bud” Anderson con Joseph P. Hamelin
prefazione di: Jack Roush,
Lt General Gunter Rall,
Brig. Gen. Chuck Yeager
editore: Updated Edition
anno di pubblicazione: 1990 (prima edizione)
edizione ebook: agosto 2017
eISBN: 978.1.5245-6342-4
Ci sono personaggi dei quali veniamo a conoscenza attraverso storie che riguardano altri personaggi. Così finiamo per conoscere, indirettamente e quasi per caso, molti aspetti della loro esistenza. Sappiamo moltissimo di loro, eppure restano lì, in secondo piano, nell’ombra. Li vediamo con la vista periferica, sappiamo che ci sono, ma senza farci caso.
Poi capita che, all’improvviso, balzino al centro della nostra attenzione. Di colpo ci rendiamo conto del loro valore, della loro importanza. E capiamo, con nostra grandissima meraviglia, che fino a quel punto, avevamo ignorato qualcuno di grandissimo interesse.
Bud Anderson è uno di questi.
Basta dare un’occhiata alla sua biografia per venire a conoscenza della marea di onorificenze, medaglie, riconoscimenti ed elogi che lo riguardano. Non è certamente un personaggio di secondo piano. E’ un eroe che ha combattuto, non uno (come era normale), ma due periodi di combattimento aereo in Europa durante il secondo conflitto mondiale. Per il secondo si era offerto volontario. Ha abbattuto 16 aerei tedeschi, e poiché si diventa assi dopo cinque vittorie, lui è asso tre volte. E’ stato pilota sperimentale presso la base aerea di Edwards. E ha continuato a volare fino a qualche anno fa, oltre la soglia dei novanta anni.
Chi vuole conoscerlo non ha che da andare su YouTube e digitare il suo nome. E subito si rende conto del perché, nonostante tutto, si sappia così poco di lui.
E’ un personaggio schivo, modesto. Uno che tende a sfuggire ai riflettori. Uno che si allontana subito, appena la luce diventa troppo vivida.
Basta guardare un video, una sua intervista o una sua conferenza, per notare, con profonda sorpresa, quanta semplicità trasmette il suo modo di essere. Siamo investiti da una sorta di grazia, di umiltà, quasi di pudore, di delicatezza.
Racconta fatti di guerra, che dovrebbero esprimere violenza, odio, aggressività, senso di superiorità di chi ha vinto tante volte.
Invece no. Niente di tutto questo.
Guardate i suoi occhi, il suo sguardo.
Esprimono pacatezza, tranquillità e amore.
Si, addirittura amore. Amore per la vita, per il volo, per l’umanità, per il mondo.
Ma, attenzione. Guardate bene. Esprimono anche qualcos’altro.
A volte, da sotto quelle palpebre, semichiuse per riparare gli occhi dalla troppa luce, escono rapidissimi lampi. Come se l’età, sebbene tanto avanzata, non riuscisse ancora a trattenerli.
Sono lampi formidabili di vita, di determinazione, di potenza.
Si vede che quegli occhi hanno visto tanto, anche quello che noi, nati molto tempo dopo, non possiamo neanche immaginare. Ed emettono, a tratti, bagliori di sconfinata esperienza.
Io vedo anche un altro elemento in quegli occhi: la bontà.
Perché, nonostante il nostro personaggio abbia fatto la guerra, non solo in Europa, ma anche in Vietnam e abbia, indubbiamente, ucciso tante persone, è una persona buona.
Un paradosso.
Invece no. Non è un paradosso. La natura umana è questa. Puoi fare la guerra e uccidere ed essere buono allo stesso tempo.
Nel suo modo di parlare, di comunicare, credo di scorgere ancora un altro elemento: la rassegnazione di non poter realmente comunicare con il suo pubblico. E’ consapevole che la gente lo ascolta, certo, ma non può capire proprio tutto. La maggior parte di ciò che ha dentro non si può trasferire a nessuno attraverso le parole.
Ciò che ha visto, che ha provato, fa parte di un mondo che non esiste più, che è sprofondato nel passato. Un mondo che, a dispetto di tutte le interviste e conferenze, resta inesorabilmente dentro di lui.
Clarence Emil “Bud” Anderson, nato il 13 gennaio 1922, mentre sto scrivendo questa recensione al suo libro “To fly and fight”, ha 98 anni.
Questo libro, scritto nel 1990, è stato rivisitato negli anni. L’ultima revisione, del 2017, contiene, nella parte finale, notizie sulla sua vita di oggi.
Oggi Bud non vola più. Sua moglie Ellie è morta anni fa, i figli sono grandi, anzi anziani, se non vecchi, anche loro. Lui continua a vivere nella stessa casa in Auburn, California.
Ellie è sepolta nel Cimitero Nazionale di Arlington. Bud scrive, in fondo al suo libro:
“I will join her there when the time comes. She truly was the best thing that ever happened to me”. – [“La raggiungerò quando sarà il momento. Lei è stata davvero la cosa più bella che mi sia successa”.]
Questo libro fantastico, che comincia con ben quattro prefazioni è uno di quelli dai quali non si riescono a staccare dagli occhi, che non ci si decide mai a chiuderli e appoggiarli sul comodino e finalmente, a tarda notte, dormire.
E’ un libro particolare, che contiene racconti particolari, narrati in modo particolare. A cominciare dai titoli dei capitoli.
La maggior parte dei capitoli, quasi tutti, sono scritti tra virgolette, perché non sono altro che frasi contenute nel capitolo stesso. Frasi chiave, emblematiche. Ma che non rappresentano affatto l’essenza dell’argomento. Semmai appena un passaggio in una narrazione, un pensiero, una considerazione formulata nella più profonda intimità della mente.
Qualche esempio.
Tredicesimo capitolo:
“Hey, man, you be careful with that son of a bitch”! – [“Hey, tu, stai attento a quel figlio di puttana”!]
Quinto capitolo:
“Oh, yeah, I remember you. You are the crazy one”. – [“Oh, si, mi ricordo di te. Sei quello matto.”]
Diciassettesimo capitolo:
“They were talking about impact zones instead of landing areas”. – [“Parlavano di zone di impatto invece di aree di atterraggio”.]
Questi capitoli sono alternati ad interviste a personaggi vari. Molto interessante.
Come ogni buon libro autobiografico che si rispetti, anche questo comincia dall’infanzia.
Per Bud la passione per il volo è arrivata quando aveva circa quattro anni e ha visto passare un piccolo aereo sopra il tetto della sua casa. Esattamente come è stato per me, molti anni dopo di lui. Questo elemento in comune già mi onora.
Poi arriva la tipica esperienza dell’osservazione di aerei da fuori dell’aeroporto della città, in comune con un’infinità di altri personaggi. A conferma che la passione per il volo si contrae negli aeroporti e non si guarisce più.
La narrazione si snocciola attraverso le esperienze successive, il lavoro agricolo nei frutteti della famiglia, la conquista dei mezzi agricoli, trattori, rimorchi, automobili e motociclette. Il tutto accompagnato dalla voglia, sempre crescente, di imparare a volare e poi volare per professione per tutta la vita.
La scuola di volo arriva subito. E la guerra pure.
Presto Bud si trova coinvolto nelle operazioni preparatorie per l’entrata in guerra degli Stati Uniti. Diventa pilota militare. Per qualche anno vola in patria.
Insieme a lui, anche se non proprio negli stessi reparti, c’è anche Chuck Yeager, che diventerà famoso per aver attraversato per primo il “muro del suono”.
Yeager non è un ufficiale. Lo diventerà dopo. Ma per il momento è quello che da noi sarebbe un sottufficiale pilota. Magari un aviere scelto che mira a diventare, col tempo, sergente.
Bud, invece, è un ufficiale. Anzi, viene selezionato, insieme ad un certo numero di altri piloti, perfino come caposquadriglia e addestrato allo scopo sin dall’inizio. Come dire che comincia già da leader. Per tutto il resto della sua carriera non sarà mai gregario.
Le vite e le vicende di questi due personaggi, che non sono amici, ma lo diventeranno solamente ad un soffio dalla fine della guerra, cominciano ad intrecciarsi da questo momento in poi e dopo marceranno sempre parallele. Si scopriranno amici tardi, ma lo rimarranno per sempre.
Al momento in cui scrivo lo sono ancora.
Ogni anno a Duxford, in Inghilterra, ci sono due grandi raduni di aerei della Seconda Guerra Mondiale. Uno si svolge a Luglio e uno a Settembre. Durante queste manifestazioni è possibile vedere tanti aerei di allora, bombardieri, caccia, aerei da collegamento etc.
E’ possibile sentire il vero suono emesso da quei motori potentissimi. Un suono che ormai non si sente quasi più, se non, appunto, in queste occasioni, oppure nei video.
Nella manifestazione sono compresi alcuni numeri che mostrano al pubblico come venivano impiegati questi aerei. Ci sono spettacoli di finta caccia, combattimenti aerei, scorta ai bombardieri, attacchi al suolo etc. Tutto molto spettacolare e rappresentativo di come poteva apparire un tempo il mondo aeronautico. Un mondo scomparso. Oggi è tutto diverso.
Bud e Chuck, giovanissimi, raggiunsero insieme l’Inghilterra e subito presero a volare su uno di quei caccia. Erano voli in formazione con altri caccia oppure insieme ai bombardieri. Entrarono a far parte di quel mondo che gli show aeronautici cercano di far rivivere.
Ma, come ho detto, oggi è solo una rappresentazione.
Allora era la vita reale.
Il libro parla diffusamente di questa vita reale, dove si volava per difendere i bombardieri dai caccia nemici mentre andavano da Leiston, una cittadina poco lontana da Londra, a colpire obiettivi all’interno della Germania o dell’Europa invasa dai tedeschi.
Parla di combattimenti aerei, di abbattimenti, di rischi immensi. Parla di aerei partiti e di aerei tornati.
Ma soprattutto di quelli che non tornavano.
L’aspettativa di vita era misera. Ogni giorno poteva essere l’ultimo. Si diceva che i più non sarebbero arrivati a superare le prime cinque missioni, perché si cominciava senza esperienza. Già dopo un paio di missioni l’esperienza aumentava e aiutava a superare la terza e così via. Si diceva: “do five, stay alive“. Cioè, “supera la quinta, resti vivo“.
Dopo cinque missioni si considerava di aver accumulato abbastanza esperienza per evitare i rischi inutili e cavarsela nei combattimenti manovrati, detti “dogfightings“.
Per buona parte il libro parla di questo periodo, della guerra, delle tecniche di combattimento, dei tipici errori fatali dei quali approfittare quando a farli è il nemico e da non fare per nessuna ragione, pena la vita.
Ma parla anche dell’aereo sul quale volavano, il P51, il fantastico caccia americano capace di un’autonomia di volo eccezionale. Con un serbatoio supplementare sganciabile in volo era in grado di accompagnare i bombardieri sull’obiettivo e di riportarli alla base, affrontando anche i combattimenti con i velivoli avversari. Nessun altro caccia, né inglese né americano, poteva fare altrettanto.
Ci sono un’infinità di racconti. E’ da questi che non si riesce a staccarsi. Sono talmente vividi, precisi, accurati che sembra di essere lì. Si parla di fatti, ma anche di persone, di usi e costumi, di mentalità del periodo.
Si parla anche di Chuck Yeager.
Sebbene operasse in altre squadriglie, Chuck era nello stesso Gruppo, il 357°. Le gesta di Yeager cominciavano a fare di lui un personaggio piuttosto famoso.
E si parla anche di quelli che non tornano, che esplodono in volo, che si devono paracadutare in territorio nemico. Di quelli che si considerano salvi e non torneranno mai più e di coloro che, invece, vengono ritenuti morti, ma che dopo la guerra riappariranno come per miracolo.
Yeager viene abbattuto nel sud della Francia, ma riesce a tornare in Inghilterra e a riprendere i combattimenti.
Chi volesse saperne di più può leggere il suo libro “Chuck Yeager, an autobiography“, la cui recensione è presente in questa stessa sezione del sito Voci di Hangar.
C’è la guerra e manca il tempo per conoscersi e frequentarsi adeguatamente, in queste condizioni.
Bud e Chuck sanno l’uno dell’altro, delle rispettive gesta, ma tutto qui.
Ogni minuto è pieno di pericoli, in guerra.
“…than losing friends goes with the territory”. – [“… allora perdere gli amici va da sé”.]
Per questo, dice Bud, sin da subito ha cominciato ad alzare muri. A non lasciare che i rapporti si stringessero con qualcuno. A non fare amicizie.
Yeager dice di aver fatto la stessa cosa.
“Death is a thing that you have to get used to, cruel and hard as it sounds”. – [“La morte è una cosa alla quale ti devi abituare, per quanto duro e crudele possa sembrare”.]
Il libro contiene molte considerazioni sulla guerra e bisogna proprio leggerlo. Non posso riportarle tutte in una recensione. Anderson dice che lui combatteva volentieri. Volava volentieri, anche se per farlo doveva combattere. Non ha mai sparato al pilota che scendeva con il paracadute, ma molti lo hanno fatto. E neppure ai piloti che erano riusciti a fare un atterraggio di fortuna ed erano usciti vivi dall’aereo danneggiato. E anche questo molti lo facevano.
C’erano personaggi che letteralmente amavano la guerra. Che provavano piacere nell’uccidere e distruggere.
Né lui né Yeager erano tra questi, anche se la gioventù fa vedere le cose in un certo modo.
“I was young, then, and wild enaugh to think aerial combat was fun (in this I was no great exception). But your feelings about death and war tended to be very different once your hair has turned color… wars are stupid and wastful, not glorious”. – [“Ero giovane allora, e abbastanza selvaggio da pensare che i combattimenti aerei fossero divertenti (in questo non ero una grande eccezione). Ma quello che uno crede sulla morte e la guerra tende a diventare molto diverso una volta che i capelli hanno cominciato a cambiare colore… le guerre sono stupide e costose, non gloriose”.]
Comunque, alla fine anche la guerra ebbe termine.
Chuck e Bud avevano soltanto un’altra missione da compiere e si misero d’accordo per farla insieme e poi tornare insieme negli Stati Uniti. Di questo volo ho già parlato nella recensione del libro di Yeager. In estrema sintesi, si staccarono dalla formazione subito dopo il decollo. Loro erano di riserva. Nel caso qualcuno avesse avuto problemi alla partenza ne avrebbero preso il posto. Ma tutti decollarono senza defezioni.
Così si allontanarono per conto loro. Attraversarono l’Europa fino alle Alpi, sganciarono i serbatoi sul Monte Bianco, si divertirono a sparare ai loro serbatoi che erano ben visibili su un costone della montagna. Poi attraversarono la Svizzera neutrale a pochi metri dall’acqua del lago di Ginevra, passarono in Francia, risalendo fino a Parigi. Qui sorvolarono gli Champes Elisée e infine tornarono a Leiston.
Qualche giorno dopo si imbarcarono su un aereo da trasporto e tornarono in America.
La seconda parte del libro riguarda tutto il periodo del dopo guerra, fino ai giorni nostri.
L’esperienza acquisita in guerra faceva di loro i migliori candidati per il reparto sperimentale di volo che si stava sviluppando nel frattempo. Infatti furono assegnati proprio a quello.
E qui comincia una lunga serie di racconti altrettanto avvincenti di quelli di guerra. E non meno densi di avventure e rischi di ogni tipo.
Era iniziata l’era del jet.
Gli unici aerei a reazione che avevano visto erano quelli tedeschi che avevano fatto la loro comparsa nei cieli europei durante la guerra. Qui, in patria, ora ne venivano costruiti diversi tipi. E tutti dovevano essere collaudati, migliorati e collaudati di nuovo, prima di essere assegnati ai vari gruppi di volo.
Yeager volava con tutti gli aerei, ma nel frattempo si dedicava al superamento della velocità del suono con un aereo razzo chiamato X-1.
Anderson, nel corso degli anni, collaudò certi sistemi di aggancio e rilascio che dovevano consentire ad un caccia di poter unire la punta di un’ala a quella di un bombardiere, in modo da essere in qualche modo trasportato in volo in maniera passiva per un lunghissimo trasferimento.
L’idea era quella che un bombardiere avesse con sé un paio di caccia, uno ad ogni estremità alare, da rilasciare in qualunque momento per compiere una rapida missione, di attacco o da difesa, per poi recuperarlo. In sostanza i due caccia avrebbero volato a motore spento per quasi tutto il tempo, consumendo il proprio carburante solamente se necessario.
I collaudi di questo sistema erano a dir poco difficili e pericolosi. Infatti ci fu un incidente terrificante, quando il caccia attaccato all’estremità dell’ala sinistra di un bombardiere , facendo perno sulla propria tip alare, si rovesciò sul dorso dell’ala del quadrimotore.
L’ala si ruppe, entrambi i velivoli si schiantarono al suolo.
Anderson volava in formazione con loro, alternandosi nei collaudi del sistema di aggancio e sgancio. Dalla sua posizione laterale, poco distante, assistette impotente alla tragedia.
In un’altra occasione Chuck Yeager stava collaudando un jet F104 modificato, al quale era stato aggiunto un motore a razzo.
Dopo il decollo, saliva alla massima quota di tangenza, accendeva il motore a razzo e spegneva il jet, accelerava alla massima velocità possibile, a due volte e mezzo quella del suono, poi tirava su guadagnando quota fino quasi a uscire dall’atmosfera. Al confine tra questa e lo spazio vuoto entrava in una sorta di traiettoria balistica, ricadendo verso la terra. In quella zona non poteva usare i comandi aerodinamici per mantenere gli assetti. Il 104 era stato dotato di piccoli jet attraverso i quali l’aereo poteva essere mosso secondo le necessità. Ma qualcosa andò storto. Nel rientrare in atmosfera l’aereo cadde in vite.
La vite tipica del 104 è molto difficile da gestire. L’aereo cadde girando su se stesso fino alla quota dove Anderson stazionava, in una larga virata, in attesa di vedere Yeager rientrare.
Quando lo vide cadere in verticale avvitandosi su se stesso lo seguì nella caduta girandogli intorno. Ad una quota davvero molto bassa lo vide lanciarsi con il seggiolino eiettabile. Il 104 si schiantò sul deserto sottostante e Yeager atterrò con il paracadute.
In quella missione Yeager si era ustionato il viso e le mani, perché nel lancio era entrato in contatto con il sistema di espulsione del sedile ancora incandescente.
Quella volta Yeager ci era andato davvero vicino…
Su questo episodio esiste un filmato dell’epoca su You Tube.
I collaudi di Anderson riguardarono anche un sistema di aggancio e sgancio in volo di un piccolo jet, che poteva essere trasportato nella stiva di un grosso quadrimotore bombardiere.
Anche questi racconti fanno trattenere il respiro a chi legge.
Ma c’era un’altra storia in questa storia: quella degli astronauti.
Era in corso la selezione di piloti estremamente esperti, da avviare allo sviluppo e al collaudo di veicoli spaziali, da lanciare inizialmente senza pilota, poi con il pilota a bordo. Lo scopo era quello di arrivare a far atterrare uno di questi veicoli spaziali sulla superficie lunare.
E dove si trovavano i piloti più esperti, se non a Edwards, dove nel frattempo si era sviluppato il reparto sperimentale di volo?
Ma, dobbiamo dirlo, né Anderson né Yeager avevano i requisiti per diventare astronauti, nonostante l’esperienza posseduta.
Per diventare astronauti era richiesta una laurea in qualche disciplina scientifica che mancava ad entrambi.
Forse Yeager visse questa discriminazione con un certo dispiacere.
Invece Anderson scrive:
“I never thought much about being an astronaut. I really wasn’t qualified, according to NASA criteria. I was 38, 39 years old at the time, older than any of the first seven. I don’t have an engineering degree, which would have ruled me out even if my age didn’t. Not having degrees was what kept men like Yeager out of the program. Frankly, I didn’t even apply, and I don’t remember feeling any great disappointment. Maybe it was just rationalisation, but I didn’t consider the early NASA programs to be flying”. – [“Non ho mai pensato molto di diventare un astronauta. Non ero realmente qualificato, in accordo con i criteri della NASA. Avevo 38, 39 anni a quel tempo, più vecchio di ognuno dei primi sette. Non ho una laurea in ingegneria, e questo mi avrebbe messo fuori anche se non l’avesse fatto la mia età. La mancanza di una laurea è stata la causa che ha tenuto fuori dal programma uomini come Yeager. Francamente non ho fatto nemmeno la domanda, non mi ricordo di essermi mai sentito deluso. Forse è stata solo razionalizzazione, ma non consideravo i primi programmi della NASA come volare”.]
Seguendo il racconto di Anderson scopriamo che questi peridi di volo ad Edwards si sono spesso alternati con periodi, anni perfino, di servizio al Pentagono. A pilotare una scrivania, come dice lui.
Ma ogni tanto, per un motivo o per un altro, tornava anche a volare con Yeager.
Si ritrovarono perfino vicini di base durante un periodo di guerra nel Vietnam.
Qui usavano il caccia a reazione F 105, del quale Anderson mette in luce le caratteristiche. Quelle buone e quelle… meno buone.
Fu un periodo intenso. Interessante da leggere, dal momento che quella storia è poco conosciuta. Non ne sapevo quasi nulla, finché non ho letto questo libro.
Su questo è interessante osservare come, nel lasciare finalmente l’Asia del Sud, si misero d’accordo per fare l’ultimo volo insieme, proprio come avevano fatto prima di lasciare il teatro di guerra in Europa.
Infine, rientrarono negli Stati Uniti insieme, sullo stesso aereo.
L’amicizia tra questi due grandi piloti è davvero molto avvincente e il libro è zeppo di vicende e avvenimenti di questo tipo.
Da notare che dopo aver lasciato il servizio, Anderson e Yeager si ritrovarono spesso anche nelle varie manifestazioni aeree che si tenevano annualmente qua e là in America. E volavano sul P51 Mustang che avevano usato in guerra.
Ma vivendo entrambi in California avevano modo di incontrarsi anche al di fuori dei raduni.
E comunque si sono sempre sentiti almeno per telefono.
YouTube contiene un’infinità di video sull’argomento.
Ora, un’ultima considerazione.
Dal libro di Anderson traspare in maniera inequivocabile che il nostro personaggio è, in qualche modo, assolutamente eccezionale. La storia della sua vita è una dimostrazione continua di valore. Il lettore si aspetta che una persona del genere, arrivata al grado di colonnello, sia infine promosso generale. Nel caso di Yeager questo è avvenuto. Ha ricevuto il grado di generale di brigata.
Anderson no. Perché?
Il libro non lo dice.
Anzi, in realtà lo dice. In un capitolo Bud racconta di un suo colloquio con un generale, il quale gli rivela a mezza bocca che non sarà promosso. Sul motivo si avanza soltanto una velata ipotesi, quella che il nostro sia un uomo troppo incline all’azione e poco al lavoro, diciamo così, di burocrate.
Una verità innegabile.
Ma, giusto per prendere le misure della situazione, sembra strano che un ufficiale pilota che ha addirittura cominciato la carriera come leader, tre volte asso, due guerre all’attivo, resti colonnello. Mentre un pilota come Yeager, che ha cominciato come sottufficiale, arrivi invece al grado di generale. E’ vero che ha all’attivo il famoso superamento del muro del suono, ma è altrettanto vero che anche Yeager è un uomo d’azione, poco incline alla vita di burocrate.
Forse la spiegazione sta tutta nella maggiore notorietà di Yeager.
Per quanto concerne Anderson, lui non dice di non essere deluso. Senz’altro lo è stato.
Però, in uno degli ultimi capitoli dice che lui ama semplicemente volare. Alla sua età di ultranovantenne ha ancora la curiosità di alzare la testa e osservare un aereo in volo, con lo stesso interesse di quando osservò il primo aereo della sua vita, mentre passava sopra la sua casa.
Lui ha dedicato l’intera esistenza a servire il suo paese e la sua forza armata, per la quale ha volato e combattuto.
Dice Anderson:” The mission of the Air Force is to fly and fight, after all.”
E questa citazione spiega, forse, anche il titolo del libro.
Recensione a cura di Evandro Aldo Detti (Brutus Flyer),
Didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR
Sebbene il processo evolutivo gli abbia negato la dimensione aerea, quello del volo è un sogno che accompagna da sempre il genere umano tuttavia, l’ingegno che lo contraddistingue gli ha consentito di elevarsi comunque al di sopra della dimensione terricola e di guadagnare con dei congegni volanti un mondo che, per sua natura, non gli è congeniale.
Così, benché nel corso dei secoli della storia dell’umanità si annoverino molteplici tentativi di ascendere e solcare gli spazi sconfinati dell’atmosfera – alcuni più probabili, altri avvolti letteralmente dalla leggenda – la conquista dell’aria è avvenuta in epoca abbastanza recente. Se infatti consideriamo una macchina più pesante dell’aria (annuari della storia dell’aviazione alla mano) sappiamo per certo si è involata solo agli inizi del ‘900 mentre una più leggera dell’aria verso la fine del ‘700. Dunque una conquista agognata eppure sfuggente, tecnicamente assai complessa da conseguire.
Oggi sono milioni i passeggeri che viaggiano in lungo e largo attraversando la dimensione aerea a tutte le quote e latitudini, per motivi di lavoro o di piacere, con il risultato che il volo ha perso un po’ del suo fascino ancestrale.
Esistono tuttavia diversi modi di volare: con gli autobus dell’aria, appunto, o con improbabili agglomerati di metalli leggeri assemblati in garage passando per minutissimi gusci d’uovo ma in materiali compositi o per finire ai grandissimi lenzuoli colorati pieni di funi e cordicelle … certo è che il volo rimane un’esperienza unica nel suo genere. E lo è tal punto che per alcune persone mantiene inalterato il suo fascino unico. Forse si tratta dei soggetti più sensibili oppure di quelli meno corrotti dall’abitudine o magari quelli più riflessivi. Semplicemente perché il volo comunica loro un senso di pace, è l’occasione per ritrovarsi di fronte alla visione della Terra dall’alto, per rimuginare sul proprio vissuto o pianificare il proprio futuro con rinnovato slancio.
C’è poi un altro aspetto di cui occorre tenere conto. Esistono molti luoghi sul pianeta Terra in cui ci si può involare. Dal Polo Nord, percorrendo i due emisferi fino a giungere all’altro Polo, è ormai possibile volare pressoché ovunque ma è pur vero che ci sono dei luoghi cosiddetti “speciali” dove l’esperienza di volo – già di per sé speciale – assume dei connotati davvero unici quanto memorabili.
Ebbene uno di questi luoghi è senz’altro la Cappadocia in Turchia e, in particolare, il parco nazionale di Goreme, una sorta di museo all’aperto che – non a caso – gode dello status di Patrimonio dell’umanità dell’Unesco.
In quel luogo, la presenza di particolari formazioni rocciose denominate: “camini delle fate” e di una moltitudine di mongolfiere che svolgono voli turistici all’alba rende possibile a moltissimi visitatori l’opportunità di vivere un’esperienza memorabile che segnerà loro l’esistenza.
Non ci credete? … beh, allora leggete il racconto di Paola Trinca Tornidor e di Agnese Pelliconi che – incredibile a dirsi – hanno descritto minuziosamente – ciascuna a suo modo, s’intende – la medesima situazione.
Non sappiamo dire se Agnese e Paola abbiamo partecipato assieme allo stesso viaggio, tuttavia entrambe hanno descritto il loro volo in mongolfiera con la medesima vividezza. Così, se la prima ci ha regalato un racconto di più ampio respiro e dal taglio più intimista, la seconda ha preferito un breve racconto dai toni giornalistici piuttosto più che da quelli psicologici; eppure entrambe incuriosiscono il lettore e lo inducono a documentarsi oltremodo.
Poco male, cara Agnese e Paola perché ci è stato concesso l’onore di ospitarvi entrambe nel nostro grande hangar. Perciò ci permettiamo di affermare: grazie giuria!Un altro aspetto le accomuna: hanno partecipato entrambe alla VII edizione del premio letterario RACCONTI TRA LE NUVOLE e, purtroppo, entrambe non hanno ricevuto un giudizio benigno da parte della giuria giacché non sono state ritenute meritevoli di accedere alla fase finale del Premio. Peccato.
La mongolfiera è un aerostato, ossia una macchina volante più leggera dell’aria, evoluzione di quella che i fratelli Mongolfier fecero volare nel 1783 e rimane ancora oggi un aeromobile non direzionabile, alla mercé dei venti e capace solo di ascendere o discendere a discrezione del pilota. Il volo della mongolfiera è morbido, il suo distacco da terra è dolce e anche la salita in quota avviene nel più completo silenzio (fatto salvo il rumore del bruciatore che provvede a immettere nell’involucro aria calda e i prodotti della combustione del propano) con una fluidità che è tutta una sua prerogativa.
Se questo volo si svolge alle prime luci dell’alba sopra un territorio come quello della Cappadocia con lo sfondo dei “camini delle fate” la magia è compiuta, E se poi ai colori dei primi raggi del sole riflessi sulle rocce si unisce una distesa a perdita d’occhio di mongolfiere multicolori che s’innalzano tutte assieme e tutte attorno, beh … la magia si amplifica a dismisura.
A questo punto però, la recensione si biforca e quella che segue è relativa solo al racconto “Pensieri sospesi … in mongolfiera” di Paola Trinca Tornidor.
###
Così come nella musica esistono sette note per creare una melodia, allo stesso modo nella narrativa esistono le parole – decisamente molto più di sette, è vero – per creare un racconto. Altro discorso è poi nutrire una personale preferenza per un melodia piuttosto che per un’altra e, in parallelo , per un racconto piuttosto che per un talaltro.
Ora, mettendo a fattor comune con una moltitudine di scrittori e scrittrici l’esperienza di volo in mongolfiera nonché la fantasmagorica vista di una miriade di mongolfiere sopra i camini delle fate nel parco dell’aria di Goreme, è ovvio che Paola Trinca Tornidor ci ha regalato un racconto – il suo – diverso da chiunque altro faccia parte di quel fattor comune.
Il suo talento narrativo è sintonizzato sul canale giornalistico. Il suo racconto è più vicino ad una cronaca che ad un tentativo di riflessione introspettiva della protagonista. D’altra parte sarebbe stata nient’altro che la fotocopia del racconto “L’alba delle fate” di Agnese Pelliconi, non trovate?
La sua prosa è ponderata, non necessariamente essenziale ma neanche poetica; è semplice, diretta. Si comprende che l’autrice – donna di mondo rotta alle forti emozioni e dunque non facilmente impressionabile – non rimane affatto folgorata dalla lenta ascesa, dai riflessi dei raggi solari e dal roboante silenzio del cielo della Cappadocia. Sì, non è indifferente a quanto le accade e a quanto vede attorno a sé, questo è certo … ma non è quel genere di autrice che si scortica i polpastrelli sulla tastiera per descrivere quanto vissuto in prima persona.
Il suo scrivere è misurato, la sua narrazione non si lascia andare a sbrodolamenti romantici o a considerazioni profondamente esistenziali. E di questo non possiamo certo fargliene una colpa.
Paola è così, è così che lei mescola le sette note. Questa è la sua melodia.
Arriviamo a dire che, se la sua cronaca non fosse stata genuinamente inedita, avremmo giurato di averla letta in qualche guida turistica o in qualche blog di viaggi del parco di Goreme o della Turchia. Forse è per questo che la giuria l’ha relegata fuori dalla rosa dei finalisti della VII edizione. D’altra parte il contenuto a carattere aeronautico abbastanza blando deve aver ugualmente pesato nella valutazione generale.
Pazienza, Paola, avrai occasione di rifarti.
A noi, in tutta verità, il racconto è piaciuto sebbene si tratti di un flash, di un’istantanea di dimensioni ridotte come quelle che scattavano tanti anni fa certe macchinette fotografiche, un cameo di buona fattura che – speriamo – sia il prologo di qualcosa di più sostanzioso per la prossima edizione del Premio.
Paola, vogliamo provare con un lancio con il paracadute?
Recensione a cura della Redazione
Narrativa / Breve
Inedito;
ha partecipato alla VII edizione del Premio fotografico/letterario “Racconti tra le nuvole” – 2019;
Sebbene il processo evolutivo gli abbia negato la dimensione aerea, quello del volo è un sogno che accompagna da sempre il genere umano tuttavia, l’ingegno che lo contraddistingue gli ha consentito di elevarsi comunque al di sopra della dimensione terricola e di guadagnare con dei congegni volanti un mondo che, per sua natura, non gli è congeniale.
Così, benché nel corso dei secoli della storia dell’umanità si annoverino molteplici tentativi di ascendere e solcare gli spazi sconfinati dell’atmosfera – alcuni più probabili, altri avvolti letteralmente dalla leggenda – la conquista dell’aria è avvenuta in epoca abbastanza recente. Se infatti consideriamo una macchina più pesante dell’aria (annuari della storia dell’aviazione alla mano) sappiamo per certo si è involata solo agli inizi del ‘900 mentre una più leggera dell’aria verso la fine del ‘700. Dunque una conquista agognata eppure sfuggente, tecnicamente assai complessa da conseguire.
Oggi sono milioni i passeggeri che viaggiano in lungo e largo attraversando la dimensione aerea a tutte le quote e latitudini, per motivi di lavoro o di piacere, con il risultato che il volo ha perso un po’ del suo fascino ancestrale.
Esistono tuttavia diversi modi di volare: con gli autobus dell’aria, appunto, o con improbabili agglomerati di metalli leggeri assemblati in garage passando per minutissimi gusci d’uovo ma in materiali compositi o per finire ai grandissimi lenzuoli colorati pieni di funi e cordicelle … certo è che il volo rimane un’esperienza unica nel suo genere. E lo è tal punto che per alcune persone mantiene inalterato il suo fascino unico. Forse si tratta dei soggetti più sensibili oppure di quelli meno corrotti dall’abitudine o magari quelli più riflessivi. Semplicemente perché il volo comunica loro un senso di pace, è l’occasione per ritrovarsi di fronte alla visione della Terra dall’alto, per rimuginare sul proprio vissuto o pianificare il proprio futuro con rinnovato slancio.
C’è poi un altro aspetto di cui occorre tenere conto. Esistono molti luoghi sul pianeta Terra in cui ci si può involare. Dal Polo Nord, percorrendo i due emisferi fino a giungere all’altro Polo, è ormai possibile volare pressoché ovunque ma è pur vero che ci sono dei luoghi cosiddetti “speciali” dove l’esperienza di volo – già di per sé speciale – assume dei connotati davvero unici quanto memorabili.
Ebbene uno di questi luoghi è senz’altro la Cappadocia in Turchia e, in particolare, il parco nazionale di Goreme, una sorta di museo all’aperto che – non a caso – gode dello status di Patrimonio dell’umanità dell’Unesco.
In quel luogo, la presenza di particolari formazioni rocciose denominate: “camini delle fate” e di una moltitudine di mongolfiere che svolgono voli turistici all’alba rende possibile a moltissimi visitatori l’opportunità di vivere un’esperienza memorabile che segnerà loro l’esistenza.
Non ci credete? … beh, allora leggete il racconto di Agnese Pelliconi e di Paola Trinca Tornidor che – incredibile a dirsi – hanno descritto minuziosamente – ciascuna a suo modo, s’intende – la medesima situazione.
Non sappiamo dire se Agnese e Paola abbiamo partecipato assieme allo stesso viaggio, tuttavia entrambe hanno descritto il loro volo in mongolfiera con la medesima vividezza. Così, se la prima ci ha regalato un racconto di più ampio respiro e dal taglio più intimista, la seconda ha preferito un breve racconto dai toni giornalistici piuttosto più che da quelli psicologici; eppure entrambe incuriosiscono il lettore e lo inducono a documentarsi oltremodo.
Un altro aspetto le accomuna: hanno partecipato entrambe alla VII edizione del premio letterario RACCONTI TRA LE NUVOLE e, purtroppo, entrambe non hanno ricevuto un giudizio benigno da parte della giuria giacché non sono state ritenute meritevoli di accedere alla fase finale del Premio. Peccato.
Poco male, cara Agnese e Paola perché ci è stato concesso l’onore di ospitarvi entrambe nel nostro grande hangar. Perciò ci permettiamo di affermare: grazie giuria!
E’ la prima volta che accade ma, a questo punto, con un’unica recensione vorremmo accennare contemporaneamente al racconto “L’alba delle fate” e a “Pensieri sospesi … in mongolfiera”. Come metterle a fattor comune.
La mongolfiera è un aerostato, ossia una macchina volante più leggera dell’aria, evoluzione di quella che i fratelli Mongolfier fecero volare nel 1783 e rimane ancora oggi un aeromobile non direzionabile, alla mercé dei venti e capace solo di ascendere o discendere a discrezione del pilota. Il volo della mongolfiera è morbido, il suo distacco da terra è dolce e anche la salita in quota avviene nel più completo silenzio (fatto salvo il rumore del bruciatore che provvede a immettere nell’involucro aria calda e i prodotti della combustione del propano) con una fluidità che è tutta una sua prerogativa.
Se questo volo si svolge alle prime luci dell’alba sopra un territorio come quello della Cappadocia con lo sfondo dei “camini delle fate” la magia è compiuta, E se poi ai colori dei primi raggi del sole riflessi sulle rocce si unisce una distesa a perdita d’occhio di mongolfiere multicolori che s’innalzano tutte assieme e tutte attorno, beh … la magia si amplifica a dismisura.
A questo punto però, la recensione si biforca e quella che segue è relativa solo al racconto “L’alba delle fate” di Agnese Pelliconi.
###
Dicevamo … per chi e si trova dentro al cesto di vimini della mongolfiera, intento a osservare quell’incantesimo, lo staccarsi da terra e la lenta ascensione diventano la metafora del lasciarsi andare – finalmente -, dell’abbandonare il peso di un’esistenza travagliata e del raggiungere progressivamente una nuova consapevolezza di sé.
La vista, ammaliata da quel panorama indicibile, diverrà così il nutrimento di questa lenta metamorfosi e il silenzio in cui tutto è avvolto sarà il catalizzatore che ci renderà migliori. Chiunque di noi sia in quel momento emotivamente ricettivo e, naturalmente, la protagonista del racconto di Agnese Pelliconi.
Inoltre l’alba sopra ai camini delle fate, il ricordo di quel preciso istante del mattino in Cappadocia, diverranno per lei – e per noi, ovviamente – una fonte inesauribile di energia e di certezze cui attingere nei momenti di difficoltà che – inevitabilmente – la quotidianità le e ci dispensa. Come? … sarà sufficiente chiudere gli occhi e rivivere quei momenti magici per recuperare quella leggerezza del vivere che sarà venuta meno.
Il racconto di Agnese, benché di estensione apprezzabile, si legge piacevolmente. Il vissuto e il presente si amalgamano perfettamente tanto che non annoiano a dimostrazione delle indubbie qualità narrative dell’autrice. E’ vero: sono presenti ampie digressioni e il contenuto aeronautico è relativamente blando tuttavia il racconto è armonico, l’avvio incuriosisce e il finale strappa lo stesso senso di sollievo provato dalla protagonista.
Agnese Pelliconi ha una facilità di scrittura che – onestamente – le invidiamo. In quello che scrive si legge a caratteri cubitali che in lei c’è talento – quello vero – e che i viaggi sono per lei sono solo il pretesto per inserire uno sfondo verosimile da inserire nelle sue storie. E’ un’autrice che non vorremmo mai incontrare in un premio letterario perché ha tecnica, inventiva e sa tratteggiare come un sapiente pittore luoghi, persone e i loro trascorsi. Tutto nella stessa tavolozza.
Non sappiamo dire quanto di biografico ci sia alla base del racconto di Agnese Pelliconi ma di certo – qualora l’abbia provato in prima persona – il volo in mongolfiera le ha giovato giacché, avendo avuto la fortuna di incontrarla in occasione della premiazione della VI edizione di RACCONTI TRA LE NUVOLE, abbiamo apprezzato la sua giovialità, il suo sorriso radioso e il piacere di vivere che sprizza da tutti i pori.
Rimane però una considerazione a margine dal sapore vagamente campanilistico: Agnese, occorreva per forza andare fino in Turchia per volare in mongolfiera? … hai ragione … affinché la magia si compia occorre sorvolare i “camini delle fate” … vero … e allora replichiamo: perché i camini delle città italiane non funzionano? … sapessi quante fate ci sono in quelle case!?
Recensione a cura della Redazione
Narrativa / Medio lungo
Inedito;
ha partecipato alla VII edizione del Premio fotografico/letterario “Racconti tra le nuvole” – 2019;
Alcuni anni fa, in qualche punto del cielo americano sfrecciava un aereo a reazione biposto. La forma era quella tipica del jet da caccia e addestramento. Il giovanissimo pilota ai comandi, con il volto celato dalla visiera scura, seguiva la rotta stabilita. Ogni tanto girava la testa per controllare un altro caccia che volava in coppia con lui, incollato a pochi metri dalla sua ala destra, un po’ più in alto e un po’ più indietro. Non si trattava di un altro jet. Era un aereo ad elica monoposto, scintillante nella sua colorazione grigio metallo, con la fusoliera affusolata e la cappottina a goccia, con disegni e coccarde che gli conferivano un aspetto insolito, classico, austero e vagamente antico.
Era un P-51 “Mustang”, un caccia della seconda guerra mondiale. Anzi, forse il migliore tra i caccia di quel periodo storico. Il pilota ai comandi manteneva la posizione in maniera perfetta. Il suo viso era celato dietro una visiera scura che spesso mandava riflessi.
Il jet volava ad una velocità piuttosto bassa, almeno per le prestazioni di cui sarebbe stato capace. Infatti, per volare a quella velocità, doveva mantenere un assetto visibilmente cabrato.
L’altro, probabilmente prossimo, invece, alla sua velocità massima, teneva il muso più basso sulla linea dell’orizzonte, con l’enorme disco dell’elica che disegnava un impercettibile cerchio giallo.
Anche il pilota seduto dietro, nel jet, ogni tanto girava la testa verso destra ad osservare il caccia ad elica. La visiera scura celava il suo viso.
Descritta così, la scena sembra rappresentare un semplice volo di trasferimento di due aerei da un punto all’altro con tre piloti a bordo.
Ma sono proprio le visiere scure a nascondere una realtà ben diversa, a nascondere un mondo intero, un pezzo di storia dell’aviazione che arriva dal passato e si proietta nel futuro.
Alziamole, quelle visiere!
Ed ecco la sorpresa!
Solo il pilota del jet è giovanissimo. Gli altri due sono volti diversi, molto attempati, solcati da rughe e segnati da “zampe di gallina“agli angoli degli occhi, che rivelano anni e anni di esposizione al sole delle alte quote. Volti anziani, occhi infossati che guardano lontano nel bellissimo paesaggio sottostante, ma che guardano lontano anche nel profondo dei loro ricordi. Occhi che conoscono perfettamente ogni angolo del mondo che scorre sotto di loro. Lo hanno percorso migliaia di volte. Volti tranquilli, perché conoscono ogni minima vibrazione dei loro aerei. Hanno volato a lungo con ognuno di essi. Sono stati loro, infatti, ad averli sviluppati, collaudati, usati in pace e perfino in guerra.
Il pilota del P51 era stato un pilota collaudatore. Si trattava di Clarence Emil Anderson, conosciuto meglio come “Andy” o “Bud”. Ci aveva fatto la guerra, con quel Mustang.
Il pilota seduto dietro nel jet era nientemeno che il più grande test pilot del mondo: Charles “Chuck”Yeager. Lui pure aveva fatto la guerra con il Mustang . Proprio insieme a Bud Anderson.
Entrambi erano stati dislocati in Inghilterra ed avevano partecipato alle operazioni belliche del periodo dello sbarco alleato in Normandia.
Dopo l’arrivo a destinazione i tre piloti vennero intervistati dalla stampa presente all’evento del volo di due aerei di epoche tanto diverse.
Su una rivista di settore lessi, molti anni fa, l’intervista al giovane pilota del jet (che, se non ricordo male doveva essere un F20). In sostanza il ragazzo disse di essersi sentito vagamente in apprensione, in quel volo, perché sapeva bene che il pilota seduto dietro di lui era stato il collaudatore del mezzo nel quale stavano volando. Inoltre sapeva bene che entrambi gli anziani piloti sapevano pilotare sia il jet che il P51, mentre lui, con il P51 non avrebbe potuto nemmeno rullare brevemente per terra, almeno non senza averci fatto prima un bel corso di addestramento. E aveva perfettamente ragione, almeno per due motivi: il primo è che il carrello del Mustang è del tipo “biciclo”, con due ruote sotto le ali e una dietro, sotto la coda, molto difficile da gestire. Esattamente il contrario del jet che stava pilotando, che ha la terza ruota sotto il muso, non sotto la coda; il secondo riguarda l’enorme coppia dell’elica di un motore tanto potente come quello del P51, che sarebbe risultata difficilmente controllabile da un pilota abituato al motore a reazione. Senza contare il fatto che un giovane pilota vola ormai con cruscotti digitali e poco conosce dei vecchi strumenti analogici di cui erano infarciti i cruscotti dell’epoca passata.
Se oggi chiedessimo a chiunque chi è Chuck Yeager probabilmente sarebbero in pochissimi a rispondere in modo corretto. Ma forse basterebbe aggiungere che è il pilota che ha oltrepassato per primo il “muro del suono”. E allora sarebbero in molti a ricordare almeno l’episodio storico.
All’epoca si pensava che esistesse veramente un muro che si crea quando si raggiunge la velocità del suono. Tale velocità non è fissa, ma varia al variare di altri valori, come la quota, la temperatura dell’aria etc. Diciamo che, in condizioni standard, si tratta di una velocità che oscilla intorno ai milleduecento chilometri orari. Troppi aerei, nel tentativo di superarla, si sono disintegrati, sono andati letteralmente a pezzi, come se avessero davvero urtato contro un muro. Molte vite si sono infrante in quel punto, insieme agli aerei.
Yeager è stato il primo a dimostrare che non esisteva nessun muro. Era solo un problema di forma, di un’aerodinamica inadeguata. Risolti un bel po’ di questi problemi, il 14 ottobre del 1947, ai comandi di un aereo sperimentale Bell X-1, Yeager riuscì a superare quella velocità.
E questo fu un fatto epocale, che ha portato un impulso importante nella conoscenza dell’aerodinamica e di altre materie a questa complementari. Inoltre, ha aperto la strada alla conquista dello spazio.
Il libro di cui mi accingo a scrivere una recensione è un’autobiografia.
Il titolo è chiaro: Yeager, an autobiography.
E’ stata scritta proprio da Yeager, ma in una forma piuttosto inusuale, quasi a sottolineare il tipo inusuale che è lui stesso. Quando narra i fatti della sua vita non si limita solamente a raccontarli. Li fa raccontare anche da altre persone che in quei fatti sono stati in qualche modo coinvolti. Può trattarsi di sua moglie Glennis o di un altro pilota che volava in coppia con lui. Oppure di qualche ingegnere con il quale collaborava in maniera molto stretta durante i collaudi etc.
I capitoli del libro sono scritti da lui, da sua moglie, da qualcuno dei suoi superiori, da un suo collega, da uno degli ingegneri e così via. Abbiamo così la stessa storia vista da occhi diversi. E questo risulta piuttosto sorprendente in diversi punti del libro.
Insomma, il resoconto dello stesso evento, visto da due o tre persone diverse, almeno in alcuni particolari, si discosta abbastanza dal filo della narrazione. L’ego gioca un ruolo importante nell’interpretazione di un fatto. A volte si tende perfino a negare un risultato, oppure a magnificarlo. E anche il tempo che passa gioca un ruolo importante. La memoria è fallace, qualcuno ricorda meglio, qualcuno sposta il punto focale degli eventi a seconda della propria personalità. La conseguenza è che lo stesso episodio può essere narrato in modi molto diversi, le immagini giungono sfocate dal passato, come se fossero, in altri termini, leggermente fuori fuoco. E’ risaputo.
Un famoso fotografo di guerra, Robert Capa, che operava in giro per il mondo, ovunque ci fosse una guerra, armato delle sue inseparabili macchine fotografiche, ha scritto un libro dal titolo “Slightly out of focus“. “Leggermente fuori fuoco“. E nella prefazione ha dichiarato che, così come le sue foto possono non essere perfettamente nitide, visto che le ha scattate quasi sempre in uno stato emozionale esasperato durante le battaglie e in costante pericolo di vita, anche i ricordi potrebbero essere leggermente diversi da come si sono realmente svolti, perché la memoria potrebbe averli sbiaditi e alterati nel corso del tempo.
Lo stesso principio vale anche per Yeager e per moltissimi episodi di cui parla.
Fatto sta che ogni tanto (spesso), qua e là per il libro, si riscontra una leggera diversità tra il racconto dell’autore e quello dei testimoni che scrivono, sullo stesso fatto, subito dopo di lui, nel capitolo successivo.
Ma la bellezza del libro sta anche in questo.
Come dicevo, Yeager è un soggetto particolare, fuori dal comune, in qualche modo eccezionale. E tutta la sua vita lo è. E’ colui che, per definizione ha “la stoffa giusta“, un’espressione tanto usata all’epoca. Ha compiuto imprese incredibili, nel vero senso della parola.
Lui dice che la sua straordinaria abilità deriva dal fatto che è nato in campagna.
Da piccolo ha giocato più sugli alberi che per terra. Sugli alberi non saliva soltanto, ma ci viveva, ci dormiva, perfino. E’ stato questo aspetto della sua infanzia a dargli una strabiliante coordinazione di tutti i movimenti del corpo, un tempismo assoluto, una capacità di percezione elevatissima e un’altrettanto elevata capacità di reazione. Qualità di enorme valore, che più avanti nel tempo avrebbero fatto di lui un pilota tanto abile.
Il padre lavorava in una società di trivellazione del gas dal sottosuolo. Spesso doveva riparare macchinari di diversa specie e Chuck andava ad aiutarlo, imparando un’altra arte di incommensurabile valore. Quella di sapere come sono fatti i materiali e i macchinari, come funzionano, fin nei minimi particolari. La capacità di imparare a conoscere le macchine in modo tanto approfondito lo avrebbe aiutato anche con gli aerei, con ogni tipo di aereo. Conoscere a fondo il proprio mezzo significa che, all’occorrenza, si possa riuscire a capire un problema un attimo prima, oppure a scovare una soluzione alla quale qualcun altro non avrebbe neanche pensato. In pratica, stiamo parlando della differenza tra vivere e morire.
Il padre era cacciatore. Spesso andava a caccia nei boschi e stava fuori per giorni. Portava con sé il piccolo Chuck, che così imparava a sparare, a tendere trappole, a dormire all’aperto. Imparava, cioè, un’altra preziosissima arte: quella di cavarsela in ambienti ostili.
Nel libro ci sono tanti episodi di come queste qualità abbiano fatto per lui, davvero, la differenza tra vivere e morire.
Appena spedito in Inghilterra, subito dopo aver cominciato le missioni di guerra, Chuck era in volo con un P51 Mustang nel sud-ovest della Francia, quando subì un colpo della contraerea. Fu costretto a lanciarsi. Sapeva che i caccia tedeschi, spesso, sparavano ai piloti che scendevano con il paracadute. Perciò non pensò neanche ad aprire subito il suo. Aspettò fino ad una quota talmente bassa da poter sentire il profumo dei boschi sottostanti, prima di aprire. In un attimo arrivò a terra e il paracadute si impigliò sugli alberi. In poco tempo riuscì a districarsi e a scendere al suolo. Fuggì subito, prima che i tedeschi riuscissero a localizzarlo. Nei boschi si sentiva perfettamente a suo agio. Per giorni camminò, dormendo in ripari di fortuna.
La storia della sua fuga, attraverso i Pirenei, per raggiungere la neutrale Spagna ed essere in seguito riportato in Inghilterra, aiutato dai Maquis francesi, è uno degli strabilianti racconti contenuti nel libro. Una storia intrisa di eventi drammatici, che qui posso solo accennare.
Durante quella fuga fu ospitato da una famiglia francese. Fu nascosto ai rastrellamenti dei tedeschi e fu salvato, a rischio della stessa vita di quella famiglia.
Per Yeager è divenuta una consuetudine tornare a trovare quella gente ogni volta che può.
Esistono diversi video, in rete, relativi a queste sue visite.
Dopo essere stato riportato in Inghilterra Chuck continuò a volare e portò a termine il suo ciclo di missioni. Alla fine aveva totalizzato 13 abbattimenti e mezzo di caccia nemici. Ma cinque di questi li ottenne tutti nel corso della stessa missione.
E alla fine tornò negli Stati Uniti.
Appena arrivato sposò la sua ragazza, Glennis.
Per tutto il corso della guerra in Europa, sul suo aereo, un P51 Mustang, aveva fatto dipingere una figura di ragazza e sotto una scritta: Glamorous Glennis, Affascinante Glannis. Era il segno distintivo che ha portato in volo ogni volta. Era il nome con il quale aveva battezzato il suo caccia. Naturalmente avrà cambiato anche aereo, sicuramente ne ha usati più di uno, ma sempre ci faceva dipingere sopra quel logo.
Dopo il rientro in patria fu assegnato ad un reparto sperimentale di volo e poi cominciò i collaudi del famoso X-1 con il quale oltrepassò il muro del suono. Era un aereo-razzo.
Ma anche a quello diede il nome di Glamorous Glennis.
Il libro tratta molto del periodo passato a collaudare aerei. La base aerea di Muroc, come si chiamava all’inizio, è stata la sua casa per anni. Dopo che questa base si era allargata e aveva preso il nome di Edwards Air Base, anche il numero di piloti era aumentato e, tra questi, cominciarono a comparire nomi che poi sarebbero diventati noti come astronauti.
Uno di questi fu proprio Neil Armstrong. Quello che mise per primo piede sulla Luna.
Yeager racconta che una volta Armstrong voleva andare ad atterrare sulla superficie di un lago prosciugato. Ce ne erano diversi, nei dintorni. Erano superfici larghissime, anche decine di miglia. E’ ovvio che se si atterra in un sito tanto remoto e lontano da qualunque insediamento umano, se succede qualcosa, diventa un problema.
Yeager disse ad Armstrong che non era il caso di andare. Lui aveva sorvolato il posto di recente e c’era ancora una visibile superficie molle, non perfettamente asciutta. Atterrarci avrebbe significato rimanerci.
Armstrong non volle sentire ragioni. Disse che avrebbe fatto solo un tocca e vai, cioè un avvicinamento come per atterrare, ma seguito da una ripartenza, senza perdere velocità. Bastava toccare le ruote un attimo e andare subito via.
Per Yeager era una follia, perché appena toccate le ruote, l’enorme resistenza che queste avrebbero prodotto, avrebbe rallentato l’aereo oltre ogni possibilità per il motore di riaccelerarlo.
Vista l’insistenza di Armstrong, Yeager si offrì di accompagnarlo.
Presero un T 33 biposto, un caccia a reazione e decollarono.
Arrivati sul lago essiccato, che dall’alto sembrava asciutto, scesero per il touch and go.
Come aveva detto Yeager, l’aereo si impantanò subito e rallentò fino a fermarsi.
Dovettero aspettare che un DC3, un bimotore da trasporto, venisse a cercarli. Per radio chiesero al pilota di dar loro tempo di spostarsi a piedi di qualche miglio verso un punto meno molle e di atterrare lì, senza fermarsi del tutto. Loro sarebbero saliti in corsa per ridecollare.
Poi toccò a Yeager tornare a recuperare il T 33, con una squadra di specialisti. Montarono un paio di razzi supplementari sulla fusoliera del caccia, per avere un supplemento di potenza, vincere la resistenza dello strato di terreno umido, accelerare e decollare.
Il libro contiene una marea di racconti come questi.
Yeager ha un modo molto militare di esporre i fatti. Senza peli sulla lingua, dice quello che pensa e presenta la realtà per come veramente è.
Solo per fare un esempio, quante volte abbiamo letto che un è aereo caduto, il pilota è morto, ma i giornali e i media in generale, mettono in evidenza l’eroismo del pilota che ha evitato di poco una scuola, un camping, un assembramento di persone?
Yeager scrive: “you smile reading newspaper stories about a pilot in a disable plane that maneuvered to miss a schoolyard before he hit the ground. That’s a crap. In an emergency situation, a pilot thinks only one thing – survival. You battle to survive right down to the ground; you think about nothing else. Your concentration is riveted on what to try next. You don’t say anything on the radio, and you aren’t even aware that a schoolyard exists. That’s exactly how it is“.
“Si ride leggendo storie sui giornali che riguardano un pilota in un aereo in avaria che ha manovrato per evitare una scuola prima di sbattere per terra. E’ una bufala. In una situazione di emergenza, un pilota pensa solo una cosa – sopravvivere. Ci si batte per sopravvivere fino a terra; Non si pensa a nient’altro. La concentrazione è inchiodata su cosa si può provare ancora. Non si dice niente alla radio, e nemmeno si è a conoscenza dell’esistenza di una scuola. E’ esattamente così“.
Crudo, ma vero.
C’è un altro racconto interessante che voglio riportare.
Quando il periodo di permanenza in Inghilterra finì, lui e Bud Anderson stavano per essere rimpatriati. Ma prima di partire, fecero un’altra missione.
Alcuni componenti della squadriglia con la quale erano partiti ebbero problemi meccanici e dovettero rientrare. Lui e Bud si trovarono a proseguire da soli.
Ormai la guerra era alla fine, i nemici erano pressoché annientati, i cieli erano liberi.
Yeager e Bud proseguirono con i loro Mustang, sorvolarono tutto il continente e dopo qualche ora si trovarono a sorvolare le Alpi. La benzina dei loro serbatoi ausiliari era finita. Sganciarono i serbatoi e Chuck Yeager li vide cadere su una montagna. Erano ben visibili, perciò propose di divertirsi a riempirli di proiettili e magari incendiarli, perché contenevano ancora alcuni litri di benzina residui.
Fecero diversi passaggi e crivellarono di colpi i serbatoi, prima di proseguire.
Così la racconta Yeager.
Però Anderson dice che nessun proiettile arrivò mai a colpire il bersaglio. L’unico risultato certo dei loro mitragliamenti fu che finirono i colpi. Ecco un caso di realtà leggermente fuori fuoco.
Senza munizioni, quindi inermi, incapaci di reagire all’attacco di qualunque nemico, passarono il confine della Svizzera, invadendo lo spazio aereo di un paese neutrale.
Sorvolarono a poche centinaia di piedi di quota il lago di Ginevra e passarono in Francia.
Qui andarono verso il punto, nel sud del paese, dove Yeager si era lanciato. Mostrò a Bud Anderson tutto il percorso che aveva seguito per attraversare i Pirenei e andare in Spagna.
Risalirono verso Nord fino a sorvolare Parigi.
Ho visto Parigi dall’alto molte volte. Place de l’étoile, con l’Arco di trionfo al centro, si vede perfettamente. I due chilometri di Avenue des Champs Elisées sono un richiamo troppo forte. Mi piacerebbe immensamente sorvolarlo a bassissima quota. Per me resterà sempre un sogno. Loro, invece, lo fecero.
E infine rientrarono alla base, a Leiston, in Inghilterra.
Ho parlato della capacità di Yeager di imparare a fondo il funzionamento di ogni meccanismo, fin nei minimi particolari. Le esperienze infantili fatte grazie all’attività del padre erano state determinanti, ma un ruolo altrettanto determinante è quello del carattere di una persona. Non tutti sono dotati di curiosità e sete di sapere. Yeager ha sempre avuto una naturale inclinazione al sapere, al provare, al conoscere.
Un ruolo importante, nella sua vita operativa, lo ha avuto un ingegnere, Jack Ridley, che lavorava al progetto X-1.
Questo personaggio era piuttosto incline a condividere le sue conoscenze.
Non tutti lo sono. Esistono persone che, quando sanno fare qualcosa, tengono ben custodita in se stessi la loro conoscenza, come per timore di vedersela rubare. Si muovono stando bene attenti a non farsi vedere, come se temessero che qualcuno particolarmente attento potesse carpire i loro segreti. Usano la loro conoscenza per rendersi il più possibile indispensabili, in modo che gli altri debbano dipendere da loro per la risoluzione di qualche problema.
Credo che chiunque conosca più di un personaggio di questo tipo.
Ma Ridley era tutto l’opposto.
Jack Ridley, pilota collaudatore e ingegnere, assegnato all’X-1 come responsabile nel settore ingegneristico, collaborò con Yeager ai collaudi. Jack spiegò tutto quello che sapeva a Chuck. E questi non si limitava di certo ad ascoltare, ma chiedeva tutto ciò che serviva:
“Jack, cosa faccio se“…
“Jack, cosa succede se“…
Cosa se… cosa se…
E Ridley rispondeva.
Da qui nasce il concetto di “what if man“, l’uomo cosa (faccio) se, tradotto.
Questo modo di procedere ha dato evidentemente ottimi risultati, perché il muro del suono fu superato. E senza altri incidenti.
C’è nel libro il racconto di un episodio, uno degli innumerevoli, dove Chuck è arrivato ad un soffio dalla catastrofe, ma si è salvato, grazie al suo “what if man“.
Come noto, l’X-1 veniva agganciato sotto la pancia di un quadrimotore B 50, evoluzione del B-29, lo stesso tipo di aereo che aveva sganciato le bombe atomiche sul Giappone.
Esistono molti video su You Tube al riguardo.
Il B 50, con Yeager a bordo, decollava e saliva alla quota stabilita. Yeager, al momento giusto, scendeva una scaletta che lo portava davanti al portello dell’ X-1 ed entrava. Richiuso il portello, si sistemava ai comandi. Dopo aver fatto i controlli necessari, appena l’aereo raggiungeva la zona dello sgancio, ad un segnale convenuto, veniva azionato il congegno che liberava l’X-1.
L’aereo – razzo, ora libero, cadeva nel vuoto. Ma aveva già la velocità minima di sostentamento che gli consentiva di cadere in maniera stabile.
Poi Yeager doveva accendere il motore a razzo, anzi, uno dei motori, perché ne aveva a disposizione diversi, e venivano accesi in sequenza a seconda delle prestazioni richieste dalla prova.
Appena avuta la spinta del razzo, l’X-1 accelerava e superava l’aereo che lo aveva sganciato, iniziando anche a salire. Un caccia a reazione, incaricato di seguirlo, volava in zona e subito si gettava all’inseguimento, almeno finché il razzo superava anche la velocità del jet, o la sua quota di tangenza.
Un giorno Yeager si trovava a bordo dell’ X-1, sotto la pancia del B 29, pronto ad essere sganciato. Il jet, detto in gergo chase plane (aereo inseguitore), era pronto ad andare al suo inseguimento.
Tutto a posto, fu dato il segnale, l’X-1 fu rilasciato, cadde giù.
Yeager comandò l’accensione del razzo, ma non accadde nulla. Per lunghi secondi la caduta continuò.
Bisognare capire il problema, fare qualcosa al più presto.
Yeager si accorse subito di non avere nessuna corrente a bordo. L’accensione era elettrica. Senza di essa il motore non si sarebbe acceso. Era un macigno che cade dal cielo.
Visto che il motore non si sarebbe acceso, doveva scaricare subito tutti i liquidi estremamente infiammabili che aveva nei serbatoi e che avrebbero dovuto alimentare il razzo. Altrimenti il loro peso avrebbe schiantato il carrello di atterraggio al primo contatto con la superficie del lago asciutto. La velocità dell’ X-1 all’atterraggio era di 190 miglia l’ora, molto vicina ai 400 Km/h.
Un attimo dopo il razzo sarebbe esploso e Yeager sarebbe svanito in una gran nuvola di gas incandescenti.
Azionò le elettrovalvole di scarico rapido, ma senza corrente neanche queste si potevano aprire.
Era una bomba che cadeva verso terra.
Ecco dove diventa subito di vitale importanza il “What if man”.
Jack Ridley aveva già risposto a quella domanda: “what if…”. Cosa faccio se... sono rimasto senza alimentazione elettrica e devo scaricare il carburante per poter atterrare?
Yeager si fidava di Jack. Era un ingegnere, ma era anche un pilota collaudatore. Parlava perfettamente il gergo dei piloti.
Diceva Yeager di lui: “When he explained something, I usually kept asking vhy until I understood it thoroughly. If I had my opinion, we’d discuss it and argue until we both agreed. Because he was also a good pilot and was so practical, we were always on the same wavelenght. Ridley knew me so well that when I described something that was happening with the X-1 he knew immediately what we were getting into. Without having him close at hand, I’d have been lost“.
“Quando spiegava qualcosa, io di solito continuavo a chiedere perché finché avevo capito completamente. Se avevo un’opinione personale, discutevamo e litigavamo fino ad essere d’accordo. Dato che era anche un buon pilota ed era così pratico, eravamo sempre sulla stessa lunghezza d’onda. Ridley mi conosceva così bene che quando descrivevo qualcosa che succedeva con l’X-1 lui sapeva immediatamente dove saremmo andati a finire. Senza avere avuto lui a portata di mano, sarei stato perduto“.
Esatto. Questo è proprio quello che sarebbe accaduto.
Ma Ridley aveva mostrato a Yeager un comando meccanico quasi nascosto nella cabina di pilotaggio. Apriva una valvola di scarico del carburante senza bisogno di nessuna alimentazione.
Yeager la azionò immediatamente.
Non poteva sapere se il comando aveva funzionato e se davvero il carburante stava uscendo dai serbatoi. Il pilota del chase plane vedeva tutto, ma non c’era modo di chiederglielo né di ottenere risposta. La radio, ovviamente, non funzionava.
Yeager sentiva che il peso si alleggeriva. Lo percepiva dai comandi e dalla reazione del velivolo, che diventava più leggero ad ogni secondo che passava. Ma quello che sembrava mancare erano proprio i secondi.
Arrivò a sfiorare la superficie del terreno e cercò di ritardare al massimo il contatto, senza sapere se ce l’avrebbe fatta oppure no.
Le ruote toccarono il suolo.
Anche questa volta era andata bene.
Il libro è tutto così. Ci sono storie di ogni tipo. Qui ho riportato solo alcune di esse, giusto per dare un’indicazione ai potenziali lettori. Chiunque sia appassionato di aviazione, di volo o di faccende aeronautiche in generale, troverà quello che cerca.
Yeager non ha mai perso la passione per il volo nonostante tutte le difficoltà e i rischi che hanno fatto parte del suo vivere quotidiano per l’intero l’arco della sua vita.
Nel momento in cui termino questa recensione Chuck Yeager è un “giovincello” di appena 97 anni.
E’ possibile che non voli ormai più, almeno da solo. Ma non ci giurerei.
A chi gli ha chiesto, un miliardo di volte, quale fosse il segreto del suo successo, lui ha sempre risposto:
“The secret of my success is that I always managed to live to fly another day“.
“Il segreto del mio successo è che ho sempre fatto di tutto per vivere e volare ancora un giorno“.
Recensione a cura di Evandro Aldo Detti (Brutus Flyer),
Didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR