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Palla di cannone

(Al mio Angelo Custode)

Avevo urtato violentemente l’anca destra contro una roccia, ma ora non era il dolore che mi preoccupava, bensì il fatto che non stavo volando! Non volavo affatto, stavo cadendo! L’urto non era bastato a fermarmi e quello che mi trovavo davanti era uno spettacolo terrificante: senza controllo ero sparato come una palla di cannone giù per il pendio, in una specie di canalone con una parete di roccia a sinistra, una fila di alberi a destra e una betulla in fondo, proprio sulla mia traiettoria. Avevo letto e sentito dire di cosa si prova quando si rischia di lasciarci le penne: “si vede tutta la propria vita passarti davanti agli occhi”, oppure “tutto appare rallentato e i secondi sembrano minuti”, o ancora “ti domina una freddezza che ti rende capace di agire con la massima lucidità”. Bene, io non ho provato niente di tutto questo; ero sparato come un proiettile giù da una montagna e non avevo altre immagini negli occhi che quelle delle rocce e dei tronchi attorno a me, non avevo percezioni del tempo rallentate e neanche mi sentivo freddo e calcolatore. Ero senza controllo, vedevo sfrecciare rocce e tronchi ai lati e, mentre la betulla era sempre più vicina, riuscivo a pensare solo che questa volta mi sarei fatto male sul serio.

Ma scusate, forse sono andato troppo avanti con la mia storia. Non vi ho detto chi sono e di cosa vi sto parlando. Meglio rimediare subito. Il mio nome non conta molto ai fini di questo racconto, sappiate solo che sono un padre di famiglia con la passione per il volo in parapendio. Sì, proprio così, sono uno di quei “pazzi” che si lanciano giù dalle montagne per veleggiare attaccati a dei “fazzoletti” di nylon colorato. Niente a che fare con i paracadutisti, loro si buttano giù da un aereo ed hanno un paracadute che serve a frenare la loro inesorabile caduta verso terra. Noi parapendisti invece voliamo, perché il mezzo che usiamo ci permette di decollare a piedi da un pendio e, sfruttando le correnti ascensionali dell’aria, può farci salire a quote più elevate di quella da cui abbiamo spiccato il volo. Ma ecco che mi sto perdendo di nuovo! E’ meglio che torni alla mia vicenda e che lo faccia raccontandovi tutto partendo, diligentemente, dall’inizio.

Era domenica pomeriggio, un primo dicembre assolato con un cielo limpido che faceva sperare in un bel volo veleggiato. La funivia ci aveva portati alla stazione più alta e dopo era toccato a noi darci da fare per raggiungere la zona di decollo con una camminata tra boschi di abeti, castagni e betulle. Nonostante i grossi zaini sulle spalle, eravamo arrivati abbastanza rapidamente alla nostra destinazione: una radura in pendenza che si apriva sulla valle offrendo una visione mozzafiato. Il sole, ancora alto sulle creste delle montagne a ovest, illuminava la decina di allievi piloti che ora occupavano il prato dove, di lì a poco, avrebbero spiegato le vele e preso la rincorsa per spiccare il volo. L’istruttore giù in valle si teneva in contatto radio pronto per assistere i meno esperti nelle manovre di atterraggio. In queste occasioni, quando devono decollare degli allievi, chi ha più esperienza da’ la precedenza a coloro che ne hanno meno. Io ero tra quelli con più voli nel mio carnet per cui mi ero messo inizialmente in disparte deciso a decollare tra gli ultimi. Il vento era perfetto: frontale e con intensità costante, l’ideale per facilitare la manovra di decollo. L’aria limpida e fredda faceva già pregustare un volo piacevole.

Paolo, l’assistente dell’istruttore, aveva dato le ultime indicazioni agli allievi e i primi già si preparavano al decollo. Dopo aver fatto i controlli di rito e con un po’ di esitazione dovuta all’immancabile tensione che avvolge chi sta per spiccare il volo, le prime vele avevano cominciato a staccarsi dal pendio.

Teli colorati di rosso, di giallo intenso, di blu scuro stagliati contro un cielo azzurro offrivano, a noi ancora a terra, uno spettacolo di bellezza radiosa. Man mano che i decolli si susseguivano, l’atmosfera si rilassava e qualche pilota cominciava a prendersela più comoda nel fare i preparativi ed i controlli pre-volo. Così scambiando battute e ribattendo alle spiritosaggini degli altri, qualcuno si tratteneva troppo a lungo sul decollo ritardando il susseguirsi delle partenze. Se questo atteggiamento in primavera o d’estate può non rappresentare un problema, d’inverno invece può farlo. Infatti, in questa stagione le giornate sono più corte e quando il sole tramonta, l’aria fredda tende immediatamente a scendere giù dalla montagna creando una corrente che va dall’alto verso il basso. Questa aria discendente rende il decollo con il parapendio difficile ed a volte addirittura impossibile.

Così a causa di qualche esitazione dei piloti decollati prima di me e di qualche immancabile problema tecnico, il mio turno di decollo era arrivato quando le condizioni non erano oramai più quelle ottimali. Il vento frontale era quasi nullo il che significava avere bisogno di una rincorsa di decollo più lunga, ma, in quel posto, la lunghezza dello spazio di decollo prima che la pendenza del prato diventasse eccessiva era molto breve. Inoltre la tendenza del vento era oramai quella di passare da vento nullo a vento discendente. Il sole era quasi dietro ai monti e non c’era da aspettarsi che l’aria riprendesse a salire dalla valle.

Ogni volta che si vola, visto che si rischia la vita, si deve valutare tutto: le proprie capacità, le proprie condizioni fisiche, le caratteristiche dell’attrezzatura che si usa, le caratteristiche e le condizioni della zona di decollo. Solo dopo aver esaminato tutto questo si può decidere se si può decollare in sicurezza o meno. Questa e’ la teoria, ma nella pratica bisogna purtroppo aggiungere l’influenza che sulla decisione hanno fattori quali: la voglia di volare, la volontà di non rinunciare al decollo perché farlo significherebbe rimettersi tutto in spalla e scendere a valle a piedi. Per questo, in qualche caso, la decisione tecnica sulla fattibilità del decollo risulta un po’ viziata e, con l’aggiunta di una buona dose di fiducia nelle proprie capacità, a volte si decide di decollare anche quando magari sarebbe il caso di non prendere il rischio. Così, rispettando questo copione, nonostante la mia vela fosse difficoltosa da far decollare con vento nullo e il tratto a disposizione per l’accelerazione fosse particolarmente corto, io avevo deciso di decollare ugualmente.

Una volta fatti i controlli pre-volo, ero pronto: occhi alla valle, elevatori e freni nelle mani tenute alte sulle spalle. Il fiocco di fili di plastica che doveva indicare intensità e direzione del vento era pietosamente floscio. Guardandolo mi dicevo: “ok dovrai tirare gli elevatori con più decisione ed accelerare la corsa in modo da gonfiare la vela il più rapidamente possibile, quindi correre senza esitare verso la fine del prato; puoi farcela!”

Dopo aver dato un ultimo sguardo alla disposizione della vela alle mie spalle, e dopo aver dato l’ok a Paolo per segnalargli che ero pronto ad andare, avevo preso un bel respiro ed ero partito a razzo!

Dopo i primi passi avevo sentito la resistenza offerta dalla vela che si gonfiava e cominciava a salirmi sopra la testa; non avevo tempo da perdere, non appena l’avevo sentita tirare verso l’alto, avevo spinto il busto in avanti e accelerato la corsa, ma il breve tratto di prato utile per la rincorsa era già finito. Ora stava alla vela fare il resto: gonfia sulla testa doveva prendere il vento e sorreggermi fino a farmi iniziare la planata verso valle. Con questa fiduciosa idea in mente mi ero ancora di più protratto con il busto in avanti mentre correvo verso il vuoto. Ma qualcosa era andato storto. Non avevo sentito la trazione alle spalle e l’attesa sensazione di assenza di peso che doveva esserci nel momento in cui la vela cominciava a volare regolarmente. Difatti, quello che ritenevo un decollo si stava rivelando essere solo un salto fuori dal pendio; la vela non era riuscita ad acquistare la velocità sufficiente per sorreggere il mio peso e staccarmi da terra! Così, non stavo volando, ma stavo letteralmente cadendo lungo un pendio scosceso che non offriva ripari, così ripido da dare spazio alla mia traiettoria lasciandomi accelerare, senza ostacolarmi, nella mia caduta. La situazione era critica: la vela non era gonfia a sufficienza per farmi volare ma offriva ugualmente una qualche resistenza e tendeva a spostarmi verso destra, dalla parte sbagliata del pendio, quella dove il prato lasciava spazio alle rocce ed ai tronchi d’albero. Avevo subito cercato di contrastare la traiettoria della vela con i comandi, ma la risposta era stata nulla; cadevo e lo facevo sempre più velocemente. Vedevo avvicinarsi rapido uno scalino di roccia piatta fino al punto di sbatterci violentemente l’anca destra. La sensazione di acuto dolore all’anca aveva subito lasciato spazio al terrore quando avevo visto cosa c’era oltre lo scalino di roccia. L’urto non era infatti riuscito a fermarmi perché la vela ancora gonfia e fuori controllo continuava a tirarmi ed io ero sparato come una palla di cannone in una specie di canalone con una parete di roccia a sinistra, una fila di alberi alla destra e una betulla in fondo, collimata con la mia traiettoria. Lanciato in questa caduta, vedevo sfrecciare a velocità pazzesca le rocce alla mia sinistra e i tronchi alla mia destra mentre la betulla era sempre più vicina. A quella velocità qualsiasi urto mi avrebbe spaccato le ossa e, se avessi finito la mia caduta addosso a quell’albero, mi ci sarei accartocciato attorno rischiando di rimetterci la pelle. A peggiorare questa situazione già disperata c’era il fatto che se anche avessi miracolosamente evitato quella prima betulla la mia caduta si sarebbe interrotta poco più in là su di un filare di piante simili. Ero in una situazione apparentemente senza scampo e nella mia testa riuscivo solo a pensare: “questa volta ti fai male sul serio”. Mentre mi preparavo all’urto con queste idee nefaste per la mente, avevo istintivamente tirato il freno destro sperando che, un qualche residuo controllo della mia vela impazzita mi permettesse di schivare quell’albero che mi si parava davanti minaccioso. Ma poi, in un attimo, lo schianto…

Una voce dal decollo chiamava furiosamente il mio nome chiedendomi se stessi bene. Io ero sospeso all’albero e cercavo di capire cosa fosse successo. Lentamente stavo riprendendo coscienza: ero ancora intero, appeso a quella betulla verso la quale ero lanciato nella mia caduta. L’anca destra era dolorante, ma non sentivo nessun altro dolore.

La voce di Paolo continuava con insistenza a chiamare il mio nome denotando una preoccupazione crescente. Lentamente cominciavo a rendermi conto di essere appeso quasi a testa in giù. Il ricordo delle raccomandazioni del manuale di volo mi aveva fatto aspettare a slacciare l’imbracatura: “quando si finisce su di un albero, prima di slacciare l’imbracatura bisogna assicurarsi così da non rischiare di cadere e peggiorare la situazione”. Fortunatamente io ero a pochi centimetri da terra e slacciandomi non avrei rischiato altro che cadere riverso al suolo. Una volta uscito dall’imbracatura, con i piedi finalmente a terra, avevo alzato gli occhi verso l’alto ed avevo visto la mia vela gialla morbidamente distesa sulla cima dell’albero. Solo in quel momento, guardando la posizione della vela e quella dell’imbracatura, ero riuscito a ricostruire la dinamica di quanto era accaduto: il mio disperato tentativo di correggere la traiettoria all’ultimo momento mi aveva fatto evitare la collisione diretta con il tronco della betulla, ma la vela aveva ugualmente urtato la cima dell’albero e, rimasta impigliata, vi si era bloccata. Questo aveva frenato la mia caduta facendomi inoltre ruotare verso destra ed urtare il suolo con lo schienale dell’imbracatura. L’imbottitura dorsale aveva così assorbito l’urto violento ed evitato pericolosi traumi.

Per rispondere alle grida oramai disperate di Paolo che, sceso dal decollo, ora riusciva anche a vedermi, avevo urlato che era tutto ok facendo il classico gesto con il pugno chiuso e il pollice in alto. Poi, slacciato il casco, mi ero soffermato a pensare a me: ero salvo, un po’ dolorante, ma incredibilmente illeso! Miracolosamente ero ancora vivo, in piedi, in fondo a quel canalone, con il casco tra le mani e anche con la coscienza di non essere da solo: infatti, anche se per un attimo, l’avevo vista quando lei, perfidamente, aveva tentato di nascondere la sua falce dietro quella betulla.

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Claudio Palmieri (M.C.B.) Copyright 2003,2004.


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Claudio Palmieri

Palla di cannone

parapendioCome ci si sente a volare “come un proiettile giù da una montagna” e non avere ” altre immagini negli occhi che quelle delle rocce e dei tronchi attorno“? Non sono certo emozioni che si provano tutti i giorni, è vero, … ma se vorrete vivere quei momenti interminabili non occorrerà altro che leggere questo splendido racconto di Claudio Palmieri. L’ennesima prova di una mirabile penna della nostra cara narrativa aeronautica


Narrativa / Medio-lungo Pubblicato: inedito Note: in esclusiva per “Voci di hangar”