titolo: Storia di un pilota – Dal funerale di Alitalia alla fuga in Qatar
autore: Ivan Anzellotti
editore: Cartabianca
anno di pubblicazione: 2014 (I edizione con Phasar edizioni ), 2020 (II edizione con Cartabianca)
ISBN: 978-88-8880-536-8
titolo: Storia di un pilota 2 – Dalle low cost alla conquista dell’Est
autore: Ivan Anzellotti
editore: Cartabianca
anno di pubblicazione: 2020
ISBN: 978-88-8880-534-4
Se non fosse stato per Facebook non avrei scoperto questi due libri di Ivan Anzellotti. Me li sarei persi. Ma forse no. Fatto sta che una mia collega, moglie di un pilota di linea, aveva messo la copertina di uno dei libri sulla sua pagina Facebook, che in qualche modo me la aveva mostrata. Incuriosito, ho voluto vedere di cosa si trattasse e… immediatamente sono andato a cercare il titolo del libro su Rakuten Kobo, l’applicazione per gli ebook dei tablet Android.
Trovato. Comprato. Scaricato. Iniziato a leggerlo.
E qui … sorpresa: questo era un altro di quei libri dai quali non si riesce più a staccare gli occhi.
Non solo per lo stile dell’autore, sempre lineare, scorrevole, senza concetti astrusi, facile da capire, nonostante l’argomento aeronautico e l’inevitabile impiego di terminologia specifica, anche tecnica. Tuttavia non mancano opportune note esplicative laddove necessario, quando i termini usati non sono di immediata comprensione. Dunque un libro per tutti, che non presenta difficoltà nemmeno per un pubblico digiuno di cose di volo.
Questo vale per tutti, come ho detto. Ma soprattutto per me, pilota con mezzo secolo di attività volativa ininterrotta, l’interesse era dovuto al fatto che mi sono trovato a leggere di cose che conoscevo molto bene, per esserci passato attraverso nei decenni scorsi. Conoscevo tutto, luoghi, fatti, persone (anche se nel libro non ci sono nomi, ovviamente), dinamiche degli avvenimenti e conseguenze delle stesse. Non conoscevo tutto solo come pilota, ma anche come controllore del traffico aereo. Incredibile.
Finito il primo libro ho subito acquistato anche il secondo, che altro non è se non il naturale seguito del precedente. ma, lo dico subito, Anzellotti ha scritto anche un terzo libro. E’ un romanzo, bellissimo, scritto bene con il suo solito stile, intitolato “Il destino degli altri. Un giallo nell’aviazione civile“. E anche qui l’interesse costringe a leggere fin quando gli occhi non ce la fanno più. Ma torniamo al primo.
Il libro comincia con l’autore che è divenuto pilota, prima nei reparti volo della Guardia di Finanza appena terminata la relativa Accademia, poi di Alitalia, per la quale vola con l’MD80 (evoluzione del DC9) ed è soddisfattissimo del proprio lavoro, dell’aereo e tutto il resto.
Ma il mondo è in continua evoluzione. E spesso l’evoluzione non va necessariamente verso il meglio. I miglioramenti, tecnologici e logistici, si portano dietro peggioramenti in altri ambiti, in altri aspetti del quadro generale. Ad esempio: l’aspetto umano.
Chiunque può osservare come le cose cambiano. E anche rapidamente.
Nessuno si sarebbe mai aspettato che la nostra compagnia di bandiera, la nostra amata Alitalia, licenziasse di punto in bianco un ragguardevole numero di piloti. Invece, in occasione della radiazione dei bireattori MD-80, si incomincia ad intravedere qualche segnale poco rassicurante. Alcuni equipaggi, invece di essere reimpiegati in altre linee e su altri aerei, vengono lasciati a casa. Non solo i piloti, ma anche il personale di cabina.
Quelli che non vengono interessati da alcun cambiamento continuano a sperare. Sono sicuri che a loro non arriverà nessuna lettera di licenziamento e che comunque la compagnia li reimpiegherebbe quanto prima. Ma già così comincia a delinearsi una certa spaccatura. Chi non ha problemi non protesta, per timore di mettersi in cattiva luce e gli altri non lo fanno per non precludersi la possibilità di essere ripescati.
I sindacati, manco a dirlo, cercano di tenere tutti tranquilli, dichiarando di avere una strategia a lungo termine che risolverà ogni problema. Pazienza, bisogna avere pazienza. E soprattutto bisogna evitare di agitarsi e protestare.
Ma alla lunga si palesa l’evidenza che le cose stanno in un’altra maniera. E’ in corso una vera e propria ristrutturazione della Compagnia. Meno personale e turni più lunghi, sempre più lunghi e più gravosi, sono la nuova realtà. Alla fine la lettera di licenziamento arriva a tutti. Anche a Ivan Anzellotti.
E qui comincia la storia del nostro autore. Quella che ci narra nel libro. Anzi, nei libri, dato che il secondo, appunto, è la continuazione del primo.
Un pilota non può restare a terra, senza volare, troppo a lungo. Per motivi che Anzellotti descrive bene nel libro, deve trovare al più presto un’altra compagnia che lo impieghi, in modo da limitare al minimo il tempo di inattività di volo.
Incomincia a mandare il suo curriculum ad altre società di trasporto aereo, anche se questo significa dover andare lontano dall’Italia, fosse pure nel bel mezzo di un deserto.
Infatti, la prima compagnia che gli risponde positivamente è il Qatar.
Anzellotti dice che a quel tempo non sapeva neppure troppo bene dove fosse il Qatar. E devo dire che anch’io non l’ho mai saputo con precisione fino a poco tempo fa. Ma ricordo di averlo sentito nominare da qualcuno che ci era stato e che lo chiamava “il sabbione“. Praticamente un’oasi artificiale circondata dal deserto.
Non devo certo, nella mia recensione, rivelare tutti i passaggi dell’avventura di Anzellotti nel mondo. Meglio lasciarli al piacere della lettura. Basterà dire che il Qatar è solo la prima tappa di un lungo cammino. Un percorso denso di soddisfazioni, almeno professionali, ma anche irto di ostacoli dovuti alla differente mentalità, agli usi e al modus vivendi, al cibo, al clima, dei paesi nei quali si sposta cambiando compagnia aerea.
I due libri coprono tutta la carriera di Ivan Anzellotti fino ai giorni nostri. Dall’Oriente all’Europa e di nuovo in Oriente, volerà ovunque, trasportando passeggeri in un gran numero di paesi, compresa la Cina, l’India, l’Alaska e l’America. Piloterà i nuovi Airbus A320, ma anche il vecchio e meraviglioso Boeing 747, che resterà nel suo cuore (come è rimasto nel cuore di tutti coloro che lo hanno pilotato).
In mezzo alla lunga storia c’è anche il suo matrimonio. Ed è proprio per salvare il suo matrimonio che dovrà rinunciare al 747, che lo portava ad essere sempre lontano da casa per lunghi periodi.
Di nuovo un cambiamento. E il ritorno all’Airbus A-320.
Nel frattempo, però, tutti questi cambiamenti avevano un motivo importante, tra gli altri: nonostante le promesse e le rassicurazioni di essere promosso a Comandante, dopo aver frequentato il relativo corso, passava il tempo, gli anni, ma del corso non si sapeva mai nulla di concreto.
Il primo libro termina con gli ultimi tre capitoli che ben descrivono la situazione del momento e offrono un chiaro indizio su cosa leggeremo nel secondo. Continua il racconto degli avvenimenti e continua anche un costante riferimento a qualcosa che accompagna sempre tutti i mutamenti di scena, le vicende, i fatti e la vita giornaliera. Qualcosa che regola perfino i rapporti interpersonali tra i colleghi, a terra come in volo.
Perché c’è un elemento che è andato delineandosi nel corso di tutta la narrazione, crescendo pagina dopo pagina, fino a costituire ormai il soggetto principale dei due libri e perfino, anzi soprattutto del terzo, che è un romanzo e del quale parleremo tra breve in un’altra recensione. Non esiste una sola parola, un termine univoco che definisca l’elemento di cui sto parlando. Ma è qualcosa che prima non c’era. Silenziosamente è entrato in ogni realtà, in ogni ambiente di lavoro, in ogni ambito sociale. Non solo nel nostro paese, ma in tutto il mondo.
E’ una sorta di disumanizzazione, un cambiamento sottile, costante e inesorabile che ha costretto tutti a cambiare mentalità, a vedere le cose in modo diverso, a modificare nella nostra visione del mondo la vecchia scala dei valori che ci aveva accompagnato per decenni. E a modificare la scala delle nostre priorità. Se dovessi proprio individuare un termine per definire questo processo, lo chiamerei degenerazione.
Il terzultimo capitolo si intitola “I nuovi schiavi“. Un titolo rivelatore…
Anzellotti fa riferimento a quelle popolazioni che:
“vivono in Paesi poverissimi, che vengono deportate in massa nelle nazioni del Golfo Persico a lavorare per due soldi come schiavi, nell’indifferenza del resto del mondo che non sa o non vuole sapere”.
Non è storia del passato. Stiamo parlando della realtà di oggi. Non ci vuole molto per scoprirla, anche se a volte è celata a regola d’arte, proprio perché sembri qualcosa di diverso.
Dice Anzellotti:
“La schiavitù c’è ancora ma si trasforma, si ammoderna, sta al passo con i tempi, così si può nascondere tra le definizioni che non la identificano più, ma se guardi bene è sempre presente, perché senza gli schiavi i ricchi non esisterebbero”.
Davvero? E’ realmente cosi? Il lettore si può porre queste domande. Potrebbe essere sorpreso, impreparato, di fronte ad una rivelazione del genere. Possibile che al giorno d’oggi esista ancora la schiavitù? Quella vera? Forse in certi paesi arretrati, di sicuro non in quelli moderni. Non nel nostro.
Eh! L’elemento di cui parlavo è proprio questo. Ed è il vero soggetto dei te libri di Anzellotti.
“Ci sono schiavi di serie A, di serie B e poi più giù a scendere fino alla posizione più bassa, dove trovi quelli veri e propri, quelli di una volta, delle piramidi d’Egitto o dei campi di cotone americani. Cosa li differenzia? Il livello di privazione della libertà personale, ovviamente, e piccoli trucchi su come assicurare un regolare contratto di lavoro e un salario, così tutto è a norma di legge, senza che nessuno possa dire che ti sta schiavizzando!”.
Ecco spiegato il concetto in poche e chiare parole, quelle di Anzellotti. Riporto solo queste, per far capire di cosa si sta parlando, ma nel terzultimo capitolo ci sono pagine e pagine, con esempi concreti. Con esempi di libertà personali negate, compresa quella di lasciare il Qatar e andare in vacanza senza prima aver chiesto il permesso e averlo ottenuto.
Anche ad un pilota di linea? Certamente! Infatti Anzellotti era in procinto di sposare una ragazza con la quale aveva una relazione da tempo, ma non era libero neanche di andarla a trovare quando voleva, senza dover mettere in atto stratagemmi complicati e addirittura pericolosi, per lui e per lei.
Il capitolo successivo si intitola: Questo matrimonio non s’ha da fare. E’ il penultimo.
Ma l’ultimo è ancora più eloquente: La fuga.
Qui finisce il primo libro. Abbiamo già intuito che l’elemento costante, vero soggetto dei libri, è il subdolo, lento, costante mutamento della condizioni di lavoro dell’epoca moderna, che schiavizzano i lavoratori di ogni tipo, senza riguardo per la loro professionalità, le loro necessità, come il riposo, la vita privata etc. E perfino senza riguardo per la loro sicurezza. E nemmeno, a volte, per la sicurezza dei passeggeri di un aereo di linea.
Il secondo libro comincia con la citazione di un anonimo,la prima pagina:
“Un cattivo manager prende del personale eccezionale e lo distrugge, fa fuggire i migliori e demotiva i pochi rimasti”.
Il geniale Ivan Anzellotti ha scelto questa frase che da sola varrebbe un’intera recensione del libro, condensata in pochissime parole.
E ha anche definito l’altro aspetto di quell’elemento costante che è il vero soggetto del libro: la mancanza di professionalità, il pressapochismo, l’improvvisazione, la mentalità del ruba galline, elementi di quella degenerazione che ha invaso ogni realtà, ogni ambiente. Nel mondo intero.
Certamente non mancano elementi positivi, come l’esperienza, la conoscenza di paesi, popoli, realtà di ogni tipo. Nel libro accompagneremo l’autore in tutti questi avvenimenti. Con il suo modo di scrivere ci farà sentire come se fossimo lì insieme a lui, perfino in cabina di pilotaggio.
Sono libri preziosi, questi. Offrono la possibilità a chi non è un pilota di linea, a chi non ha girato il mondo, di chiudere il libro e sentirsi come se avesse vissuto proprio quel ruolo. Questi libri arricchiscono. Aprono la mente. Aiutano a comprendere le nuove realtà. A capire in che direzione stiamo andando.
Avevo detto, all’inizio, di conoscere tanti aspetti della narrazione di Anzellotti.
Il primo aspetto riguarda il suo luogo di nascita: Roma. Ma non Roma in generale. E’ nato a cinquanta metri dal portone di casa mia. E’ vissuto nel mio quartiere.
Ha volato all’aeroporto dell’Urbe, dove anch’io volo dall’inizio del lontano 1973.
Volava con il vecchio MD-80. Lo stesso tipo di aereo con il quale andavo e tornavo dagli aeroporti dove lavoravo come controllore del traffico aereo. Forse ho perfino volato con lui e magari, qualche volta, gli avrò dettato la clearance, o lo avrò autorizzato al decollo. Chissà.
Le vicende relative alla radiazione dell’MD-80, alle varie ristrutturazioni dell’Alitalia, seppure avvenute in un altro ambito del Traffico Aereo, hanno interessato anche il nostro, quello del Controllo. Conosco tanti piloti E le loro storie.
E poi c’è il mondo del volo. Quello degli Aeroclubs. Aviazione Generale invece che Aviazione Commerciale. O Aviazione Militare.
Ma sempre di Aviazione si tratta.
E anche l’Aviazione generale ha visto mutare gli ambienti sotto la spinta della modernizzazione, accompagnata, purtroppo, da quella degenerazione di cui ho parlato sopra. Hanno fatto la loro comparsa personaggi inadeguati che hanno preso le redini di Aeroclubs, istruttori pieni di sé, che non conoscono le regole ufficiali e che impongono le proprie in quella che considerano la LORO linea di volo, che non seguono una progressione didattica ufficiale, ma solo la propria. Ho visto Aeroclubs chiudere per questi motivi, nei decenni scorsi.
Nella piccola realtà degli Aeroclubs troviamo le stesse dinamiche che Anzellotti descrive nei suoi libri e che riguardano grandi compagnie aeree. Un cattivo Comandante, che domanda al suo secondo la differenza di lunghezza tra l’aereo sul quale stanno volando e un altro modello, o che annaspa alla ricerca di un comando sul cruscotto, non è tanto diverso da un istruttore che, invece di spiegare e formare gli allievi secondo la normativa ufficiale, impone metodi propri alla luce del “si fa così perché lo dico io…“.
Poi, quando avvengono incidenti, difficilmente si arriva alla ricostruzione precisa, quella che spiegherebbe l’interazione tra causa ed effetto. Ho visto anche accadere brutti incidenti per questi motivi.
Spesso si seguono criteri di risparmio a tutti i costi, si risparmia sulle manutenzioni, sulla formazione del personale, sul benessere del personale, sul riposo necessario fra un turno e l’altro, sul costo di un corso comando per permettere la carriera dei piloti che da troppo tempo siedono a destra in cabina di pilotaggio. Si preferisce prendere comandanti già fatti da altre compagnie. E si costringono gli eterni secondi a lasciare la Compagnia per cercarne una migliore. Ricominciando da capo, però.
Siamo arrivati all’assurdo: ho sentito dire che ora si pensa addirittura ad un solo pilota a bordo. Sarebbe un bel risparmio, pagarne uno invece di due…
Piloti e controllori sono due parti diverse dello stesso mondo. Quando ho detto che conoscevo ogni cosa descritta da Anzellotti nei suoi libri intendevo che ci sono passato attraverso anche dalla mia parte ed ho osservato i tempi mutare insieme a lui.
Un ultimo fatto, stavolta decisamente simpatico. Sulla pagina Facebook di Ivan Anzellotti ho visto le foto di una mongolfiera atterrata in piena città, in un incrocio tra tre strade, proprio dietro casa mia, negli anni ottanta. Aveva avuto un’avaria in volo ed era finita lì. Nelle foto Anzellotti aveva circa 14 anni e compare in due immagini.
Una rivelazione. Ecco, di questo fatto non avevo mai saputo nulla.
Questi libri costituiscono una eccellente divulgazione di cose aeronautiche senza la quale molti non saprebbero mai nulla di tutto ciò. Ma non ci sono solo i libri. Anzellotti ha anche un canale YouTube attraverso il quale la sua opera divulgativa continua.
Non è rivolto solo a chi già fa parte del mondo del volo. I suoi video sono di straordinario interesse e sono rivolti a tutti.
Proprio a tutti.
Con malcelata soddisfazione concludiamo questa recensione informando i visitatori del nostro hangar che, a partire dal novembre 2023, i due volumi sono disponibili anche in lingua inglese. Una nota di merito va espressa a favore all’editore che si è reso disponibile nell’effettuare un’operazione inusuale nel panorama editoriale italiano ma che è anche il giusto riconoscimento a un autore meritevole di credito illimitato.
Recensione di Brutus Flyer (Evandro Detti) e didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR
Dello stesso autore sono disponibili le recensioni di:
“Il 17 dicembre del 1903 una macchina volante ad ali rigide, mossa da un motore a scoppio, avrebbe compiuto il suo primo volo …
Miss Harriet Quimby, inviata del Leslie’s Illustrated Weekly da New York, prendeva nota su un taccuino di tutte le operazioni che si stavano svolgendo.”
Quel 17 dicembre 1903 pietra miliare per l’aviazione, le donne sono già presenti pronte ad affrontare e condividere questa meravigliosa avventura chiamata “Volo”.
Luca De Antonis, autore di “Donne con le ali”, racconterà i primi 30 anni della storia dell’aviazione al femminile.
Non dettagliate biografie, ma un romanzo dove le storie di queste donne, pioniere del volo al femminile, si intrecciano e si soprappongono all’interno dell’ambiente storico-culturale del loro tempo, e con abile maestria narrativa si fondono con gli avvenimenti sociali.
Si spazierà dall’America del Nord con gli Stati Uniti e le leggi razziali che affliggevano le persone di colore, all’Europa con la Francia e la sua vita cosmopolita che alle leggi razziali in vigore negli Stati Uniti opponeva il suo motto “Uguaglianza-Fratellanza-Libertà”, al Sud America.
Il 16 agosto 1911 sul giornale Leslie’s Weekly, Harriet Quimby scriveva:
“Ci vogliono quattro anni di studio al College per conseguire un diploma, ma basta molto meno tempo per ottenere un brevetto di volo. A due condizioni però: un fato che non vi sia particolarmente avverso, e un valido istruttore … che vi insegni ad avere fiducia in voi stessi e in voi stesse.
Mi rivolgo particolarmente al pubblico femminile, perché volare è possibile per una donna quanto per un uomo!”
Harriet Quimby è la prima donna americana a conseguire il brevetto di volo, 1 agosto 1911.
Ma già nel 1910 in Francia l’Aero Club de France aveva rilasciato il primo brevetto di volo al mondo ad una donna: Elise Raymonde de Laroche. A lei è dedicato un volume di cui è possibile leggere la recensione nel nostro hangar.
(ndr: Francesco Baracca, asso dell’aviazione della I guerra mondiale, effettuerà il suo primo volo in Francia soltanto a maggio del 1912 e conseguirà il brevetto di pilota il 9 luglio)
Sono gli anni della “Belle Epoque”, il progresso della tecnica e della scienza non conosceva eguali nel passato: l’illuminazione elettrica, la radio, l’automobile, il cinematografo … l’aeroplano.
Le donne rivendicano i loro diritti, nasce il movimento delle suffragette.
Il mondo vive un periodo di grande ottimismo per il futuro, ancora ignaro della catastrofe che nel 1914 porterà all’orrore della I Guerra Mondiale.
Il 16 aprile 1912, mentre Harriet Quimby a bordo di un Bleriot Type XI si appresta ad effettuare con successo la traversata del Canale della Manica da Dover a Calais, in Europa arriva la drammatica notizia: nella notte tra il 14 e il 15 aprile il Titanic è naufragato nell’Oceano Atlantico a seguito dell’impatto contro un iceberg.
Quella che per tutti doveva essere un’impresa dal grandissimo impatto pubblicitario e commerciale, Monsieur Louis Bleriot già prefigurava una gran richiesta dei suoi velivoli, la prima donna a sorvolare la Manica, passò inosservata.
Il 17 aprile i giornali titolavano la terribile disgrazia avvenuta in mare. Non c’è posto per l’impresa di Harriet Quimby.
“Cara Bessie, …. Se essere negra costituisce per il tuo obbiettivo, volare, un ostacolo insormontabile qui in America … ricordati che fino a poco tempo fa era un ostacolo insormontabile anche l’essere donna.
A te toccherà un compito ancora più difficile: vincere sul razzismo e sul segregazionismo …
Dopo l’inverno sarò impegnata in Europa per alcuni mesi. Ma l’estate prossima, se potrai venire qui a New York, sarò ben lieta di offrirti tutto il mio aiuto…”
Così scriveva Harriet Quimby nel settembre del 1911, in risposta a Bessie Coleman.
Purtroppo non potrà mantenere le sue promesse, il 1 luglio del 1912 Harriet Quimby perirà in un drammatico incidente di volo.
Dal 1914 al 1918 l’Europa è sconvolta dalla guerra, l’aeroplano verrà impiegato per la prima volta in campo militare, ciò porterà anche ad uno sviluppo delle sue potenzialità.
Il termine della guerra, vede nascere l’interesse verso l’utilizzo dell’aeroplano in campo civile. Per le donne, alle quali fu precluso di partecipare come pilota al conflitto mondiale, si aprivano ora, anche se con difficoltà, le porte dell’aviazione civile e del volo come professione.
Katherine Stinson volerà per il Canada Post, primo servizio di posta aerea, nelle remote e poco accessibili aree del Canada.
Bessie Coleman il 15 giugno 1921 sarà la prima donna afroamericana a conseguire il brevetto di volo. Ma per arrivare a coronare il suo sogno dovrà lavorare duro per riuscire a mettere i soldi da parte e poi con grande coraggio lasciare l’America, che con le sue leggi razziali non permetteva ai negri di accedere alle scuole di volo, per andare in Francia, alla scuola dei fratelli Caudron dove non si facevano distinzioni di sesso né di razza.
Il 30 aprile 1926 Bessie Coleman muore in un incidente di volo.
In seguito la città di Chicago le renderà omaggio intitolandole una strada nei pressi dell’aeroporto O’-Hare.
L’inizio del 1929 vede un’altra grande conquista per le aviatrici: finalmente alle donne viene riconosciuto il diritto a partecipare alle manifestazioni sportive aeronautiche, fino ad allora precluse.
Il 18 agosto viene organizzato il primo “Women’s Air Derby”.
Il 2 novembre 1929 presso l’aeroporto di Curtiss Field, viene fondata “l’Organizzazione Internazionale delle Donne Pilota”, il gruppo prende il nome “Ninety-Nines” e viene eletta come prima presidente Amelia Earhart.
Ecco il manifesto dell’organizzazione:
The Ninety-Nines Mission Statement:
The Ninety-Nines® is the International Organization of Women Pilots that promotes advancement of aviation through education, scholarships and mutual support while honouring our unique history and sharing our passion for flight.
che tradotto in italiano significa:
Le 99 è l’Organizzazione internazionale delle donne pilota che promuove il progresso dell’aviazione attraverso l’istruzione, le borse di studio e il sostegno reciproco, onorando la nostra storia unica e condividendo la nostra passione per il volo.
“Donne con le ali”, un romanzo appassionante dall’inizio alla fine.
La storia delle prime donne che, sfidando i pregiudizi del loro tempo, hanno dimostrato che ciò che era possibile per un uomo lo era anche per una donna.
Un omaggio a quelle donne i cui nomi e le cui imprese sono quasi sconosciute, o comunque poco raccontate.
Donne che non si sono perse d’animo di fronte alle avversità, che hanno creduto nelle loro capacità.
E’ il 1 aprile del 1921 quando, a bordo di un Caudron C3, Adrienne Bolland atterra a Santiago del Cile, dopo essere decollata da Mendoza. Un’impresa epica: l’attraversamento delle Ande.
Una catena di montagne che Adrienne non aveva mai visto; senza l’ausilio di carte ma solo di indicazioni di cosa avrebbe dovuto vedere e quale vetta prendere come riferimento.
Donne che non hanno sfidato gli uomini, ma che hanno voluto vivere la storia al pari degli uomini ma con la loro sensibilità femminile; che non hanno rinunciato ad amare e a essere amate.
Emozionante il racconto della traversata da Buenos Aires a Rio de Janeiro in idrovolante, a bordo di un Caudron al quale erano stati semplicemente montati dei pattini galleggianti, compiuta da Adrienne Bolland insieme al suo meccanico André Duperrier.
“… Non occorre essere marito e moglie, non occorre essere amanti per essere necessari l’uno all’altro. I nostri comuni interessi, il nostro rispetto, la nostra stima… è il sentimento che ci unisce, che ci lega, che ci fa andare avanti… contro le tempeste della vita, ma anche nel vento delle nostre più belle imprese…”
Una pilota e un meccanico, una donna e un uomo, che hanno affrontato e condiviso i successi, i rischi e le disavventure, in un continente lontano dalla loro Francia. Una storia di amicizia, cameratismo, fiducia l’uno nell’altra, ma anche … una forma di amore.
E’ lo stesso autore, nella postfazione, a indicarci le poche situazioni che sono frutto di fantasia, mentre tutti gli altri avvenimenti, sia pure adeguati alle necessità narrative, sono rispettati nella sostanza.
Tutto il romanzo è intriso da un grande rispetto, stima e amore, da parte dell’autore, verso le donne.
Le singole storie scorrono intrecciate tra di loro, in maniera molto fluida, mai noiosa, tenendo incollato il lettore alla lettura.
Bellissima la foto di copertina, che ritrae una sorridente Ruth Elder appoggiata al suo biplano, mentre non vi è alcuna foto all’interno.
Un libro dedicato a tutte le donne che ancora oggi, come nel passato, lottano per vedere riconosciuti i propri diritti, e avere pari opportunità.
Un libro che sia ispirazione per tutte le donne a credere nelle proprie capacità, e un esortazione a non rinunciare alle proprie aspirazioni.
Concludiamo questa breve recensione riportando un pensiero che costituisce l’essenza del volo al femminile:
“Volare è uno sport raffinato e dignitoso per le donne… e non c’è ragione di aver paura finché si fa attenzione.”
Harriet Quimby
Recensione di Franca Vorano e didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR
Erano anni che lo aspettavo e – in tutta sincerità – ormai disperavo di poterlo leggere. Mi ero quasi convinto che colui che tanto mi aveva stupito con il suo romanzo di esordio “Andrà bene di sicuro“, fosse impegnato in qualcosa di meglio che soddisfare i desideri morbosi e pretenziosi di un insignificante lettore; in effetti già me lo immaginavo in qualche paradiso caraibico attorniato da una selva di donzelle adoranti, intento a godersi i proventi di vendite impreviste e imprevedibili. Sì, quelle che, tra capo e collo, gli sono cadute sicuramente addosso nel 2014 (anno di pubblicazione del primo volume) così come raramente cadono addosso a un autore principiante ma estremamente talentuoso baciato dalla fortuna nell’essere incappato – non lo sapeva neanche lui – in un editore lungimirante e nell’aver mietuto una platea smisurata di ammiratori nell’ambito di un genere letterario di nicchia. E invece …
Confesso che quando ho intercettato “In un cielo di guai” nel calderone del più grande bazar digitale della rete, non credevo ai miei occhi; per un istante ho pensato a un caso di omonimia ma l’istante dopo mi sono scoperto a cliccare in modo compulsivo sul tasto “acquista subito”, dopodiché ho consultato con impazienza la tracciatura del pacco fino a strappare con irrefrenabile cupidigia l’involucro che – appena consegnato – conteneva proprio il secondo volume della produzione letteraria di Alessandro Soldati.
A quel punto, leggerlo tutto d’un fiato è stato un piacere e un dovere; ammetto che ho addirittura trascurato il mio lavoro pur di leggerlo e, complice un provvidenziale black-out elettrico pomeridiano sul luogo di lavoro (erano anni che non accadeva), sono rientrato a casa anzitempo pur di conoscerne tutto il contenuto …
Che dire?
Bellissimo? … no, troppo banale definirlo con un solo aggettivo.
Sublime? … no, prevedibile.
Un’occasione di riflessione? … certo, ma non in modo cervellotico.
Una denuncia in forma narrativa? … anche, ma non solo.
Un modo originale per informare l’uomo della strada di come funziona l’Aviazione commerciale? … sicuramente, ma anche di più.
Uno spaccato verace di un mondo – quello de piloti commerciali – una volta dorato e oggi banalizzato? … fuori ogni dubbio.
Una grande burla per impaurire i passeggeri brontoloni? … non proprio.
Verosimilmente “In un cielo pieno di guai” è l’insieme di tutto questo e anche di più, ivi compreso quello che lo stesso autore dichiara in copertina:
“Il libro che nessun passeggero avrebbe voluto leggere (a dirla tutta anche nessun pilota)”
In effetti è lo stesso autore che nella prefazione intitolata: “Del perché ho scritto questa vicenda” sintetizza in modo mirabile il senso di questo volume e, in particolare, perché non ha concesso un seguito naturale alla vicenda narrata nel primo romanzo benché:
“molto amici mi hanno chiesto perché mai avessi deciso di farla finita […] ebbene […] ho voluto permettere a quel ragazzo di morire quando era ancora vivo”.
In altre parole, Sanzo Ottaviano, il personaggio che anima il primo romanzo, non è volutamente presente in questo secondo giacché:
“probabilmente avrebbe finito per entrare in qualche Compagnia aerea civile e, francamente, una persona così bella non so lo meritava […] e avrebbe finito per spegnersi, proprio come è successo a molti di noi”.
Da queste poche righe, apparentemente criptiche, intuiamo subito che in questo secondo volume l’autore si toglierà di sicuro qualche macigno dalle scarpe – eccome se lo toglierà! – rendendo così questa prefazione una specie di vademecum del romanzo, una sorta di chiave di lettura del testo vero e proprio. E ce lo conferma subito una con una frase a dir poco emblematica:
“A pochissimi importa oggi di formare Aviatori perché non sono Aviatori quelli che le Aziende cercano ma appunto Operatori di sistema”.
Ovviamente l’autore si riferisce alla tendenza, ormai radicata presso le Compagnie aeree di tutto il mondo, di convertire i piloti a dei meri esecutori di operazioni schedulate e standardizzate. Alla stregua degli automi, questi pseudo piloti:
“permetteranno a un tubo di metallo di andare praticamente da solo per aria da un luogo all’altro con un ragionevole margine di sicurezza”.
Inutile svelare che il tubo in questione chiamasi aeroplano per trasporto passeggeri …
Il dente avvelenato di Alessandro Soldati si rivela però in tutta la sua ferocia quando ricorre a un esempio illuminante: il gioco grafico, dei punti numerati spesso presente nelle riviste di enigmatica o passatempo. Come funziona? Semplice: occorre collegare i puntini secondo l’ordine crescente di numero affinché appaia un disegno di senso compiuto. Chissà quante volte vi sarete cimentati in questo giochino … confessate!
Ebbene Alessandro Soldati ci fa notare che quasi chiunque è in grado di unire i puntini ma ciò non significa necessariamente che costui sappia disegnare; inoltre si presuppone che qualcuno li abbia disposti anticipatamente quei puntini stabilendone posizione e progressione. Di certo l’espediente consente di ottenere disegni di qualità accettabile e con poco sforzo (economico, s’intende) in quanto realizzati da individui non particolarmente talentuosi o qualificati nelle arti grafiche.
Mutuando questo esempio geniale al mondo dell’Aviazione commerciale, l’autore ci consente di comprendere che, ormai da tempo, la scelta delle Compagnie aeree è quella di far tracciare i puntini (applicare le procedure e le normative) non a opera di disegnatori creativi (i piloti di vecchia generazione, attivi e pensanti) bensì da parte di Operatori di Sistema (i piloti di nuova generazione, esecutori passivi) che sono in grado di unire diligentemente i puntini producendo un disegno (il trasporto dei passeggeri) dignitoso – è vero – benché spigoloso e preconfezionato. Il tutto spendendo poco nell’addestramento e soprattutto nella retribuzione dei loro sedicenti “disegnatori”.
L’autore affonda l’ultimo colpo prevedendo che questi giovani (piloti e non) saranno facilmente sostituibili, sottopagati e ricattabili. Che è giusto appunto la condizione in cui vivono, loro malgrado, i piloti commerciali da qualche decennio a questa parte. E non solo loro: tutti i lavoratori dipendenti!
C’è una via d’uscita a questo processo apparentemente inarrestabile in quanto sostenuto dal vessillo della estrema “sicurezza del volo”? L’autore ci concede una flebile speranza: si può e si deve tornare indietro per merito di chi, provenendo da una scuola diversa, non si accontenterà più di unire semplicemente i puntini ma vorrà tornare a disegnare istintivamente, pur rispettando le regole base dell’arte figurativa.
In altri termini, a detta dell’autore, occorre addestrare i piloti intensivamente, attribuendo loro la discrezionalità di operare non secondo delle rigide procedure ma lasciando loro un certo margine di azione che consenta di far volare le macchine volanti in modo ragionato e non solo automatizzato.
Ecco allora spiegata la dedica che precede il testo del romanzo:
“Ai sognatori, agli irriducibili e ai ribelli poiché, da adesso in poi, siamo davvero nelle loro mani”
Una volta letta questa prefazione ciò che segue è solo un formidabile valore aggiunto al libro, un modo esplicativo per dare consistenza alle affermazioni fin qui espresse in chiaro (ma forse non troppo chiare a tutti i lettori, specie quelli estranei al mondo del volo). D’altra parte non si possono comprende a pieno problematiche così articolate se non ricorrendo a esempi pratici, reali, a una sorta di parabola di biblica memoria. E in questo – occorre sottolinearlo – Alessandro ci riesce egregiamente. Perché cosa ci può essere di più esplicativo se non il racconto di un qualunque giorno di lavoro di un pilota commerciale? Appunto …
In verità la scelta dell’autore è decisamente strategica ed è sapientemente sintetizzata in quarta di pagina cui vi rimandiamo.
Dunque la trama del romanzo è tutta lì e non ritengo opportuno anticiparvi o aggiungere altro. Posso solo indugiare su un aspetto: si tratta di una vicenda alla “Alessandro Soldati maniera”, ossia scritta con leggerezza, sottile ironia, un po’ surreale, comica e tragica al contempo; una vera goduria per gli occhi e la mente che spiega la facilità con cui divorerete le pagine di questo romanzo. E anche se il primo capitolo (quello dello zio anacronistico) scorre appena un po’ più lento degli altri, l’anello si chiuderà – e sarà un anello perfetto alla Giotto – al termine di una giornata memorabile per la protagonista, per lo zio e anche per il lettore, ovvio.
Le “note a margine”, presenti in coda al romanzo, si ricollegano idealmente alla prefazione e spiegano il perché di alcune forzature:
“lo dico soprattutto per avere almeno una flebile speranza di non venire denunciato”
E non mancano le rassicurazioni rivolte ai passeggeri:
“[…] con tutti i nostri difetti, siamo pur sempre quelli che statisticamente combinano meno disastri […]”
consolidata da un’ultima considerazione arguta e sincera che spiega perché, sempre secondo l’autore, i piloti non raccontano o scrivono le loro innumerevoli, rocambolesche esperienze professionali:
“gli aviatori adorano raccontare quanto sono stati bravi a limitare i danni e gli inconvenienti, solo che mentre li limitano, non hanno modo di raccontarlo. Perciò fidatevi e sappiate che comunque ci stanno provando.
Sono lì apposta”
La degna chiusura di un libro notevolissimo!
Confesso però che, dopo aver girato con rammarico l’ultima pagina del libro, qualche perplessità mi è rimasta: possibile che quanto di funambolico narrato nel volume possa accadere a un pilota nel corso della sua pluriennale carriera? Possibile che l’autore non abbia deliberatamente calcato la mano narrando quegli eventi? Possibile che non li abbia costruiti ad arte e a suo favore?
Sebbene lo stesso Alessanro Soldati ammetta apertamente di aver forzato i tempi e i modi … parrebbe di no … e non lo afferma il sottoscritto che – lo ammetto – conosce marginalmente il mondo dell’Aviazione commerciale bensì un nostro consulente speciale, una sorta di agente segreto che, invece di esercitare la sua attività spionistica all’Avana, ha lavorato per anni in ATI e successivamente in Alitalia, peraltro sugli stessi MD-80 su cui ha “esercitato” il buon Alessandro. Come Alessandro, anche il nostro pilota di fiducia conosce perfettamente quelle dinamiche per averle vissute sulla sua pelle (in cabina di pilotaggio, s’intende).
E allora, vigorosamente chiamato a rapporto, dopo la lettura volontaria quanto fulminea del volume (una sola lunga serata), il nostro consulente mi ha confermato che quanto narra il suo collega di cloche è terribilmente verosimile e purtroppo reale, fin troppo reale.
Ad ogni modo, nonostante questa ferale informazione, rimangono irrisolti i quesiti che volano nevroticamente nella mente del famoso e fantomatico uomo della strada che poco o nulla conosce del mondo dell’Aviazione commerciale. Aviazione che, verosimilmente, avrà uno sviluppo esponenziale di passeggeri nei prossimi anni, crisi economica, pandemie e guerre permettendo. E questi quesiti nascono vieppiù numerosi dalla lettura di “In un cielo di guai”. Ecco dunque l’occasione di riflessione stimolata dal libro e, nello stesso tempo, di divulgazione e denuncia di una situazione dai risvolti un poco inquietanti che mi sono solo limitato ad accennare.
Ma torniamo al libro.
A proposito della prosa, dell’inventiva, della tecnica narrativa di Alessandro Soldati non c’è nulla da dire: strepitoso. Forse un po’ meno spontaneo rispetto al libro di esordio, meno caricaturale nel tratteggiare i personaggi, ma sempre un’ottima penna dalla quale attendiamo con impazienza il terzo volume. Perché non c’è due senza tre, vero Alessandro?
Promosso su tutta la linea.
E benché le aspettative fossero molto alte, non le ha tradite. Si nota che la sua scrittura si è fatta più adulta, più ragionata ma non per questo meno valida.
Aggiungo che in alcuni punti i dialoghi tendono a scorrere meno fluidi e in un capitolo – solo uno – l’autore cede alla tentazione di uno “spiegone” di cui – è vero – possono beneficiare i lettori assolutamente astemi di Aviazione ma che per gli altri, desiderosi di conoscere i risvolti successivi della vicenda, costituisce un ulteriore rallentamento. E comunque nulla di intollerabile o di scandaloso. Ti vogliamo bene, Alessandro, comunque!
Tornando agli aspetti squisitamente editoriali del libro, se da un lato posso tranquillamente esprimermi in modo favorevole circa la qualità della carta utilizzata per la stampa (opaca e anche fin troppo bianca), dall’altra non posso fare a meno di dichiarare delle riserve sulla scelta operata circa la foto di copertina che ritengo abbastanza anonima, forse affrettata, generica, senza una diretta logica con il titolo e il contenuto del libro. Peccato. Magari un’altra copertina per una seconda edizione? Magari la stessa seconda edizione con qualche didascalia o note a piè di pagina a uso e consumo dei lettori meno aeronautici? Vedremo, anzi, leggeremo …
Eccellente il titolo.
Purtroppo, già alla prima pagina di testo, mi è apparsa in tutta la sua infelicità l’uso di un carattere di stampa troppo minuto, sicuramente al di sotto delle dimensioni standard per i libri tascabili. No, non sono “ciecato”, come soleva proclamare il personaggio televisivo della grandissima Anna Marchesini … è proprio piccolo, fidatevi, non sono ciecato. Circa la scelta del font diverso dall’usuale potrei essere benigno ma sulle dimensioni, mi spiace, caro Alessandro, chi ha preferito la copia cartacea del tuo libro – come il qui presente – è costretto a una faticaccia ingiustificata, specie se considerata l’impostazione grafica (anche in questo caso singolare) di porre una riga vuota ad ogni capoverso; trattasi di una nuova estetica dattilografica? Un modo per enfatizzare ciascun periodo? Chissà … sì, certo, noi lo adottiamo in questa recensione … ma non per nostra scelta bensì a causa di un sistema appunto automatizzato che non ci consente di fare diversamente. Il solito programmatore ottuso che ha ideato WordPress – non il nostro, per carità – lo ha previsto e non riusciamo a fare di meglio.
Ad ogni modo il dettaglio che più mi è stato sgradito all’occhio è la presenza dei segni “<<” e “>>” per aprire e chiudere il discorso diretto: una vera frecciata al cuore! Ma il trattino o le virgolette non sono più di moda?
Voglio sperare che queste soluzioni, riprendendo il contenuto del romanzo, siano avvenute in automatico per mano di un qualche scaltro Operatore di Sistema editoriale e non dall’autore perché, non solo in Aviazione, ma anche in editoria, l’automazione partorisce dei mostri e l’impaginazione discutibile di questo libro potrebbe esserne la conferma.
Quanto al prezzo di copertina non posso che spendere apprezzamenti: onesto e sotto la media di quello di volumi di pari dimensioni pubblicati in regime di autopubblicazione; ottima la scelta di rendere disponibile la versione in ebook o, secondo un altro punto di vista, di farne ancora una versione cartacea.
In conclusione: un libro da acquistare e leggere con la stessa convinzione, certi che – parafrasando i titoli dei due libri di Alessandro Soldati – anche in cielo pieno di guai … andrà bene. Di sicuro!
Buona lettura
Recensione e didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR
Dello stesso autore sono disponibili le recensioni di:
anno di pubblicazione: 2008 (I edizione), 2014 e 2019 (II edizione)
ISBN: 1679471880 oppure 978-1679471889
Bruno Servadei, l’autore, si trovava in Svezia come addetto militare. Era lì da tre anni e il periodo di servizio all’estero stava per scadere. Infatti già si stava organizzando per il rientro in patria. Ma qualche mese prima del previsto ricevette un ordine di rientro anticipato. Il motivo? Doveva andare a comandare la base aerea e il poligono di tiro di Decimomannu, in Sardegna.
Servadei descrive lo scompiglio che un ordine del genere portò in tutta l’organizzazione del rientro da una località tanto lontana come la Svezia, dovendo fare tutto in fretta, quasi senza respiro. Per scoprire, poi, che tutta questa urgenza, in realtà non c’era. Tipico della vita militare.
Comunque, a parte il rientro precipitoso, arrivato a Decimo, come veniva chiamata per brevità la base aerea, cominciò subito il periodo di affiancamento per prenderne il comando.
I ventisette capitoli del libro, per un totale di 343 pagine, prendono in rassegna tutti gli aspetti che il comando di un simile sito militare comporta.
Con il suo tipico stile chiaro, semplice, efficace nelle descrizioni, Servadei riesce a sintetizzare la complessità della vita operativa nella quale si svolgevano operazioni militari di altissima specializzazione.
Sulla base di Decimomannu erano presenti contemporaneamente diversi gruppi di volo, non solo italiani, ma soprattutto stranieri. Tutti erano lì per addestrarsi con diversi tipi di armi. Veniva utilizzato un poligono di tiro appositamente attrezzato su una penisoletta selvaggia che si trova sulla costa ovest: capo Frasca. Su questo lembo di terra selvaggia erano presenti diversi bersagli, che si dovevano colpire con bombe o con mitragliatrici e cannoncini di bordo. Diverse squadriglie, in sequenza e con cronometrica precisione si alternavano nei passaggi. Poi, a terra, tutti prendevano visione dei punteggi conseguiti da ogni pilota.
All’epoca, dal 1983 al 1986, esistevano già strumenti elettronici abbastanza sofisticati da poter simulare l’uso di armi aria-aria nei combattimenti aerei, i cosiddetti dog fighting.
Per questi combattimenti era stato implementato un apposito spazio aereo, dove i piloti potevano addestrarsi a combattere fra loro. I risultati apparivano su tabelloni elettronici, in una sala apposita, in modo da poter agevolmente valutare le prestazioni di ogni partecipante.
Ecco cosa c’è nel libro. C’è la descrizione di ogni aspetto della vita che per i tre anni suddetti ha riguardato i frequentatori della base, piloti e non piloti, compreso il comandante e la sua famiglia. Qualcosa che difficilmente troveremmo, dovessimo cercare in tutte le librerie del mondo.
Non credo esista un altro libro come questo.
Non mi sono mai imbattuto in nulla che andasse oltre un semplice articolo, più o meno stringato.
Normalmente le faccende militari sono celate in una cortina di mistero, se ne parla a mezza bocca, quasi con timore e con la sensazione di rivelare segreti indefiniti.
Invece in questo libro, una volta di più, l’autore ci fa entrare nel suo mondo, ci porta con sé dentro la base di Decimomannu, ci fa conoscere le persone, gli aerei, le procedure, le difficoltà e le soluzioni, a volte geniali, di problemi complicati.
Senza rivelare alcunché di segreto, Servadei ci permette di conoscere la realtà misteriosa che si cela oltre la garitta del personale di guardia all’ingresso dell’aeroporto militare. Un mondo che altrimenti non conosceremmo mai.
Dagli anni ottanta a oggi tante cose sono cambiate. Ma, anche se diverse, le linee guida di certe operazioni non dovrebbero essere troppo dissimili da allora. Leggere questo libro mette il lettore in grado, non solo di conoscere la storia passata della difesa aerea, ma di comprendere meglio le modalità di quella odierna, perché in molti casi ci mostra come ci siamo arrivati.
E proprio in quegli anni ottanta prendeva piede il fenomeno del volo ultraleggero. Gli ULM (Ultra Light Machine) erano tubi e tela, modelli davvero basici, con qualche esemplare un po’ più perfezionato, tanto da avere, ad esempio, una parvenza di cabina semichiusa. Sembrava che si reggessero in aria per miracolo e stessero sempre sul punto di cadere. In realtà parecchi cadevano davvero.
A parte questo, il dilagare di mezzi aerei, che allora erano classificati come attrezzi sportivi, al pari di una racchetta da tennis, pilotati da gente che poco conosceva di norme aeronautiche, era visto come una minaccia per l’aviazione commerciale e ancor più per quella militare.
Nel libro Servadei parla di un’aviosuperficie, o meglio, un campo di volo, che era stata costruita nei dintorni della base e dove operava proprio un club di ULM. C’era il rischio che qualcuno di loro sconfinasse in aree non consentite ed entrasse in conflitto con l’attività militare. Da molte parti si erano levate voci di protesta e Servadei, come comandante della base, era stato sollecitato a far chiudere l’attività di quei “banditi dell’aria“.
Questo episodio narrato nel libro mi ha fatto fare un vero salto dalla sedia.
C’era da aspettarsi che il comandante di una base aerea come quella di Decimo mandasse un contingente di carabinieri a sequestrare i mezzi, arrestare i piloti, recintare l’area e ad applicare sigilli affinché nessuno potesse più entrare là dentro. Mi aspettavo questa reazione, e lessi con il fiato sospeso il seguito del capitolo.
Servadei andò a visitare l’aviosuperficie e a conoscere uomini e mezzi.
Provò anche qualche ULM in volo.
Poi, senza proibire l’attività di questi appassionati, stabilì alcune regole, limiti e altezze massime. E li lasciò volare senza problemi.
Non solo, ma dopo un po’ di tempo, approfittando di qualche giorno di chiusura della base di Decimo, invitò quel club e altri piloti di ultraleggero a venire ad atterrare sulla pista dell’aeroporto per una festa. Così i piloti militari poterono conoscere i civili e viceversa.
Ci fu un vero e proprio scambio culturale. I piloti ULM poterono vedere da vicino gli aerei militari, sapere di più della loro attività e delle loro esigenze operative e imparare soprattutto come comportarsi per non interferire nelle loro operazioni.
Complimenti, Comandante Servadei. Questa parte mi ha addirittura commosso. Come si dice in gergo… tanto di cappello!
Nel 1986 e 1987 facevo anch’io già parte del mondo ultraleggero. Volavo come istruttore su un’aviosuperficie nei dintorni di Roma, in una località dei Castelli romani denominata Pratoni del Vivaro. E questo mi fa apprezzare particolarmente l’orientamento mentale di un Comandante che, invece di proibire e chiudere, stabilisce regole e lascia volare.
Un paio di capitoli, il sedicesimo e diciassettesimo, parlano dell’attività di volo che l’autore fece, per mantenere le proprie abilitazioni e il proprio addestramento, sia con velivoli italiani che con quelli stranieri.
Anche un comandante deve mantenersi allenato al pilotaggio di tutti i velivoli in dotazione alla propria forza armata, ma non è male se riesce a volare anche con quelli stranieri, che utilizzano la base e il poligono. Gli aerei non sono proprio identici, anche se dello stesso tipo. Chi comanda deve ben sapere le esigenze di tutti. Serve a fare un lavoro migliore, a gestire meglio un’attività così complessa.
Dai capitoli traspare una certa difficoltà nell’ottenere l’autorizzazione a effettuare questi voli, anche se, devo dire, nel caso dell’autore, alla fine riusciva a volare abbastanza.
Ma la situazione deve essere peggiorata negli anni successivi, perché un mio amico, generale di brigata, in servizio proprio da quelle parti, non riusciva a volare e doveva ogni volta venire a Guidonia a fare qualche oretta per il mantenimento.
Nel libro si parla anche di feste, cerimonie, visite, giuramenti, vacanze estive. E naturalmente non mancano accenni all’interazione con il popolo sardo.
E questo è davvero un argomento interessante. Tutto da leggere.
Alla fine, però, oltre le difficoltà che immancabilmente può incontrare una struttura militare così grande, immersa in una realtà territoriale che la percepisce come qualcosa di scomodo e ingombrante, emerge la bellezza di un’isola straordinaria come la Sardegna. E si finisce per amare la regione e il suo popolo.
Servadei lasciò il comando di Decimo nel 1986 e tornò nel continente. Avrebbe preso servizio come consigliere militare presso il Quirinale. Ma questa parte della sua vita è raccontata in un altro suo libro dal titolo “Un pilota a Palazzo“, di cui potete leggere la mia recensione in questo sito.
Ovviamente ci fu una cerimonia ufficiale. C’è sempre una cerimonia ufficiale nella faccende militari.
Scrive Servadei:
“Il giorno prima di lasciare il comando feci l’ultimo volo con il mio amato F104S. Poi, fra presentat’arm e fanfare, discorsi e saluti, mollai la bandiera di guerra dell’RSSTA nelle mani del mio successore”.
Recensione di Brutus Flyer (Evandro Detti) e didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR
Dello stesso autore sono disponibili le recensioni di:
anno di pubblicazione: 2008 (I edizione), 2018 (II edizione)
ISBN: 1730700632 oppure 978-1730700637
Questo è uno dei migliori libri che mi sia capitato di leggere. Almeno nel campo aeronautico.
Spiegare perché lo considero al top assoluto non è facile, ma sono certo che molti piloti, dopo averlo letto, sarebbero d’accordo con me. E’ possibile che una recensione non arrivi a trasmettere ad altri potenziali lettori cosa li attende nella lettura di questa pregevole opera. Si tratta di 429 pagine scritte con caratteri piccoli e dense di vita vissuta. Che tipo di vita? Quella di un pilota che, dopo gli anni dell’Accademia Aeronautica, si ritrova ad operare nel pieno della cosiddetta Guerra Fredda, dove per decenni ci si deve confrontare con il rischio costante di una guerra, possibilmente anche nucleare, con le forze del Patto di Varsavia.
L’autore, Bruno Servadei, è un tipo formidabile, la cui carriera comincia così, come pilota operativo di un prestigioso Gruppo di volo. Utilizza alcuni dei caccia di quel periodo, dall’inizio degli anni Sessanta in poi, macchine affascinanti che sono state il sogno di migliaia di piloti. Poi, la sua carriera prende altre strade e si inoltra in ambienti non meno interessanti, verso avventure forse ancora più prestigiose.
Comunque continua a volare, anche dopo essere andato in pensione.
Bruno Servadei ha molti meriti. Ma solamente alla fine di questa recensione rivelerò uno dei suoi meriti più importanti.
Il libro comincia con il racconto del viaggio di trasferimento da Rimini, dove l’autore aveva una casa di famiglia, verso il reparto presso il quale avrebbe dovuto prendere servizio. Infatti, il capitolo si intitola: Verso il mio reparto.
Il periodo dell’Accademia era terminato e ora lo attendeva la vera vita di Reparto di volo, la vera vita del pilota di caccia dell’Aeronautica Militare Italiana.
La macchina era una piccola BMW con motore bicilindrico di derivazione motociclistica. Un motore boxer di piccola cilindrata.
Era l’Agosto del 1963.
Già alla seconda riga si fa riferimento ad una strada che l’autore stava percorrendo: la Romea.
Ecco come un libro ghermisce il lettore sin da subito.
Una recensione, infatti, non è altro che il resoconto di quanto e come un lettore ha trovato o meno interesse a leggere il libro. Nel mio caso, già alla prima riga la mia attenzione era stata ghermita e alla seconda la mia mente già vedeva la scena come in un film.
In realtà io vedevo due film.
Questa scena, molto vivida, di un ragazzo appena ventenne che percorreva la Romea in direzione di Mestre, a bordo di una piccola utilitaria, nel mondo del 1963, tanto diverso da quello di oggi, mi riportava indietro nel tempo, a quando, pochi anni dopo, anch’io viaggiavo verso un reparto dell’Aeronautica Militare dove avrei dovuto prendere servizio.
Le emozioni del passato, rievocate dalle prime due righe del primo capitolo del liro di Bruno Servadei, continuavano a emergere riga dopo riga.
Anche se la mia realtà e la sua erano certamente molto diverse (lui andava a cominciare la sua vita di pilota, io no) a quell’età l’avventura aveva comunque lo stesso sapore.
E forse non c’entra neanche l’età, perché parecchi anni dopo, mi capitò di percorrere proprio la Romea per raggiungere una Torre di controllo di un aeroporto del Nord-Est, dove avrei preso servizio come controllore del traffico aereo. E il sapore dell’avventura era probabilmente lo stesso.
Servadei stava andando a Ghedi, in Lombardia, vicino a Brescia, dove aveva sede la Sesta Aerobrigata, famosa per un prestigioso Reparto di volo, quello dei “Diavoli Rossi“.
Il secondo capitolo descrive l’arrivo. E anche qui la sua descrizione del mondo di allora riporta alla mia mente sensazioni di vita vissuta e dimenticata.
La descrizione dei luoghi, degli ambienti, dell’umanità e dei modi di fare del tempo, sia in ambito militare che non, è talmente efficace da essere, in alcuni punti, travolgente.
Chi ha conosciuto l’Aeronautica degli anni Sessanta si sente riportare indietro nel tempo.
Oggi è tutto diverso.
Nei capitoli successivi si parla dell’assegnazione ad un reparto di volo. Non erano tutti uguali. Servadei spiega bene le differenze. A lui capita un reparto di cacciabombardieri.
Questo deciderà la sua vita operativa futura. E anche il titolo del libro.
Nel corso della lettura, dopo la descrizione del primo periodo dove le giornate erano quasi esclusivamente destinate all’immersione nella realtà del Reparto, senza prospettiva di volare se non davvero saltuariamente e comunque con un jet biposto, un T33, come quello usato alla scuola, subito dopo la fase basica, pian piano si comincia ad intravedere la linea di volo vera e propria.
Gli aerei erano gli F84F, un modello già superato, ma ancora valido, sebbene avesse già fatto la sua comparsa il famoso F104, che però solo pochi fortunati avrebbero utilizzato, almeno nel futuro prossimo.
E da qui in poi, per un pilota di qualsiasi tipo, l’interesse sale a livelli stratosferici. Ma è altrettanto interessante anche per i non piloti.
Servadei ci racconta tutte le fasi della transizione su questa macchina; ed è interessante seguirlo nei suoi primi voli. Conoscere le sue impressioni, le sue soddisfazioni e i suoi timori.
Il tutto, immerso nella vita quotidiana di reparto. Possiamo così “conoscere” i suoi colleghi, i comandanti, i sottufficiali specialisti e anche piloti. Si, perché a quell’epoca esistevano ancora i sottufficiali piloti. Bruno Servadei ne parla molto bene, del resto si è sempre saputo che i sottufficiali piloti erano generalmente eccellenti.
La vita di reparto viene descritta in tutti i suoi aspetti, quelli belli e… quelli meno belli. O meglio, quelli piuttosto brutti.
Con il suo modo delicato l’autore non manca di mettere a nudo gli aspetti più duri della vita nei reparti di volo di quel periodo storico.
Va detto, infatti, che gli anni Sessanta, Settanta e Ottanta, fino alla caduta del cosiddetto muro di Berlino, l’Unione Sovietica e i suoi paesi satelliti, costituivano una sorta di minaccia sempre presente. Parliamo, come ho detto, del periodo della Guerra Fredda, quando era lecito aspettarci un attacco, anche con armi nucleari, all’improvviso e senza preavviso. A questa minaccia si doveva far fronte subito e senza mezze misure.
Le forze della NATO disponevano di Reparti di caccia intercettori e cacciabombardieri, di diverse nazionalità, lungo tutta la linea di confine con i paesi sotto il controllo dell’Unione Sovietica.
Il reparto di Servadei era solo uno di questi. Gli aerei che utilizzava il suo reparto potevano essere equipaggiati con armi convenzionali, ma anche con armi nucleari. In altre parole potevano portare appesa sotto la fusoliera una bomba atomica. All’occorrenza, che ci si augurava non si verificasse mai, i piloti di questi F84 avrebbero dovuto partire, penetrare a bassissima quota nel territorio nemico, per sfuggire ai radar, raggiungere l’obiettivo stabilito, sganciare la bomba e mettere in atto la procedura di scampo per poi tornare, sempre che ci si riuscisse, alla base.
Ecco qual era il compito operativo del nostro giovane pilota e di tutti i suoi colleghi.
Oggi sarebbe difficile raccontare ai nostri giovani la realtà di quegli anni. E dubito molto che la stragrande maggioranza di loro prenderebbe l’iniziativa di leggere un libro come questo.
Chissà se qualche giovane, leggendo la mia recensione, si incuriosirà al punto da prendere l’iniziativa di cercare questo libro e di procurarselo per leggere di una realtà tanto estranea a quella odierna.
Ma una cosa è certa: ogni capitolo rappresenta una sorta di cortina che cela una realtà appassionante, sorprendente, illuminante.
Riga dopo riga la cortina si scosta e la realtà celata si rivela. Poco a poco, le parole di Servadei, magistralmente scelte e combinate tra loro, ci fanno entrare nei suoi ambienti quotidiani, dove viveva ogni giorno senza quasi mai uscire dalla base aerea, per settimane intere.
Non era una vita facile la sua. Neppure quella del circolo ufficiali, dove si giocava assiduamente a carte per ore e ore, quando non c’era attività di volo. A volte la nebbia fittissima della pianura dove aveva sede l’aeroporto di Ghedi non permetteva l’attività di volo e ci si trovava a dover superare la noia di giorni di inattività.
Tuttavia la nebbia, appena si diradava un poco, non riusciva a impedire l’attività di volo, che avveniva ugualmente, sebbene in condizioni di estrema difficoltà.
Servadei ci parla dei diversi profili di missione ai quali prese parte a Ghedi, mentre si formava la sua preparazione per divenire Combat Ready, cioè pronto al combattimento.
Possiamo così leggere di come avvenivano le sessioni di addestramento al poligono di tiro, con diversi tipi di armamento. Le armi erano spesso inerti, ma a volte erano vere.
E poi c’era l’addestramento al lancio della bomba nucleare. E questa era una procedura tutta particolare.
La descrizione dell’attività di volo operativo è lunga e complessa e prende una discreta parte del libro, perciò non posso neppure provare a riassumerla tutta.
Ma non mancano momenti divertenti, qua e là.
Un giorno la squadriglia di Servadei doveva fare da bersaglio ai serventi dei cannoncini della contraerea aeroportuale. Non che gli dovessero sparare davvero addosso per abbatterli. Si usava una procedura di sicurezza, come ci descrive Servadei. I cannoni avrebbero dovuto sparare dalla parte esattamente opposta a dove si trovavano gli aerei e verso il mare, per ovvi motivi.
Ma per un errore, forse di coordinamento, il radar che guidava la squadriglia li diresse verso il mare, proprio dove passavano i proiettili traccianti dei cannoni.
I piloti videro i traccianti salire verso di loro e il caposquadriglia:
“fece uno strillo per radio che probabilmente giù lo sentirono anche senza: ci fu un po’ di silenzio, poi qualcuno, con voce mesta, chiese umilmente scusa”.
Ma una situazione come questa non era un evento raro.
Poco prima Servadei aveva detto:
“… provavo un vero fastidio nel vedere che, a volte, le canne dei cannoncini ci seguivano mentre rullavamo: sarà anche stato un buon addestramento, ma era come se qualcuno ti puntasse una pistola. Va a sapere chi ci stava dietro a quell’arma e se avesse adottato tutte le precauzioni previste”.
Ancora una volta torno indietro nel tempo, agli anni settanta, quando ero in servizio. Nell’uscire dal reparto di servizio, dopo un turno di notte, stavo attraversando un piazzale e fui attirato da alcuni “click” ripetuti che provenivano da una scala d’ingresso all’ala del palazzo. C’era un aviere VAM (Vigilanza Aeronautica Militare) che mi puntava addosso il MAB (Moschetto Automatico Beretta), un mitra.
Sapevo bene che il mitra aveva un caricatore vuoto montato e che i caricatori pieni, avvolti nel cartoncino e nastrati, il VAM li teneva nella giberne. Ma… come dice Servadei, vai a sapere chi ci stava dietro a quell’arma…
Il VAM sghignazzava, sopra gli scalini, e faceva scattare la sua arma, quasi a cercare la mia approvazione per il suo modo di scherzare.
All’uscita andai dall’ufficiale di picchetto, gli riferii il fatto e subito dopo andarono a sostituire quella guardia. Credo che non se la sia passata tanto liscia.
Un’altra occasione del genere avvenne a Guidonia. Trainavo gli alianti con un aereo ad elica, un Robin DR 400. Dopo ogni traino, lasciato l’aliante in quota, scendevo a duecentocinquanta chilometri orari, passavo di fianco alla testata della pista, pochi metri fuori asse e sganciavo il cavo di traino. Poi risalivo, entravo nel circuito e atterravo. Di solito c’era già un altro aliante da portare su, con il cavo appena sganciato attaccato al musetto. E la faccenda si ripeteva.
In uno di questi avvicinamenti, a qualche decina di metri di quota e ridotta la velocità a centottanta-duecento Km/h, scendevo verso la testata pista e il prato dove avrei sganciato il cavo, quando vidi, con la coda dell’occhio, un movimento sulla sommità di una specie di garitta, sopraelevata di alcuni metri da terra.
C’era una guardia, appoggiata alla ringhiera di protezione della garitta. Un VAM in servizio. Mi era sembrato che mi avesse preso di mira con il mitra, ma in quel punto ero basso, veloce e dovevo stare attento a troppe cose e non potei verificare.
Al traino successivo, però, guardai bene.
Sì. Effettivamente il furbacchione mi puntava il mitra, seguendomi nella traiettoria.
Capisco la sua noia, penso che l’arma fosse scarica e che comunque non mi volesse veramente sparare, però… non sai mai chi c’è dietro quell’arma…
Andai al parcheggio. Dal telefono della nostra roulotte che fungeva da ufficio per il volo a vela civile, chiamai l’ufficiale di picchetto.
Dopo poco arrivò una campagnola militare. La guardia venne tirata giù e sostituita. Poi la campagnola tornò al corpo di guardia.
Anche in questo caso non credo che non ci sia stata alcuna punizione.
Non credo neanche che quella guardia possa aver visto chi c’era sul Robin. Ad ogni buon conto, dopo l’episodio, mi guardavo sempre intorno con circospezione, quando ero in aeroporto.
Servadei descrive l’attività al poligono in modo davvero chiaro e preciso. Così che il lettore possa avere un’idea chiara di quale sia il lavoro di un pilota cacciabombardiere.
Ma la massima espressione di questo lavoro riguarda un altro poligono, il più grande d’Europa, che si trova in Sardegna a Decimomannu. Qui si andavano ad addestrare tutti i reparti come il suo, appartenenti agli altri stati della NATO.
Andare in Sardegna, dal continente, implica la necessità di attraversare il mare. C’erano piloti che avevano un certo timore a volare sul mare. Dall’Elba alla Corsica il tratto di mare è il più breve, non ci vuole molto a superare la distanza con un jet. Quasi non ce se ne accorge.
La descrizione di quel trasferimento è un capolavoro. Conosco bene il percorso, le coste, il paesaggio. La breve distanza tra la Corsica e la Sardegna, e lo stupendo paesaggio di quella zona. Poi giù verso Decimomannu.
Servadei ha dedicato un altro libro, dal titolo “Deci 83-86 ricordi di tiro 0“, al suo periodo di servizio, anni più tardi, in questo poligono. Deci è l’abbreviazione di Decimomannu, in Sardegna, di cui ho appena fatto menzione.
I tiri, comunque, erano un esercizio costante nell’attività di un pilota cacciabombardiere. Molte pagine, anzi, interi capitoli parlano di addestramento al tiro con armi di vario tipo, con armi inerti o reali. Ed è veramente accattivante seguire il suo racconto. Pare di essere lì e finalmente possiamo sapere cosa facevano questi piloti durante il servizio in quel famoso poligono.
La vita operativa di Bruno Servadei si snoda nel corso degli anni e passa attraverso molte esperienze.
Ad un certo momento viene trasferito al Sud. Un cambiamento di non poco conto, considerato che in quegli anni le differenze tra le realtà del Nord e del Sud erano notevoli. Questi sono capitoli tutti da leggere.
Nella sua nuova collocazione, a Gioia del Colle, in Puglia, si deve adattare a condizioni e mentalità molto diverse. Le strade, ad esempio, non erano certamente come quelle di oggi e le automobili nemmeno. Per tornare a casa doveva affrontare una specie di odissea.
Ma, a onor del vero, l’Aeronautica di allora, nei weekend, concedeva ai suoi piloti di poter usare il jet per tornare a Ghedi. Come dire, invece di prendere la macchina, prendi pure l’aereo. Basta che domenica sera lo riporti alla base. Che meraviglia!
In questa fase c’è un altro evento importantissimo che lo riguarda: il matrimonio. Vicende che si collegano e si amalgamano con la vita di reparto, in un aeroporto del Sud.
Servadei è stato anche uno sportivo. In quegli anni si addestrava nello sport del bob. E questa è una storia nella storia. Tutta da leggere, sia per i risultati conseguiti, sia per gli aspetti sorprendenti di uno sport così poco conosciuto, ma che ha, a mio avviso, molto in comune con il pilotaggio di un aereo. Furono soltanto impellenti ragioni di servizio che gli impedirono di partecipare alle Olimpiadi del 1972, a Sapporo, in Giappone.
Nel frattempo ci sono da affrontare anche alcune missioni estere. E queste costituiscono un altro elemento di attrazione per un lettore appassionato di volo. Lo svolgimento di queste missioni, nell’ottica di uno scambio di esperienze tra gruppi di volo di nazionalità diverse, rivela aspetti sorprendenti sotto molti punti di vista.
E purtroppo nel libro ci sono parecchie descrizioni di incidenti.
I vecchi F84 e F86 stavano per essere sostituiti, anche se molto gradualmente, dai G91 e dagli F104.
Quest’ultimo, come molti sanno, era un ottimo aereo, ma per una serie di ragioni legate all’impiego che ne venne fatto e ad altri motivi, fu protagonista di frequenti incidenti, che costarono la vita di tanti piloti. Non per nulla venne chiamato “fabbricante di vedove“.
E qui la storia sarebbe lunga. Ma chiunque la volesse conoscere non ha da far altro che leggere questo libro.
Con la sua consueta delicatezza, Servadei affronta l’argomento nell’ultima parte del libro. E anche con competenza, visto che ha utilizzato l’F104 per molto tempo.
Ho trovato molto interessante leggere il resoconto dei suoi primi voli, le sue prime sensazioni, l’impressione che ne aveva avuto.
Si sentiva tanto parlare, all’epoca, della famigerata spinta iniziale del decollo, dato che il post bruciatore, del quale l’F104 era dotato, si conosceva ancora poco. Avevo sentito storie di piloti che, affondata la manetta per decollare, si erano girati di lato a guardare qualcosa e non erano più riusciti a girare di nuova la testa in avanti …
Storie metropolitane. Servadei sfata il mito della poderosa spinta. Il 104 aveva certamente potenza, ma niente di così estremo.
Anche riguardo alla transizione dal volo a velocità subsonica a quella supersonica, Servadei cancella tutte le storie di vibrazioni, scuotimenti e sbandate. L’indice del machmetro passa semplicemente da Mach 0,9 a 1. E poi continua a salire verso valori maggiori. Tutto qui. Anche se dopo ci sono altri fattori da tenere in considerazione, ben descritti e di grande interesse per chi non ha mai pilotato un F104, ma avrebbe tanto voluto farlo.
Arriviamo in fondo al libro. Alla postfazione.
Se questo libro mi era così piaciuto, quando lo lessi nel 2008 o all’inizio del 2009, tanto che ho voluto rileggerlo prima di scrivere questa recensione, devo dire che stavolta mi è piaciuto ancora di più.
Ho dovuto prendere il telefono ed esortare alcuni miei amici ex Aeronautica Militare a tirare fuori il libro e rileggerlo a loro volta, cosa che hanno fatto. Uno di loro era controllore al GCA (Ground Controlled Approach) dell’aeroporto di Grosseto e si è ricordato di alcuni episodi, compreso un incidente di volo proprio sul cielo campo dell’aeroporto, dove si sono scontrati due F104 e alcuni dei pezzi erano caduti a pochi metri da lui, vicino alla capannina del GCA. Uno dei piloti si era dovuto lanciare, l’aereo era finito in un campo appena fuori dall’aeroporto.
L’epoca dell’F104 è rimasta indimenticabile.
Ma torniamo alla postfazione. Avevo dimenticato questa parte.
Servadei scrive:
“L’idea di scrivere queste memorie mi è venuta parecchi anni fa, quando mi fu chiaro che mio padre non avrebbe mai scritto le sue, che sarebbero state di gran lunga più interessanti. Allora mi sembrò un delitto lasciare che tanti eventi vissuti in prima persona da mio padre in un periodo così complesso e discusso, come quello degli ultimi anni del fascismo e dei primi anni del dopoguerra, andassero dimenticati solo perché riteneva inutile scriverli, convinto com’era che nessuno avrebbe avuto il coraggio di pubblicarli.
Così la mia reiterata richiesta di mettere su carta le sue memorie andò del tutto disattesa, nonostante la mia promessa che le avrei conservate in vista di tempi migliori per renderle pubbliche. Dopo la sua scomparsa mi ripromisi che non avrei fatto altrettanto. Per quanto poco significativi rispetto a quelli che avevano riguardato la sua vita, gli eventi che avevano riguardato la mia li avrei registrati, a futura memoria. Forse non li avrebbe letti nessuno, ma se a qualcuno, nel tempo, fosse venuta la curiosità di sapere ciò che si faceva e come si viveva in alcuni particolari reparti da caccia dell’Aeronautica Italiana durante la Guerra fredda, avrebbe potuto trovare nei miei scritti qualche spunto interessante”.
Condivido ogni sillaba delle parole di Servadei. Come ho scritto in altre recensioni, ho sempre esortato tutti coloro che avessero qualcosa di interessante da tramandare ai posteri, di scrivere. Senza riguardo verso questioni di opportunità, specialmente quando gli argomenti si vanno ad intrecciare con le vicende del ventennio fascista. La Storia è Storia. E il fascismo ne ha fatto parte. Tanti eroi si sono mossi in quella realtà, compiendo atti di coraggio senza pari. Scrivere le loro vicende e farle conoscere non significa essere d’accordo con le follie perpetrate da qualcuno. Non significa essere fascisti oggi.
Anni fa ho scritto un libro, una sorta di biografia di un pilota che aveva compiuto imprese mirabili ed era infine diventato un pioniere del trasporto aereo civile. Ma tutto questo si era svolto nel ventennio. Alla pubblicazione del libro ho riscontrato molte perplessità, come se avessi fatto qualcosa di male. E ho perfino perso qualche amico. Eppure nel libro la parola fascismo non compare. Inoltre, il personaggio non era troppo allineato con la mentalità del periodo. Infatti dovette scontare due mesi di arresti nella fortezza di Nisida, per insubordinazione.
Sto parlando di Cesare Carra. La recensione del mio libro, a cura della Redazione di Voci di hangar, è presente nel sito in questa pagina.
Peccato che il padre di Bruno Servadei non abbia scritto. Peccato davvero.
Scrive Servadei:
“Era anche un grande appassionato di fotografia: girava sempre con la sua Laica… Sviluppava e stampava le foto in casa, in una camera oscura arrangiata della quale ricordo ancora la luce rossa e l’ingranditore”.
Questo signore ha tutta la mia simpatia. Anch’io ho passato la vita, dai diciassette anni in poi, con una macchina fotografica sempre appresso. Varie macchine, ma quella più longeva è stata una Olympus OM1n, meccanica e manuale che ancora conservo. Con la mia piccola reflex ho documentato due terzi della mia vita. E naturalmente, avevo una camera oscura arrangiata, con l’ingranditore. Passavo le notti intere a stampare le mie foto. E la mattina dopo, con le stampe asciutte e stirate, andavo a proporle a diverse redazioni. Era un hobby, vivevo di altro, ma ci ho guadagnato un po’ di soldi per pagare i miei voli…
Dopo c’è stato l’avvento del digitale e il mondo è cambiato. Così oggi ho una macchina digitale sempre con me, anzi, più di una.
Bruno Servadei, sull’esempio del padre, ha fatto la stessa cosa. Ha usato tante fotocamere e videocamere, con le quali ha documentato ogni sua attività.
Lo dice nella postfazione.
“Documentare con un obiettivo mi è sempre riuscito naturale, e mi ha abituato a guardare gli eventi con occhio critico e a ricordarli”.
Nonostante non fosse consentito, portava questi apparecchi anche in volo, sin dall’inizio, quando volava sul T6.
E aveva raccolto diversi dei suoi preziosi filmati in un paio di DVD.
Giunto alle ultime righe del libro, Servadei scrive:
“Coloro che fossero interessati a ricevere maggiori informazioni sul contenuto del libro o sul DVD possono contattarmi alla seguente email …”.
All’epoca della prima lettura di questo libro Bruno Servadei mi aveva spedito due DVD, ma non ricordavo come avevo fatto a contattarlo.
Forse l’indirizzo email oggi non è più lo stesso. Ma, giunto a queste ultime righe, di colpo mi sono ricordato come avevo fatto a richiedergli i filmati. Gli avevo mandato una mail a questo indirizzo. E lui mi aveva spedito i DVD, due, non uno.
Li ho ancora. E li conservo con cura.
Allora, qual’é uno dei meriti più importanti di Bruno Servadei?
Lo dice lui stesso, sempre nella postfazione:
“Le difficoltà dello scrivere le ho affrontate perché lo scopo di queste pagine non è tanto di far apprezzare uno stile di scrittura, quanto di raccontare dei fatti. Fatti che rimangano come doverosa documentazione del modo di vivere di personaggi che hanno svolto un difficile compito in un periodo di forte contrapposizione fra NATO e Patto di Varsavia che, fortunatamente, oggi non c’è più, a mio parere anche grazie all’impegno ed ai sacrifici che sono descritti in queste pagine”.
Esatto. Questo è il grande merito: aver registrato qualcosa che altrimenti si sarebbe perduto nelle nebbie del passato.
Recensione di Brutus Flyer (Evandro Detti) e didascalie a cura della Redazione di VOCI DI HANGAR
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